L`immortalità della memoria

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L`immortalità della memoria
L’immortalità della memoria
di FEDERICA ANGIULLI
Pubblichiamo un nuovo racconto di un’altra studentessa del Liceo Classico di Monopoli (Bari),
partecipante al Concorso Nazionale sulla I Guerra Mondiale di cui abbiamo parlato nel numero
precedente del giornale.
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Il racconto – di fantasia, ovviamente – prende origine dal ritrovamento casuale della ragazza in
casa della nonna ammalata, di un plico di lettere risalenti al periodo bellico: lettere inviate dalla
figlia di un soldato al fronte, Beatrice, destinate a rimanere senza risposta. Dalla lettura,
emergono i sentimenti reali di una ragazza di quindici, sedici anni, sentimenti di trepidazione per
le sorti del papà e poi, via via, anche per la propria sorte e per quella della sua mamma ridotte
allo stremo per mancanza di mezzi. E’ brava, Federica, a far emergere in tutta la sua
drammaticità, non solo l’angoscia che la guerra riserva al fante-contadino, suo padre, ma anche
la situazione di estrema indigenza e di autentica povertà in cui vennero a trovarsi tante famiglie
del Meridione durante tutta la guerra, e anche dopo.
Assistiamo, non senza emozione, alla crescita della ragazza che compie i suoi diciotto anni
senza festeggiare perché – così come nei Natali di guerra – non c’è proprio nulla da festeggiar,
ed è la triste condizione in cui è venuta a trovarsi Beatrice insieme alla madre che accelera la
sua maturità, spazzando inesorabilmente sogni delicatamente coltivati – sogni adolescenziali
fatti di fiori e di arcobaleni – per prendere atto di una crudele realtà riservata ai “proletari”, alle
classi più umili e, si diceva un tempo, sfruttate.
E Beatrice-Federica, - c’è una fusione d’intenti tra le due - ormai donna fatta, acquista piena
consapevolezza delle storture della società e non esita, senza compromessi, a urlare contro i
potenti e contro la guerra, e a schierarsi apertamente dalla parte di chi ha sete di giustizia e
fame di pane. Perché è questa la pace anelata, non semplice assenza di guerra ma guerra alle
ingiustizie, ai soprusi, alla schiavitù. Ovunque nel mondo c’è un bambino che piange perché ha
fame, ovunque nel mondo c’è una mamma che trepida per il suo bambino, lì non c’è pace ma
c’è guerra. (m.g.)
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Il ticchettio della pioggia sulla finestra era, forse, l’unico suono che quella mattina incolore fosse
stata in grado di produrre, attirando per un istante la mia attenzione. Il mondo, là fuori, andava
avanti ininterrottamente nella sua monotonia, nel suo grigiore, nella sua asetticità.
La vita sembrava esser nata per essere esattamente così, o almeno era quello che pareva ai
giovani occhi di una giovane ragazza; quindi, chi potevo pretendere di essere, io?
Scossi lievemente la testa, facendo ondeggiare sulle spalle i lunghi capelli castani. Presi
distrattamente il cellulare per controllare l’orario, 11:06. Il tempo sembrava non scorrere mai, lì
dentro, come se incontrasse più attrito del normale e rallentasse inesorabilmente. Tornai a
chiudermi nel silenzio ovattato dei miei pensieri, quasi percependo lo stridio dei secondi che
faticavano per tenersi al passo con la vita di là fuori.
Al suono della campanella, mi diressi velocemente all’uscita, facendomi presto largo nel gregge
di studenti, ritrovandomi quasi subito sulla strada di casa.
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Era sabato e questo significava solo una cosa: pranzo dalla nonna. Passeggiavo lentamente, la
pioggia aveva lasciato il posto ad un sole particolarmente timido che sbucava giusto ogni tanto
dal grigio denso delle nuvole. Le pozzanghere riempivano la strada ma non ci facevo
particolarmente attenzione, mi piaceva camminarci dentro e la suola alta delle scarpe in gomma
avrebbe evitato ogni eventuale danno. Continuavo distratta, pensando nel frattempo che l’idea
di andare a pranzo dalla nonna non mi entusiasmava più, non come una volta, almeno; prima, il
sabato era un giorno di festa dentro di me, un brivido di intensa eccitazione mi rendeva euforica
come non mai. Ora, tutto era diverso, niente era rimasto lo stesso dall’arrivo della malattia.
Lentamente, la nonna si era trasformata nel fantasma di ciò che era e che era stata, perdendo
via via sempre più consistenza, ricordo dopo ricordo, parola dopo parola, movimento dopo
movimento. La malattia, come un mostro affamato, le stava pian piano divorando la sua
essenza e alla fine, lo sapevamo, non ne sarebbe rimasto che un guscio vuoto. Ricordo ancora
alla perfezione il momento in cui mia madre, qualche anno prima, mi disse: “Anna, siediti per
favore. Dobbiamo dirti una cosa.”. Ricordo ancora lo sguardo di papà, carico di qualcosa che
non seppi riconoscere, forse pietà, pena o compassione. Ricordo ancora il terrore che mi
percorse la spina dorsale appena mamma pronunciò la parola “Alzheimer”; non sapevo ancora
bene cosa fosse, ma intuivo che l’avrei capito presto, che l’avrei imparato sulla mia pelle e che
lì sarebbe rimasto, indelebile, per tutta la mia vita.
Dopo pranzo, mamma portò la nonna nella sua stanza e io mi sedetti sulla poltrona verde acido
accanto al fuoco, con la morbida coperta in pile sulle gambe. Raggomitolata su me stessa, con
il gomito sul poggiolo, mi reggevo la testa con la mano e, immersa profondamente nei miei
pensieri, cercavo di sciogliere l’invisibile groviglio simile ad un gomitolo che avevo dentro. In un
attimo di lucidità, il mio sguardo abbandonato nel vuoto si agganciò improvvisamente a
qualcosa di insolito che la mia mente, non abituata a vederlo, aveva notato. Mi alzai un po’
controvoglia, guidata dall’istinto ma ancor più dalla curiosità scatenata da quel piccolo cofanetto
dal gusto antico poggiato sulla mensola del camino, seminascosto dietro ai soliti soprammobili.
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Lo presi, ne percepii il peso, lo rigirai per qualche istante fra le mani e avvertii la presenza di
qualcosa al suo interno e così lo aprii. Un malloppo di quelle che parevano essere lettere legate
da uno spago accese ancor più il mio interesse, anziché saziarlo.
«Mamma!» gridai. «Vieni un attimo!»
La mamma arrivò in salotto, chiendendomi come mai urlassi tanto. Senza parlare, le mostrai ciò
che avevo fra le mani e lei mi sorrise, addolcendosi.
«Sapevo che le avresti notate, piccola Esploratrice» disse, chiamandomi con quel nomigliolo
che avevo guadagnato da piccola, quando i miei avevano imparato quanto fosse inutile
sequestrami qualcosa, perché io l’avrei comunque trovato.
«Sono il piccolo tesoro della nonna. Anzi, diciamo il piccolo tesoro di famiglia. Poi dargli
un’occhiata, quando hai tempo… Te lo consiglio.» aggiunse andandosene.
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Ripresi il mio posto sotto il pile sulla poltrona e slacciai il sottile spago che avvolgeva il
pacchetto.
Avevo ragione, erano proprio lettere; iniziai a sfogliarle distrattamente, e man mano che una
alla volta mi sfilavano sotto agli occhi, un dettaglio mi colpii: le date. “29 Luglio 1915”… “2
Gennaio 1916”… “12 Aprile 1917”…
«Questo sì che è un tesoro.» affermai sottovoce.
Dopo qualche istante, notai anche la calligrafia: sottile, delicata, un po’ insicura, ma
sicuramente femminile.
Prima di cominciare a leggere, mi tornò in mente una delle ultime lezioni di storia, durante la
quale la professoressa ci aveva ricordato, parlando della Grande Guerra, che proprio
quest’anno ne cadeva il centenario; ma io non ci avevo dato molto peso, sinceramente non
vedevo, non riuscivo proprio a capire come potesse aiutarmi, una guerra così lontana da me,
infinitamente distante nel tempo e nello spazio.
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Constatai che le lettere erano perfettamente ordinate cronologicamente, così presi la prima e
cominciai a leggere.
26 Maggio 1915
Caro papà,
dove sei? Sono passati più di due mesi dalla tua partenza, ma a me sembra un’eternità. La
mamma mi ha detto di non scriverti, che tanto le lettere non riusciranno ad arrivarti perché non
sappiamo neanche dove sei, specialmente ora. Ma io ci provo lo stesso, voglio che tu sappia
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quanto io ti pensi, che ti sono vicina, che puoi contare su di noi per trovare un po’ di forza.
La mamma ha detto che lo sapeva. Ha detto che era un anno che l’Italia non aspettava altro,
che quando vi hanno reclutato nel Marzo per l’esercitazione avevano fatto i loro conti, sapevano
che presto vi avrebbero mandati “ad ammazzare e a farvi ammazzare”. Io sono scoppiata a
piangere appena ha detto queste parole, e poco dopo si è messa a piangere anche lei e mi ha
abbracciata forte. Ci siamo asciugate le lacrime perché, papà, ti ho fatto una promessa quando
sei partito e voglio mantenerla; in stazione, ti sei abbassato poggiando quasi sulle ginocchia per
guardarmi negli occhi e mi hai detto: «Principessa, sii forte e prenditi cura della mamma. Conto
su di te.». Credo che ricorderò questo momento per tutta la vita.
Papà, sarò forte per te. Tu, però, sii forte per tutte noi.
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Mi addrizzai sulla poltrona, colta da un improvviso senso di irrequietezza; sentivo crescere,
lentamente, un piccolo groppo in gola, mentre continuavo a rileggere l’ultima frase. Una specie
di fame vorace mi prese lo stomaco, obbligandomi a girare pagina e a continuare a leggere.
28 giugno 1915
Caro papà,
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qualche giorno fa ho dato la prima lettera alla mamma e le ho detto di spedirtela. Lei mi ha detto
che ora sa dove sei, da qualche parte nella regione del Carso, vicino Trieste credo. Non so
come faccia a saperlo, ma poco importa, saperlo mi ha reso felice, ora non sei più un fantasma
sperduto in qualche angolo dell’Italia, ora ti posso immaginare, hai ripreso forma e consistenza
nella mia mente, e questo mi fa sentire un passo più vicina a te. Quando ho dato la prima
lettera alla mamma, lei ha detto che te l’avrebbe mandata, però non l’ha messa nella sua borsa,
come fa di solito con le cose da portar via. L’ho vista metterla sotto i suoi libri nella vostra
stanza, e per un attimo ho pensato che forse non l’avrebbe spedita, che forse mi aveva detto di
sì solo per farmi contenta.
Ma ho deciso di scacciar via questi pensieri, preferisco pensare che ora le mie parole siano
davvero in viaggio e che presto ti raggiungeranno, e allora sarà come abbracciarsi, papà. Ho
deciso di scriverti una volta al mese, se possibile, darò le mie lettere alla mamma e magari le
dirò di scriverti anche lei.
Stringi i denti papà, ti aspetto.
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Erano parole semplici, un linguaggio quasi infantile. Ma era tutto così tremendamente colmo di
sentimenti che a tratti ne percepivo l’intensità dentro di me. E non ne ero sazia, non ancora.
29 Luglio 1915
Caro papà,
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come stai? Qui va tutto abbastanza bene. Ti scrivo oggi anche se un po’ di fretta perché per me
è un giorno speciale, e sono sicura che, ovunque tu sia ora, stai pensando a me.
Oggi, finalmente, compio sedici anni. Sono diventata grande, papà. Stamattina la mamma è
venuta a svegliarmi portandomi un bicchiere di latte a letto, e io subito ho immaginato che tu
avresti alzato gli occhi al cielo, se fossi stato qui, perché non ti piace che la mamma mi vizi. Ma
lei ha detto che per oggi anche tu avresti fatto un piccolo strappo alla regola, forse. Mi ha
baciato la fronte e mi ha abbracciata. Siamo rimaste così per un po’ di tempo, non so bene
quanto.
Vorrei che fossi qui, saresti il regalo più grande. Torna presto, papà.
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“Sedici anni”, pensai. Sedici anni e una guerra mondiale che tuona fuori dalla sua casa. Sedici
anni e un animo ancora così puro, innocente, profondamente speranzoso.
Feci due calcoli e ipotizzai che quella ragazza di cui non avevo neppure scoperto il nome
potesse essere la mia bis-nonna. Io avevo diciottanni e saremmo potute andare d’accordo,
diventare amiche magari, se non fossimo state distanti di ben cento anni. Era una sensazione
strana, l’essere consapevoli di non poter accendere il computer e contattare una persona su
Facebook, o prendere il treno per raggiungerla; avrei voluto alzare la cornetta del telefono,
telefonarle e salutarla, chiederle il suo nome, rassicurarla e dirle che sarebbe andato tutto bene,
che presto avrebbe dato alla luce una splendida bambina e che l’avrebbe chiamata Anna, nome
che, anni dopo, avrei ereditato io. Era tutto così vicino e maledettamente lontano.
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15 Settembre 1915
Caro papà,
scusami se ti scrivo così tardi, non è da me. La situazione ha cominciato ad essere più dura di
prima. I soldi che tu e la mamma avevate tenuto da parte per le emergenze sono finiti ed il cibo
sta divenendo sempre più scarso. Giorno dopo giorno, mi accorgo che la mamma diventa un
po’ più magra, probabilmente perché mangia giusto lo stretto necessario per reggersi in piedi;
vuole assicurarsi che sia io a mangiare, ma si trascura. Ho paura.
Cosa sta succedendo, papà? Torna ad aiutarci.
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2 Gennaio 1916
Caro padre,
tanti auguri passati. Qui, purtroppo, c’è ben poco da festeggiare. Sono tempi duri, l’ho capito. Il
giorno di Natale non l’ho neppure considerato tale: ero sola a casa. Mi sono alzata alle 4, come
tutti i giorni da non so quanto, ho munto le mucche, ho spazzato a terra, lavato i piatti di una
settimana, dato da bere ai cani e da mangiare alle galline. Poco più tardi, sono andata nei
campi e ho fatto ciò che mi hai insegnato tu. Sono rientrata a casa congelata, con lo stomaco
vuoto, le mani rosse, la terra sotto le unghie e le caviglie gonfie. Mi sono data una pulita e ho
cucinato quel poco che ho potuto. Prima di cominciare a mangiare ho pregato, papà, come
facevamo tutti insieme prima di toccare il cibo. Ho pregato, con gli occhi chiusi e pieni di
lacrime, le mani giunte, ho pregato per te e per la mamma.
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Buon Natale e buon anno, papà.
Qualcosa stava cambiando, lo si leggeva a chiare lettere fra le parole della ragazza.
Guardai l’orologio: erano le tre e mezza passate. Sbadigliai, accorgendomi che l’orario del mio
solito sonnellino era passato, mi ero completamente persa fra una lettera e la successiva. Ma
avevo tempo, e volevo assolutamente saperne di più.
3 Aprile 1916
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Padre,
son passati secoli dall’ultima lettera, e tanti ne passeranno, mio malgrado, fra questa e la
prossima.
Tutto si sta a suo tempo trasformando in un incubo. Non ci sono soldi, non c’è cibo. La
settimana scorsa è morta Stella, la nostra cagnolina, perché non trovavamo più niente da darle
da mangiare.
La mamma ha iniziato a lavorare. Ho sentito che molte donne, ora, stanno trovando lavoro,
specialmente nelle fabbriche; l’uomo manca, ma per questa guerra sono disposti addirittura a
far lavorare le donne.
Ora sono sola a casa la maggior parte del giorno; sono l’uomo e la donna di casa e, come tale,
mi occupo di tutto. La mamma torna spesso a notte fonda con le caviglie gonfie e le braccia
piene di lividi, e dopo essersi assicurata che io stia dormendo, scoppia in lacrime tenendosi la
testa fra le mani. La sento singhiozzare, dapprima violentemente e poi, lentamente, il respiro
rallenta sino a diventare impercettibile, e io capisco che si è addormentata. Ma io non dormo,
non ci riesco, e sempre più spesso piango fino al sorgere del sole.
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Ho bisogno di un tuo abbraccio, ora più che mai.
Respirai a fondo, chiusi gli occhi e mi guardai, pensando bene a me stessa. Quali erano, in
fondo, i miei problemi?
Poggiai l’ultima lettera sopra alle altre già lette sul poggiolo della poltrona, stando ben attenta a
non sgualcirle. Appena tornai a concentrarmi su quelle che avevo in mano, rimasi molto
sorpresa da ciò che vi trovai in cima: non una lettera, ma una cartolina. Era rappresentato, in
bianco e nero, un soldato sull’attenti col fucile in spalla. Sullo sfondo, si agitava fiera al vento la
bandiera tricolore. La girai: la scrittura era veloce, disordinata e a tratti quasi illeggibile; era
ovvio che fosse stata scritta in fretta e furia, probabilmente sotto la pioggia, su una pietra o sulla
schiena di un compagno. Notandone la data, ipotizzai che l’ordine cronologico fosse stato, in
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quel caso, rivisto considerando la data di arrivo; dovevano volerci mesi e mesi, pensai, perché
una lettera o una cartolina arrivassero a destinazione.
La lessi.
11 Gennaio 1916
Alla mia famiglia. Alla mia amata Rosa e alla mia piccola Beatrice, nella speranza che vada
tutto bene.
Qui fa freddo.
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Va tutto bene per ora.
A presto.
Sintetica, poche e semplici parole. Ma immaginai il sollievo che Beatrice (avevo finalmente
scoperto il nome della mia bis-nonna) doveva aver provato ricevendola: il suo papà era ancora
vivo, e la speranza con lui.
Presi fra le mani la lettera successiva, notando che non ne rimanevano ormai molte.
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22 Luglio 1916
Caro papà,
ti sto aspettando. So che ci sei, ma la speranza si sta pian piano affievolendo, come se la cera
della mia candela si fosse sciolta quasi del tutto. Non voglio lasciarla spegnersi, ma ho tanta,
troppa paura.
Il mondo è così buio. Quelle poche volte che sono scesa in città per comprare qualcosa,
passeggiando, incrociavo gli occhi della gente. Erano così spenti, papà. Non c’era luce, in
quegl’occhi, e immaginai che gli altri stessero pensando la stessa cosa dei miei. Siamo tanti
morti che camminano. Ci stanno uccidendo tutti.
Qualche settimana fa, è venuta a casa la madre di un mio amico che sapevo essere partito
volontario per il fronte. Vedendola in lontananza, ho pensato che fosse una bella cosa, passare
il tempo con qualcuno di familiare e distrarsi un po’. Ma appena è arrivata sull’uscio della porta,
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ho capito: era in lacrime, era disperata. Non sono riuscita neanche ad accoglierla, un conato di
nausea mi ha preso le viscere e sono corsa in bagno. Ho vomitato e ho pianto, singhiozzando,
accovacciata per terra sotto il lavandino.
La mamma ora sta male. Mangia poco, dorme poco e lavora tantissimo. Lo fa per me, per
tenermi in vita. Ma papà, questa non è vita. Sono tre giorni che non va a lavorare. Ha la febbre
alta e non si può neppure alzare dal letto. Io le porto bicchieri di acqua in continuazione e
spesso devo svegliarla pur di farla bere. È così debole. Tossisce sempre, soprattutto di notte, e
io dormo ancora meno di prima.
Mi guardo allo specchio: sono magra, ho le anche spigolose e mi si vedono le costole, ho le
occhiaie rosse, i capelli in disordine e spesso sporchi. Non mi riconosco più.
Dimmi che andrà tutto bene, papà.
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Appena terminai di leggere le ultime parole, percepii un senso di bagnato intorno agli occhi e
sulle guance. Senza rendermene conto, avevo iniziato a piangere. Una piccola lacrima cadde
sulla lettera, sbiadendo impercettibilmente un paio di parole. Era incredibile, come quella storia
mi stesse entrando dentro.
Come poteva essere davvero così lontana, se io la percepivo così vicina?
“Questa non è vita”. Ripensavo a quelle parole e immaginavo che sarebbero benissimo potute
essere le mie. Lei le aveva scritte riferendosi alla distruzione e alla tragedia della Grande
Guerra, io le avrei sentite riecheggiare nella mia testa guardando il telegiornale, ascoltando i
giornalisti parlare di morti assurde, di guerre e devastazione in nome della religione, del
maltrattamento di bambini ed animali.
Il tempo passa, ma l’essenza delle cose, in particolare la natura dell’uomo, non cambia mai.
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13 Ottobre 1916
Caro papà,
perché continuo a scriverti?
Quale stupida, infantile, sciocca illusione mi spinge a continuare questa farsa?
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È un vicolo cieco, un tunnel senza uscita, un gioco crudele in cui io parlo e vedo le mie parole
disperdersi nel vuoto del nulla.
Sono così triste, così delusa, così arrabbiata.
Noi, NOI italiani, dobbiamo sembrare tanto spavaldi! Sì, noi che conquistiamo Gorizia, noi che
dichiariamo guerra alla Germania! L’Italia deve sembrare così coraggiosa. Ai piani alti fanno di
tutto per sembrare tali. Tanto a farsi ammazzare, si sa, ci andiamo noi dei bassifondi!
Noi, che lasciamo andare a morire fra le più atroci sofferenze le persone che ci stanno più a
cuore, illudendoci giorno dopo giorno che la vita possa tornare a risplendere. Qui non brilla più
niente!
L’altro giorno, stavo pulendo casa; il bagno, la cucina, la vostra camera. La mamma dormiva,
finalmente.
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E indovina un po’ cosa ho trovato?
Nascoste dietro libri, quaderni e giornali, sotto il portagioie della mamma, ho trovato le lettere, le
mie, le nostre lettere. Dalla prima, impilate una sopra l’altra, lì ad impolverarsi anziché essere
nelle tue tasche, nel fango vicino ai tuoi scarponi, fra le tue mani. Quel piccolo, pezzo di cuore
che ero riuscita a conservare si è accartocciato, sbriciolato in una manciata di secondi.
Ed io ho perso l’equilibrio, precipitando nell’oscurità.
La candela si è spenta, papà…?
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Quanta rabbia, quanta ira esplodeva da quelle parole! Riuscivo quasi a percepire il cuore di
Beatrice partito in uno sfrenato galoppo, il respiro affannoso, le nocche delle dita divenute
bianche per la forza con cui aveva impugnato la penna. Anche la scrittura, sempre precisa ed
ordinata, lasciava trasparire la passione del momento. Era tutto così nitido, così acceso, così
pieno di vita e di voglia di vivere. E la rabbia era dettata proprio da questo: dalla volontà di
ricominciare, di riscattarsi, dal bisogno di ripartire da zero e tornare a respirare.
12 Aprile 1917
Caro papà,
o chiunque stia leggendo le mie parole,
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ho deciso di scriverti un’ultima volta. A dire il vero non l’ho deciso, ne ho sentito il bisogno,
come se la mia voce avesse la necessità di farsi sentire, in un modo o nell’altro.
Sono passati solo due anni, dall’inizio di tutto. I due anni più lunghi ed intensi della mia vita.
Sono consapevole di essere molto più grande e matura di quanto sarei stata senza questa
guerra. Sono cresciuta con estrema velocità, tenendo il passo degli eventi, correndogli dietro.
Ora, mi sento una donna.
Sono una donna.
Ho costruito una corazza indistruttibile, un muro alto metri e metri per difendermi da ciò che la
vita ha in serbo per me. Questa guerra non è finita e continuerà a portarsi via brandelli della mia
essenza.
Non è un caso se ho ripreso a scrivere proprio oggi. Esattamente quattro mesi fa, caro papà, la
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mamma ha esalato il suo ultimo respiro, fra le mie braccia, fra le mie lacrime. Era malata e non
scoprirò mai di cosa, il medico era troppo costoso e lei si rifiutava categoricamente di “gettar via
soldi per qualcosa al di fuori del nostro controllo, del nostro volere”.
Non sono mai stata così triste e sola, ma non sono neanche mai stata così forte e determinata.
Ho scelto di non dargliela vinta, a questa stupida guerra.
Ho scelto di continuare a combattere, a sputare sangue, a stringere i denti.
Ho scelto di vivere per me, per la mamma e anche per te, mio adorato padre.
Ho scelto di prendermi la rivincita per tutte quelle persone che non ce l’hanno fatta.
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Io rimango in piedi, papà.
La collera espressa nella lettera precedente si era trasformata, col passare dei mesi, in una
piccola fiamma ardente: speranza era la nuova parola chiave. Nonostante tutto, nonostante
tutti, Beatrice si reggeva ancora sulle sue gambe esili e lottava come una leonessa contro la
crudeltà degli eventi. Era un esempio di vita per me, non poteva essere diversamente.
Spostai la lettera sulle altre e rimasi con in mano l’ultimo foglio ingiallito, consumato dal tempo,
che profumava di antico. Respirai profondamente: avevo appena conosciuto Beatrice e l’avrei
già dovuta salutare; ero triste, già nostalgica.
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13 Novembre 1918
Cara Italia,
(e con “ cara Italia” intendo dire “cari concittadini, cari fratelli, cari amici, voi tutti che avete
condiviso con me le vostre disgrazie, voi che avete sofferto, voi che avete lottato, al fronte o a
casa”)
ti sono vicina. Siamo vincitori, ma a quale prezzo? Lo chiedo a tutti coloro che hanno subito le
perdite peggiori: ne è valsa la pena?
Sopra ogni altra cosa, cerco di capire. La violenza è una soluzione? Si è dimostrata tale?
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Alla luce dei fatti, nonostante la mia giovane età credo di poter affermare con decisione: NO.
Lo vorrei gridare per le strade, nelle piazze, fra la gente. Ma so che tutti, in qualche modo, nel
cuore hanno già dato la mia stessa risposta. La ferita è ancora totalmente aperta, la mente è
fresca, abbiamo ogni singola immagine nitida davanti agli occhi: siamo tristi, abbatuti, arrabbiati.
La guerra è stata spietata, non ha avuto pietà per nessuno di noi, ha livellato la nostra Nazione
e non solo.
Ma ormai, indietro non si torna, volenti o nolenti si va solo in avanti; quindi, qual è la cosa
migliore da fare?
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Non chiudiamo gli occhi.
La guerra c’è stata e ne sono testimoni le nostre lucide memorie.
Non possiamo cancellarla, spazzarla via e sostituirla con ricordi migliori.
Facciamo in modo che la distruzione, il panico, la morte non siano state fini a se stesse, vane.
Rendiamo giustizia ad ogni singolo caduto che col cuore in mano si è battuto in nome di un
ideale, per proteggere il suo Paese o più semplicemente la sua famiglia.
Offriamo a modo nostro un contributo che faccia onore ai nostri sacrifici.
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E soprattutto, diamo a questa guerra un significato; utilizziamola a nostro vantaggio, ora,
facendone una lezione.
Una lezione per noi stessi che ci faccia crescere e ci renda migliori.
Una lezione per i nostri figli, affinchè comprendano dalle nostre esperienze l’importanza ed il
senso della vita.
Una lezione per i posteri, perché simili tragedie non si verifichino mai più.
Diffondiamo la parola, lasciamo il segno, imprimiamo la nostra memoria nella storia affinchè
chiunque ne vegna a conoscenza capisca il significato della guerra.
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Doniamo il regalo più bello ai nostri ricordi: l’immortalità.
Strinsi i pugni. Chiusi gli occhi. Percepii con attenzione un brivido denso di eccitazione e
commozione guizzare su per la schiena.
Come una freccia, le parole di Beatrice avevano dall’inizio puntato al mio cuore e, lettera dopo
lettera, avevano colpito sempre più a fondo. Mi sentivo in trance, sospesa fra il mio mondo,
quello di cento anni prima e quello che ci sarebbe stato negli anni a venire, come se i fili di
passato, presente e futuro si fossero per la prima volta incrociati l’uno nell’altro, rendendomi
partecipe dell’estasi di quel momento.
Era assurdo, pensai, che parole tanto potenti fossero state scritte da una diciannovenne.
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Mi alzai inquieta dalla poltrona, riordinando le lettere e rimettendole al loro posto.
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