Maquetación 1 - Universidad Complutense de Madrid

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Maquetación 1 - Universidad Complutense de Madrid
«Io tutti / della prima stagione i dolci inganni / mancar
già sento…»: la terza canzone del ‘Convivio’
come palinodia ‘leopardiana’
EMILIO PASQUINI
Come sempre, comincerei con la parafrasi dell’intera canzone: che è
già una forma di commento. Ecco dunque:
«E’ necessario che io abbandoni le rime amorose, ispirate alla dolcezza
dello stile, che ero solito perseguire nella mente; non perché non mi auguri
di poterle ritrovare in futuro, ma perché gli atteggiamenti ostili e impietosi
che la mia donna ha messo in atto mi hanno sottratto la possibilità di coltivare la scrittura a cui ero abituato. E dal momento che mi sembra giusto
accantonare i temi amorosi, rinuncerò alla dolcezza dello stile a cui mi
sono attenuto nel cantare dell’amore; e dunque con stile complesso e raffinato parlerò della virtù grazie alla quale si consegue la vera nobiltà allo
scopo di confutare la tesi erronea e grossolana di coloro i quali sostengono
che la nobiltà nasca dalla ricchezza. E, per cominciare, invoco quel signore, cioè Amore, che ha sede nello sguardo della mia donna, col risultato che essa, vagheggiandosi, si compiace di se stessa.
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» Ci fu un imperatore (Federico II), il quale pretese che la nobiltà , in
omaggio alla sua opinione, s’identificasse col possesso non recente di
beni materiali, purché accompagnato da comportamenti signorili. E ci fu
un altro personaggio, dotato di minor cultura, che riprese in considerazione tale sentenza ma eliminandone la condizionale conclusiva, proprio
perché forse era privo di quella eleganza. Lo seguono in questa sua posizione tutti coloro che dichiarano nobile uno solo per il fatto che la sua
stirpe è stata assai ricca per lungo tempo. E ha resistito così a lungo fra
noi questa falsa opinione che si suole proclamare uomo nobile chi può
dire di sé «Io fui nipote o figlio di quel tale dotato di grande virtù», quantunque egli non valga nulla. Anzi, a chi considera la cosa secondo verità,
sembra quanto mai vile colui al quale la strada è mostrata (dal padre o
dal nonno), e tuttavia la sbaglia e non riesce a percorrerla, e giunge a tal
punto che è morto anche se cammina.
» Chi propone la definizione «l’uomo è un vegetale dotato di anima»,
in primo luogo dice il falso e in secondo luogo usa una formula approssimativa, ma non riesce a vedere oltre. Analogamente l’imperatore errò
nel dare la sua definizione, perché nella prima parte affermò una cosa
falsa e nella seconda sviluppa una nozione imprecisa. Di fatto le ricchezze, a differenza di quanto la gente crede, non possono né dare né togliere nobiltà, poiché sono di natura spregevole. Infatti chi vuole dipingere
una figura non può trasferirla su tavola se già non la possiede dentro; e un
ruscello che scorre lontano non può pregiudicare la stabilità di una torre
diritta facendola pendere. Che queste stesse ricchezze siano di poco valore
e lontane dalla perfezione, risulta dal fatto che, per quanto raccolte in
quantità, non riescono ad appagare l’animo umano, ma anzi producono un
soprappiù di affanni; e perciò l’animo che è equilibrato e sincero non
viene meno se le ricchezze stesse si vanno dissolvendo.
» I fautori di una nobiltà di stirpe non ammettono che uomini di bassa
condizione diventino nobili né che da un padre dappoco derivi una progenie che possa mai accreditarsi come nobile: costoro dichiarano esplicitamente questa tesi. Ma in seguito a questa ammissione sembra che si
generi una contraddizione logica, dal momento che si giunge ad affermare
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che il tempo condizioni la nobiltà, in quanto (con antiche ricchezze) includono nella definizione di nobiltà l’attributo del tempo. Inoltre, una seconda conseguenza di tale premessa (cioè l’impossibilità della mutazione)
è che noi uomini risultiamo essere tutti nobili o vili, o che la stirpe umana
non tragga origine da un solo uomo, Adamo; ma un simile paradosso io
non lo posso ammettere, ma neppure loro lo possono, se sono seguaci
della fede cristiana. Per tutto ciò è evidente, per chi abbia mente limpida,
che le loro affermazioni sono senza valore; e io, in quanto tali, le denuncio
come false e mi allontano da loro. E a questo punto desidero esprimere,
secondo il mio avviso, che cosa sia nobiltà e da cosa tragga origine; e rivelerò quali siano i comportamenti tenuti da un uomo dotato di nobiltà.
» Io affermo che tutte le virtù essenzialmente derivano da un principio
comune; e mi riferisco alle virtù morali che, nelle loro modalità, rendono
l’uomo beato. Questo complesso virtuoso, a norma dell’ Etica Nicomachea di Aristotele, si palesa come un’abitudine selettiva a praticare sempre
il giusto mezzo, detto con queste testuali parole. Affermo dunque che la
nobiltà, per definizione, comporta sempre il bene di colui che viene
ascritto a questa categoria, così come la viltà comporta sempre il male
dei suoi rappresentanti. E siffatta virtù morale è sempre intesa come bene;
per la qual cosa le due entità, nobiltà e virtù morale, convergono in
un’unica formula in quanto producono un medesimo effetto. Ne consegue
perciò necessariamente che l’una derivi dall’altra o che entrambe discendano da una fonte comune; ma se l’una rivela lo stesso valore dell’altra e
per giunta una maggiore estensione, l’altra non potrà che derivare da lei.
Quanto ho detto finora valga come premessa al ragionamento conclusivo.
» Sussiste la nobiltà dovunque ci sia la virtù morale; non altrettanto la
virtù dove sia la nobiltà: allo stesso modo in cui il cielo sussiste dovunque
siano stelle, ma non viceversa (di giorno infatti nel cielo vengono meno
le stelle). E noi vediamo questa perfezione in certe donne e nei giovani,
nella loro verecondia, qualità da non confondere con la virtù morale. Dunque, come dal nero deriva il perso, cioè un nero purpureo, dalla nobiltà
promana ogni virtù, o meglio la comune radice delle virtù medesime, cui
accennai nella premessa. Perciò nessuno sia così spudorato da vantarsi
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affermando: «Sono nobile per ragione di stirpe», in quanto possono quasi
definirsi divini coloro che posseggono la grazia della nobiltà, scevra di
qualsiasi difetto. Infatti solo Dio trasmette questo dono all’anima che si
giova di una perfetta simbiosi col corpo, cosicché a pochi riesce palese
che la nobiltà è l’origine della felicità, impiantata da Dio nell’anima perfettamente disposta.
» L’anima dotata di questa perfezione non la serba celata, perché fin dal
momento in cui si unisce al corpo ne rivela i segnali fino al momento
della morte. E’ infatti ubbidiente, amabile e vereconda nel tempo dell’adolescenza, e mostra un aspetto fisico bello nell’insieme e armonico
nelle sue varie parti. Durante la giovinezza, si mostra equilibrata e magnanima, capace di amare e aperta a ogni pregio di cortesia, tutta dedita a rispettare lealmente le norme vigenti in ogni àmbito. Nella senilità,
quest’anima nobile rivela prudenza e giustizia, mostra di improntare la
sua azione alla liberalità e gode nel suo intimo di ascoltare e di dire il
bene del prossimo. Infine nel senio, quarta ed ultima parte della vita, si
prepara a ritornare nel grembo del Padre, assorta nella contemplazione
della propria morte, mentre ha chiuso serenamente la partita della vita
trascorsa. A questo punto vi sarà chiaro quanti siano gli equivoci circa la
nobiltà.
» O mia canzone, concepita contro chi afferma cose improprie in tema
di nobiltà, tu girerai per il mondo e quando ti troverai in presenza della
donna gentile, non le nascondere quale sia la tua missione. Le potrai dire
senza ambagi: «Io continuo a parlare della vostra amica», appunto la nobiltà».
Ben più difficile – lo confesso – la parafrasi di questa terza canzone rispetto alle due precedenti, proprio per la sua decisa tonalità filosofica,
tradotta in una sintassi logica e consequenziale. Sembra proprio che essa
non sia nata, al pari delle altre due, come canzone d’amore, ma già come
canzone di rettitudine (per rifarci a un celebre passo del De vulgari II ii
9): si veda come a IV ii 3 resti ambigua la spiegazione dei «nuovi sem26
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bianti» apparsi nella donna, che lo hanno indotto a «più non rimare
d’amore», dove forse si nasconde la spiegazione dello scambio fra il letterale e l’allegorico.
In ogni caso, le altre canzoni parlavano più liberamente di una donna
reale trasformata, in virtù di un miracoloso gioco di prestigio, nell’icona
della Filosofia; questa invece, partendo dall’esaltazione della verità («Cominciai dunque ad amare li seguitatori de la veritade e odiare li seguitatori
dell’errore…»),1 ulteriore pretesto geniale legato all’invenzione della
donna-Filosofia, punta decisamente sull’eone nobiltà, nei suoi addentellati
sociali, riconoscendone appena (ma solo nel principio e nella fine del
testo, ai vv. 5-8 e 142-146), la sua evidente e quasi etimologica pertinenza
alla donna gentile. Anche la datazione, secondo le proposte del Barbi, la
colloca in un tempo successivo alla stesura di Voi che ‘ntendendo e Amor
che ne la mente, più strettamente legate alla vicenda della Gentile, a ridosso della scomparsa di Beatrice; mentre Le dolci rime viene piuttosto
a coincidere con la frequentazione di Santa Croce e Santa Maria Novella,
qualche anno dopo quella morte (Carpi ci ha parlato addirittura del 1295).
Una diversità anche culturale. Certo, all’altezza delle due prime canzoni incluse nel trattato, non emergono ancora i testi con cui Dante fa i
conti nella sua fase propriamente filosofica, non tanto il De consolatione
e il De amicitia, quanto piuttosto l’Etica Nicomachea, la quale per giunta
sta alla base del progetto delle 14 canzoni, «sì d’amor come di vertù materiate» (Cv. I i 14): soprattutto di questo secondo settore, improntato alla
filosofia morale.
Una simile svolta, segnata esplicitamente dalla decisione di lasciare,
non si sa se per sempre,2 ‘le dolci rime’, mi ha richiamato la svolta leopardiana del 1826, a Bologna, segnata dall’epistola Al conte Carlo Pepoli, liquidatrice della stagione degli ‘idilli’ e instauratrice di una ‘prosa’ della
vita contro ogni evasione poetica: di qui la ragione del titolo, forse un po’
ardito, con cui escono a stampa queste poche pagine. Di fatto, qui Dante
mostra di abbandonare la dolcezza della rimeria amorosa per affrontare
invece gravi problemi di filosofia morale: il fatto che cominci questo suo
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nuovo percorso con il tema e con il concetto della nobiltà, pare significativo e, io credo, passibile di una spiegazione non peregrina, sullo sfondo
della politica fiorentina di quegli anni, specie sotto la spinta delle masse popolari rappresentate da Giano della Bella (rispetto al quale – lo osservava
Paolo Borsa – l’intervento di Dante s’iscrive in un registro aristocratico).
Ma soprattutto io credo che la mossa palinodica dell’esordio costituisca
un primo avvio verso la svolta decisiva che, alcuni anni dopo, segnerà
l’esordio della Commedia; e ne sarà segnale perentorio, nel 1306, il sonetto all’amico Cino da Pistoia, incorreggibile tombeur de femmes: «Io mi
credea del tutto esser partito / da queste nostre rime, messer Cino…».
Detto in altre parole (e non mi si accusi di andar maniacalmente cercando
‘umbriferi prefazi’ del poema), non vi è dubbio che, per segnare appunto
questa svolta, l’aver privilegiato la nobiltà rispetto a tutti gli altri possibili
argomenti3 costituisce una prova del fatto che già a metà degli anni Novanta del XIII secolo Dante ponesse le premesse della concezione del
mito del «nobile castello» del Limbo (If. IV), all’insegna della megalopsykia: non per caso il mito delle ‘Atene celestiali’ è sviluppato primariamente nel Cv. III xiv 7-15 (cfr. Forti 1977 e Pasquini 1995: 116 e ss.). Di
qui l’importanza di quel precoce incontro con l’ Etica Nicomachea, volta
a costruire le basi anche dei magnanimi del sapere.
Analogamente, proprio nel segno della magnanimità, Leopardi arriva,
dopo le premesse logiche e volontaristiche dell’epistola al Pepoli («Altri
studi men dolci, in ch’io riponga / l’ingrato avanzo della ferrea vita, /
eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi / destini investigar delle mortali / e dell’eterne cose…»), alle desolate verità del Pastore errante e della Ginestra,
espresse con energia fantastica e totale persuasione: tonalità, prima, nella
stagione degli idilli, davvero ignote. Con ben più articolata e medievale
struttura logica rispetto all’epistola leopardiana, Dante arriva a illuminare
il suo concetto di nobiltà, dopo le premesse poste nella prima stanza: archiviate le ‘dolci rime’ d’amore e il ‘soave stile’ in materia amorosa, egli
si volge tutto a confutare le opinioni erronee in materia di nobiltà e a dimostrare che cosa essa sia veramente.
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Seguono sei stanze, le prime tre delle quali contengono la confutazione
degli errori sulla natura della nobiltà, specie di coloro che, come l’imperatore Federico II, nei cui confronti il guelfo Alighieri mostra davvero
scarsi riguardi,4 sostengono che la nobiltà si fondi su antica ricchezza,
trasmessa ereditariamente di padre in figlio; mentre le altre tre sviluppano
una serrata dimostrazione della vera natura della nobiltà stessa. Dunque
‘riprovando’ e ‘provando’, che è il procedimento tipico della quaestio
scolastica: prima infatti si sviluppa la confutazione (reprobatio) e poi la
dimostrazione in positivo (probatio). Col che si esibisce la corretta giacitura dei due elementi del sintagma, che appariranno invece invertiti a Pd.
III 3.5
Quanto alla reprobatio, si dica che essa qui appare soprattutto volta a
demolire il valore della ricchezza, ma anche l’opinione che un uomo vile
non possa diventare nobile,6 o che da un padre vile non possa nascere un
figlio nobile. Occorreva dunque sfatare una volta per tutte le storture di
chi equivocava su «l’umana bontade in quanto in noi è da la natura seminata e che “nobilitade” chiamare si dee» (Cv. IV i 7); che poi se la prendesse con l’imperatore non deve stupire, anche se all’altezza dei due
trattati non sembra proprio che Dante, ormai persuaso della necessità
dell’Impero, potesse ancora circoscriversi entro una dimensione guelfa.7
Tanto più che egli era convinto allora che il fulcro della dimostrazione
poggiasse sulla superiorità della nobiltà rispetto alle virtù morali, grazie
a questo ferreo sillogismo: a) premessa maggiore: l’esercizio delle virtù
presuppone la perfezione del soggetto operante, cioè la sua nobiltà; b)
premessa minore: la nobiltà può sussistere senza che si abbia operazione
di virtù; c) dunque la virtù deriva dalla nobiltà, e non viceversa. Il che
non esclude che a questo ferreo argomentare si associno comparationes
domesticae che già preludono a toni e conquiste del poema. Così, per la
premessa minore («E’ gentilezza dovunqu’è vertute, / ma non vertute
ov’ella») scatta il paragone col cielo, il quale sussiste anche in assenza di
stelle, mentre l’esistenza di stelle comporta anche quella del cielo: «sì
com’è ‘l cielo dovunqu’è la stella, / ma ciò non e converso».
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Una similitudine scorciata e poco armonica, ma che al limite (non senza
le integrazioni che vengono dal commento in prosa a IV xix 3-6) potrebbe
fungere da ‘umbrifero prefazio’ del sublime scenario di un cielo terrestre
con cui si apre Pd. XXX, specie ai vv. 4 ss.:
[…] quando ‘l mezzo del cielo, a noi profondo
comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;
e come vien la chiarissima ancella
del sol più oltre, così ‘l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella.
Ma già prima, quando si andava argomentando (vv. 49 ss.) che le ricchezze «non posson gentilezza dar né tòrre», il correlato oggettivo messo
in campo da Dante per sancire l’estraneità fra ricchezza e nobiltà, era attinto a un medesimo repertorio realistico: «né la diritta torre / fa piegar
rivo che da lunge corre», “un ruscello non può influire sulla statica di una
torre che si erge diritta lontano, facendola piegare”.8
Cade così ogni possibilità di collegare la nobiltà con l’appartenenza ad
un’antica stirpe: essa infatti non è ereditaria, ma è un dono divino. E tale
dono si esplica in precisi segnali, i quali si diversificano solo in rapporto
alle varie età dell’uomo. Così, la verecondia nell’adolescenza, con tratti
che ci richiamano il Foscolo delle Grazie, specie per la preminenza della
componente estetica su quella etica, alla luce di Cv. IV xix 8, «non è virtù
ma certa passione buona»;9 così la magnanimità nella giovinezza, la liberalità nella senettute, l’attesa della morte per ‘rimaritarsi’ con Dio nel
senio, dopo i settant’anni. E non è senza qualche pregnanza che, a parte
la chiamata in causa dell’allegoria di Catone e Marzia, sviluppata in questo quarto libro del Convivio, quello straordinario neologismo ricompaia
in Purg. XXIII 81, per il «buon dolor ch’a Dio ne rimarita», a connotare
il processo di espiazione attraverso il pentimento supposto da Dante agens
nell’amico Forese ritrovato fra i golosi.
Di assai maggior peso il rilievo, inevitabile per un lettore appena attento, sul vagheggiamento degli esseri nobili, dichiarati «quasi dei» (v.
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113),10 in quanto frutto di un’emanazione divina: «ché solo Iddio a
l’anima la dona / che vede in sua persona / perfettamente star». E’ dunque
tutt’altro che arbitrario ravvisare in questa sopravvalutazione dell’anima
nobile i primi germi della concezione dantesca che fa capo all’invenzione
del ‘nobile castello’ nel Limbo, appunto la sede de ‘li spiriti magni’, connotati dall’attributo della magnanimità, visibile anche nell’atteggiamento
e nella postura: «Genti v’eran con occhi tardi e gravi, / di grande autorità
ne’ lor sembianti: / parlavan rado, con voci soavi…» (If. IV 112 ss.).
Un’ipotesi che viene per giunta avallata da certi passi del commento alla
nostra canzone nel IV libro del Convivio, dove si passano in rassegna le
«undici vertudi dal detto Filosofo [Aristotele nella Nicomachea] nomate».
Quasi al centro della serie, dopo il quartetto Fortezza Temperanza Liberalitade Magnificenza, e prima del sestetto Amativa d’onore Mansuetudine Affabilitade Veritade Eutrapèlia e Giustizia, sta appunto
«Magnanimitade, la quale è moderatrice e acquistatrice de’ grandi onori
e fama»11. Incluse nella nozione archetipica di Nobiltà, tali virtù innervano
non solo le quattro età dell’uomo, ma anche l’invenzione di un luogo privilegiato nell’oltretomba (non potendosi in questi casi avallare una salvezza cristiana) «per gli spiriti eletti dell’antichità che bene operarono
nella loro vita in questo mondo, facendo dare buoni frutti al seme di felicità infuso da Dio nella loro anima» (Pernicone 1970: 610). S’aggiunga
la straordinaria esaltazione dei nobili romani a IV v 10-20, i ‘divini cittadini’ di IV v 17, che culmina nella prima presentazione di Catone e del
suo ‘sacratissimo petto’, indubbio presagio dell’invenzione degli abitanti
del nobile castello del Limbo in If. IV e dell’avvio stesso del Purgatorio,
con Catone, un pagano suicida, eletto a guardiano del secondo regno solo
in nome della libertà spirituale.
D’altra parte, non occorrerebbe neppure rilevare che gran parte dei presagi della Commedia si trovano piuttosto all’interno del commento in
prosa (il 4° libro del Convivio) che nel testo della terza canzone. Si va da
elementi di ordine lessicale che già annunciano la temperie del poema (il
verbo infernale «latrano» a IV iii 8; i neologismi «gavillava» a IV iv 12
e «trifoglioso» a IV vii 4, eccetera), al rilievo di certe citazioni, come il
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«Diligite iustitiam qui iudicatis terram» che campeggia nel cielo di Giove
(Pd. XVIII 90-93) adombrato a IV vi 18 in «Amate lo lume de la sapienza,
voi tutti che siete dinanzi a’ populi»;12 si aggiungano le comparationes
domesticae non giustificate dalla canzone:13 IV vii 3; IV ix 10 (per cavallo-cavalcatore, che adombra l’invettiva di Purg. VI anche per la presenza qui del sintagma ‘misera Italia’); IV x 11 (per il nesso
‘dipintore’-‘figura’) nella canzone; IV xvii 12; IV xviii 4; IV xx 8; IV
xxiv 10; IV xxviii 4 (con la morte indolore da vecchi e l’anima che si
stacca dal corpo come un pomo maturo dal suo ramo). Lo stesso si dica
della metafora della ‘rosa’, centrale nella giovinezza (IV xxvii 4: «e conviensi aprire l’uomo quasi come una rosa che più chiusa stare non puote,
e l’odore che dentro generato è spandere»), dove l’effetto («quella che
alluma non pur sé ma li altri») implicitamente prepara la grande immagine
di Virgilio lampadoforo nei canti di Stazio; e a maggior ragione della nutrita serie delle digressioni di ordine dottrinale che nascono da sollecitazioni casuali del testo poetico (se ne ha un’asciutta giustificazione a IV viii
10). Così quella (a IV iv 1-14) sulla necessità della Monarchia, ‘umbrifero
prefazio’ del XVI del Purgatorio e del trattato latino specifico, mentre
alla sostanza del discorso di Marco Lombardo mirano altro spunti, come
IV xii 15-1614 e IV xxii 7 ss.,15 già sulla dirittura d’arrivo di «Di picciol
bene in pria sente sapore…» (XVI 91 ss.). Così l’altra sulle potenze dell’anima a IV vii 11-15, preludio alla digressione di Stazio nel XXV del
Purgatorio, specie se incrociata con IV xxi 4-5 («quando l’umano seme
cade nel suo recettaculo…»); o ancora l’altra sull’hormen (IV xxi 13 ss.),
che gradualmente approda all’arco della vita umana che «ne li perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno» (IV xxiii 9 ss.),
preludio a «Nel mezzo del cammin di nostra vita…», specie se misurato
sulla successiva espressione «entra ne la selva erronea di questa vita» (IV
xxiv 12).
Ma è soprattutto il XXVIII capitolo del nostro quarto libro a fornire
gli abbozzi embrionali del canto di Guido da Montefeltro, trasmettendo
al XXVII dell’Inferno, che pur ne rappresenta la più clamorosa palinodia,
tutto un repertorio di metafore nautiche; ma anche, ai §§ 5-6, dell’eco do32
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mestica del discorso di Salomone sulla resurrezione dei corpi, con la gioia
di ritrovare le care sembianze delle persone amate (Pd. XIV 61-66). Per
non dire della grande metafora del rapporto di Marzia e Catone, l’anima
umana che torna a Dio dopo mille vicissitudini, che rappresenta la principale giustificazione della scelta di Catone come guardiano del Purgatorio (poco conta che lo stesso non accetti di essere pregato, da Virgilio con
ingenua captatio benevolentiae, in nome della moglie). Quel passo
(XXVIII 5-6), che si chiude con la citazione del De senectute ciceroniano,
è uno dei non pochi segnali di autobiografismo all’interno del trattato.
Così, non stupisce che il IV libro si chiuda con un’esclamazione (che
manca invece alla chiusa della canzone), unico caso (per quel che ricordo)
in Dante prosatore, cui fanno riscontro nel poema almeno due esclamazioni finali, nel XXXI del Purgatorio e nel XXV del Paradiso, entrambe
con riferimento a Beatrice, in contesti di complessa tessitura autobiografica. Ma tutto ciò lascia intendere che nel work in progress dantesco quella
canzone, che pur segnava uno stacco fra il poeta e il politico, nel IV libro
del Convivio viene come transcodificata dal commento in prosa e proiettata ormai verso le conquiste spirituali del poema.
NOTE
Così all’inizio del commento; e si veda poi a IV ii 17-18 la formulazione di
questo appello alla verità. Suggestiva, al nostro convegno, la prospettiva di Carpi,
nel suo riguardare alla canzone «dieci anni dopo», fra il 1305 e il 1306, quando
Dante era forse a Treviso presso i da Camino (Carpi 2013). Per la ricerca della
verità, Giuliana Nuvoli ha efficacemente richiamato il nesso fra il Cicerone del
De officiis e l’Agostino del De civitate Dei (ma alcuni suoi rilievi, a mio avviso,
rientrano in un orizzonte interdiscorsivo piuttosto che intertestuale).
1
Peraltro, la speranza di un ritorno è adombrata ai vv. 3-4. Il che non esclude,
ovviamente, l’opposizione fra la iunctura ‘dolci rime’-‘soave stile’ vv. 1, 10) e
il nesso ‘rima aspra e sottile’ (v. 14), non sanabile col ricorso a Dve. II x 2, «qui
2
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dulcis subtiliusque poetati vulgariter sunt». Restano, insomma (e lo sottolineava
Pinto), due diversi paradigmi retorici, in quanto ancora il «soave e piana» (If. II
56) e soprattutto le «rime d’amor […] dolci e leggiadre» (Pg. XXIV 99) non possono che rappresentare il contromodello delle «rime aspre e chiocce» (If. XXXII
1). Su tutto questo, cfr. Pasquini 1995: 651-660; e s’aggiungano ora i rilievi di
López Cortezo in connessione con il De amore di Andrea Cappellano (per la subtilitas amoris).
Su cui varrà la pena di ripetere che non si può essere precisi, nonostante
Barbi & C., salvo ipotizzare che trattassero tutti snodi della filosofia morale, virtù
cardinali et similia; ma almeno un indizio preciso ce lo fornisce Dante stesso a a
IV xxvii 10, dove si ripromette di parlare della Giustizia nel penultimo trattato,
designando implicitamente Tre donne come testo da commentare. Sulle diverse
tipologie di nobiltà ci ha intrattenuto amabilmente Rossend Arqués in sede di
convegno, non senza un preciso richiamo alle tesi di Paolo Falzone (2011); mentre Pinto è acutamente intervenuto sul rapporto della nobiltà con l’amore, sottolineando i nessi con la canzone della “leggiadria”, Poscia ch’Amor del tutto m’ha
lasciato: anch’essa in un registro palinodico e in una prospettiva d’impegno civile, se non democratico (lo stesso Pinto ci ricordava il commento di Tommaso
alla terza proposizione del De causis, sull’anima nobilis, entro una sorta di ‘metafisica della nobiltà’)
3
Nella Monarchia III iii 4 farà invece macchina indietro, cogliendo una sintonia fra Federico II e la Politeia di Aristotile; ma già un giudizio positivo affiorava nel De vulgari e nel Convivio.
4
Notevole la spiegazione che si dà nel commento, a IV ii 15-16, circa la possibilità della doppia giacitura; ma vedi anche «in riprovando o in approvando» a
IV ix 1.
5
E’ noto come Boccaccio ne abbia fornito un esempio superbo nella novella
di Cimone (Dec. V 1) e come abbia distinto due diversi significati di ‘virtù’ nella
novella di Ghismonda (IV 1). Su quest’ultimo snodo, preziose le messe a punto
di Juan Varela-Portas all’interno del suo progettato commento alle canzoni dantesche, specie per quanto riguarda la ricerca della fama sociale o dell’elogio pubblico, anteposta allo scopo finale della felicità (il de summo bono più vulgato).
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Cfr. Carpi 2010, Tavoni in Alighieri 2011 e Santagata 2011: 9 e ss., 343 e ss.,
357 e ss. Quanto a Carpi, in sede di convegno, egli ha fatto interagire (per il IV
libro del Convivio) il tema imperiale con un certo orizzonte ‘infernale’.
7
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Vedine le riprese, all’interno del commento, qui sotto citate.
Anche se la più articolata spiegazione a IV xxv 10 sembra piuttosto scivolare
verso l’area del pentimento, originato da «una paura di disonoranza per fallo
commesso» che porta con sé «una amaritudine che è gastigamento a non più fallire».
9
10
Ripreso puntualmente nel commento in prosa a IV xx 4-5.
Cfr. anche IV xxvi 7, «e questo sprone si chiama Fortezza o vero Magnanimitade, la quale vertute mostra lo loco dove è da fermarsi e da pugnare».
11
12
Citazione ribadita a IV xvi 1.
A differenza del nesso ‘torre’-‘rivo’, replicato a IV xiii 16, di cui si è già
detto sopra.
13
«E sì come peregrino che va per una via per la quale mai non fue, che ogni
casa che da lungi vede crede che sia l’albergo […]; così l’anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza li occhi
al termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sé avere
alcuno bene, crede che sia esso…».
14
«Dico dunque che da principio se stesso ama, avvegna che indistintamente;
poi viene distinguendo quelle cose che a lui sono più amabili e meno […]. E conoscendo in sé diverse parti, quelle che in lui sono più nobili, più ama quelle…».
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201