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IPERPARATIROIDISMO
Autore: Prof. Corsello Salvatore Maria
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INTRODUZIONE
L’iperparatiroidismo primitivo è una patologia causata da un’eccessiva secrezione di paratormone (PTH)
da parte di una o più paratiroidi, con conseguente alterazione del metabolismo fosfo-calcico [1]: l’aspetto
biochimico caratteristico è l’associazione di ipercalcemia e livelli plasmatici di PTH inappropriatamente
normali o elevati [2].
E’ una malattia endocrina relativamente comune, soprattutto in quei paesi in cui lo screening
laboratoristico di massa è diventato di uso comune (anni ’70) e l’ipercalcemia è quindi rapidamente
diagnosticata [3]: pertanto, tende attualmente a presentarsi come uno stato asintomatico in cui non sono
presenti segni e sintomi tipicamente associati all’ipercalcemia (litiasi renale, evidenti malattie ossee o
specifiche disfunzioni neuromuscolari).
Linee guida di riferimento sono giunte nel 1990 con la NIH Consensus Conference [4], mentre un recente
(2002) Workshop sull’argomento promuove la chirurgia come unico provvedimento efficace e risolutivo
della malattia nei pazienti sintomatici e sottolinea la necessità di un attento monitoraggio dei pazienti
asintomatici (80%) e/o non sottoposti al trattamento chirurgico [5]. I calciomimetici, farmaci agonisti del
recettore del calcio, potrebbero essere la prospettiva futura di un trattamento medico [6].
In questi ultimi anni, il miglioramento delle tecniche di imaging, divenute molto più affidabili nella
localizzazione di un adenoma paratiroideo, ha consentito lo sviluppo di una chirurgia localizzata, con
l’opportunità di minori tempi operatori, anestesia locale e brevità di ospedalizzazione [2, 7].
EPIDEMIOLOGIA
L’iperparatiroidismo primitivo è una malattia endocrina comune nei paesi in cui lo screening laboratoristico
di massa è diventato di routine e l’ipercalcemia è quindi rapidamente diagnosticata: negli Stati Uniti,
l’introduzione di uno screening biochimico sierico agli inizi degli anni ’70, ha notevolmente fatto aumentare
la prevalenza e l’incidenza della patologia [5].
La malattia può insorgere a qualunque età (ma è rara prima dei 50 anni) ed è più diffusa nel sesso
femminile (F:M = 3:1). [8]. Inoltre, il lieve incremento dei valori della calcemia che si verifica subito dopo la
menopausa, tende a far aumentare le diagnosi di IP, svelando anche le forme molto lievi. Questo
fenomeno spiega, almeno in parte, il rapporto di 1:5 nell’incidenza di malattia tra uomini e donne di età
superiore a 55 anni [9].
Nell’esperienza della Mayo Clinic l’incidenza annuale dell’iperparatiroidismo è di 4,0 casi per 100.000
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EndocrinologiaOggi.it
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l’età in entrambi i sessi [11,12]
Fattori interferenti sull’incidenza di Iperparatiroidismo primitivo
• Deficit di vitamina D
Uno stato di ipovitaminosi D (per esempio, nelle popolazioni dell’Europa meridionale) può far sottostimare
la prevalenza di IP, poiché nei pazienti affetti la calcemia può essere normale [13]. D’altra parte, il deficit
di vitamina D può essere associato a casi più severi di IP (adenomi di maggiori dimensioni, ipofosforemia
marcata, grave osteoporosi) con quadri clinici chiaramente sintomatici [14; 15]. Inoltre, è da sottolineare
che ridotti livelli di 25-idrossi-vitamina D3 e di 1,25- diidrossi-vitamina D3 inducono un’iperplasia delle
paratiroidi, determinando in soggetti geneticamente “predisposti”, lo sviluppo di un iperparatiroidismo
terziario [16].
• Irradiazione del collo
L’irradiazione del collo e del mediastino per malattie benigne è un noto fattore di rischio per lo sviluppo di
IP: una storia di irradiazione del collo è presente nel 15-25% dei pazienti con IP [17; 18; 19]. Poiché tale
procedura terapeutica è in disuso, ci si aspetta che il numero di casi di IP associato alle radiazioni
diminuisca progressivamente in futuro.
• IP e diabete
Recenti studi indicano un’associazione tra IP e diabete mellito [20; 21]. Si è notato come un certo grado di
insulino-resistenza sia presente in pazienti con IP [22].
• IP e tiroide
I dati di Letteratura dimostrano un’alta prevalenza di noduli tiroidei in pazienti con IP [23] con una
incidenza variabile dal 20% al 80% (la maggiore nelle aree endemiche per gozzo). In uno studio italiano,
la prevalenza è del 51,2%, indipendentemente da sesso, età e livelli di PTH [24], non molto più alta di
quella riscontrata nei controlli autoptici [25].
Non è noto se la coesistenza di queste due patologie, entrambe relativamente comuni (particolarmente in
donne in post-menopausa) sia casuale o meno: nelle donne in post-menopausa si attribuisce al deficit di
estrogeni l’aumentata prevalenza di entrambi i disordini, ma non è stato ancora dimostrato [9].
• Terapie croniche
Terapie a lungo termine con diuretici tiazidici, calcio carbonato e litio possono far aumentare l’incidenza e
prevalenza dell’IP: la terapia con litio è associata ad un aumentato rischio di IP [26], mentre l’uso di antiacidi contenenti calcio e terapie croniche con diuretici tiazidici comportano un aumento della calcemia che
rivela forme molto lievi di IP [9].
PATOLOGIA E FISIOPATOLOGIA
L’IP è sostenuto nell’80-85% dei casi da un adenoma singolo (80-85%), nel 15-20% da un’iperplasia
diffusa e in non più dello 0,5% dei pazienti da un carcinoma paratiroideo: il sospetto di malignità sorge in
presenza di una sintomatologia clinica importante e di valori molto elevati di calcemia e PTH sierico [8].
La malattia può presentarsi in forma sporadica e nel 2-3% dei casi, in forma familiare [27], soprattutto
nell’ambito delle Neoplasie Endocrine Multiple (MEN) tipo I o IIa, in cui l’età media di comparsa della
malattia (20-25 aa) è significativamente inferiore rispetto a quella delle forme sporadiche (50-55aa).
Decisamente rara la forma di Iperparatiroidismo familiare isolato [3].
FISIOPATOLOGIA
La secrezione di PTH è controllata con un meccanismo di feed-back negativo dalla concentrazione di
calcio ionizzato presente nei liquidi extracellulari. La relazione tra le concentrazioni di calcio ionizzato e
PTH è di tipo sigmoidale: le paratiroidi sono sensibili anche alle minime oscillazioni dei valori di calcio
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ionizzato e mantengono costantemente nella norma livelli di calcemia mediante la secrezione di PTH.
Piccole variazioni della concentrazione di calcio ionizzato causano importanti modificazioni della
secrezione di PTH; si tratta cioè di un sistema caratterizzato da un “elevato guadagno”. Infatti, le
concentrazioni di PTH sono misurabili anche in presenza di concentrazioni di calcio ionizzato
marcatamente elevate. La quota non sopprimibile o “perdita” di PTH secreto dalle ghiandole soppresse,
può avere un ruolo nella patogenesi dell’iperparatiroidismo primitivo e di quello secondario,
nell’insufficienza renale cronica o dopo il trapianto di rene [28; 29].
Il PTH regola in modo fine la calcemia che, altrimenti, sarebbe soggetta alle brusche variazioni legate
all’introduzione intermittente di calcio con l’alimentazione. Agisce direttamente sull’osso provocandone il
riassorbimento (attraverso la stimolazione di fattori attivanti gli osteoclasti, quale l’IL-6 liberata dagli
osteoblasti) con successiva immissione di sali di calcio nel liquido extracellulare [30]. Agisce direttamente
sul rene aumentando l’escrezione del fosfato e il riassorbimento del calcio a livello del tubulo contorto
distale. Mentre la risposta renale al PTH è più rapida, quella ossea è tipicamente molto più lenta,
probabilmente a causa di una cascata di eventi più complessa. Il PTH aumenta, con meccanismo
indiretto, il riassorbimento di calcio introdotto con gli alimenti: infatti, stimola stimola la 25-idrossi-vitaminaD-1 alfa idrossilasi a livello renale. Questo enzima agisce su un precursore debolmente attivo del
colecalciferolo? (25-idrossi-vitamina D3, calcifediolo) dando origine alla forma attiva, l’1•,25-diidrossivitamina D3 (calcitriolo). L’ormone attivo agisce poi sull’intestino stimolando l’attività di una proteina
legante il calcio e facilitando il trasporto del calcio dal lume intestinale al torrente circolatorio. L’azione
combinata del PTH su rene, osso e intestino aumenta il flusso del calcio verso il liquido extracellulare e
difende l’organismo dall’ipocalcemia [28].
La cellula paratiroidea è unica nella sua capacità di avvertire e rispondere alle modificazioni delle
concentrazioni ambientali del calcio. Il recettore extracellulare sensibile al calcio localizzato sulla
superficie delle cellule paratiroidee, e responsabile della trasduzione del segnale, è stato recentemente
clonato [31]. L’aumento del calcio extracellulare inibisce la secrezione di PTH e la crescita delle cellule
paratiroidee, riduce la 1 alfa-idrossilazione renale della 25-idrossi-vitamina D3 e stimola la secrezione di
calcitonina da parte delle cellule C della tiroide [32].
Il riconoscimento di due condizioni cliniche causate dalla mutazione del recettore del calcio ha confermato
il ruolo chiave che esso gioca nell’omeostasi calcica.
La prima è l’ipercalcemia ipocalciurica familiare (FHH). L’eterozigosi per la mutazione inattivante il
recettore del calcio determina una lieve ipercalcemia e ipocalciuria. Una resistenza relativa porta ad un
innalzamento del set point richiesto per l’inibizione della secrezione del PTH da parte del calcio, così
come ad un’escrezione urinaria di calcio inappropriata. Da notare che il difetto renale persiste dopo
paratiroidectomia totale [33]. In questa condizione i livelli di PTH risultano normali o solo leggermente
aumentati [34].
La seconda condizione è una forma di ipoparatiroidismo a trasmissione autosomica dominante in cui, per
una mutazione attivante, il recettore risulta inappropriatamente sensibile al calcio, con conseguente
soppressione della secrezione del PTH e ipocalcemia [33].
L’IP è un disordine acquisito in cui uno o più cloni di cellule paratiroidee anomale prendono il controllo
dell’omeostasi del calcio, con aumento della concentrazione del calcio extracellulare ed innalzamento del
set point in una o più delle paratiroidi patologiche [31;35;36]. Oltre l’innalzamento del set point della
relazione calcio ionizzato-PTH, anche l’aumento della massa di tessuto paratiroideo patologico
contribuisce ad aumentare la secrezione di PTH [31; 37].
Probabilmente la causa primitiva dell’eccessiva proliferazione delle cellule paratiroidee è una mutazione
somatica nei geni chiave per il controllo della crescita cellulare [38]. Tale crescita autonoma, comunque,
(ad eccezione del caso del carcinoma paratiroideo) sembra essere autolimitantesi. Infatti, una volta
stabilito il nuovo set della concentrazione extracellulare del calcio, gli indici biochimici dell’IP possono
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rimanere sostanzialmente stabili per lunghi periodi di tempo, come si verifica in molti casi di IP lieve [39].
DIAGNOSI E CLINICA
Classicamente definito, sulla base della tipica associazione di sintomi, come la malattia degli
“stones” (calcoli renali), “groans” (dolori addominali), “bones” (malattia scheletrica) e “moans” (disturbi
psichiatrici), l’IP ha oggi radicalmente mutato il proprio profilo clinico : circa l’80% dei pazienti con IP sono
asintomatici e segni e sintomi quando presenti, sono più la conseguenza di una prolungata ipercalcemia
che di elevati livelli di PTH [40; 41]. Un aumento della calcemia comporta astenia, debolezza,
depressione, polidipsia e poliuria, nicturia, stipsi e affaticabilità neuromuscolare [42; 43], ma questo
quadro sintomatologico è raro, poiché nella maggior parte dei pazienti si verifica solo una lieve
ipercalcemia.
Infatti, dati di Letteratura confermano che la frequenza della nefrolitiasi è scesa dal 57% al 19%, quella
delle manifestazioni scheletriche radiologicamente evidenti dal 23 al 2% (la radiografia dello scheletro
non viene richiesta di routine né raccomandata nel follow up [44]); la classica malattia neuromuscolare è
sostanzialmente scomparsa e altre storiche descrizioni, quali pancreatite e ulcera peptica sono talmente
rare da non poter descrive alcun trend di incidenza [1].
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
La diagnosi di IP si basa sul riscontro di ipercalcemia persistente associata a valori di PTH elevati o
inappropriatamente ai limiti superiori della norma: un valore di PTH nella metà superiore del range di
riferimento, in presenza di elevati livelli di calcemia, è inappropriato ed è altamente suggestivo per
iperparatiroidismo primitivo [39; 45].
La misurazione del PTH plasmatico è in genere sufficiente per differenziare l’IP dalle altre cause di
ipercalcemia (tabella 1). Le neoplasie maligne rappresentano la più frequente causa di ipercalcemia nel
paziente ospedalizzato [46]. Nell’ipercalcemia ipocalciurica familiare (FHH), patologia ereditaria a
trasmissione AD ed evoluzione benigna, è presente un’ipercalcemia in genere moderata e ipocalciuria
relativa. Gli elementi che indirizzano verso la diagnosi di FHH sono un’anamnesi positiva per la presenza
di ipercalcemia dalla nascita, la familiarità, il rapporto clearance del calcio/clearance della creatinina <0,01
e i valori di PTH plasmatici normali o moderatamente elevati [47].
Esami di laboratorio
• PTH (molecola intatta): Nel considerare il range della norma del PTH (generalmente compreso tra 10 e
65 pg/ml) [3] bisogna tenere presente che i livelli circolanti dell’ormone variano in relazione all’età e alla
razza (valori più elevati si riscontrano negli anziani e negli afro-americani rispetto ai caucasici).
• Calcemia: La calcemia è elevata (>10,5 mg/dl) nella maggior parte dei pazienti; solo occasionalmente
risulta nei limiti della norma, e in questi l’ipercalcemia compare nei controlli successivi, anche se in modo
talvolta intermittente. Esistono casi di IP normocalcemici [48], in cui l’ipercalcemia può essere
“mascherata” da un concomitante deficit di vitamina D, problema di notevole rilevanza soprattutto negli
anziani, oppure di una coesistente condizione di ipoalbuminemia. In quest’ultimo caso è necessario
ricorrere alla misurazione del calcio ionizzato o correggere i valori di calcemia aumentandoli di 0,8 mg/dl
per ogni gr/dl di riduzione della concentrazione di albumina.
• Fosforo: Nell’IP i livelli sierici di fosforo sono in genere ai limiti inferiori di normalità. Risultano
francamente ridotti (<2,5 mg/dl) nel 25% circa dei pazienti [8].
• Calciuria: Il PTH stimola il riassorbimento di calcio, quindi si verifica ipercalciuria quando il filtrato di
calcio supera la capacità massima di riassorbimento tubulare. In oltre la metà dei pazienti con IP si
osservano valori di calciuria delle 24 h ai limiti superiori della norma, mentre ipercalciuria è riscontrabile in
almeno 40% dei casi [8].
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• Vitamina D: Il PTH favorisce la conversione renale della 25-idrossi-vitamina D3 in 1,25-diidrossi-vitamina
D3. Nei pazienti iperparatiroidei i livelli di 25-idrossi-vitamina D3 (abitualmente dosata nella routine clinica)
tendono ad essere quindi nel range inferiore di norma. I valori medi di 1,25-diidrossi-vitamina D3
(raramente dosata nella routine clinica) sono invece nel range superiore della norma e circa un terzo dei
pazienti presenta valori francamente elevati [8].
• Parametri di turnover osseo: Nell’iperparatiroidismo aumentano sia gli indici di neoformazione ossea
(fosfatasi alcalina e in particolare l’isoenzima osseo, osteocalcina, protocollagene tipo 1) sia gli indici di
riassorbimento osseo (idrossiprolina, idrossipiridinolina, telopeptide N- e C-terminale del collagene tipo I).
I marcatori di turnover osseo non hanno utilità nella diagnosi di malattia, mentre costituiscono parametri
utili per monitorare il grado di coinvolgimento di tessuto osseo e l’eventuale risposta al trattamento.
IPERPARATIROIDISMO PRIMITIVO E RENE
Una franca ipercalciuria, definita come escrezione urinaria totale del calcio nelle 24 h >250 mg nelle
donne o >300 mg nei maschi, si presenta nel 35-40% dei pazienti con IP [49]. In questi pazienti c’è
maggior rischio di sviluppare litiasi renale [1]. Si parla invece di nefrocalcinosi in caso di deposito di sali
di calcio (fosfato di calcio, ossalato di calcio etc.) nel parenchima renale.
IPERPARATIROIDISMO PRIMITIVO E OSSO
Il numero di pazienti con osteite fibrosa cistica è oggi divenuto molto esiguo (<0,5%) e la
manifestazione ossea di più frequente riscontro è la riduzione della densità ossea (circa 25%) [27].
Il PTH ha un’azione catabolica sull’osso corticale e anabolica sull’osso spongioso; pertanto, nell’IP l’osso
corticale è il sito prevalentemente interessato, mentre l’osso spongioso viene relativamente risparmiato
[1]. La densitometria ossea è una metodica di fondamentale importanza [50,51]. I valori densitometrici in
genere si presentano alterati a livello del terzo distale del radio (prevalentemente osso corticale),
minimamente ridotti a livello del rachide lombare (prevalentemente osso spongioso) e mediamente alterati
a livello femorale (con percentuale intermedia di osso corticale e spongioso). Le donne in postmenopausa con IP, infatti, si dissociano dal tipico quadro associato al deficit di estrogeni, caratterizzato
da perdita di massa ossea prevalente a carico dell’osso spongioso: tale osservazione suggerisce che l’IP
potrebbe proteggere le donne in post-menopausa dalla perdita di massa ossea secondaria alla carenza
estrogenica [1].
La storia naturale del coinvolgimento scheletrico nei pazienti iperparatiroidei non trattati, non è ancora a
tutt’oggi completamente chiara. In pazienti con IP lieve seguiti per un periodo di 10 anni, non si è
evidenziato nessun cambiamento significativo nella densità minerale ossea [39]. Altri studi riportano
risultati differenti [52,53].
Tutti i dati concordano, comunque, sull’evidenza di un consistente recupero di massa ossea dopo
paratiroidectomia. L’effetto si osserva nei primi anni dopo l’intervento e prosegue nei 10 anni successivi;
la percentuale di recupero arriva fino al 10-12% a livello dell’osso corticale [39].
MANIFESTAZIONI CLINICHE ASSOCIATE
Tra gli altri organi potenzialmente coinvolti nell’IP non è agevole stabilire una chiara relazione
fisiopatologica, soprattutto nelle forme di IP lieve [54; 55; 56]. Manifestazioni cliniche descritte in
associazione all’IP:
Sindrome neuromuscolare: è caratterizzata da facile affaticabilità e astenia dei cingoli prossimali, tende a
regredire dopo il trattamento chirurgico;
Sindrome neuropsichiatria: si manifesta con depressione, deficit cognitivi e sindromi ansiose, ma in realtà
non è stata mai caratterizzata, anche perché non si osserva una chiara modificazione della sintomatologia
dopo la paratiroidectomia [8].
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ventricolare sinistra. Quest’ultimo parametro regredirebbe dopo un anno dall’intervento chirurgico in
pazienti iperparatiroidei non ipertesi [57].
METODICHE DI IMAGING
Nel 1991 il National Institute of Health (NIH) Consensus Development Conference Panel negli Stati Uniti
stabilì che la localizzazione pre-operatoria delle paratiroidi nei pazienti senza un precedente intervento sul
collo è raramente indicata e non ha un provato rapporto costo/beneficio [4]. Infatti, data l’abilità del
chirurgo di curare più del 95% di pazienti con iperparatiroidismo senza il supporto di immagini preoperatorie [58] le indicazioni all’imaging pre-operatorio dovrebbero essere limitate ad una minoranza di
pazienti, per esempio quelli con IP persistente o ricorrente. Per questa ragione un gran numero di
chirurghi utilizza l’approccio con Bilateral Neck Exploration senza alcuna procedura di localizzazione [59,
60].
In realtà altri numerosi fattori giustificano l’utilità di uno studio di imaging delle paratiroidi: per esempio,
l’ipotesi di una localizzazione ectopica delle paratiroidi (intratiroidea, retroesofagea, laterocervicale o
mediastinica) e la possibilità di diagnosticare pre-operatoriamente patologie cervicali concomitanti,
modificando in anticipo il programma operatorio e riducendo i tempi chirurgici e la frequenza di
complicanze [3].
Le tecniche di imaging non invasive per lo studio delle paratiroidi includono l’uso della scintigrafia con
99m Tecnezio senza o con tomografia con emissione di fotone singolo (SPECT), l’ecografia (US), la
tomografia assiale computerizzata (TAC) e la risonanza magnetica (RM).
La TAC e la RM sono spesso impiegate per la valutazione pre-operatoria del paziente con
iperparatiroidismo, specialmente nei casi in cui è persistente o ricorrente, quando la probabilità di
presenza di ghiandole ectopiche è alta. In caso di una localizzazione ectopica nel mediastino, la qualità
superiore della TAC e della RM in termini di risoluzione d’immagini, associata alla localizzazione
tridimensionale, permette al chirurgo di pianificare l’intervento in modo ottimale. In ogni caso la TAC è
limitata dalla difficoltà nella diagnosi differenziale con le strutture anatomiche che hanno una densità
simile e dagli artefatti [61]. La RM sembra essere più affidabile grazie alla capacità di caratterizzare le
lesioni nelle immagini T1- e T2- pesate, la possibilità di evidenziare l’enhancement con mezzo di
contrasto e la possibile ricostruzione tridimensionale. Per questi vantaggi la RM può competere con la
Scintigrafia Paratiroidea. Tra le limitazioni della RM: assenza di un’intensità di segnale caratteristica per le
lesioni paratiroidee [62; 63]; noduli tiroidei e linfonodi possono apparire come paratiroidi aumentate di
volume [63; 64]; la risoluzione spaziale della RM è inferiore rispetto a quella dell’ecografia e pertanto
ghiandole anomale di piccole dimensioni possono sfuggire alla RM [63; 65].
Le tecniche di localizzazione invasive, quali l’arteriografia e il cateterismo venoso selettivo per il PTH,
sono indicate solo quando gli studi non invasivi non hanno avuto successo. Queste risultano, comunque,
procedure lunghe, costose e di difficile esecuzione, dipendenti, inoltre, dall’abilità dell’operatore.
In pazienti che hanno già subito un precedente intervento sul collo, le tecniche di localizzazione diventano
indispensabili anche in mano ad un chirurgo esperto e, in linea di massima la scintigrafia con o senza
l’ausilio dell’US, è la procedura migliore per identificare il tessuto paratiroideo localizzato in prossimità
della tiroide; la TAC e la RM sono indicate in casi di recidiva e per la ricerca di tessuto paratiroideo
ectopico [66; 67; 68].
ECOGRAFIA
Lo studio di immagine del paziente iperparatiroideo inizia generalmente con l’ecografia della regione
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cervicale. Nella maggior parte dei casi l’adenoma paratiroideo si caratterizza come una formazione
ipoecogena, grossolanamente ovalare, clivata dal parenchima tiroideo, situata in corrispondenza del
margine posteriore di un lobo tiroideo. La sensibilità della metodica, aumentata negli ultimi anni grazie alle
sonde a elevata frequenza (10-13 MHz), si colloca tra il 67% e l’87% [63; 69; 70; 71; 72]. La specificità
dell’US varia dal 95 al 100% [73; 74; 75]. La frequente concomitante patologia nodulare tiroidea, riduce la
sensibilità dell’US paratiroidea [72, 76]; infatti, noduli tiroidei e linfonodi costituiscono le cause più
frequenti di identificazioni falsamente positive. Lo studio color Doppler fornisce utili informazioni ai fini di
una corretta diagnosi differenziale: la lesione paratiroidea si caratterizza in genere per un evidente ilo
vascolare, e viceversa non presenta la captazione di colore periferica frequente in molti noduli tiroidei
[69]. Tra i vantaggi della metodica: la rapidità, il basso costo e le informazioni anatomiche-topografiche.
SCINTIGRAFIA PARATIROIDEA
Nell’ambito della Scintigrafia Paratiroidea (SP) , è stata introdotta, negli anni ’90, la tecnica a doppia
fase (dual-phase) e singolo tracciante con il 99m Tc -sestamibi (MIBI). Questa tecnica si basa sul fatto
che il picco di accumulo del 99m Tc-sestamibi a livello sia della tiroide che delle paratiroidi avviene nei
primi minuti dopo l’iniezione dell’indicatore; successivamente il wash-out del MIBI avviene più
rapidamente dalla tiroide rispetto alle paratiroidi. In questo modo, l’immagine MIBI precoce sarà
“mista” (tiroidea e paratiroidea), mentre nell’immagine tardiva, almeno teoricamente, si osserverà
persistenza dell’indicatore solo a livello delle paratiroidi [77]. La tecnica con doppia fase è semplice da
realizzare, non richiede una prolungata immobilizzazione del collo del paziente, è facile da interpretare, è
economica, e ha dimostrato di avere alta sensibilità e specificità, in particolare nell’iperparatiroidismo
primitivo [78, 79]. Tra i limiti: non permette di effettuare un’accurata diagnosi di eventuali patologie tiroidee
nodulari associate; noduli tiroidei possono captare e ritenere il tracciante, come gli adenomi paratiroidei,
causando falsi positivi e diminuendo l’accuratezza della scintigrafia [78, 80].
La captazione del MIBI da parte delle paratiroidi è molto variabile: non sempre si verificano i corretti tempi
di wash-out (più rapido da parte della tiroide, più tardivo da parte delle paratiroidi): talvolta il tempo di
residenza intracellulare del MIBI nelle cellule tiroidee e paratiroidee è sovrapponibile, e questa condizione
può essere causa di falsi negativi [81; 82].
Per questo motivo, si ritiene sia da preferire la tecnica scintigrafica con doppio tracciante [61; 77; 83; 84;
85; 86; 87]. L’unico potenziale limite di questa tecnica è rappresentato dalla necessità di mantenere
immobilizzato il collo del paziente per il periodo di acquisizione dell’esame scintigrafico.
Secondo una recente metanalisi, sensibilità e specificità della metodica risultano rispettivamente del
90,7% e 98,8% [7]: si evince così come la scintigrafia paratiroidea può essere utile nell’indirizzare verso
un approccio chirurgico di esplorazione unilaterale del collo.
La scelta tra le due diverse tecniche (ecografia e scintigrafia) dipende dalla locale disponibilità di operatori
abili ed esperti per ciascuna delle metodiche. Tra i sicuri vantaggi dell’ecografia: ha un basso costo, è
conveniente, non espone a radiazioni, fornisce dettagli anatomici ed informazioni su coesistenti noduli
tiroidei. D’altro canto la scintigrafia ha una maggiore sensibilità ed è in grado di identificare adenomi
paratiroidei ectopici [88], potrebbe quindi essere proposta come metodica di localizzazione iniziale, in
particolare in tutti quei pazienti che recidivano dopo un intervento di paratiroidectomia e in cui si sospetti
un adenoma paratiroideo ectopico [89].
Sfortunatamente queste due metodiche di localizzazione hanno un’accuratezza di solo il 35% nei pazienti
con patologia paratiroidea multipla [90; 91].
INDICAZIONI CHIRURGICHE
Il trattamento chirurgico è attualmente l’unico provvedimento efficace e risolutivo nell’IP. Vi è generale
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consenso sull’indicazione al trattamento chirurgico nei pazienti con IP sintomatico, con chiari segni e
sintomi di malattia, ovvero segni radiologici di iperparatiroidismo (osteite fibroso cistica), nefrolitiasi o
nefrocalcinosi, frattura, malattia classica neuromuscolare, episodio di IP acuto [48].
Alla luce dei cambiamenti nel profilo clinico dell’IP è stato necessario ridefinire delle linee guida riguardo i
criteri diagnostici, il trattamento, il follow up e le indicazioni chirurgiche per tutti quei pazienti affetti dalla
malattia che risultino asintomatici (80%). È quanto stabilito dalla Consensus Development Conference on
the Management of Asymptomatic primary hyperparathyroidism del 1990, in cui si sottolinea che anche in
pazienti asintomatici, una serie di parametri possono essere identificati come probabili fattori di rischio di
sviluppare complicanze dell’IP [5, 92].
In base a quanto detto, il trattamento chirurgico veniva raccomandato in presenza di una delle seguenti
condizioni: 1) concentrazione del calcio sierico maggiore di 1-1,6 mg/dl oltre il limite superiore del range di
riferimento; 2) escrezione urinaria di calcio totale nelle 24 h confermata maggiore di 400 mg; 3) creatinina
clearance ridotta del 30%, se comparata con soggetti normali della stessa età; 4) densità minerale ossea
ridotta di 2 deviazioni standard rispetto alla densità ossea di soggetti/controllo della stessa età, genere e
razza (Z-score<-2,0 SD); 5) età inferiore ai 50 anni; 6) pazienti in cui un follow up medico non è
consigliabile (altre malattie coesistenti) o non possibile.
Un recente Workshop (aprile 2002) ha rivalutato questi parametri anche in base ai nuovi sviluppi in campo
medico e chirurgico. Le nuove raccomandazioni non riguardano i pazienti sintomatici, in cui l’unica
indicazione resta la chirurgia, bensì i casi di IP asintomatico. Le modifiche rispetto alle Linee Guida del
1990 riguardano: 1) riduzione del valore della calcemia a 1 mg/dl oltre il limite della norma; 2) valutazione
del danno osseo utilizzando il T-score, il cui valore per la raccomandazione chirurgica deve essere < 2,5
SD; rimangono immodificate le altre indicazioni riguardanti l’età e la funzione renale [5] (tabella 2).
Nel Workshop, inoltre, si sottolinea che è essenziale il monitoraggio di tutti i pazienti che non vengono
sottoposti al trattamento chirurgico. Il calcio sierico deve essere dosato due volte l’anno; la densità
minerale ossea, valutata in corrispondenza di tutti e tre i siti (colonna lombare, femore e braccio) viene
raccomandata una volta l’anno. Riguardo la funzione renale, vengono distinte le raccomandazioni per la
valutazione iniziale e per il monitoraggio. La calciuria delle 24 h, la clearance della creatinina e l’Rx e/o
ecografia dell’ addome (per identificare eventuali calcoli renali silenti), vengono raccomandati solo nella
valutazione iniziale. Nel monitoraggio si raccomanda la misurazione annuale della creatinina nel siero [5].
Un confronto tra le raccomandazioni del 1990 e le nuove rivisitate dal Workshop del 2002 sono elencate
nella tabella 3.
TRATTAMENTO
La chirurgia è il trattamento di scelta dell’IP quando la diagnosi di localizzazione è certa o molto sospetta
[93].
CHIRURGIA
La terapia chirurgica comprende la rimozione, a seconda dei casi, dell’adenoma o del carcinoma.
L’approccio chirurgico standard tradizionale nell’IP è rappresentato dall’esplorazione bilaterale del collo
(BNE) , che raggiunge una percentuale di successo fino al 95% dei casi [59]. Risulta efficace in tutti i tipi
di iperparatiroidismo, primario, terziario e ricorrente. Il fallimento è dovuto alla presenza di ghiandole
ectopiche o multiple o mancanza di esperienza chirurgica [94]. La tecnica consiste in una cervicotomia di
8-10 cm, esplorazione bilaterale del collo, identificazione di tutte e 4 le ghiandole, asportazione
dell’adenoma e biopsia di una ghiandola apparentemente normale [95]. Il tempo medio di questi interventi
è intorno ai 90 minuti, la degenza post-operatoria di 3-4 giorni [96].
Negli ultimi 10 anni il miglioramento delle tecniche di imaging scintigrafico [97] e la possibilità del
dosaggio intraoperatorio del PTH (IOPTH) hanno condotto allo sviluppo di una chirurgia localizzata: una
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caduta dei livelli di PTH di più del 50% 10 minuti dopo la rimozione dell’adenoma paratiroideo, è un
accurato indice della rimozione del tessuto iperfunzionante, con un valore predittivo variabile dal 96% al
100% [98; 99]. Sfortunatamente il dosaggio dell’IOPTH non è accurato in caso di patologia paratiroidea
multipla e risulta appropriato solo nel 50% di questi pazienti [90; 100]. I livelli di IOPTH possono ridursi di
più del 50% in alcuni dei pazienti con patologia paratiroidea multipla anche se una paratiroide anormale è
ancora nel collo; la ragione di questa riduzione non è nota: è forse imputabile ad un alterato set point del
recettore per il calcio o per il PTH che si verifica in questi tumori [90; 100].
In pazienti con Iperparatiroidismo primitivo con un’alta probabilità di essere affetti da un singolo adenoma
delle paratiroidi, sono state descritte varie tecniche di esplorazione unilaterale (UNE) : molte consistono
nell’asportazione dell’adenoma paratiroideo e biopsia della ghiandola omolaterale sana in modo da
escludere la presenza di iperplasia.
Tra i vantaggi dell’approccio UNE: a) riduzione dei tempi e dei costi operatori; b) ridotta morbidità e c)
ridotto potenziale di complicanze quali ipoparatiroidismo e danno del nervo laringeo ricorrente.
Adoperando abitualmente pre-intervento la scintigrafia paratiroidea con 99mTc-sestamibi si
aumenterebbe la percentuale dei pazienti iperpartiroidei potenzialmente candidati per l’UNE. Hindiè et al
hanno riportato sempre migliori risultati in un recente lavoro [101].
La chirurgia miniinvasiva (MIP) prevede una incisione mediana di circa 1,5 cm, asportazione
dell’adenoma, eventuale biopsia anche sull’altra ghiandola (omolaterale). I tempi medi sono di circa 45
minuti (1 ora per la BNE) [94].
Nell’iperplasia diffusa e nelle MEN, può essere effettuata la rimozione di tre paratiroidi e di metà della
quarta, o la rimozione totale con impianto parziale nei muscoli dell’avambraccio per poter meglio
controllare le recidive [93].
A seguito dell’intervento può verificarsi ipocalcemia transitoria o prolungata (causata dalla ricalcificazione
ossea), che può richiedere supplementazione di calcio, vitamina D ed eventualmente magnesio [93]. Il
fenomeno dell’hungry bone è responsabile di alcuni casi di grave ipocalcemia post-operatoria
nell’iperparatiroidismo, indipendentemente dai livelli del PTH post-operatorio. Si verifica in pazienti che
hanno sviluppato nella fase pre-operatoria un aumentato riassorbimento osseo indotto da elevati livelli di
PTH (osteite fibrosa). L’improvviso crollo postoperatorio del valori di PTH, induce uno squilibrio tra la
formazione e il riassorbimento dell’osso, con aumento dell’uptake osseo di calcio, fosfato e magnesio.
Sono stati inoltre descritti casi di hungry bone anche in pazienti sottoposti a tiroidectomia totale per
ipertiroidismo (a causa dell’elevato turnover osseo indotto dall’eccesso di ormoni tiroidei) e in pazienti
sottoposti a terapia estrogenica per carcinoma prostatico metastatico. Criteri predittivi del rischio di
sviluppare il fenomeno dell’hungry bone sono: le dimensioni dell’adenoma, la concentrazione sierica
preoperatoria di azoto ureico, la concentrazione sierica preoperatoria di fosfatasi alcalina e l’età avanzata.
Non risultano predittivi i livelli sierici preoperatori di calcio e PTH. Il trattamento dell’hungry bone è
finalizzato alla correzione degli squilibri elettrolitici. Relativamente al trattamento dell’ipocalcemia, non ci
sono studi che confrontano l’efficacia della somministrazione per os ed ev di calcitriolo.
Infine va sottolineato che l’ipocalcemia postoperatoria nei pazienti iperparatiroidei, dovuta al crollo dei
valori di PTH ed al fenomeno dell’ “hungry bone”, può essere aggravata dall’uso nell’immediata fase
preoperatoria di bifosfonati, in particolare delle formulazioni più potenti e ad azione più prolungata come
l’acido zoledronico [102].
TERAPIA MEDICA
La terapia medica va riservata ai casi a rischio chirurgico o in attesa dell’intervento e ha come scopo la
riduzione della calcemia. Un atteggiamento conservativo viene suggerito anche nelle forme di IP “lieve”
asintomatico [92] con modesta elevazione della calcemia, soprattutto quando non è chiara la diagnosi di
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localizzazione. In questi casi, è comunque necessario uno stretto follow-up, con controllo almeno annuale
di calcemia, calciuria e funzionalità renale. In questi casi, si suggerisce di tenere una dieta a basso tenore
di calcio, di incrementare l’apporto di liquidi e di aumentare l’attività fisica [93].
Il trattamento dell’ipercalcemia viene considerato obbligatorio per valori di calcemia superiori a 14 mg/dl. I
meccanismi che conducono all’ipercalcemia nel paziente iperparatiroideo si fondano essenzialmente
sull’aumento del riassorbimento del calcio a livello osseo e renale. Un fattore di aggravamento è costituito
dalla poliuria indotta dall’ipercalcemia stessa. L’ipercalcemia può causare iporessia e questo concorre a
indurre uno stato di disidratazione destinato ad aggravare ulteriormente il quadro.
Il trattamento dell’ipercalcemia si fonda pertanto sul controllo del bilancio idroelettrolitico e
sull’antagonizzazione del riassorbimento osseo [3].
• Bilancio idroelettrolitico: il paziente deve essere adeguatamente idratato, preferibilmente con soluzione
salina, consentendo un miglioramento della filtrazione glomerulare e della clearance del calcio. L’entità di
infusione dei liquidi, generalmente compresa tra 2 e 4 l/die, va stabilita sulla base del quadro clinico
generale. L’impiego di diuretici dell’ansa (ad esempio la furosemide) è indicato solo una volta che il
paziente sia adeguatamente idratato [103].
• Riassorbimento osseo: il trattamento chirurgico si associa al miglioramento della densità minerale
ossea, in particolare a livello del distretto lombare e femorale [39]. In alternativa, nei pazienti
iperparatiroidei con manifestazioni scheletriche, non sottoposti a chirurgia, può trovare indicazione il
trattamento con estroprogestinici (Hormon Replacement Therapy HRT), raloxifene o bifosfonati.
o HRT: l’HRT viene proposta come valida scelta terapeutica nelle pazienti in post-menopausa in cui tale
trattamento non è controindicato. In uno studio randomizzato controllato, il trattamento a lungo termine
con HRT si associa ad un significativo aumento della densità minerale ossea, con un guadagno del 4-8%
sia a carico dell’osso corticale che trasecolare [53]. L’HRT a lungo termine determina una lieve riduzione
dei livelli di calcemia, mentre i valori di PTH rimangono stabili, e rappresenta una componente importante
nel trattamento conservativo delle donne con IP in post-menopausa.
o Raloxifene: trial clinici preliminari sembrano suggerire l’efficacia del raloxifene sulle manifestazioni
scheletriche dell’IP [104]. Il trattamento (60-120 mg/die) determina una riduzione dei valori di calcemia
mentre non si osservano modificazioni significative dei livelli di PTH sierico.
o Bifosfonati: farmaci inibitori dell’attività osteoclastica, rappresentano attualmente il farmaco di elezione
nel controllo del riassorbimento osseo. La scelta del dosaggio si fonda sull’entità dell’ipercalcemia e sulle
condizioni generali della funzionalità renale del paziente [103]. In uno studio italiano condotto su 26 donne
di età superiore ai 65 anni affette da IP di grado live ed osteoporosi, l’impiego di alendronato al dosaggio
di 10 mg a giorni alterni ha determinato un significativo aumento della densità ossea (+7%) in tutti i
distretti esaminati [105]. Recentemente Parker e coll. [106] hanno confermato l’efficacia del farmaco
(10mg/die) sui paramentri di densità minerale ossea con un incremento significativo in particolare a livello
del distretto vertebrale. La terapia con bifosfonati determina una modesta e transitoria riduzione dei valori
di calcemia accompagnata da un aumento dei valori di PTH. Sono utilizzabili anche le formazioni per os
settimanali di alendronato (70 mg) e risedronato (35 mg) e, off label, di nerindronato (Nerixia) 25 mg i.m. 1
volta al mese.
Nel trattamento dell’ipercalcemia più severa [93]:
• aumentare la diuresi e la natriuresi (che si associa ad aumentata eliminazione urinaria di calcio)
mediante abbondante idratazione (fino a 6 litri al giorno) ed eventualmente furosemide (100 mg e.v. per 2
volte al giorno). Un elevato apporto di sale (8-10 grammi al giorno), se tollerato, aumenta la calciuria;
all’opposto, i diuretici tiazidici riducono la calciuria e vanno evitati.
• Bifosfonati e.v.:
- Pamidronato (Aredia, 60-90 mg in dose unica in infusione lenta);
http://www.endocrinologiaoggi.it/articolo.php?IDArt=56 (10 di 16)24/06/2010 11.12.53
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- Acido zoledronico (Zometa f.le 4 mg) 4 mg in dose unica e.v. in 15’;
- Clodronato (Clasteon, Difosfonal) 200-300 mg in dose unica e.v. in infusione lenta.
L’acido zoledronico è un acido bifosfonico che inibisce il riassorbimento dell’osso mediato dagli
osteoclasti, inducendone l’apoptosi, senza influenzare negativamente la formazione, la mineralizzazione o
le proprietà meccaniche dell’osso stesso.
L’acido zoledronico è 100 volte più potente del pamidronico: la dose richiesta è minore e può essere
somministrata in un periodo di infusione più breve (15 minuti vs 2-4 ore). Confrontando gli effetti dell’acido
zoledronico rispetto al pamidronico, il tempo mediano per la normalizzazione della calcemia è stato di 4
giorni. Il tempo mediano di recidiva è stato di 30-40 giorni per lo zoledronico rispetto ai 17 giorni dei
pazienti trattati con pamidronico.
L’acido zoledronico, somministrato per via e.v., non viene metabolizzato ed è escreto immodificato per via
renale. Dopo le prima 24 ore, più del 50% della dose è presente nelle urine, mentre la parte restante è
legata al tessuto osseo. Dal tessuto osseo, il farmaco è rilasciato lentamente in circolo ed è eliminato per
via renale.
In vitro, l’acido zoledronico non inibisce gli enzimi del citocromo p450, non presenta biotrasformazione e,
negli studi su animale, una quantità < 3% è escreto con le feci, a supporto del fatto che la funzione
epatica non esplichi un ruolo rilevante nella farmacocinetica dell’acido zoledronico. Il farmaco non ha
affinità per i componenti cellulari del sangue e il legame alle proteine plasmatiche è di circa il 22%.
• Bifosfonati per os:
- Etidronato (Etidron cpr 300 mg) 10-20 mg pro kg al giorno;
- Clodronato (Clasteon, Difosfonal cpr 400 mg) 400 mg al giorno;
- Risedronato (Actonel, Optinate cpr 5-35 mg) 5 mg al giorno; 35 mg 1 volta a settimana;
- Aledronato (Fosamax, Dronal, Alendros, Adronat cpr 10-70 mg) 10 mg al giorno; 70 mg 1 volta a
settimana;
• Calcitonina: 4 UI/kg s.c. o i.m. o e.v. ogni 12 ore;
• Corticosteroidi e.v. (idrocortisone 100-300 mg o prednisone 50 mg al giorno): particolarmente efficaci
nell’ipercalcemia da intossicazione da vitamina D.
• Calciomimetici: agiscono sui recettori del calcio presenti sulla cellula paratiroidea inibendo la secrezione
di PTH. Il cinacalcet (Mimpara cpr 30-60-90 mg) è indicato attualmente nell’iperparatiroidismo secondario
a IRC e nel carcinoma paratiroideo.
Studi recenti hanno dimostrato una riduzione dei livelli di calcemia e PTH nell’iperparatiroidismo primario
trattato con 30 mg 2 volte al dì, facendo prospettare un futuro uso più ampio del cinacalcet in questa
condizione [107].
• L’EDTA e la mitramicina sono talmente tossici che il loro uso, con estrema cautela, è riservato a gravi
emergenze ipercalcemiche.
• Il propranololo e la cimetidina a lungo termine sembrerebbero in grado di ridurre la calcemia e i livelli di
PTH nelle forme primarie [93].
Prof. Salvatore M. Corsello
Dott.ssa Rosalba Massaro
Dott.ssa Maria Pia Ricciato
Dott.ssa Rosa Maria Paragliola
e-Mail: [email protected]; Telefono: 06.3219418
Cattedra di Endocrinologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Policlinico “A. Gemelli”, Roma
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