Il dubbio e la paura nella professione medica

Transcript

Il dubbio e la paura nella professione medica
Dal Passato
Il dubbio e la paura nella professione medica
PIERO FRANZINI
Si rimprovera spesso al medico un atteggiamento e
un comportamento professionali impenetrabili al
tormento del dubbio e al sentimento, o alla “passione”, della paura, come se l’uno o l’altra fossero
sempre dominabili dal pensiero razionale e dal rigore di una logica che non conosca circolarità di percorso.
Penso che l’accusa sia, almeno in linea di massima,
“del tutto” ingiustificata, cioè “falsa” in tutti i suoi
aspetti. Il medico vive, professionalmente, nel dubbio e nella ricerca, spesso venata di ansia, di restringerne i limiti e di alleviarne il peso. Le sue decisioni e le sue “scelte”, in tema di diagnosi, prognosi e
terapia, sono soggette a un calcolo di probabilità,
talora vissuto al limite della sofferenza, e al gioco
di “statistiche”, gioco perverso per chi sia costretto
a prendere delle decisioni che gli assegnano una
pesante quota di responsabilità.
L’errore medico, o quello che viene qualificato
come errore, può bensì essere espressione di imperizia, e cadere allora nel dominio della colpa, ma
può essere anche l’amaro frutto di una “sfortuna”,
di un “tradimento” perpetrato dal calcolo delle probabilità. Altrettanto si può dire per un eventuale
“cambiamento di rotta”, diagnostico o terapeutico;
non è, o non è sempre, il medico che “ha sbagliato”
e poi si è ricreduto; può essere, e spesso è, che si
siano aggiunti elementi nuovi, imprevisti o imprevedibili che hanno portato a cambiamenti o rovesciamenti nel gioco statistico delle probabilità.
Questo tormento, piccolo o grande a seconda dei
casi e in relazione all’emotività e alla recettività
“passionale” del medico, è intrinseco, come si è
detto, alla vita professionale del medico stesso, è il
suo quotidiano pascolo culturale, tanto più carico di
sofferenza in quanto non vi si può, in linea di massima e comunque sempre marginalmente, immettere il paziente e i suoi familiari quando i limiti del
dubbio implicano alternative pesanti.
Diagnosticare un’“influenza” parrebbe facile, tanto
più in periodi di epidemia, e con scarso margine di
errore; ma i segni e i sintomi di un’“influenza” possono mimare l’inizio di malattie ben più pesanti e
pericolose, cui è il caso, anche per il medico più
avvertito, di pensare solo in un secondo tempo e
senza gettare generici e gratuiti allarmi non giustificati, ancora una volta, dal calcolo delle probabilità.
Ho scelto volutamente l’esempio più banale, ma il
“mestiere” della Medicina, questo alto artigianato
di pensiero e di opera, mette a contatto di prove ben
più ardue, in cui fallire non è colpa e l’accusa di
incapacità, pur talora scusabile in ragione delle
componenti emozionali che pesano sulla condizione
di malattia grave, è cattiva e, trasferita sul piano
razionale, stupida, tanto più cattiva quanto più è
stupida.
Il momento decisionale
Si è tentato di “matematizzare” i limiti di scelta del
medico, il suo “obbligato” pensiero a seguire una
determinata linea decisionale; ma, di fronte a tante
“variabili”, il calcolo matematico e la valutazione di
una scelta la più corretta possibile rappresentano
troppo spesso un gioco sterile, un esercizio intellettuale, forse utile per illuminare le vie, talora nascoste nell’inconscio, che tracciano il percorso del pen-
83
siero decisionale, piuttosto che per dettare direttamente la scelta ottimale. La decisione dovrebbe
comunque rappresentare la risultante di una sintesi
che metta in alternativa le rispettive probabilità per
preferenziare quella più alta, cioè più valida agli
effetti di una diagnosi corretta o di un trattamento
terapeutico efficace. Ma l’incognita è proprio insita
nel procedere statistico di probabilità: se scelgo la
via del 70 per cento rispetto a quella del 30 per
cento, anche ammettendo che il calcolo sia giusto
(ammissione talora pesante), il “caso” può sempre
cadere nel settore di più ristretta probabilità e provocare lo “sbaglio”, in assenza di ogni errore logico. Molte professioni prevedono, nell’iter o nella
scelta decisionali, un calcolo delle probabilità, ma
raramente si raggiunge lo spazio del tragico che
occupa invece tanto ambito della decisione medica;
quest’ultima inoltre non si può avvalere di quel
margine di sicurezza che rende tranquilli altri compiti professionali.
La tentazione alla viltà, o alla mancanza di coraggio, è sempre presente nell’esercizio della Medicina
di fronte a scelte gravi, viltà che si concreta, oltre
che in un errore “tecnico”, in una colpa. Raramente
si critica o si punisce il medico per aver fatto poco o
aver finto di fare, con provvedimenti insignificanti,
mentre l’accusa è facile e pervicace quando un
esame diagnostico indispensabile o un intervento
terapeutico obbligatamente audace abbiano causato
inconvenienti o incidenti. Il cosiddetto “consenso
informato” si cui qui non ci possiamo soffermare,
rappresenta, in astratto, un’operazione di giustizia
inserita in un corretto rapporto; ma, in concreto e
all’atto pratico, esso è ambiguo nell’esecuzione e
nei risultati in quanto richiede, nei casi più impegnati, una risposta “eroica” a un paziente reso debole e fragile dalla malattia e dalla paura. La navicella
della vita non può, e non deve, ospitare soltanto eroi
e, d’altra parte, non si può privare il malato di quell’unico privilegio di cui, in quanto malato, gode, di
affidarsi cioè con fiducia e amore a chi sembri
meritare l’una e l’altro. Ancora una volta i codici
deontologici, o addirittura i codici di legge, in sé
validissimi e degni di rispetto e considerazione, esigono, nei confronti del paziente (e spesso dei suoi
familiari), un rapporto dialogico, che passa cioè
attraverso la logica (e l’etica) e ne viene filtrato.
84
Esistono leggi mai scritte (ce lo ricorda l’Antigone
di Sofocle) che vanno rispettate…
La gloria e la gioia della Medicina, in questa era di
robot e di produzioni in serie, è di rimanere “artigiana”, di affrontare cioè la singola persona nella
sua problematica individuale e nel suo dramma irripetibile, mai o solo parzialmente sovrapponibile a
quello degli altri. La biologia, quella del corpo e
quella dello spirito (peraltro fra di loro inscindibili),
ce ne dà una conferma, evidente per coloro che
sanno e vogliono vedere.
Né il medico può in ogni caso lasciar trasparire
l’ansia o tradire la propria incertezza o concedersi
un certo grado di ambiguità, quando queste possono
essere interpretate come colposa indecisione o confuso pensiero. Infame è poi sempre la critica “a
posteriori” da chi non ha conosciuto il bivio tragico
e tormentoso dell’“a priori”.
L’amaro frutto dell’esperienza
Sui frutti dell’esperienza è forse opportuno chiarirsi
le idee, uscendo dall’ambiguo o dal convenzionale.
L’esperienza acquisisce valore e significati solo
quando sia supportata dal sapere e guidata dalla
teoria. Disteso sotto un albero di pomi, posso ricevermi centinaia di frutti sul capo senza che, per
questo, nemmeno mi sfiori l’idea della gravitazione
universale e nemmeno un barlume della legge della
caduta dei gravi (tanto per rifarsi alla solita e stolida
leggenda newtoniana).
Anche in campo medico l’esperienza, isolata dalla
conoscenza e dal pensiero e lasciata a se stessa, può
creare un’illusione e una presunzione di sapere che
moltiplichi gli errori sulla scia di false similitudini e
di analogie inesistenti; e anche quando l’analogia
regga, troppe sono le variabili che di volta in volta
emergono a modificare o rovesciare le previsioni e
le prospezioni. L’esperienza vera, integrata nella
conoscenza e plasmata sul pensiero vigile in funzione di continuo autocontrollo, può effettivamente
potenziare la capacità operativa del medico e allargare l’orizzonte della sua visione. Ma insieme con
questa dilatazione del pensiero si amplifica anche lo
spazio del dubbio, si appesantisce il sospetto di
errore, ancora una volta riemerge il perfido gioco
della probabilità che dà assicurazioni sul piano
matematico ma lascia paurosamente scoperto il
caso singolo.
L’esperienza autentica nel senso sopraddetto può
dare supporto al momento decisionale del medico
ma può anche irrazionalmente modificarne l’atteggiamento emotivo sia nella direzione ottimistica
(“mi andrà bene, analogamente alle altre volte”) sia
in quella pessimistica (“già ne sono stato scottato”).
È opportuno che il medico raccolga nella memoria
esperienziale, insieme con le sequenze di successi,
che possono dare falsa sicurezza in sé e negli eventi, quelle di insuccessi, capaci di oscurare ulteriormente, e senza valida giustificazione logica, l’ombra del dubbio. Questa esigenza di pensiero dialettico indeciso fra i contrari - che non sono contrari
ma, in effetti, complementari - implica una sintesi
difficile e, in un certo senso, mentalmente dolorosa;
l’equilibrio del medico che attua una “scelta” è
messo a dura prova nel difficile raggiungimento di
una presa di coscienza che scavi a fondo, fino al
fondo etico della situazione, se un problema etico si
pone. È vero che l’ammalato, nei limiti conoscitivi
ed emotivi che gli sono consentiti, è tenuto ad un
proprio giudizio, eventualmente sorretto da quello
dei familiari (sempre tenendo presente che la soluzione del problema vita e salute non ammette “deleghe”, a coscienza integra), ma è anche vero che il
medico, inconsciamente o meno, trasferisce spesso
al paziente e all’ambiente che lo circonda e sorregge il “proprio” convincimento e la propria decisione; ed è bene, in fin dei conti, che sia così se il
clima di fiducia è operativo e se il rapporto medicopaziente si radica in profondi valori umani.
non intenzionalmente; che il medico ci abbia fatto
l’abitudine può essere vero, ma si tratta di un’abitudine alla sopportazione, all’inserimento di questo
“patema” nella propria routine professionale, come
ad un peso inevitabile che grava sul suo mestiere di
medico; ma questo non vuole assolutamente dire
che il peso non si avverta e che il dubbio non tormenti, più o meno sottilmente e dolorosamente, chi
lo porta, lo sopporta e lo esercita. Questo dubbio
decisionale, che agita il pensiero e lo spirito, è parte
integrante della dignità, ed eventualmente della
nobiltà, dell’opera professionale del medico; avvertirle e valutarle da parte del malato contribuisce a
dare significati di profondità e senso di altezza a
quel rapporto medico-paziente il cui aggiustamento
di livello è già “terapia”.
Questo tributo di comprensione potrebbe anche,
appena sia possibile ed equo, aprire le porte a un
sentimento di perdono per chi opera ai limiti dell’incognito e dell’infinito.
Ancora di dubbi e paure
È in funzione di queste controverse o avverse alternative dello spirito e del pensiero che il medico,
quando sia intonato a motivi morali, non riveste, nei
casi a più alto impegno, quella figura di giudice o di
arbitro atarassico che troppo spesso, con faciloneria
incosciente o cattiva, gli viene attribuita (così come
viene attribuita ai giudici popolari o togati la cui
funzione, nelle questioni penali, è gravata da
responsabilità da brivido). Si usa dire - e anche questo con facile sorvolamento di coscienza - che il
medico “ci ha fatto l’abitudine”; l’asserzione, del
tutto gratuita in mancanza di prove, è, almeno in
molti casi, falsa e ancora una volta cattiva, sia pure
85