A lezione di nonviolenza Nanni Salio Che cos`è la nonviolenza Per
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A lezione di nonviolenza Nanni Salio Che cos`è la nonviolenza Per
A lezione di nonviolenza Nanni Salio Che cos’è la nonviolenza Per cercare di definire che cosa intendiamo per nonviolenza (nv), possiamo cominciare da un approccio molto pragmatico mediante alcune variabili che ci aiutano a costruire una mappa (fig.1). Sull'asse verticale indichiamo un approccio individuale (in alto) o collettivo (in basso), mentre sull'asse orizzontale indichiamo la dimensione religiosa (a destra) e quella politica (a sinistra). In ciascuno dei quattro quadranti possiamo rappresentare sia temi, sia esperienze che si sono sviluppati nel passato o sussistono tuttora. Otteniamo non una definizione, ma un quadro quasi fotografico. Nel quadrante in alto a sinistra (individuale-religioso) la nv assume un carattere prevalentemente di natura esistenziale e filosofico, mentre in quello in basso a sinistra (collettivoreligioso) rientrano le grandi religioni che hanno tutte quante, in misura maggiore o minore, un contenuto di nv più o meno esplicitato e più o meno praticato. Tutte le principali religioni (islam, cristianesimo, ebraismo, induismo, buddhism) esprimono un contenuto di nv, che pur essendo stato più volte trascurato, calpestato, costituisce una dimensione fondamentale di ogni civiltà e cultura ed è pertanto indispensabile riscoprirne la presenza in ciascuna religione. individuale Passando ai due quadranti della nv politica, possiamo ricordare come caso significativo a livello individuale Pietro Pinna, che nel 1949 con il suo rifiuto di prestare il servizio militare diede inizio alle lotte per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza. (Pietro Pinna, La mia obbiezione di coscienza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona 1994.) Da solo, ebbe il coraggio, nell'Italia di quegli anni, di rifiutare la divisa. Alcuni avrebbero potuto considerarlo un visionario, un folle, la cui azione era priva di significato. Invece, dopo 23 anni il suo gesto di disobbedienza civile si traduce in una legge dello stato. Il movimento degli obiettori di coscienza nasce, in Italia, proprio dal suo rifiuto, e produce, nell'arco di due decenni, un risultato politicamente concreto. Infine, nel quadrante in basso a destra ci sono i movimenti nonviolenti, che operano con continuità nel tempo, con alti e bassi e risultati più o meno positivi. Di questa area, che si propone obiettivi politici di cambiamento radicale della società, fanno parte vari gruppi, tra i quali in Italia, oltre ai due movimenti storici, MIR- Movimento Nonviolento, ricordiamo i Beati Costruttori di Pace e Pax Christi. Ma la persona che più di altre ha contribuito alla diffusione della nv nel secolo scorso è il Mahatma Gandhi, al quale si ispirarono altri maestri della nv: Martin Luther King negli USA, Nelson Mandela in Sudafrica, Aldo Capitini e Lanza del Vasto in Italia. L’eredità di Gandhi appartiene al mondo intero, e uno scienziato come Albert Einstein lo ammirò tanto da affermare che “le generazioni future faticheranno probabilmente a credere che un uomo simile si sia mai realmente aggirato in carne ed ossa su questa terra”. La nv intesa alla Gandhi tende a comprendere tutti e quattro i quadranti, senza alcuna separazione significativa tra individuale e collettivo, religioso e politico. Ma ciascuno di noi si accosta alla nv seguendo percorsi assai diversi e comincia a sviluppare maggiormente gli aspetti che gli sono più congeniali. C'è chi ha più sensibilità per un coinvolgimento nella vita quotidiana, chi è più interessato alla vita politica collettiva. Tuttavia, la mappa della nv è più complessa e comprende tutti quanti gli approcci. Passando a una analisi più formale, possiamo dire che la nv è caratterizzata da due aspetti principali che si integrano tra loro: ahimsa e satyagraha. Il primo è la “legge dell’amore”, il principio del non uccidere, del non commettere violenza, della innocenza, del non aggiungere altra sofferenza a quella già esistente e insita nella condizione umana. Il secondo fu coniato da Gandhi e dai suoi collaboratori in una data fatidica, l’11 settembre 1906 (l’ “altro 11 settembre”) e costituisce una sfida alla cultura politica contemporanea, largamente centrata sulla violenza. Possiamo tradurre il termine satyagraha con “forza della verità”, oppure forza che deriva dalla ricerca incessante della verità, o ancora “dire la verità ai potenti”. E’ l’espressione della nv attiva, intesa come lotta contro tutte le ingiustizie senza arrecare altre ingiustizie. Mentre l’ahimsa esprime un rifiuto, un non commettere violenza, il satyagraha si richiama al principio del non omettere, non lasciare che altri facciano violenza e ingiustizia. : Non commettere ahimsa Nonviolenza = satyagraha Non omettere Alcuni maestri della cultura della nonviolenza GANDHIÆ E’ il più noto esponente della filosofia della nonviolenza. L’11 settembre 1906 (l’”altro 11 settembre”) propone il satyagraha (“forza della verità”) che si basa sul principio di cercare e dire la verità (“Speak truth to power”, dire la verità al potere, o ai potenti). L’azione è condotta in modo che la verità si manifesti e si imponga, perché il potere si basa fondamentalmente sulle omissioni e sull’inganno BADSHAH KHANÆ il Gandhi della frontiera, leader del movimento nonviolento islamico nell’India prima della partizione, ha costituito un esercito formato da 100.000 resistenti nonviolenti caratterizzati da una giubba rossa . E’ l’ esempio più significativo di Islam nonviolento. ALDO CAPITINIÆ religioso laico, resistente nonviolento durante il fascismo, esprime un approccio filosofico e pedagogico alla nonviolenza ed è il più grande studioso sul tema della nonviolenza in Italia. PIETRO PINNAÆ giovane nell’Italia di inizio anni ’50 che rifiuta di compiere il servizio militare. Anche grazie alle sue lotte nonviolente, nel 1972 si giunge al riconoscimento dell’obiezione di coscienza. GIULIANO PONTARAÆ trasferitosi a Stoccolma per non svolgere il servizio militare, è diventato uno dei principali studiosi di Gandhi e della nonviolenza. JOHAN GALTUNGÆ fondatore dei moderni studi per la pace (Peace research) e della rete di ricercatori e operatori di pace Transcend (www.transcend.org ) che lavora alla diffusione di metodologie di trasformazione nonviolenta dei conflitti . Alcuni movimenti nonviolenti MOVIMENTO INTERNAZIONALE DELLA RICONCILIAZIONE (MIR)Æ nato nel mondo anglosassone durante la prima guerra mondiale, si è poi esteso in quasi tutto il mondo e conta tra gli aderenti numerosi Nobel per la pace. PEACE BRIGADES INTERNATIONALÆ fanno la scorta disarmata di attivisti minacciati di morte nei loro paesi, e si comportano come potenziali scudi umani. Creano una catena di protesta che opera contro i governi dittatoriali, e in caso di pericolo si attiva segnalando quanto sta succedendo a tutte le ambasciate del mondo. PLOUGHSHAREÆ movimento fondato verso la fine degli anni ’60 da alcuni gesuiti americani. Interpretano alla lettera la profezia di Isaia 2,4: "Muteranno le loro spade in zappe [o aratri] e le loro lance in falci; una nazione non alzerà la spada contro un'altra, e non praticheranno più la guerra", ed entrano nelle basi militari per distruggere e manomettere le autentiche armi di distruzione di massa. GREENPEACEÆ movimento ecologista e nonviolento nato negli anni ’70 del secolo scorso, compie azioni dirette di protesta, preparate con tecniche e mezzi molto sofisticati. Famose le contestazioni dei test nucleari nel Pacifico, a Mururoa, condotte con barche e navi per contrastare l’azione di militari Con tecniche analoghe si oppongono alle baleniere. Che cos’è la violenza Perché scegliere la nv? Come atteggiamento ideale, questa scelta è un tentativo di costruire una cultura, una società e delle personalità che rifiutano sempre di più la violenza non necessaria, dove per non necessaria si intende la violenza esercitata dall'uomo. C'è infatti nella nostra condizione umana qualche cosa che percepiamo come una violenza intrinseca, nella sofferenza e nel dolore che sperimentiamo come esseri finiti. Per quel che ne sappiamo, essa ci appare al momento attuale come inevitabile. Ma c'è invece una violenza che connotiamo come violenza intenzionale, aggiunta dall'uomo, sotto forma di violenza diretta, strutturale e culturale. E' la triade del circolo vizioso della violenza, così come la interpreta Johan Galtung. La cultura della nv mira a eliminare o quanto meno a ridurre e contenere il più possibile, ogni forma di violenza. Possiamo tentare di quantificare la violenza diretta utilizzando i dati di un rapporto dell’ OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), World Report on Violence and Health, pubblicato nel 2002 e disponibile interamente su Internet relativo alla (http://www.who.int/violence_injury_prevention/violence/world_report/wrvh1/en/), violenza nel mondo nell’anno 2000. Si stima (con incertezze molto grosse, perché i vari paesi non impiegano le stesse modalità di valutazione) che la violenza diretta provochi all’incirca 1.600.000 vittime all’anno, suddivise in tre categorie principali: suicidi (violenza intrapersonale, rivolta su di sé), omicidi (violenza interpersonale su piccola scala) e guerra (violenza su larga scala). Il numero di vittime prodotte dalla violenza strutturale raggiunge un’intensità circa trenta volte superiore a quella della violenza diretta. In un giorno qualsiasi, come quello odierno, 100.000 persone muoiono letteralmente di fame, o per malattie riconducibili alla denutrizione, dopo aver passato un lungo periodo della loro vita nell’anticamera della morte, con sofferenze profonde e gravi. La violenza diretta è un evento, relativamente circoscritto nel tempo; la violenza strutturale è un processo che dura a lungo, provocato dalle strutture sociali, economiche e politiche di un paese. Infine, con violenza culturale intendiamo tutto ciò che nelle nostre culture, in nome delle teorie politiche, delle teorie economiche, di un’interpretazione distorta delle culture religiose, dell’arte, della scienza e della tecnologia, e di tutte le possibili dimensioni culturali profonde, porta a giustificare le altre due forme di violenza. A questo proposito, viene spesso sollevata una questione assai controversa: la violenza fa parte della natura umana è insita nel nostro DNA, oppure no? Una delle migliori risposte a questo interrogativo è data dal “Documento di Siviglia” diffuso dall’UNESCO. In cui vari scienziati di diversa formazione negano che vi sia un istinto violento nell’uomo (per il testo completo, vedi l’Appendice).. Gli psicologi, come Erich Fromm, distinguono due tipi di comportamento aggressivo A - positiva ERICH FROMM Æ aggressività B - negativa Il primo, indicato con A nello schema è benigno e conduce a un atteggiamento assertivo, mediante il quale difendiamo le nostre posizioni cercando di impedire che ci venga fatta una ingiustizia e una violenza senza tuttavia esercitarla a nostra volta nei confronti degli altro. Questo è l’atteggiamento che sta alla base della nonviolenza e del satyagraha.. Ma l’aggressività può diventare maligna (B) se si trasforma in violenza distruttiva. In realtà non abbiamo una conoscenza esaustiva della natura umana e lo studio del cervello sta avendo nuovi importanti sviluppi. E’ tuttavia sbagliato metodologicamente partire da un’ipotesi negativa che rischia di trasformarsi in profezia negativa che si auto avvera. Gli studi più autorevoli ci permettono quindi di sostenere che la violenza è un prodotto culturale e non da attribuirsi alla natura umana, che invece è plasmabile, l'uomo può diventare sia violento, sia trasformarsi in un maestro della nonviolenza. Il Novecento ha visto la presenza sia di Hitler sia di Gandhi, le due guerre mondiali, Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki e le lotte di liberazione nonviolenta in India, negli USA, in Sudafrica, nei Paesi dell’Est europeo. Pertanto, uno degli obiettivi che dobbiamo proporci è la costruzione e la promozione di una cultura della nv. La violenza in generale Oltre al triangolo della violenza (diretta, strutturale, culturale), possiamo distinguere altre tre tipologie di intensità via via maggiore - violenza verbale; - violenza fisica reversibile - violenza fisica irreversibile (omicidio) Lo scopo della nv è imparare a controllare la violenza ed evitare la scalata verso livelli superiori e irreversibili.. Infine, è bene accennare anche alla violenza politica, una forma di violenza intenzionale, che viene giustificata da gruppi politici organizzati per raggiungere obiettivi specifici ritenuti giusti. Contrariamente a quanto sostenuto da molti politici e rivoluzionari, questa forma di violenza dev’essere rifiutata per impedire che si crei un circolo vizioso che conduce ad altre forme di violenza sia strutturale sia culturale, come è avvenuto storicamente in gran parte delle rivoluzioni violente. Si verifica infatti una eterogenesi dei fini che porta a far sì che i mezzi si traducano in fini e che “la rivoluzione mangi i suoi figli”. Anche la nonviolenza propone una “rivoluzione permanente”, come diceva Aldo Capitini, ma condotta con coerenza tra mezzi e fini. Ancora Gandhi ci metteva in guardia dagli esiti perversi della violenza, anche usata con buone intenzioni, dicendo che i mezzi sono il semee mezzi e fini debbono essere entrambi nonviolenti. Società nonviolente Una domanda ricorrente è la seguente: “esistono o sono esistite delle società che potremmo definire con buona approssimazione società nv?” Quando pensiamo a una società nv, dobbiamo farlo non in termini assoluti, ma valutando il grado di nv presente inessa, che possiamo tentare di valutare. Coloro che hanno provato a occuparsene (per esempio gli antropologi), nell'ambito della ricerca per la pace, hanno individuato all’incirca una sessantina di esempi di società nv tuttora presenti, oltre a quelle esistite in passato e ora scomparse.(Si veda: Bruce D. Bonta, “Cooperation and Competition in Peaceful Societies” , www.ripon.edu/academics/psychology/FYS175/syllabus/Bonta.htm ) Di solito, queste sono società su piccola scala, con un grado di industrializzazione molto basso o addirittura nullo e potremmo essere portati a considerarle, un po’ sbrigativamente, primitive. Presentano un bassissimo grado di violenza diretta, interpersonale, di omicidi e suicidi. Ricordiamo in particolare i Ladaki, che vivono nella regione del Ladak, nel nord dell’India, e gli indiani Hopi nel New Mexico. La trasformazione nonviolenta dei conflitti Un’altra possibile definizione della nonviolenza, non filosofica ma operativa, è la seguente: “la nonviolenza è la capacità di trasformazione costruttiva e creativa dei conflitti dal micro al macro al fine di ridurre il più possibile ogni forma di violenza”. Essa consiste quindi nella abilità di trasformare la naturale aggressività umana in forza creativa e non distruttiva. Per affrontare questo tema, prendiamo spunto dall’analisi svolta da Johan Galtung (La trasformazione nonviolenta dei conflitti, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2000) ilq quale propone un modello interpretativo del conflitto noto come “triangolo del conflitto”. A ciascun vertice del triangolo corrisponde un aspetto caratteristico che contribuisce a definire il conflitto: A sta per atteggiamenti; B (behaviour in inglese) per comportamento; C per contraddizione. Un conflitto pienamente sviluppato comprende tutti e tre questi aspetti, di cui solo il comportamento è manifesto, mentre gli altri due sono latenti. Si danno casi in cui sono presenti soltanto una o due delle caratteristiche salienti del conflitto Il triangolo del conflitto COMPORTAMENTI B A ATTEGGIAMENTI C CONTRADDIZIONE La nonviolenza è costruttiva in quanto contribuisce a trovare delle soluzioni che permettono a tutti i configgenti di ottenere dei benefici e, di conseguenza, il conflitto diventa un’occasione di crescita per ognuno. Per cercare di capire meglio cosa intendiamo per “trasformazione nonviolenta dei conflitti”, cominciamo a precisare che il termine conflitto non è sinonimo di violenza né di guerra, ma indica una situazione di contrapposizione, di contraddizione, tra più attori sociali che intendono perseguire scopi diversi. Il ricorso alla violenza è l’esito negativo al quale può portare un conflitto qualora non si sia capaci di trasformarlo creativamente e funzionalmente per tutte le parti in gioco. In generale, il conflitto si presenta come un processo dinamico che si sviluppa seguendo, certo non in modo meccanicistico, tre fasi principali: prima della violenza, durante la violenza, dopo la violenza. Per agire in modo nonviolento, dobbiamo apprendere tecniche specifiche per ciascuna delle tre fasi, che possiamo classificare come tecniche di prevenzione, intervento, riconciliazione. Prevenire significa educarci e alfabetizzarci alla gestione e trasformazione nonviolenta del conflitto attraverso il dialogo, l’ascolto attivo, la comunicazione nonviolenta, la condivisione, l’empatia, la consapevolezza. Lo scopo è quello di evitare la scalata del conflitto verso livelli crescenti e distruttivi di violenza, mantenendo sotto controllo l’aggressività, la rabbia e la paura onde evitare di alimentare una spirale crescente di azioni e reazioni che possono sfociare nell’esplosione della violenza estrema. Il triangolo della trasformazione nonviolenta del conflitto DIALOGO e NONVIOLENZA EMPATIA CREATIVITA Quando la prevenzione fallisce o quando ci si trova come terze parti di fronte a situazioni in cui la violenza è già in atto, il compito si fa più difficile perché occorre intervenire per far cessare la violenza, per difendere le vittime, i più deboli, senza aggiungere altra violenza. E’ l’ora della nonviolenza del forte, del coraggioso, che si interpone tra le parti mettendo a repentaglio la propria vita senza minacciare quella degli altri. Occorre ovviamente distinguere l’interposizione e l’intervento su piccola scala, in situazioni anche casuali della vita quotidiana, dall’intervento nei conflitti macro, su larga scala, in sostituzione degli eserciti. Mentre nel primo caso può talvolta essere sufficiente l’intervento individuale e, comunque, possono verificarsi situazioni estreme in cui siamo costretti ad agire da soli, nei conflitti macro dobbiamo intervenire con modalità collettive, organizzate per tempo perché possano essere efficaci. A differenza di altre modalità di intervento, la nonviolenza si propone di liberare sia gli oppressori sia gli oppressi, sia le vittime sia i perpetratori, dalle catene disumanizzanti della violenza. E’ un compito ambizioso e difficile, che molte volte nel corso della storia è stato assunto dai “giusti”, che si comportano come dei bodhisattva capaci di manifestare compassionevolezza e condivisione nei confronti di tutti gli esseri viventi. La dinamica dell’azione nonviolenta richiede questa disponibilità al sacrificio, anche estremo, a sopportare su di sé la violenza esercitata ingiustamente dall’oppressore e dal perpetratore, per innescare un effetto boomerang che sgretola il potere apparentemente monolitico dell’avversario coinvolgendo settori via via più ampi delle terze parti, inizialmente indifferenti o neutrali E’ ciò che si è verificato più volte nel corso della storia, in situazioni assai diverse: dalla lotta di liberazione dell’India sotto la guida del Mahatma Gandhi, alle lotte contro l’apartheid negli USA, con Martin Luther King, e in Sudafrica, con Nelson Mandela e Desmond Tutu, ai mutamenti nell’Europa centro-orientale culminati nel 1989. Ma altrettanto importante è l’opera di riconciliazione dopo la violenza. Senza questa azione terapeutica, il ciclo della violenza tende facilmente a riprodursi. Le ferite e i traumi subiti a livello individuale e collettivo agiscono nel profondo e prima o poi rischiano di riemergere alla coscienza, con conseguenze distruttive. La commissione verità e riconciliazione promossa in Sudafrica da Tutu e Mandela è un formidabile esempio positivo che dovrà essere seguito e perfezionato in tutti quei casi, dal Rwanda ai Balcani alla Palestina all’Irlanda ai Paesi Baschi e così via, in cui la violenza ha provocato odi laceranti, sete di vendetta, incapacità di convivere. Conflitti simmetrici e asimmetrici Una utile classificazione consiste nell'osservare che esistono due tipi fondamentali di conflitti: simmetrici e asimmetrici, che si distinguono a seconda dei rapporti di potere tra le parti in gioco. Nel primo caso le parti si trovano in una condizione di potere equilibrato, nel secondo la relazione è squilibrata. Gran parte dei conflitti micro, relazionali, sono prevalentemente simmetrici, mentre tra i conflitti macro tendono a prevalere quelli asimmetrici. Una delle tecniche più impiegate nell'affrontare i conflitti simmetrici è la mediazione, che non può essere utilizzata nel caso asimmetrico, perché prima occorre intervenire per riequilibrare i rapporti di potere. Il mediatore è una parte esterna, neutrale o, se si preferisce, equidistante (o equivicina) rispetto alle parti in conflitto, capace di facilitare la comunicazione e la ricerca di soluzioni da parte dei configgenti stessi. Il suo intervento dev'essere accettato e richiesto da entrambe le parti, sulla base della fiducia. La sua funzione è quella di fare "da specchio" rimandando dall'uno all'altro percezioni, sensazioni, motivazioni che alimentano il conflitto e aiutando a separare e individuare le componenti oggettive da quelle puramente soggettive. Per far ciò deve praticare l'arte dell'ascolto attivo e profondo e utilizzare il dialogo per calarsi nella situazione. Nei conflitti asimmetrici, le parti esterne svolgono il ruolo fondamentale di intervento, non necessariamente richiesto, per riequilibrare i rapporti di potere che sono a svantaggio della parte oppressa. Oltre a riequilibrare i rapporti di potere, intervenendo a favore degli oppressi, le parti esterne hanno il compito di ristabilire i canali di comunicazione interrotti; riumanizzare le parti in causa, oppressi e oppressori, accettando su di sé la violenza della repressione in maniera tale da rendere visibile la sofferenza degli oppressi e del gruppo che interviene a loro favore e suscitare atteggiamenti empatici che modifichino atteggiamenti, pregiudizi e comportamenti; ridurre il consenso diretto e indiretto che le parti esterne indifferenti danno al sistema di potere degli oppressori; favorire l'emergere di soluzioni sovraordinate del tipo vinci-vinci che consentano a tutti di uscire vincitore e a nessuno di essere perdente. Tra i principali presupposti che stanno alla base di un processo di trasformazione nonviolenta dei conflitti, ne ricordiamo alcuni. 1. Il conflitto può essere sia fonte di violenza, sia di crescita costruttiva; decisivo è il modo con cui lo si affronta. 2. Nessun singolo attore sociale detiene tutta la responsabilità, ma esiste una interdipendenza delle parti. 3. La responsabilità della trasformazione costruttiva del conflitto sta nelle scelte dei singoli attori, nel potere personale e nella responsabilità di ciascuno. 4. L'azione intrapresa può avere conseguenze negative impreviste, indesiderate e non volute. Pertanto dev'essere quanto più reversibile possibile. 5. La forza deriva, oltre che dal potere personale interiore, dall'unione per un fine comune realizzato mediante la cooperazione. 6. Nessuno possiede tutta la verità, ciascuno la ricerca nel dialogo. 7. La vita è sacra, pertanto ne deriva il rifiuto della violenza e la scelta dell'ahimsa. Come ha sintetizzato efficacemente Michael Nagler, “la guerra talvolta funziona, ma non è mai efficace” ”la nonviolenza talvolta funziona, ma è sempre efficace”. (Michael Nagler, Per un futuro nonviolento, Ponte alle grazie, Firenze 2005). Impatto ambientale, sostenibilità e impronta ecologica Nel 1973, Barry Commoner, Paul Ehlrich e John Holdren proposero un modello a tre variabili per tentare di analizzare i problemi ambientali globali. Il modello, noto con l’acronimo IPAT, o più esplicitamente IMPACT è tuttora un utile strumento di analisi: né troppo semplice, né troppo complesso. Si esprime con la relazione funzionale I =I (P; A; T), comunemente scritta, per semplicità, nella forma I = P x A x T, anche se non si tratta di semplici moltiplicazioni, ma di relazioni non lineari che non conosciamo in modo rigoroso. proposto un modello interpretativo a partire dalla formula: I=PxAxT (ImPAcT), dove I è l’impatto, P la popolazione, A sta per affluence e corrisponde al livello di benessere e T è il fattore tecnologico. In forma semplificata si può scrivere I=PxE, dove E è l’energia pro capite. Per stabilire quanto vale I, si utilizzano specifici indicatori ambientali. Uno dei più noti è l’impronta ecologica, definita come “uno strumento di calcolo che ci permette di stimare il consumo di risorse e la richiesta di assimilazione di rifiuti da parte di una determinata popolazione umana o di una certa economia e di esprimere queste grandezze in termini di superficie di territorio produttivo corrispondente” (Mathis Wackernagel e William E. Rees, L’impronta ecologica, Edizioni Ambiente, Milano 2000, pag.3). Si stima che l’attuale impronta ecologica totale dell’umanità superi di almeno il 20% quella realmente disponibile: l’impronta pro capite media mondiale è di 2,2 ettari e quella disponibile di soli 1,8 ettari. Stiamo quindi intaccando il capitale naturale non rinnovabile e stando alle previsioni del WWF, questa tendenza potrebbe culminare nel 2050 con un’impronta che supererà di quattro volte quella totalmente disponibile. In altre parole, a quella data occorrerebbero quattro pianeti per far fronte alle esigenze dell’umanità. Impronta ecologica (in ettari pro capite) USA Germania Italia Cina India Mondo disponibile 10 4,5 3,8 1,8 0,7 2,2 1,8 Un altro dato importante è la quantità d CO2 emessa in seguito alle attività antropiche, che ha alterato la composizione chimica dell’atmosfera. Dall’inizio della rivoluzione industriale, all’incirca 150 anni fa, ad oggi si è passati da 280 ppm (parti per milione) di CO2 in atmosfera a 360 ppm. Gran parte di queste emissioni sono state prodotte, in passato, dai paesi ricchi e ancora oggi gli USA emettono circa 20 tonnellate pro capite all’anno, contro una media che, per essere sostenibile, non dovrebbe superare 1,6 tonnellate/anno. Ma ciononostante, Cina, India e USA si sono rifiutati di firmare il Trattato di Kyoto per la riduzione delle emissioni di gas serra Emissioni di CO2 (tonnellate annue pro capite) USA Italia Cina India Mondo 20 7,8 2,9 1 3,6 Per ridurre l’impatto I e farlo rientrare entro i limiti di sostenibilità ambientale e sociale (giustizia sociale, equa ripartizione delle risorse) si può fare un utile esercizio aritmetico, che si presta a molteplici varianti, ragionando su ciascuna delle tre variabili principali. Popolazione Dall’inizio del secolo scorso, la popolazione è cresciuta di un fattore 4 e continuerà a crescere, anche se meno di quanto si prevedesse anni fa. Secondo le stime più attendibili si può prevedere che verso la metà del secolo in corso si assesterà intorno ai 9 miliardi, con un aumento del 50%, per iniziare poi una lenta decrescita. Per quella data, dunque, I potrebbe aumentare anch’esso di tale entità, se si mantengono invariati gli altri parametri . Si dovrebbe pertanto prevedere una riduzione del prodotto AxT del 70% (un 50% per compensare l’aumento della popolazione e un 20% per ridurre l’impronta attuale). Consumi e stili di vita Facendo ancora una volta riferimento all’inizio del secolo scorso, si stima che il PIL globale a livello planetario sia cresciuto di 40 volte. Il reddito pro capite è estremamente diverso da paese a paese e tra il quintile più ricco e quello più povero la disparità è di circa 60 volte, ma giunge sino a 150 volte se si prendono le fasce più ricche e quelle più povere all’interno dei due quintili, come si vede dal grafico seguente, elaborato dalle Nazioni Unite. I consumi pro capite A dipendono da stili di vita e orientamenti economici generali della società. Distribuzione della ricchezza su scala mondiale (popolazione mondiale divisa in cinque parti uguali) Tecnologia ed energia Esiste un generale accordo sulle possibilità di migliorare sensibilmente l’efficienza dei processi produttivi in modo tale da ridurre la quantità di energia per unità di prodotto e di conseguenza le emissioni e l’impatto sull’ambiente. Le stime elaborate dai ricercatori del Wuppertal Institute a questo proposito variano da un “fattore 4” sino a un “fattore 10” (Ernst Ulrich von Weizsäcker, Amory B. Lovins, L. Hunter Lovins. Fattore 4. Come ridurre l'impatto ambientale moltiplicando per quattro l'efficienza della produzione, Edizioni Ambiente, Milano 1998). Attualmente, la disponibilità energetica pro capite, a livello planetario può essere riassunta con i seguenti dati. Ciascun essere umano ha bisogno per vivere di una potenza energetica pari a circa 100 watt (d’ora in poi W), come quella di una normale lampadina mantenuta sempre accesa. La potenza di 100 W è il valore medio, che varia nel corso della giornata a seconda delle attività che svolgiamo. La rivoluzione industriale, accelerata dalla scoperta e dall’utilizzo intensivo dei combustibili fossili, in particolare del petrolio, ha messo a disposizione di ciascuno di noi una potenza ben maggiore. Mediamente abbiamo i seguenti valori: potenza pro-capite Stati Uniti Unione Europea Italia Cina India Mondo Paesi poveri 10 kW 4 kW 3-4 kW 1,2 kW 0,7 kW 1,6 kW 1 kW Un cittadino statunitense dispone di una potenza pari a 100 volte il suo metabolismo (l’equivalente di 100 schiavi meccanici). Nelle economie di sussistenza, raramente la potenza pro capite raggiunge il valore di 1 kW, pari a dieci volte il metabolismo. Anche in questo caso, come per il reddito, l’impronta ecologica e le emissioni di CO2, vediamo che le disparità sono notevoli tra gli abitanti dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri (o impoveriti). La scelta della semplicità volontaria Possiamo dunque cercare di ricondurre il sistema mondo nei limiti di sostenibilità intesa, secondo quanto afferma il famoso rapporto Bruntland, come “la capacità di soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere quelli delle generazioni future”, agendo sulle tre variabili P, A e T con le seguenti politiche. Per quanto riguarda P contenere o diminuire la popolazione attraverso scelte demografiche condivise. Per il fattore tecnologico T, applicare il “principio di efficienza”, ovvero produrre gli stessi beni e servizi con maggiore efficienza, riducendo i consumi energetici (intensità energetica) e quindi anche l’impatto ambientale. Infine, per quanto riguarda A, ispirandosi al “principio di sufficienza”, ovvero chiedersi “quanto basta?” per essere felici. Questo significa ridurre i consumi rpo capite sia attraverso una maggiore razionalizzazione sia modificando i nostri atteggiamenti culturali. Questo è il punto più difficile, perché l’attuale sistema economico è basato sulla crescita incessante dei consumi. Proporre “la decrescita” significa andare contro corrente. Tuttavia possiamo cogliere qualche segno di cambiamento. Da tempo ci si è infatti resi conto che oltre un certo livello di consumi non c’è un incremento del benessere, bensì un effetto controproduttivo che porta a una riduzione della felicità., come si può vedere dal grafico seguente che mette in relazione livello di benessere (sull’asse verticale) e livelli di consumo (su quello orizzontale. Si è pertanto sviluppata una corrente di pensiero e un insieme di esperienze che si richiamano alla scelta della “semplicità volontaria”. Possiamo definire la “semplicità volontaria” come lo stile di vita di chi desidera impostare la propria esistenza seguendo la nonviolenza gandhiana. “La semplicità volontaria è un modo di vivere che permette di sperimentare l’integrazione e l’equilibrio tra gli aspetti interiori ed esteriori della vita”. Inoltre, “Vivere più volontariamente significa vivere più deliberatamente, intenzionalmente, propositivamente.” “La semplicità di vita, se scelta deliberatamente, implica un approccio compassionevole alla vita. Questo significa che noi scegliamo di vivere la nostra vita quotidiana con qualche grado di percezione consapevole della condizione del resto del mondo.” Si sceglie di essere più semplici per aumentare la propria autonomia personale. E’ un modo di vivere che è più semplice esteriormente e più ricco interiormente. Significa semplificare i bisogni e imparare a “vivere con meno denaro, meno consumi, meno lavoro salariato”. Se diamo uno sguardo a quanto succede nel mondo, ai drammi della miseria estrema, ci rendiamo conto che “occorre vivere più semplicemente per permettere agli altri semplicemente di vivere”, perché come sosteneva Gandhi “il nostro pianeta ha risorse sufficienti per soddisfare i bisogni fondamentali di tutti, ma non l’avidità di alcuni”. Egli inoltre ci offre con poche parole chiare e incisive l’immagine più suggestiva di una futura società nonviolenta: “Lo stato, nel passaggio alla società senza stato, sarà una federazione di comunità democratiche rurali nonviolente e decentralizzate. Queste comunità si baseranno sulla “semplicità, povertà e lentezza volontaria”, cioé su un tempo di vita coscientemente rallentato, nel quale l’accento sarà posto sull’autoespressione, attraverso un più ampio ritmo di vita, piuttosto che attraverso più veloci pulsazioni nell’avidità e di lucro”. Modelli di difesa e modelli di sviluppo L’ enorme disparità nei consumi, negli stili di vita, nell’appropriarsi delle risorse naturali, che abbiamo documentato più sopra può essere mantenuta solo manu militari, con un modello di difesa che in realtà è di offesa e con la disponibilità a intervenire militarmente ovunque nel mondo vengano messi in discussioni i privilegi di una minoranza ricca (Michael Klare, Le guerre del petrolio, www.disinformazione.it/guerrepetrolio.htm . Dello stesso autore: L’impero del petrolio, Internazionale, n. 591, 20 maggio 2005, pp.28-35). Il dato che permette di evidenziare questo approccio è la spesa militare mondiale annua, che si è ormai attestata intorno a un trilione di euro. Un utile esercizio è quello di valutare i “costi di opportunità” della incredibile quantità di risorse destinate a fare la guerra e a creare “insicurezza” anziché sicurezza. (si veda il mio contributo: Cosa faresti con un trilione di euro all’anno? Costi di opportunità e alternative al complesso militare-industrialescientifico-corporativo, in Massimo Zucchetti, a cura di, Il male invisibile sempre più visibile, Odradek, Roma 2005). Anche i dati della spesa militare pro capite giornaliera sono assai significativi. Ogni cittadino/a statunitense spende da 5 a 6 dollari al giorno in spese militari creando, paradossalmente, una condizione di maggiore insicurezza e instabilità. Per i/le cittadini/e italiani/e i valori sono molto più bassi, intorno a 1 euro al giorno, ma sempre significativi. Essi corrispondono, nel caso italiano, al reddito pro capite giornaliero di quel miliardo di persone che vive con meno di un euro (o un dollaro) al giorno. Nel caso USA, la spesa militare pro capite giornaliera è circa il doppio di quanto i due terzi dell’umanità ha a disposizione ogni giorno per vivere. Per evidenziare questa correlazione è utile il grafico riportato più sopra che mette in evidenza il legame che esiste tra modelli di difesa e modelli di sviluppo. A ciascun modello di difesa corrisponde un particolare modello di sviluppo: Dal basso verso l’alto si passa da livelli meno distruttivi a livelli più distruttivi. Il compito che la cultura e la politica della nonviolenza si propongono è quello di trasformare i modelli di difesa e di sviluppo, passando da situazioni altamente distruttive ad altre in cui sia possibile ridurre i livelli di violenza diretta dei modelli di difesa e di violenza strutturale dei modelli di sviluppo. La transizione da un modello di difesa a un altro viene chiamata transarmo, che a differenza del disarmo non si limita solo alla eliminazione di alcune categorie di sistemi d’arma, ma comporta anche un cambiamento della dottrina militare. Appendice Il documento di Siviglia LA DICHIARAZIONE DI SIVIGLIA IN PAROLE SEMPLICI Da: Adams, D. (ed.) 1991, The Seville Statement on Violence, UNESCO, Paris. Traduzione di Camilla Pagani. INTRODUZIONE Questa Dichiarazione è un messaggio di pace. Dice che la pace è possibile e che le guerre possono cessare. Dice che può cessare la sofferenza della guerra, la sofferenza della gente che viene ferita e muore e la sofferenza dei bambini che rimangono senza casa o senza famiglia. Dice che invece di preparare la guerra, possiamo usare il denaro, ad esempio, per insegnanti, libri, scuole, medici, medicine e ospedali. Noi autori di questa Dichiarazione siamo scienziati provenienti da vari paesi, dal nord, dal sud, dall'est e dall'ovest. Questa Dichiarazione è stata sottoscritta e pubblicata da molte organizzazioni di scienziati di tutto il mondo, tra cui antropologi, etologi (studiosi del comportamento animale), fisiologi, politologi, psichiatri, psicologi e sociologi. Abbiamo studiato il problema della guerra e della violenza con metodi scientifici moderni. Naturalmente le conoscenze non sono mai definitive ed un giorno sapremo di più di quanto sappiamo oggi. Ma abbiamo il dovere di esprimere il nostro pensiero sulla base degli ultimi dati scientifici. Alcuni affermano che la violenza e la guerra non possono cessare perché fanno parte delle nostre caratteristiche biologiche naturali. Noi diciamo che non è vero. Un tempo si diceva che la schiavitù e la sopraffazione in nome della razza e del sesso facessero parte delle nostre caratteristiche biologiche. Alcuni pretendevano persino di poter provare scientificamente queste affermazioni. Ora sappiamo che avevano torto. La schiavitù non c'è più e ora il mondo è impegnato a porre fine alla sopraffazione in nome della razza e del sesso. CINQUE PROPOSIZIONI 1. E' scientificamente scorretto dire che le guerre non finiranno mai perché gli animali fanno la guerra e gli esseri umani sono come gli animali. Prima di tutto questo non è vero, perché gli animali non fanno la guerra. In secondo luogo non è vero perché noi non siamo esattamente come gli animali. Diversamente dagli animali noi possediamo una cultura umana che possiamo modificare. Una cultura in cui è presente la guerra in un determinato secolo può cambiare e vivere in pace con i popoli vicini in un altro secolo. 2. E' scientificamente scorretto dire che la guerra non può finire perché fa parte della natura umana. Le argomentazioni sulla natura umana non possono provare nulla, perché la nostra cultura umana ci fornisce la capacità di plasmare e modificare la nostra natura da una generazione all'altra. E' vero che i geni che vengono trasmessi nelle uova e negli spermatozoi dai genitori ai figli influenzano il nostro modo di agire. Ma é anche vero che siamo influenzati dalla cultura in cui cresciamo e che possiamo assumerci la responsabilità delle nostre azioni. 3. E' scientificamente scorretto dire che la violenza non può finire perché gli esseri umani e gli animali violenti sono in grado di vivere meglio ed di avere più figli degli altri. In realtà i risultati della ricerca scientifica dimostrano che gli esseri umani e gli animali vivono meglio quando imparano a lavorare bene insieme. 4. E' scientificamente scorretto dire che siamo costretti ad essere violenti a causa del nostro cervello. Il cervello fa parte del nostro corpo come le gambe e le mani. Possono essere tutti usati per la cooperazione come per la violenza. Poiché il cervello è la base organica della nostra intelligenza, ci permette di pensare a quello che vogliamo fare e a quello che dovremmo fare. E poiché il cervello ha una grande capacità di apprendimento possiamo inventare nuovi modi di fare le cose. 5. E' scientificamente scorretto dire che la guerra è causata dall'"istinto". La maggior parte degli scienziati non usa più il termine "istinto" perché nessuno dei nostri comportamenti è così determinato da non poter essere modificato dall'apprendimento. Naturalmente abbiamo emozioni e motivazioni, come la paura, la rabbia, il sesso e la fame, ma ognuno di noi è responsabile per quanto riguarda i modi in cui le esprimiamo. Nella guerra moderna le decisioni e le azioni dei generali e dei soldati non sono di solito dettate dall'emozione. Al contrario, essi eseguono i loro compiti sulla base dell'addestramento ricevuto. Quando i soldati vengono addestrati alla guerra e quando alla gente si insegna a dare il proprio appoggio a una guerra, gli si insegna ad odiare e a temere il nemico. Il problema più importante è capire perché vengano addestrati e preparati in questo modo innanzitutto dai capi politici e dai mass media. CONCLUSIONE Concludiamo affermando che le nostre caratteristiche biologiche non ci condannano alla guerra e alla violenza. Al contrario, noi possiamo porre fine alla guerra e alla sofferenza che ne deriva. Non possiamo farlo agendo da soli, ma soltanto insieme. Tuttavia è molto diverso se ciascuno di noi crede o no che lo possiamo fare. Altrimenti è verosimile che non ci proviamo neppure. La guerra è stata inventata nei tempi passati e nello stesso modo possiamo inventare la pace nel nostro tempo. Ciascuno di noi fare la propria parte. http://www.istc.cnr.it/seville/dichsev_s.htm Per saperne di più Alberto Trevisan, Ho spezzato il mio fucile, edizioni dehoniane, Bologna 2005, di facile lettura, coinvolgente Eknath Easwaran Badshah Khan il Gandhi Musulmano, Sonda, Torino 1984, di facile lettura, importante per conoscere un esempio di nonviolenza nell'islam Jacques Sémelin, La nonviolenza spiegata ai giovani, Archinto, Milano 2002, facile, ma rivolto a un'età leggermente inferiore, sebbene non sia male leggerlo anche da chi ha qualche anno in più don Lorenzo Milani, L'obbedienza non è più una virtù, Quaderni del Movimento Nonviolento, un classico, breve, da leggersi insieme ad altro Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, un po' più impegnativo, ma più completo