IL PRINCIPIO DEL NON REFOULEMENT NELLA SENTENZA HIRSI

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IL PRINCIPIO DEL NON REFOULEMENT NELLA SENTENZA HIRSI
IL PRINCIPIO DEL NON REFOULEMENT NELLA SENTENZA HIRSI & OTHERS
VS ITALY
Il divieto di refoulement nasce come istituto di carattere convenzionale nei primi
trattati in materia di rifugiati già all’inizio del XX secolo e viene consacrato dall’art
33 della Convenzione di Ginevra. Lo stesso principio è riaffermato sia
direttamente che indirettamente da numerose Convenzioni Internazionali in difesa
dei diritti umani, sia a livello universale (dichiarazione dell’Onu sull’asilo territoriale
del 1967) che a livello regionale (nei principi riguardanti il trattamento dei rifugiati
adottati dal comitato consultivo legale afro-asiatico del 1966, nella Risoluzione del
Consiglio Europeo riguardo l’asilo a persone in pericolo di persecuzione del 1967,
nelle convenzioni dell’Organizzazione dell’Unità Africana riguardo gli specifici
aspetti del problema dei rifugiati in Africa del 1969).
Il non refoulement si traduce nell’obbligo di non trasferimento, diretto o
indiretto, di un rifugiato o di un richiedente asilo in un luogo nel quale la sua
vita o libertà sarebbe in pericolo a causa della sua razza, religione,
nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinioni
politiche. Il principio del non refoulement trova applicazione non solo nei confronti
di chi beneficia dello status di rifugiato, ma anche verso chi potrebbe esserlo in
futuro: è dunque necessario che gli Stati prima di procedere a qualsiasi forma di
espulsione o respingimento si assicurino che le persone da respingere/espellere
non siano o non saranno a rischio di subire trattamenti proibiti dalle Convenzioni
Internazionali. Il requisito del pericolo per la propria vita e la propria libertà sembra
dunque escludere dalla protezione del principio del non refoulement i così
detti rifugiati per “motivi economici”.
Altra significativa eccezione è legata alla sicurezza dello Stato ospite, per cui, se il
rifugiato costituisce un potenziale pericolo per questo oppure sia stato
condannato con sentenza definitiva per un crimine particolarmente grave, allora lo
Stato può negare l’ospitalità. Certamente tale ipotesi consiste in un bilanciamento
tra valori differenti: da un lato la sicurezza dello Stato, e dall’altro la protezione della
vita e della liberà dell’individuo, che in tal caso risultano fortemente rimesse alla
discrezionalità dello Stato stesso.
L’ art. 33
Definizione di rifugiato
L’atteggiamento degli
Stati
La previsione del non-refoulement si traduce dunque de facto nell’obbligo di
consentire un accesso e una protezione temporanei, quantomeno fino a quando
non sia possibile individuare una soluzione rispettosa della normativa
internazionale, nei confronti di chi chiede ospitalità per preservare la propria
integrità fisica e la propria libertà. Effettivamente si nota però una certa riluttanza
degli Stati alla piena e corretta attuazione di tale principio, che nella prassi
risulta troppo spesso disatteso rendendo evidente la mancanza di una normativa
più esplicita e omogenea e soprattutto di un organo internazionale capace di
sanzionare i comportamenti vietati.
Al riguardo è interessante analizzare la tematica del non refoulement seguendo la
sua applicazione e il suo sviluppo all’interno di una sentenza di condanna: la
sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia (ricorso n° 27765/09).
Sentenza Hirsi: breve
analisi
I Fatti. La questione riguardò un gruppo di migranti (undici somali e tredici eritrei,
parte di un gruppo di duecento) provenienti dalla Libia e fermati in mare a 35 miglia
da Lampedusa da parte della Guardia di Finanza e della Guardia costiera italiana.
Gli occupanti furono trasferiti sulle navi italiane e ricondotti a Tripoli. Questo evento,
conseguente all'entrata in vigore del trattato italo-libico di partenariato, amicizia e
cooperazione con la Libia del 30 agosto 2008 (e del Protocollo addizionale del 4
febbraio 2009 sulla collaborazione in materia di lotta all’immigrazione clandestina
che modificava, in parte, l’accordo del 29 dicembre 2007), inaugurò una strategia di
controllo dell’immigrazione irregolare via mare, incentrata principalmente sulla
collaborazione bilaterale con i paesi di origine e di transito dei migranti.
Dalla sentenza i punti fondamentali che emersero utili per l'analisi del principio di
non refoulement furono:
•
La questione della giurisdizione ai sensi dell'articolo 1 Cedu.
•
La violazione dell’articolo 3 Cedu (divieto di trattamenti disumani o
degradanti) della Convenzione; i richiedenti vennero esposti al rischio di
subire dei cattivi trattamenti in Libia (refoulement diretto) e di essere
rimpatriati in Somalia o in Eritrea (refoulement indiretto).
•
Violazione dell’articolo 4 del protocollo 4 della Cedu (divieto
dall’espulsione collettiva di stranieri).
•
Violazione dell’articolo 13 Cedu (diritto al ricorso effettivo) da solo e
combinato con l’articolo 3 e con l’articolo 4 protocollo 4.
1. La questione della giurisdizione ai sensi dell'art. 1 CEDU.
All’interno della sentenza si evidenziò un problema concreto sollevato dal principio
del non refoulement, ossia se esso si dovesse applicare unicamente nei confronti
degli individui presenti sul territorio di uno Stato, o se invece esso si traducesse in
un divieto di respingimento alla frontiera di chi fugge in un Paese in cui la sua vita e
la sua libertà sarebbero in pericolo. La ratio del principio sta nella protezione della
vita e della libertà di ogni individuo, elementi che non possono essere messi in
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Le violazioni
discussione dalle circostanze relative alla componente territoriale; infatti, per gli
obblighi di non refoulement, il criterio decisivo non è se i migranti si trovino nel
territorio dello Stato quanto piuttosto se essi si trovino sotto l’effettivo controllo delle
autorità di quello Stato. All’interno della sentenza, l'extraterritorialità degli eventi non
fu considerata idonea ad escludere la giurisdizione dell'Italia (ex art. 1 CEDU). I fatti
si svolsero interamente a bordo di imbarcazioni battenti bandiera italiana e lo stesso
equipaggio era composto esclusivamente da militari italiani1.Nel periodo compreso
tra l'imbarco a bordo delle navi e la consegna alle autorità libiche, i richiedenti si
trovarono sotto il controllo, de jure e de facto, delle autorità italiane.
2. Violazione dell'art. 3 Cedu (divieto di trattamenti disumani o
degradanti)
Refoulement Diretto. Rischio di subire cattivi trattamenti in Libia. In questo senso la
violazione dell’art. 3 apparve quanto mai evidente. Migranti irregolari e richiedenti
asilo, trattati indistintamente venivano arrestati e detenuti in condizioni che gli
Osservatori Internazionali hanno definito disumane. La Corte sottolineò che il diritto
tutelato dall'art. 3 è assoluto e l'esistenza di eventuali accordi che pur garantiscono
il rispetto dei diritti fondamentali non fu sufficiente a far ritenere assolto l'obbligo di
uno Stato a garantire il rispetto dei diritti della persona. La responsabilità dello Stato
fu ancora maggiore perché la Libia non è paese parte della Cedu e non ratificò la
Convenzione di Ginevra del 1951.
Refoulement Indiretto: rischio di subire cattivi trattamenti nel Paese di origine dei
richiedenti. L’insieme delle informazioni in possesso indicano una situazione di
insicurezza in Somalia – basti consultare le conclusioni della Corte nella sentenza
Sufi et Elmi c. Regno Unito - e in Eritrea - rischi di tortura e detenzione in condizioni
disumane, solo per il semplice fatto di avere lasciato il paese irregolarmente. La
Corte concluse che le autorità italiane sapevano o avrebbero potuto sapere,
attraverso fonti documentate, che i migranti, se rinviati in Libia, sarebbero stati
esposti a trattamenti contrari alla Convenzione europea e che non avrebbero
giovato di alcuna forma di protezione nel paese.
3. Articolo 4 protocollo 4 (Divieto di espulsione collettiva).
Il gruppo di migranti sostenne di essere stato respinto senza essere stato
sottoposto all’esame individuale. I ricorrenti, in particolare, non furono sottoposti ad
una procedura di identificazione da parte delle autorità italiane e non vennero
assistiti da interpreti o consulenti legali. Venne peraltro accertato che il personale a
bordo delle navi militari non venne addestrato per condurre interviste individuali.
4. Articolo 13 (Diritto al ricorso effettivo)
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A motivo di questa interpretazione, la Corte ha richiamato l’art. 92, primo par. della Convenzione delle Nazioni
Unite sul diritto del mare, secondo cui «le navi navigano sotto la bandiera di un solo Stato e […] in alto mare
sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva»: principio – ha notato la Corte – riconosciuto dall’ordinamento
italiano, che prevede, ai sensi dell’art. 4 del Codice della navigazione, che «le navi italiane in alto mare […]
sono considerate come territorio italiano»
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Il mancato accesso a mezzi di ricorso fu un'altra violazione che si aggiunse alla
sentenza di condanna: gli stranieri refoulés avrebbero dovuto avere il diritto, prima
di essere sottoposti a misure con conseguenze irreversibili, a un mezzo di ricorso
(ex art. 13 Cedu) che consentisse un controllo effettivo su tali misure. I richiedenti
sostennero di non aver ricevuto da parte delle autorità italiane nessuna
informazione, ne fu loro chiesto se intendessero presentare domanda di protezione
internazionale, e ancor meno furono loro comunicate le intenzioni di rimpatrio
forzato.
L’Italia con questa sentenza venne condannata al risarcimento di quindici mila euro,
oltre le relative spese, nei confronti di ventidue dei ventiquattro migranti che
presentarono ricorso, ma soprattutto da allora, con questo provvedimento, è stato
vietato in modo inderogabile il respingimento di migranti intercettati e soccorsi
seppur essi si trovino in acque internazionali. Con ciò si conferma che <<In caso di
contrasto con la norma inerente il principio di non-refoulement discendono delle
conseguenze giuridiche: in conformità con gli artt. 53 e 64 della Convenzione di
Vienna del diritto dei trattati del 1969, si andrebbe a operare su eventuali trattati
esistenti e confliggenti con la norma in esame. […] Inoltre eventuali atti esterni,
legislativi o amministrativi di uno Stato, in contrasto con la norma inerente al divieto
di tortura e di refoulement sono da considerare nulli. In conclusione, dimostrate
l’applicazione extraterritoriale del principio esaminato e la natura cogente della
norma che proibisce la tortura o altro trattamento lesivo dell’integrità fisica o
psicologica di un individuo, la tesi dell’acquisto del carattere cogente del principio
del non refoulement appare avvalorata.2 >>
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FICORILLI G., il principio di non refoulement, Editrice Apes, 2012, pp. 276-277.
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