Le “coppie celebri” in Medicina di Laboratorio

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Le “coppie celebri” in Medicina di Laboratorio
OPINIONI
OPINIONS
Le “coppie celebri” in Medicina di Laboratorio
Giuseppe Castaldo
Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche, Università di Napoli Federico II. CEINGE-Biotecnologie
avanzate, Napoli
ABSTRACT
The "famous pairs" in Laboratory Medicine. Poor appropriateness of laboratory test prescription is a relevant
problem in medicine and one of the reasons is that often physicians request "famous pairs" of biochemical tests. For
instance, blood urea is typically ordered together with creatinine, plasma cholesterol is always coupled to
triglycerides, erythrosedimentation rate is frequently associated to anti-streptolysin O titer and the same is true for
transaminases, C-reactive protein and rheumatoid factor, anti-endomisial and anti-gliadin antibodies, amylase and
lipase, prothrombin time and activated partial thromboplastin time, α-fetoprotein and carcinoembrionic antigen. This
paper discusses the reason why most pairs are inappropriate and their request may generate results that are useless
to clinical diagnosis. Laboratory should actively help physicians in requesting and interpreting laboratory tests.
Assisting models can be useful (e.g., the laboratory could plan to perform a second level test only when the first level
one is altered). More importantly, guidelines for a proper test prescription should be shared by laboratory and clinical
scientific societies.
INTRODUZIONE
La Medicina di Laboratorio ha acquisito un “peso
specifico” crescente nella gestione clinica della maggior
parte delle malattie. Questo sviluppo è stato favorito dal
progresso della ricerca nelle scienze di base (biochimica,
fisiologia,
biologia
molecolare,
microbiologia,
immunologia), che trasferiscono con crescente rapidità
alla clinica nuovi marcatori biochimici, e dalla
disponibilità di tecnologie analitiche sempre più efficienti.
In parallelo, alcune indagini di laboratorio sono divenute
meno utili a causa della scarsa affidabilità dei metodi
d’analisi oppure perché il loro contribuito al processo
diagnostico è divenuto ridondante o addirittura
confondente.
Il medico di corsia o del territorio familiarizza
facilmente con le nuove indagini, ma nello stesso tempo
non avviene il processo opposto: vi è cioè una forte
resistenza a “disaffezionarsi” alla prescrizione di analisi
desuete ed è spesso difficile capirne i motivi. In effetti,
non esistono corsi di “disaggiornamento” e spesso c’è la
paura di dimenticare di prescrivere proprio quell’analisi
che potrebbe essere la chiave di volta per la diagnosi
(medicina difensiva). Spesso si è familiarizzato con le
“coppie celebri” della Medicina di Laboratorio: “azotemia”
e creatininemia, colesterolemia e trigliceridemia, così
come “devono” stare insieme aspartato amminotransferasi
(AST) e alanina amminotransferasi (ALT), velocità di
eritrosedimentazione (VES) e titolo anti-streptolisinico
(TAS), proteina C-reattiva (PCR) e fattore reumatoide,
anticorpi anti-endomisio (EMA) e anticorpi anti-gliadina
(AGA), amilasi e lipasi, quadro proteico e proteine totali,
tempo di protrombina (PT) e tempo di tromboplastina
parziale attivata (aPTT), α-fetoproteina (AFP) e antigene
carcinoembrionario (CEA), triiodotironina (T3) e tiroxina
(T4). Queste “coppie celebri” sono rimaste nella mente e
nella penna del medico prescrittore e, forse, con un
meccanismo epigenetico, si sono radicate nel suo DNA.
Tra l’altro, il numero delle “coppie celebri” continua a
crescere e inizia a investire anche la biologia molecolare
clinica, dove l’avanzamento tecnologico è stato ancora
più rapido (1). Una delle coppie del momento è costituita
dal fattore V di Leiden insieme alla mutazione G20210A
della protrombina, indagini oggi prescritte con una
frequenza quasi maggiore della glicemia (2). Anche
leggendo libri di testo universitari o scorrendo gli articoli
di autorevoli riviste scientifiche, le stesse che pubblicano
linee guida di diagnosi e terapia, spesso capita di
imbattersi in qualche “coppia celebre” palesemente
stagionata, che è riuscita a superare il vaglio di autorevoli
Corrispondenza a: Giuseppe Castaldo, CEINGE-Biotecnologie Avanzate, Via Gaetano Salvatore 486, 80147 Napoli. Tel. 0813737860,
Fax 0813737808, E-mail [email protected]
Ricevuto: 02.07.2013
Revisionato: 05.09.2013
Accettato: 09.09.2013
biochimica clinica, 2014, vol. 38, n. 4
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revisori. E qualcuna delle “coppie celebri” è radicata
anche nella mente di quelle mamme che assediano il
pediatra di libera scelta, chiedendo con insistenza di
prescrivere un po’ di analisi al bambino che sembra
“sciupato”
(defedato)
anche
quando
sfora
abbondantemente i percentili del peso.
Si è in sostanza creata un’inversione di tendenza
rispetto al percorso che dovrebbe governare il processo
decisionale medico. Invece di utilizzare il dato di
laboratorio per la conferma o l’esclusione di un sospetto
clinico, sempre più spesso si tende a richiedere una
serie di analisi a tappeto e poi, se c’è qualche
alterazione, essa diventa il punto di partenza dell’iter
diagnostico. In realtà, un’analisi di laboratorio andrebbe
prescritta solo quando il medico ha ben chiara la
decisione che assumerà nel caso in cui il risultato sia
normale o alterato, ma questo presuppone un utilizzo
ottimale della “risorsa” laboratorio che non sempre si
realizza (3).
Come
conseguenza,
la
spesa
collegata
all’incremento delle prestazioni di laboratorio è vista
come una delle cause di quel dissesto finanziario che
investe tutti i settori della medicina (e non solo). Il
legislatore si è sbizzarrito in una serie di “correttivi”, che
spaziano dalla riduzione dei rimborsi ai laboratori per le
prestazioni analitiche a una serie d’imposizioni basate su
logiche “budgetarie”. In alcune realtà, si è deciso di
ridurre il numero dei laboratori, come se il numero di
prestazioni effettuate dipenda dal numero di laboratori
esistenti, senza tener conto che, al di sopra di un certo
limite, l'accorpamento del numero delle prestazioni non
produce un reale risparmio (4). In realtà, se si confronta
la spesa per le prestazioni di diagnostica di laboratorio
tra i vari paesi dell’UE emerge che quella del nostro
Paese è abbastanza lontana (verso il basso) dalla
media. E se fossimo più “appropriati” nelle prescrizioni,
potremmo addirittura risparmiare ulteriori risorse da
reinvestire in ricerca e sviluppo. Il valore delle
prestazioni di laboratorio inappropriate è infatti pari a
centinaia di migliaia di euro già a livello di singole
strutture ospedaliere, soprattutto se le prestazioni sono
erogate in urgenza (5, 6). è interessante che
l’inappropriatezza prescrittiva e quindi anche le “coppie
celebri” resistono di più nella mente dei colleghi anziani
rispetto a quelli giovani: sicuramente l’inserimento della
Medicina di Laboratorio nel percorso universitario dei
medici ha contribuito, anche se, paradossalmente, il
maggior spreco di risorse avviene nelle strutture
mediche di tipo accademico (7). Lo specialista di
laboratorio ha la dignità di un consulente che deve
partecipare alla scelta critica degli esami da eseguire e,
anche attraverso un idoneo referto, alla loro
interpretazione (8, 9). Per fare questo, egli deve
continuamente aggiornarsi sui quesiti diagnostici e
terapeutici che la clinica propone, e ricambiare i clinici
svolgendo per loro un aggiornamento continuo e
puntuale sulle novità tecnologiche e diagnostiche che il
laboratorio può offrire.
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MATERIALI E METODI
I dati (quei pochi disponibili) presentati in questo
lavoro derivano da: a) 30 anni di ricerche effettuate nelle
corsie dei reparti dell’Azienda Universitaria Ospedaliera
Federico II di Napoli e nei relativi archivi; b) l’esame delle
prescrizioni effettuate da alcuni medici di medicina
generale e alcuni pediatri di libera scelta, che hanno reso
disponibili i loro archivi in forma anonima; c) l’esame dei
dati sulle indagini eseguite dai laboratori afferenti alle
strutture pubbliche della regione Campania in un
biennio, ottenuti in qualità di consulente della centrale
regionale acquisti; d) il confronto con colleghi di altre
regioni, che hanno indicato come i risultati sulle
prescrizioni nelle diverse regioni italiane sono del tutto
sovrapponibili.
RISULTATI E DISCUSSIONE
Creatinina e urea
Il razionale della richiesta di creatinina e urea
plasmatiche è, in genere, la valutazione della
funzionalità renale con particolare riguardo alla
filtrazione glomerulare. Per questa indicazione, la
determinazione dell’urea il più delle volte è ridondante (e
anche meno sensibile) rispetto a quello della creatinina,
che a sua volta è dotata di ridotta specificità diagnostica.
Infatti, una misura più attendibile della filtrazione
glomerulare dovrebbe essere affidata alla “clearance”
della creatinina oppure alla determinazione sierica della
cistatina C o ancora a una serie di nuovi marcatori in
fase avanzata di validazione sia per l’insufficienza renale
acuta che cronica (10-14).
Nonostante ciò, la coppia creatinina/urea ha un
“affiatamento prescrittivo” molto alto, sia in ambiente
ospedaliero che ambulatoriale (incluso l’ambito
pediatrico): in molte realtà la prescrizione congiunta
supera il 90% e i numeri assoluti di prescrizioni in un
anno, in diverse regioni, superano il numero totale degli
abitanti. In parte questo dipende dal retaggio culturale
che i medici hanno acquisito sin dai tempi del corso di
Fisiologia umana, in cui s’insegna che la valutazione
della filtrazione glomerulare è affidata alla “clearance”
dell’urea e a quella della creatinina (gettando le basi per
la creazione della coppia). E in questo caso il corso di
Medicina di Laboratorio può non aiutare perché spesso
la coppia ritorna anche negli insegnamenti dei docenti di
questa disciplina. Se qualcuno ha dubbi, può consultare
i testi di Fisiologia umana e di Biochimica clinica più
diffusi nel nostro paese per trovare immancabilmente
insieme urea e creatinina e le relative “clearance”.
Sfogliando i testi di altri Paesi la situazione non è
diversa.
VES e TAS
La VES è un marcatore aspecifico ma sensibile di
processi infettivi e infiammatori e quindi ha un valore
predittivo negativo molto buono in alcuni contesti clinici,
che proprio negli ultimi anni è stato riconsiderato. Giusto
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a titolo di esempio, la VES, insieme alla PCR, figura tra
i criteri per la classificazione dell’artrite reumatoide (15).
Viceversa il TAS è un esame poco utile, spesso richiesto
in modo inappropriato in coppia con la VES nella
diagnostica e nel monitoraggio delle faringotonsilliti
streptococciche (16). Infatti, VES e TAS sono una coppia
che va forte soprattutto in ambiente pediatrico. In realtà
non esistono evidenze scientifiche per un contributo del
TAS nella diagnostica delle glomerulonefriti poststreptococciche né nella febbre reumatica acuta in cui,
secondo i criteri di Jones, il TAS è un criterio minore (16).
E allora perché nella sola Campania (6 milioni di abitanti)
in un anno vengono prescritte alcune centinaia di
migliaia di determinazioni di TAS, analisi peraltro gravata
dalla ridotta standardizzazione dei metodi analitici e dalla
mancanza di intervalli di riferimento riferiti all’età (1618)? Discutendo quest’argomento con i pediatri di
famiglia, risulta che essi conoscono bene i limiti del TAS.
Infatti, già nel 2001 Giorgio Longo (coordinatore
scientifico di Medico e bambino, una rivista che
andrebbe letta da tutti i professionisti di laboratorio)
“bacchettava” un collega che aveva richiesto ben tre
determinazioni consecutive del TAS in modo
inappropriato (19). Tuttavia, spesso i pediatri sono indotti
a trascrivere prescrizioni formulate da altri specialisti. La
titolarietà della prescrizione è uno dei problemi più
scottanti della “medicina del budget”, tanto che sulle
ricette dei pediatri di libera scelta (e dei medici di
famiglia) è stata diversificata la prescrizione “spontanea”
rispetto a quella “indotta”. Ma se il pediatra di libera
scelta (che è tra le peculiarità mediche che distinguono il
nostro Paese) non vuole trasformarsi in “trascrittore”, ci
aiuti a convincere gli altri specialisti che il TAS in molti
casi è inutile, senza che si debba ricorrere a quei
vergognosi interventi governativi di “diagnostic rule”,
com’è avvenuto in altri Paesi (16).
AST e ALT
Le due transaminasi AST e ALT formano una coppia
inscindibile dal 1957, quando fu descritto il loro ruolo
diagnostico nell’epatite virale acuta e fu creato il rapporto
AST/ALT, noto come coefficiente di De Ritis (20). Da
allora, a parte qualche esperienza di laboratori
d’urgenza che offrono una sola delle due transaminasi,
la fedeltà di coppia è rimasta assoluta, favorita anche dal
fatto che nella lingua italiana il termine “transaminasi”
(così come l’inglese “transaminases”) è un singularia
tantum. Non v’è quindi prescrizione in cui le due
transaminasi non viaggino insieme e non c’è testo o
lavoro scientifico in cui AST e ALT non figurino unite.
Nel tempo vi sono state diverse occasioni che hanno
rinsaldato la forza di questa coppia. Un elevato rapporto
AST/ALT è suggestivo di apporto cronico di alcol o di
malattia epatica cronica avanzata a eziologia alcolica
(21) e il rapporto è stato descritto come fattore predittivo
di evoluzione cirrotica dell’epatite cronica (22). Viene da
chiedersi chi si accontenterebbe di confermare
l’assunzione cronica di alcol o di stadiare la malattia
epatica sulla base del rapporto AST/ALT, laddove
esistono da anni marcatori molto più specifici di
assunzione alcolica come la γ-glutammiltransferasi
(GGT) e i suoi isoenzimi (23, 24) oppure il volume
corpuscolare medio eritrocitario (MCV) o ancora la
trasferrina desialilata (25, 26). Analogamente, sono
disponibili marcatori biochimici consolidati che
permettono l’accurato monitoraggio della malattia
epatica cronica segnalando l’evoluzione dell’epatite
cronica a cirrosi (27, 28), l’evoluzione neoplastica della
malattia epatica cronica (29, 30) o ancora il grado di
ridotta protidosintesi epatica (31).
Ciò nonostante, le transaminasi hanno consolidato il
loro ruolo “insostituibile” nel segnalare con altissima
sensibilità diagnostica il danno epatocellulare e sono
state create diverse “flow-chart” che suggeriscono come
affrontare l’ipertransaminasemia (32). Un aumento
isolato di transaminasi può essere l’unico segno di
celiachia (33) o di malattia epatica cronica infantile su
base genetica (34), come il deficit di α1-antitripsina, il
morbo di Wilson, l’emocromatosi o la fibrosi cistica (3537).
AFP e CEA
Il campo dei marcatori tumorali (MT) è
particolarmente delicato sia per il costo dell’indagine (nel
nomenclatore sono tra le prestazioni di laboratorio più
onerose) sia per l’impatto che il risultato può avere sul
paziente. Numerosi gruppi di studio, anche della SIBioC,
hanno prodotto documenti e linee guida cercando di
“catechizzare” i colleghi clinici sull’utilizzo appropriato dei
MT che, salvo qualche rara eccezione, andrebbero
impiegati nel monitoraggio del paziente neoplastico e
non nella fase di diagnosi, tantomeno precoce, e
comunque secondo un preciso rapporto tra tipologia di
tumore e MT (38, 39).
Anche nel campo dei MT vi sono “coppie celebri”. La
più “gettonata” è quella formata da AFP e CEA. E’ noto
(o dovrebbe esserlo) che l’AFP aumenta nel siero in una
percentuale di pazienti con carcinoma epatocellulare
(oltre che in alcuni tumori del testicolo e dell’ovaio) e la
sua misurazione nel siero può quindi essere utile nel
monitoraggio di questi pazienti. Viceversa, il CEA
aumenta in circolo nei pazienti con tumori gastroenterici
(oltre che in alcune neoplasie del polmone e della
mammella) e anche in questo caso la determinazione
del marcatore può contribuire al monitoraggio del
paziente durante la terapia. Si tratta quindi di due
tipologie di pazienti neoplastici che non hanno alcun
“overlapping” e quindi la misurazione congiunta dei due
MT non può contribuire alla soluzione di alcun quesito
clinico o diagnosi differenziale. Nonostante ciò, la
determinazione di AFP e CEA viene richiesta “in coppia”
con una concordanza >50% in ambiente ospedaliero.
Interrogando un centinaio di “prescrittori” ospedalieri
della coppia AFP/CEA, alcuni anni fa furono fornite le
seguenti risposte: a) è strano che il laboratorio entri nelle
decisioni prescrittive dei clinici (~33%); b) il firmatario
della richiesta è diverso da chi compila la prescrizione
(specializzandi?, personale non medico?) (~33%); c)
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spiegazione del razionale della richiesta (~33%). La
spiegazione più frequente era: “pazienti con neoplasie
colorettali in monitoraggio (CEA) nei quali con la
determinazione dell’AFP si vuole identificare l’eventuale
comparsa di metastasi al fegato”. Cercando su Pubmed,
bisogna andare nel lontano Giappone per ritrovare un
articolo (in giapponese) che descrive un caso di tumore
rettale che produceva AFP (40).
Se ci si sposta nell’ambiente extraospedaliero, il
numero assoluto di richieste di MT si riduce, ma
aumenta la percentuale di richieste della coppia
AFP/CEA sino al 75%. In una congrua parte di casi si
tratta di pazienti non neoplastici, ai quali viene prescritto
di effettuare (periodicamente) la misurazione sierica di
alcuni MT per screening, nonostante tutte le linee guida
indichino che questi marcatori non hanno questo ruolo
(a causa della ridotta sensibilità diagnostica nelle fasi
iniziali della neoplasia) o addirittura sono controindicati a
causa dell’elevato numero di falsi positivi (38, 39, 41).
Quello della coppia AFP/CEA è il più eclatante ma
non è l’unico caso di inappropriatezza nel campo dei MT.
A volte la coppia diventa triangolo o, addirittura,
poligamia. Non sono pochi i casi in cui al laboratorio
perviene la richiesta congiunta di più MT prodotti da
tumori diversi. E spesso le richieste di MT che
pervengono in un anno a un laboratorio ospedaliero
eccedono di almeno un ordine di grandezza l'incidenza
delle malattie neoplastiche nel bacino di utenza del
laboratorio. In qualche caso di contraddittorio con i
colleghi clinici ricorre la giustificazione “medicina
difensiva”.
Che fare a riguardo? Molti professionisti di
laboratorio, grazie alla conoscenza delle basi
biochimiche dei diversi MT e alle linee guida elaborate
dai gruppi di lavoro operanti nell’ambito delle società
scientifiche, hanno ben chiare le indicazioni prescrittive
dei MT. Occorre “esportare” all’ambiente clinico queste
indicazioni sull’appropriatezza e, se questo compito è
più facile in ospedale grazie al contatto più diretto tra
laboratorio e corsia, esso è notevolmente più arduo con
i medici del territorio. Ma prima di tutto dobbiamo essere
convinti di voler realmente affrontare un lavoro, che
peraltro porterebbe a una riduzione significativa di
prescrizioni analitiche (42).
EMA e AGA
La diagnostica della celiachia è notevolmente
cambiata negli ultimi 10 anni grazie al contributo degli
anticorpi anti-transglutaminasi (anti-Tg) e della genetica
molecolare (43). Nel 2010 l’“European Society for
Pediatric Gastroenterology, Hepatology and Nutrition”
(ESPGHAN) ha licenziato, a 20 anni dalle precedenti, le
nuove linee guida per la diagnosi di celiachia (44). Tra le
novità più salienti: a) è prevista la diagnosi di celiachia
senza necessità di biopsia digiunale in soggetti
sintomatici con livelli di anti-Tg >10 volte il limite di
riferimento (anche se nelle linee guida non si fa
riferimento ai metodi analitici che, come è noto, non
forniscono risultati del tutto sovrapponibili); b) sono
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indicate le potenzialità e i limiti dell’analisi molecolare; c)
nei soggetti con sintomi suggestivi è suggerita
l’esecuzione degli anti-Tg (oltre alle IgA per escludere un
falso negativo dovuto a deficit di IgA), riservando gli EMA
a una conferma diagnostica presso le strutture di terzo
livello.
Nonostante le linee guida dell’ESPGHAN, il numero
di anti-Tg eseguiti presso i laboratori delle strutture
pubbliche italiane in un anno (stima effettuata in 4 diverse
regioni) è di ~5 volte inferiore rispetto al numero di EMA
e AGA; inoltre, EMA e AGA vengono spesso prescritti in
coppia sia nell’ambiente pediatrico che in quello della
medicina dell’adulto. Qual è la causa? In prima battuta si
potrebbe pensare che le linee guida dell’ESPGHAN
siano poco conosciute. Interrogando alcuni medici, viene
invece a galla una realtà molto più grave: a differenza
degli EMA e degli AGA, gli anti-Tg non sono inclusi nel
tariffario delle prestazioni di molte regioni e i pazienti (in
particolare quelli ambulatoriali) spesso si rifiutano di
effettuare il dosaggio degli anti-Tg a pagamento. Ci si
accontenta quindi degli EMA e degli AGA, pur
conoscendo bene la minor efficacia diagnostica di questi
marcatori. E c’è di peggio: in qualche caso, i pazienti
fanno pressione presso strutture di “day hospital” per
ottenere un ricovero finalizzato all’esecuzione di
un’analisi non inclusa nel nomenclatore. Inutile dire che il
costo di un “day hospital” è di almeno 50 volte superiore
al costo della singola prestazione di laboratorio. Le
prestazioni non incluse nel nomenclatore sono tante,
considerato che il nostro nomenclatore gareggia con il
miglior Sangiovese quanto a invecchiamento. Molte
prestazioni non incluse nel nomenclatore potrebbero
offrire un contributo diagnostico importante, capace
anche di far risparmiare più risorse di quanto costa la
prestazione stessa. Basti pensare alla calprotectina
fecale che, se negativa, può evitare una colonscopia (45)
o ai marcatori di fibrosi (ad es., fibrotest) in grado di
sostituire in molti casi una biopsia epatica (28) o ancora
al cosiddetto “gastropanel”, che ha significativamente
ridotto il numero di gastroscopie (46). Non sarebbe male
una maggior pressione sul legislatore (possibilmente non
soltanto da parte delle società scientifiche di Medicina di
Laboratorio, ma anche da parte di quelle cliniche, con il
supporto delle associazioni dei pazienti) per cercare di
ottenere un aggiornamento più puntuale del
nomenclatore tariffario.
Elettroforesi e proteine totali
Il "quadro proteico elettroforetico" (QPE) o
elettroforesi delle proteine sieriche ha vissuto un periodo
di gloria tra gli anni '70 e '80, quando la misurazione
immunologica delle singole proteine era gravata da costi
elevati e da tecniche poco standardizzate. In quegli anni,
il QPE rappresentava un esame di screening che
permetteva di ottenere informazioni sulla protidosintesi
(albumina), sulla presenza di condizioni infiammatorie
acute (α1-globuline) o croniche (γ-globuline), soprattutto
da quando, in coppia con il dosaggio delle proteine totali,
si iniziò a sostituire il valore assoluto a quello
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percentuale delle singole frazioni elettroforetiche.
L'evoluzione tecnologica ha consentito di ottenere
separazioni sempre più accurate delle frazioni proteiche,
ma soprattutto di visualizzare, con crescente sensibilità,
le componenti monoclonali (CM). In questo percorso, i
gruppi di studio SIBioC hanno svolto un ruolo guida a
livello internazionale. Oggi la ricerca delle CM
rappresenta la principale indicazione all'esecuzione
dell’elettroforesi delle sieroproteine e sono state
sviluppate linee guida che indicano in modo rigoroso il
percorso di approfondimento da seguire nei soggetti che
presentano CM (47-49). In questa situazione, perchè
QPE e dosaggio delle proteine totali continuano a essere
prescritti senza tregua anche nell'ambiente pediatrico? E
soprattutto, se vogliamo riconoscere al QPE il significato
di esame di I° livello per l'identificazione delle CM,
perchè non si decide di effettuarlo periodicamente nei
soggetti sopra una certa età invece di lasciare che la CM
venga identificata per caso in occasione di un QPE
eseguito fortuitamente?
Amilasi e lipasi
Amilasi e lipasi sono una coppia che si è consolidata
negli ultimi anni, a causa dell'aumento di incidenza e di
attenzione nei confronti delle pancreatiti acute. Infatti,
oltre alle classiche forme a eziologia alcolica o litiasica,
sono emerse una serie di forme di pancreatite acuta
ricorrente o cronica dovute a mutazioni nei geni PRSS
(geni della famiglia delle serinproteasi) o nel gene
codificante l'inibitore della secrezione pancreatica della
tripsina (SPINK1) (50). Inoltre, alcune forme di fibrosi
cistica "atipica" si manifestano con pancreatiti acute
ricorrenti (37). Nel complesso, queste forme di
pancreatiti su base genetica (la cui incidenza è in
crescita) hanno un andamento clinico meno severo
rispetto alla classica pancreatite acuta, sono facilmente
riconosciute anche a causa della familiarità e grazie alla
possibilità di effettuare l'analisi molecolare dei geni
responsabili. Tuttavia, è importante riconoscere queste
forme e monitorare i pazienti perchè una percentuale
elevata di casi evolve in insufficienza pancreatica e
alcuni a carcinoma pancreatico (51). I marcatori
biochimici di pancreatite, e tra questi la coppia
amilasi/lipasi, hanno quindi visto un notevole incremento
delle richieste. Tuttavia, l'amilasi è prodotta da numerosi
organi e tessuti addominali e quindi è meno specifica
della lipasi (52). Gli isoenzimi dell'amilasi, certamente
più efficaci dell'amilasi totale (53), hanno vissuto un
momento di gloria negli anni '90, quando i metodi per la
misurazione della lipasi erano poco standardizzati.
Successivamente, si è visto che anche gli isoenzimi
dell'amilasi non aggiungono nulla alla determinazione
sierica della lipasi (54). E' quindi giunto il momento di
pensionare l'amilasi.
Bilirubina totale e frazionata
La “fedeltà” di questa coppia è altissima, sia in
ambito pediatrico sia in quello della medicina dell’adulto,
e altrettanto alta è la frequenza di casi in cui la
bilirubinemia totale è nei limiti di riferimento e diventa
quindi pressoché inutile dosarne le frazioni. Quando si
discute questo problema con i medici che prescrivono
l’analisi congiunta, spesso essi replicano che, non
essendo prevedibile a priori il risultato della bilirubinemia
totale, per evitare l’ulteriore prelievo nel caso in cui si
rendesse necessario, preferiscono richiedere bilirubina e
frazioni in coppia. Il discorso sembra banale, se non
fosse per l’enorme costo che la coppia impone:
possiamo stimare che il numero di tutte le bilirubine
frazionate non necessarie prescritte in Italia in un anno
si avvicina, anche in questo caso, al numero totale di
abitanti. Il discorso vale anche per altre coppie di
indagini che potrebbero essere effettuate “in sequenza”
solo quando il primo risultato è alterato: quanti dosaggi
di colesterolo HDL o LDL vengono effettuati in soggetti
che
hanno
valori
di
colesterolemia
totale
abbondantemente sotto i limiti consigliati? E se vogliamo
salire di livello, quante indagini sierologiche vengono
richieste insieme in un paziente febbrile? Non
converrebbe valutare prima i valori di VES, PCR e
formula leucocitaria per poi orientarsi sulle indagini
sierologiche più appropriate? Ma tutto questo
significherebbe effettuare più prelievi al paziente. Una
soluzione alternativa ci sarebbe: decidere di affidare al
laboratorio la decisione di eseguire la bilirubina
frazionata solo se la totale supera un livello soglia o di
eseguire l’analisi delle frazioni del colesterolo solo se il
colesterolo totale supera un determinato valore. Ancora,
nel paziente febbrile si potrebbe effettuare il prelievo,
conservare il siero e concordare con il curante le indagini
di II° livello dopo aver ottenuto i risultati di quelle di I°
livello. Gli esempi sarebbero infiniti, i risparmi
considerevoli e anche il miglioramento della nostra
professionalità sarebbe tutt’altro che trascurabile.
CONCLUSIONI
L’appropriatezza prescrittiva è di specifica
competenza della professionalità medica, ha
conseguenze economiche non trascurabili ma
soprattutto si riverbera negativamente sulla salute dei
pazienti. Se si accettasse l’idea che il laboratorio debba
avere un ruolo contributivo nel processo decisionale e
interpretativo del dato analitico (e sarebbe forse l’unico
sistema per salvare, e addirittura rilanciare, la nostra
professione) occorrerebbe riflettere su alcune priorità: a)
potenziare la formazione "reciproca" tra laboratoristi e
clinici, anche se ciò significa investire tempo; b)
riappropriarci di competenze che abbiamo trascurato
nella nostra corsa verso lo strumento automatico che
offre migliori prestazioni (la lettura di uno striscio di
sangue periferico, per non dire di midollo, o un esame
parassitologico al microscopio, giusto per fare qualche
esempio, fanno parte della Medicina di Laboratorio); c)
entrare gradualmente nella gestione delle prescrizioni
degli esami, ben consapevoli che ciò può anche
significare, sulla breve distanza, una riduzione degli
esami eseguiti; d) proporre modelli alternativi, come ad
es. l’esecuzione di esami di laboratorio di II° livello sul
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campione biologico conservato eventualmente dopo
aver discusso con i clinici i dati di I° livello; e) consentire
al laboratorio di poter rifiutare richieste non appropriate
[ad es., ogni segnale biochimico ha un'emivita (concetto
del tutto estraneo all'ambiente clinico e a volte
sconosciuto anche a noi), in qualche caso molto lunga.
Le immunoglobuline hanno un'emivita di 21 giorni: non
ha quindi senso monitorare la discesa di un titolo
anticorpale ogni settimana. L'emoglobina glicata ha
un'emivita di 90-120 giorni: perchè viene richiesta ogni
settimana in molti pazienti diabetici? A riguardo,
l’“Association for Clinical Biochemistry and Laboratory
Medicine” inglese ha licenziato un interessante
documento intitolato “National Minimum Re-testing
Interval Project” (55)]; f) potenziare il rapporto con le
società scientifiche cliniche e lavorare insieme sullo
sviluppo di linee guida e percorsi diagnostici condivisi,
ma soprattutto abituarci alla Medicina di Laboratorio
basata sull'evidenza (56); g) concordare con l’ambiente
clinico l’aggiornamento puntuale del nomenclatore: una
pressione sul legislatore che non provenga solo
dall’ambiente di laboratorio darebbe meno l’idea di
Cicero pro domo sua; h) far intendere al legislatore che
questo percorso porterebbe a un aumento della qualità
senza modificare la spesa. Tutto ciò (anche se sembra
una ricetta banale) aiuterebbe anche a rilanciare la
Medicina di Laboratorio e a rendere insostituibili le sue
professionalità.
CONFLITTO DI INTERESSI
Nessuno.
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