Consiglio Superiore della Magistratura

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Ufficio dei Referenti per la formazione decentrata dei magistrati del distretto di Milano
“La disciplina delle intercettazioni telefoniche:
i più recenti e significativi approdi della giurisprudenza di legittimità”
Milano, 14 dicembre 2006
1. Premessa: linee generali della disciplina vigente. 2. Oggetto della disciplina. 2a. Sistema BUD,
localizzazione mediante GPS, dati rilevati da display del cellulare, Digesistem. 3. La questione delle
riprese visive e delle videoregistrazioni. 3a. Le riprese visive in luogo pubblico. 3b. Le riprese visive
in luogo privato. 3b.-a. L’intervento della Corte Costituzionale. 3b.-b. La decisione delle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione. 4. L’autorizzazione. 5. Le intercettazioni urgenti. 6. L’esecuzione
delle operazioni: la regola generale dell’uso degli impianti installati nella procura della Repubblica e
sue applicazioni; l’ “istradamento”. 6a. L’ipotesi eccezionale dell’utilizzazione di impianti in
dotazione alla polizia giudiziaria: presupposti. 6b. La motivazione. 6b.-a. La questione della
integrazione della motivazione ed il recente intervento delle Sezioni Unite. 6b.-b. Impianti installati
nella procura ed impianti in dotazione alla polizia giudiziaria. 7. La “circolazione” delle
intercettazioni tra i procedimenti. 8. Le operazioni di captazione nei riguardi dei parlamentari: le
intercettazioni “dirette” e quelle “indirette” o “casuali”.
1. Premessa: linee generali della disciplina vigente.
Com’è noto, l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni, prevista dal capo IV del
titolo III del libro terzo del codice di procedura penale (artt. 266 e ss.), è un mezzo di
ricerca della prova.
A differenza dell’ispezione e della perquisizione, caratterizzate da attività palesi e coattive
riguardanti persone e cose, l’intercettazione è attività occulta ed insidiosa, in quanto non è –
o non dovrebbe essere, pena la sua concreta inutilità – avvertita dalla persona sottoposta
ad indagini.
Tale strumento processuale, secondo l’art. 266 cpp., ha ad oggetto le conversazioni e le
comunicazioni telefoniche, nonché le altre forme di telecomunicazioni captate da un terzo.
La norma nulla prevede in relazione alle riprese visive, fotografiche o filmate.
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L’art. 266 cpp. consente l’intercettazione in caso di indagini relative ad alcuni particolari
delitti da esso elencati; prevede poi la possibilità di intercettazione di discorsi tra persone
presenti, anche nel loro domicilio, a condizione però, in tal caso, che in quel luogo si stia
perpetrando uno dei delitti menzionati.
Tale condizione, tuttavia, ai sensi dell’art. 13, primo comma, seconda parte, del D. L. 13
maggio 1991, n° 152 (convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n° 203) non
è necessaria nel caso di indagini relative a delitti di criminalità organizzata o di minaccia
col mezzo del telefono; la stessa norma poi prevede che, in relazione a tali delitti,
l’intercettazione possa essere autorizzata in caso di mera necessità – non è dunque
necessario che essa sia assoluta – ed in presenza anche di soli sufficienti indizi di essi.
In relazione ai medesimi delitti ed ai delitti commessi mediante l’impiego di tecnologie
informatiche o telematiche è consentita l’intercettazione del flusso di comunicazioni
relative a sistemi informatici o telematici, anche intercorrenti tra più sistemi.
Secondo la previsione dell’art. 267 cpp., le intercettazioni sono disposte ed eseguite dal
Pubblico Ministero - personalmente o delegando la p.g. – su autorizzazione che il Giudice
dà, con decreto motivato dalla sussistenza di gravi indizi di reato e dall’assoluta
indispensabilità dell’intercettazione ai fini della prosecuzione delle indagini.
In caso di urgenza, quando si teme fondatamente che dal ritardo possa derivare grave
pregiudizio alle indagini, può disporle lo stesso Pubblico Ministero senza autorizzazione
del Giudice, salva convalida – richiesta entro ventiquattro ore – che il Giudice medesimo deve
emettere nelle quarantotto ore successive, in difetto della quale l’attività dev’essere
interrotta ed i risultati di essa non sono utilizzabili.
Sono previsti termini di durata di quindici giorni (quaranta, nel caso di cui al citato art.
13), prorogabili più volte dal Giudice per altrettanti giorni (venti, nel caso citato).
Le modalità esecutive sono rigidamente disciplinate dall’art. 268 cpp., che prevede la
stesura di un verbale delle operazioni, nel quale sia sintetizzato il contenuto di quanto
intercettato; i mezzi strumentali attraverso i quali compiere l’intercettazione; la
trasmissione dei verbali e delle registrazioni al Pubblico Ministero; il loro deposito in
segreteria – salva autorizzazione del Giudice a procrastinare il deposito non oltre la fine
delle indagini preliminari, se dal deposito possa derivare grave pregiudizio per le indagini
- entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni, unitamente ai decreti del giudice
ad esse relativi; l’avviso del deposito ai difensori; la possibilità che i difensori consultino
gli atti e ascoltino le registrazioni; l’acquisizione, nel contraddittorio tra le parti, delle
conversazioni intercettate e la trascrizione integrale delle registrazioni, da eventualmente
inserire anche nel fascicolo per il dibattimento.
E’ poi previsto (art. 269) che fino al passaggio in giudicato della sentenza verbali e
registrazioni siano conservati presso il P.M. che ha chiesto l’intercettazione, tranne quelli
ritenuti superflui che, a richiesta degli interessati e ad esito di apposita udienza camerale
fissata dal Giudice e sotto il suo controllo, possono essere distrutti, a tutela della
riservatezza, con stesura di un verbale di tale operazione.
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E’ espressamente disciplinata la possibilità che i risultati delle intercettazioni vengano
utilizzati in procedimenti penali diversi da quello nel quale siano state disposte ed eseguite, a
patto, tuttavia che ciò sia indispensabile per l’accertamento di delitti per i quali sia previsto
l’arresto obbligatorio in flagranza.
Nel caso in cui non siano stati rispettati i casi e le regole fissate dagli artt. 267 e 268, i
risultati delle operazioni sono fulminati dalla sanzione dell’inutilizzabilità.
Non sono utilizzabili, le intercettazioni di quanto dicono coloro che sono tenuti al segreto
professionale, ai sensi del primo comma dell’art. 200 (ministri di culto, avvocati,
investigatori privati, consulenti tecnici, notai, medici ed esercenti una professione sanitaria
e quant’altri), a meno che costoro non abbiano deposto sugli stessi fatti.
E’ prevista la distruzione in ogni stato e grado del processo, su disposizione del Giudice,
della documentazione delle intercettazioni non utilizzabili, salvo che costituisca corpo del
reato.
Com’è noto, poi, l’ultimo comma dell’art. 68 della Costituzione prevede che sia necessaria
l’autorizzazione della Camera d’appartenenza per sottoporre i membri del Parlamento ad
intercettazione, in qualsiasi forma, di conversazioni e comunicazioni; in tal caso, ed in caso
di necessità di acquisizione di tabulati relativi al traffico telefonico, l’art. 4 della legge 20
giugno 2003, n° 140, prevede – salvo il caso in cui il parlamentare sia colto nella flagranza
di un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio o debba essere eseguita nei suoi
confronti una sentenza irrevocabile di condanna – che l’autorizzazione venga richiesta
dall’autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire, la cui esecuzione, nelle more,
resta sospesa.
La legge citata prevede un’articolata disciplina della distruzione dei verbali e delle
registrazioni delle conversazioni e comunicazioni intercettate nel corso di procedimenti
riguardanti terzi, alle quali abbiano preso parte membri del Parlamento.
L’art. 132 del Codice in materia di protezione dei dati personali (D. Lgs. 30 giugno 2003, n°
196), infine, disciplina in modo articolato le modalità di acquisizione presso il fornitore, da
parte dell’A.G., dei dati relativi al traffico telefonico.
Così riassunta la vigente disciplina delle intercettazioni telefoniche, va rilevato come tutti
noi abbiamo avuto modo di verificare quante e quanto complesse siano state le questioni
interpretative sorte nella prassi quotidiana in relazione a molti aspetti di tale disciplina.
Proviamo a passare in rassegna le questioni principali.
2. Oggetto della disciplina.
L’intercettazione telefonica è consentita nell’ambito di indagini relative ai reati previsti
dall’art. 266 cpp..
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E’ interessante notare come la giurisprudenza, abbia chiarito che tra i “delitti non colposi”
indicati all’art. 266, primo comma, lett. a), sia ricompreso anche l’omicidio
preterintenzionale previsto dall’art. 584, “la cui condotta, punita unitariamente, non può
essere frazionata ai fini del rispetto dei limiti stabiliti dalla norma in vista della prescritta
autorizzazione”: Cass., V, 10 ottobre 2005, n° 44032, imp. Rodà.
Si è accennato, poi, alla disciplina delle intercettazioni disposte a norma dell’art. 13 della
legge 12 luglio 1991, n° 203.
Al riguardo, vale la pena di ricordare che la giurisprudenza ha chiarito che la nozione di
criminalità organizzata cui detta norma si riferisce “deve essere intesa con riguardo alle
finalità di essa, che mira a far rientrare nel suo ambito applicativo le attività criminose più
diverse, purché realizzate da una pluralità di soggetti i quali, per la commissione del reato,
abbiano costituito un apposito apparato organizzativo”: Cass., I, 20 dicembre 2004, n° 2612,
imp. Tomasi ed altri; nello stesso senso, Cass., V, 20 ottobre 2003, n° 46221, imp. Altamura
ed altro, che ha chiarito che sono riconducibili alla categoria dei reati di criminalità
organizzata “non solo in reati di criminalità mafiosa, ma tutte le fattispecie criminose di
tipo associativo”.
Ciò ricordato, è bene rilevare che, secondo Cass., S.U. n° 36747 del 28 maggio 2003, “le
intercettazioni regolate dagli artt. 266 e segg. cpp. consistono nella captazione occulta e
contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti che agiscano
con l’intenzione di escludere gli altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo,
attuata da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da
vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere privato”.
Ne risulta che l’intercettazione presuppone che l’intercettato intenda escludere gli altri:
non è dunque attività di intercettazione quella di chi registri quanto altri dica ad alta voce
ed in pubblico.
Essa dev’essere posta in essere da un terzo, estraneo alla conversazione o alla
comunicazione; ed infatti, le Sezioni Unite, nella decisione citata, hanno affermato che “la
registrazione fonografica di conversazioni o comunicazioni realizzata, anche
clandestinamente, da soggetto partecipe di dette comunicazioni, o comunque autorizzato
ad assistervi, costituisce…prova documentale secondo la disciplina dell’art. 234 cpp.”.
Non attività di intercettazione, dunque, ma di documentazione (con la conseguenza,
quindi, che la relativa trascrizione non farà parte automaticamente del fascicolo del
dibattimento, ma dovrà superare il vaglio di ammissibilità ai fini dell’acquisizione, al pari
degli altri documenti).
L’insegnamento delle S.U. è ormai consolidato ed è stato di recente ribadito da Cass., VI, 9
febbraio 2005, n° 12189, imp. Rosi.
In ossequio a tale insegnamento, è stato deciso che “la registrazione ad opera della polizia
giudiziaria dei colloqui con le persone informate sui fatti non costituisce attività di
intercettazione in senso tecnico…ma integra una legittima modalità di documentazione
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fonica…” (Cass., II, 15 dicembre 2005, n° 2829, imp. Pistorio); con la conseguenza che tale
documento, seppure non utilizzabile in dibattimento stante il divieto ex art. 195, quarto
comma, cpp. di testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di p.g., potrà invece essere
utilizzato nel giudizio abbreviato, nel quale l’imputato accetta che siano valutati gli
elementi acquisiti anche in deficit di contraddittorio.
Tuttavia, “nell’ipotesi in cui si proceda ad intercettazione di conversazioni tra presenti ad
opera della polizia giudiziaria é sempre necessaria l’autorizzazione del giudice anche se
uno degli interlocutori ne é consapevole, in quanto la sua rinuncia alla riservatezza non
rende lecita l'intercettazione ad opera di un terzo che é rimasto estraneo al colloquio”: Cass.,
II, 22 novembre 2001, n° 16590, imp. Lama.
2a.Sistema BUD, localizzazione mediante GPS, dati rilevati da display del cellulare, Digesistem.
Così chiarito cosa sia l’intercettazione tipizzata dal codice di rito, ne consegue che non sia
allora attività intercettatoria, soggetta alla disciplina dettata dagli artt. 266 e ss. cpp,
l’installazione del sistema “bud” (blocco delle utenze disturbate), effettuabile in base a
decreto motivato del P.M. (cfr. Cass., V, 8 febbraio 2005, n° 11949, imp. Ficara); la
localizzazione mediante sistema satellitare (GPS) degli spostamenti di una persona
indagata, che si traduce in una sorta di pedinamento (cfr. Cass., V, 7 maggio 2004, n°
24715, imp. Massa ed altro); la rilevazione e l’utilizzazione dei dati segnalati sul display di
un apparecchio di telefonia mobile, acquisibile dalla p.g. quale oggetto da cui trarre
tracce o elementi di prova (cfr. Cass., IV, 8 maggio 2003, n° 3435, imp. Lanzetta).
Disciplina identica è quella prevista per l’acquisizione dei dati provenienti dalla
rilevazione automatica (cosiddetto “digesistem”) delle chiamate in partenza da
apparecchi telefonici pubblici verso un’utenza privata (cfr. Cass., II, 25 ottobre 2005, n°
41052, imp. Piscopo ed altri).
A conclusioni parzialmente identiche si giunge in ordine alla questione riguardante
l’acquisizione dei tabulati, contenenti i dati esterni relativi al traffico telefonico.
La materia, notoriamente, non è regolata dal codice di rito ed è stata oggetto di previsione
normativa, per la prima volta, con l’art. 3 del decreto legge 24 dicembre 2003, n° 354, come
modificato dalla legge di conversione 26 febbraio 2004, n° 45, che ha modificato l’art. 132
del “codice della privacy”.
Già le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la sentenza n° 6 del 23 febbraio 2000, imp.
D’Amuri, avevano insegnato che i predetti tabulati fossero acquisibili sulla base di
decreto motivato del P.M., “non essendo necessaria, per il diverso livello di intrusione
nella sfera di riservatezza che ne deriva, l’osservanza delle disposizioni relative
all’intercettazione di conversazioni o comunicazioni di cui agli articoli 266 e seguenti
cpp.”.
Sulla scia di tale insegnamento, era stato deciso che “nella fase del dibattimento
l’acquisizione dei tabulati relativi ai dati esterni del traffico di un’utenza telefonica non
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può avvenire a seguito di diretta produzione del pubblico ministero, ma soltanto in forza
degli artt. 495 e 507 cpp. e pertanto, nel contraddittorio delle parti, a mezzo di ordinanza
motivata del giudice, cui sia stata avanzata la relativa richiesta” (Cass., I, 3 dicembre 2003,
n° 23961, imp. Raucci).
Ancora una volta, quindi, attività di documentazione e non di intercettazione.
Il citato articolo 132 del “codice della privacy” prevede attualmente che i dati relativi al
traffico telefonico, inclusi quelli concernenti le chiamate senza risposta, vengano acquisiti
presso il gestore nei primi ventiquattro mesi con decreto motivato del pubblico ministero;
scaduto tale termine, i dati saranno acquisiti solo con decreto motivato del Giudice, che
abbia ritenuto sussistenti sufficienti indizi dei delitti indicati dall’art. 407, comma 2, lett. a),
del codice di rito o dei delitti in danno di sistemi informatici o telematici; è poi prevista
l’acquisizione urgente, su decreto del pubblico ministero, sala tempestiva convalida del
Giudice,con suo decreto motivato.
Sono state invece sempre ritenute soggette alla rigida disciplina delle intercettazioni le
riprese audiovisive (cfr. Cass., VI, 11 dicembre 2003, n° 6537, imp. Puggioni), anche se per
escludere la necessità dell’autorizzazione del Giudice tutte le volte in cui fossero state
effettuate in luogo diverso da quello di privata dimora (cfr. Cass., VI, 10 gennaio n2003, n°
3433, imp. Mostra).
Questo rilievo ci serve da “ponte”, verso lo spinoso terreno delle intercettazioni
meramente visive.
3. La questione delle riprese visive e delle videoregistrazioni.
Come si accennava, la normativa codicistica in tema di intercettazioni non ha fatto alcun
riferimento alle riprese visive, che non sono pertanto specificatamente disciplinate dalla
legge.
La cosa non è sembrata priva di significato, posto che l’art. 226 quinquies del codice di
procedura penale abrogato, nel contesto della previgente disciplina delle intercettazioni
telefoniche, conteneva nella sua ultima frase un esplicito riferimento alle “immagini”
ottenute nei modi di cui all’art. 615 bis del codice penale (che punisce le interferenze
illecite nella vita privata, “svolgentesi nei luoghi indicati dall’art. 614 cp.”), le quali
venivano colpite da nullità insanabile, rilevabile d’ufficio.
Autorevoli interpreti ne hanno dedotto che il legislatore del 1988, non riproducendo la
citata disciplina delle intercettazioni di “immagini”, avesse inteso sancire la loro libera
captazione, comunque effettuata, anche nel domicilio, con conseguente libera utilizzabilità
processuale dei relativi reperti.
Tale drastica conclusione, tuttavia, cozza con la tutela costituzionale fornita dagli artt. 13,
14 e 15 della Costituzione, rispettivamente alla libertà, anche morale, della persona,
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all’inviolabilità del domicilio ed alla libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni
altra forma di comunicazione, nonché con la riserva di legge contenuta in tali articoli.
Si è posto allora il problema della stessa legalità delle riprese visive, sia in luogo pubblico,
sia nel privato del domicilio.
3a. Le riprese visive in luogo pubblico.
La giurisprudenza di legittimità è pacifica nel considerare utilizzabili come prova le
immagini visive riprese in luoghi pubblici (ad esempio, quelle effettuate dagli impianti
di videosorveglianza degli esercizi pubblici); e ciò tanto se avvenute al di fuori del
procedimento – prima o durante - (si pensi al proprietario di un fondo che riprenda
fotograficamente o con una telecamera l’andirivieni di automezzi che scarichino
continuativamente rifiuti sul suo terreno), quanto se se avvenute nell’ambito delle
indagini preliminari (ad esempio, la videoriprese del teatro di un incidente stradale
mortale, effettuata dalla Polizia Stradale).
La captazione e l’uso di tali immagini sono leciti, in quanto non ledono le garanzie
costituzionali poste a presidio del diritto alla riservatezza, perché la natura pubblica del
luogo comporta un’implicita rinuncia alla riservatezza1.
E’ sorto, tuttavia, contrasto circa le modalità, attraverso le quali la videoripresa “pubblica”
possa entrare nel processo.
Secondo un primo orientamento, le videoriprese vanno inquadrate nella categoria dei
documenti, ai sensi del primo comma dell’art. 234 cpp., che comprende in tale categoria le
“rappresentazioni di fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la
fonografia o qualsiasi altro mezzo”, sia con riferimento ad attività extraprocessuali2, sia
con riferimento a riprese effettuate dalla polizia giudiziaria3.
Altre pronunce, invece, hanno inquadrato le riprese visive “pubbliche”, sia
extraprocessuali che endoprocessuali, nel novero delle prove atipiche disciplinate dall’art.
189 cpp., sul rilievo che il legislatore non avrebbe disciplinato le modalità di acquisizione e
le regole di utilizzazione di tali riprese ed avendo egli avuto di mira e disciplinato, all’art.
234 cpp., solo il documento visivo “precostituito” e non anche quello realizzato attraverso
un mezzo di ricerca della prova: tali riprese, dunque, non potrebbero essere ritenute
documenti; quale prova atipica, essa potrebbe essere assunta in quanto non contrasterebbe
con alcuna norma di legge, e segnatamente con quella codicistica che impone il limite del
rispetto della libertà morale della persona, giacché, come rilevato, la pubblicità del luogo
comporterebbe la rinuncia implicita alla riservatezza.
Cfr. Cass., IV, 16 marzo 2000, n° 7063, imp. Viskovic.
Cfr. Cass., V, 18 ottobre 1993, n° 10309, imp. Fumero; III, 15 giugno 1999, n° 11116, imp. Finocchiaro; V, 20
ottobre 2004, n° 46307, imp. Held ed altri.
3 Cfr. Cas., V, 25 marzo 1997, n° 1477, imp. Lomuscio; VI, 10 dicembre 1997, n° 4997, imp. Pani.
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La realizzazione di videoriprese in luogo pubblico, quindi, in ogni caso, non cozza con i
limiti costituzionali posti a tutela della libertà e della riservatezza e non richiede pertanto
neppure la preventiva autorizzazione dell’A.G.4.
Le due opinioni giurisprudenziali richiamate, tuttavia, non sono manifestazione di una
irrilevante diversità di vedute; esse hanno invece ricadute operative diverse nel processo,
conseguenza del fatto che il documento é cosa diversa dall’atto del procedimento.
Se è vero, infatti, che il documento, secondo la relazione preliminare al codice di
procedura penale e la più avveduta giurisprudenza, è solo quello formato fuori del
processo5, ne consegue che solo le riprese visive effettuate fuori del procedimento
possono essere introdotte nel processo come documenti e diventare quindi una prova
documentale, mentre le altre, effettuate dalla polizia giudiziaria nell’ambito delle indagini
e del procedimento, costituiscono solo la documentazione dell’attività investigativa e
pertanto saranno soggette alle diverse regole di acquisizione, previste per le prove
atipiche, ai sensi dell’art. 189 cpp..
Questa è la ricostruzione interpretativa che di recente hanno fornito le Sezioni Unite
della Corte di Cassazione, con la sentenza n° 26795 del 28 marzo 2006.
Il contraddittorio tra le parti, al quale fa riferimento l’art. 189 cpp., sarà attivato dal
Giudice al momento in cui sarà richiesto di decidere sull’ammissione della prova atipica.
Non bisogna infatti dimenticare che, dopo la realizzazione della videoripresa – lecita,
secondo quanto già evidenziato, anche senza il preventivo atto motivato dell’A.G., sia al di
fuori che nell’ambito del procedimento - rimane il diverso problema dell’ammissione della
ripresa visiva, sulla quale dovrà decidere il Giudice richiesto di assumerla come prova,
decidendo anche sullo strumento processuale (perizia o mera riproduzione) da utilizzare
per prendere visione delle immagini registrate.
Ulteriore conseguenza pratica è che, a mio giudizio, solo la videoripresa endoprocessuale
potrà essere inserita nel fascicolo del dibattimento, ai sensi dell’art. 431, primo comma, lett.
b), quale attività irripetibile della polizia giudiziaria, unitamente ai verbali che descrivono
l’attività effettuata per realizzare la videoriprese; né varrebbe in contrario sostenere che
l’art. 431 cpp. prevede solo allegazioni scritte, giacché l’art. 134 cpp. che disciplina le
modalità di documentazione degli atti, prevede al quarto comma che il verbale possa
essere accompagnato dalla riproduzione audiovisiva.
La giurisprudenza, peraltro, ha già ritenuto acquisibili agli atti del dibattimento le
immagini registrate durante le operazioni di osservazione e pedinamento (Cass., II, 26
marzo 1997, n° 4095, imp. Baldini) o quelle riprese durante una perquisizione (Cass., II, 22
maggio 1997, n° 3513, imp. Acampora).
Cfr. Cass., VI, 21 gennaio 2004, n° 7691, imp. Fiori; IV, 18 marzo 2004, n° 37561, imp. Galluzi; V, 7 maggio
2004, n° 24715, imp. Massa.
5 Cfr. Cass., V, 13 aprile 1999, n° 6887, imp. Gianferrari; V, 16 marzo 1999, n° 5337, imp. Di Marco).
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3b. Le riprese visive in luogo privato.
Più complessa è la questione della legittimità delle videoriprese effettuate nel domicilio e
della loro utilizzabilità come prova.
Si è sostenuto che le videoriprese siano vietate in radice, sul rilievo che la captazione di
immagini rappresenterebbe un tipo di limitazione dell’inviolabilità del domicilio diverso
ed ulteriore rispetto a quelli contemplati dall’art. 14, secondo comma, Cost., che fa
espresso riferimento solo ad “ispezioni, perquisizioni e sequestri”; si è anche rilevato
come, per un verso, le ipotesi di limitazioni dei diritti costituzionalmente protetti siano di
stretta interpretazione e, per altro verso, vi sia una ontologica differenza tra ispezioni,
perquisizioni e sequestri, atti di intrusione palesi, e le riprese visive, atti di invasione
occulti.
Si è fatto, tuttavia, osservare in contrario come la disciplina costituzionale dei diritti di
libertà, nel suo complesso, dimostri che la libertà del domicilio trovi una copertura
costituzionale più debole rispetto alla libertà della persona e sia quindi compatibile con la
possibilità di limitazioni sulla base di semplice atto motivato dell’A.G..
Altra parte della giurisprudenza ha sostenuto la soggezione delle intercettazioni visive al
regime dell’art. 266, comma 2, del codice di rito, giacché esso, autorizzando
l‘intercettazione delle comunicazioni – e non delle solo conversazioni – comprende anche
la comunicazione gestuale, escludendo, tuttavia, che sia regolata dal codice la captazione
di immagini non aventi contenuto comunicativo6, le quali ultime non sarebbero
utilizzabili neppure come prove atipiche ex art. 189 cpp, in quanto illegittime per contrasto
con i citati parametri costituzionali.
3 b.-a. L’intervento della Corte Costituzionale.
Con l’ordinanza del 5 luglio del 2000, il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale
di Alba, rilevata l’assenza di specifica disciplina processuale, ha sollevato la questione di
legittimità costituzionale “degli artt. 189 e 266-271 del codice di procedura penale e,
segnatamente, dell’art. 266, comma 2, del codice di procedura penale” nella parte in cui
“non estendono la disciplina delle intercettazioni delle comunicazioni tra presenti nei
luoghi indicati dall’art. 614 del codice penale alle riprese visive o videoregistrazioni
effettuate nei medesimi luoghi”.
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“In tema di intercettazione di conversazioni o di comunicazioni, poiché la nozione di comunicazione
consiste nello scambio di messaggi fra più soggetti, in qualsiasi modo realizzati (ad esempio, tramite
colloquio orale o anche gestuale), e poiché l’attività di intercettazione é appunto diretta a captare tali
messaggi, non é consentito, attraverso l’attivazione di intercettazioni ambientali, realizzate con la
collocazione di una videocamera all’interno di un appartamento, captare immagini relative alla mera
presenza di cose o persone o ai loro movimenti, non funzionali alla captazione di messaggi. Né tale attività
può considerarsi legittima configurandola quale mezzo atipico di ricerca della prova, ex artt. 189 e 234 cod.
proc. pen., poiché, trattandosi di riprese visive non effettuate in luoghi aperti o pubblici, ma in luoghi di
privata dimora, viene in rilievo in tale materia il limite della inviolabilità del domicilio di cui all’art. 14
Cost.”: Cass., VI, 10 novembre 1997, n° 4937, imp. Greco.
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Il Giudice rilevava che, poiché l’art. 14 della Costituzione prevede la possibilità di limiti e
deroghe al principio di inviolabilità del domicilio a salvaguardia di altri valori
costituzionali, quali l’accertamento e la repressione dei reati, e non sussistendo i
presupposti per estendere alle videoriprese la disciplina delle intercettazioni, le riprese
visive dovrebbero essere ritenute possibili sulla base di mero atto motivato dell’A.G. e
disciplinate come prova atipica, ai sensi dell’art. 189 cpp..
Il remittente, tuttavia, sottolineava il contrasto tra la normativa processuale, così
interpretata, ed il principio costituzionale di uguaglianza, ritenendo irragionevole la
disparità di trattamento tra le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni non verbali
e quelle di immagini, ugualmente “invasive”; rimarcava anche il mancato rispetto dell’art.
14 Cost., che impone che il sacrificio del principio di inviolabilità del domicilio possa
avvenire solo “nei casi e nei modi disciplinati dalla legge”, vale a dire, attraverso una
compiuta ed articolata disciplina legislativa, in concreto mai introdotta nell’ordinamento e
non costituita certo dall’art. 189 cpp..
La Corte Costituzionale, con la nota sentenza n° 135 del giorno 11 aprile 2002, depositata il
24 aprile 2002, est. Flick, ha giudicato infondata la questione di costituzionalità.
Il Giudice delle Leggi, infatti, ha escluso che l’attività investigativa in esame si scontri
con un divieto costituzionale assoluto, rilevando come il riferimento dell’art. 14 Cost. alle
ispezioni, perquisizioni e sequestri non sia espressivo di una tipizzazione esclusiva; ha
rimarcato che la configurazione delle ispezioni come atto palese non sia opera della norma
costituzionale, ma solo della disciplina processuale ordinaria del predetto mezzo di ricerca
della prova; ha fatto poi notare come l’ipotizzata limitazione alla possibilità della pubblica
autorità di interferire nella libertà del domicilio non trovi riscontro neppure nelle fonti
normative sopranazionali, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea compresa7.
Esclusa quindi l’esistenza di un divieto costituzionale assoluto di intrusione nella sfera
domiciliare, la Corte ha poi riaffermato la menzionata tesi giurisprudenziale
dell’estensione della disciplina codicistica delle intercettazioni alle riprese visive di
comunicazioni gestuali, vale a dire di comportamenti a contenuto comunicativo (rimarcando
come il problema di individuare i limiti entro i quali le immagini concretamente riprese
abbiano ad oggetto tali comportamenti sia questione di fatto, rimessa all’apprezzamento
del Giudice di merito).
I Giudici della Consulta hanno pertanto affermato che anche l’intercettazione visiva
operata al di fuori di tali limiti sia costituzionalmente legittima, evidenziando come le
situazioni a confronto siano eterogenee e non vi sia dunque lesione del principio di
uguaglianza, giacché “sebbene…libertà di domicilio e libertà di comunicazione rientrino
entrambe in una comune e più ampia prospettiva di tutela della “vita privata”” – tanto da
7
E’ interessante il richiamo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che la Corte
esplicitamente ha operato - ancorché priva di efficacia giuridica – per il fatto che essa fosse espressione di
“principi comuni agli ordinamenti europei”; sembra di capire che i Giudici costituzionali ritengano che la
Carta sia comunque un parametro interpretativo utilizzabile sin da subito non solo dalle istituzioni
comunitarie, ma dagli stessi giudici ordinari degli Stati dell’Unione.
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essere oggetto di previsione congiunta ad opera dell’art. 8 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’art. 17 del Patto
internazionale sui diritti civili e politici e, da ultimo, dell’art. 7 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza nel dicembre del 2000 - esse sin
differenziano significativamente sul piano dei contenuti. Infatti, “la libertà di domicilio ha
una valenza essenzialmente negativa, concretandosi nel diritto di preservare da
interferenze esterne, pubbliche e private, determinati luoghi in cui si svolge la vita intima
di ciascun individuo. La libertà di comunicazione, per converso – pur presentando
anch’essa un fondamentale profilo negativo, di esclusione dei soggetti non legittimati
dalla percezione del messaggio informativo – ha contenuto qualificante positivo, quale
momento di contatto fra due o più persone finalizzato alla trasmissione di dati
significanti”.
La sentenza afferma poi espressamente che l’ipotesi della videoripresa di comportamenti a
carattere non comunicativo sia priva di disciplina ed auspica l’intervento del legislatore.
A molti, ed anche a me, tuttavia, è parso che la motivazione non sia del tutto dirimente, in
quanto i Giudici Costituzionali non hanno dichiarato esplicitamente che il vuoto di disciplina
implichi l’inammissibilità, allo stato, di riprese visive di comportamenti non comunicativi effettuate
nel domicilio, lasciando poi intendere, a mio giudizio, che l’auspicato intervento legislativo
potrebbe limitarsi a prevedere che tale intercettazione visiva sia realizzabile sulla base di
semplice atto motivato dell’A.G., giacché implicherebbe solo una limitazione al principio
dell’inviolabilità del domicilio e non anche di quello, di più intensa copertura
costituzionale, dell’inviolabilità della segretezza delle comunicazioni.
La cosa è oggettivamente strana, tanto più se si considera che il Giudice remittente aveva
posto proprio il problema della (da lui) ritenuta illegittimità del ricorso allo strumento
dell’art. 189 cpp..
3b.- b. La decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Quasi un anno dopo, la prima sezione della Corte di Cassazione, nella sentenza n° 16965
del 29 gennaio 2003, imp. Agugliaro ed altri, è giunta a conclusioni sostanzialmente
analoghe, affermando che “in tema di intercettazioni ambientali, sono utilizzabili i risultati
delle video-registrazioni effettuate con videocamera all’interno di abitazione privata, in
quanto esse sono previste dal vigente codice di rito il quale, autorizzando, ex art. 266,
comma 2, l’intercettazione delle comunicazioni – e non delle sole conversazioni tra
presenti – comprende nel proprio ambito previsionale, non solo la comunicazione
convenzionale mediante l’uso del linguaggio, ma anche quella gestuale, mentre non regola,
con conseguente inutilizzabilità processuale, ogni altra captazione di immagini non avente natura
di messaggio intenzionalmente trasmesso da un soggetto ad un altro. Né tale regolamentazione
delle intercettazioni delle comunicazioni tra presenti, anche effettuate mediante videoregistrazioni, contrasta con gli artt. 14 e 15 Cost. e 8 Conv. Eur. dei diritti dell’uomo, i quali
stabiliscono che i diritti all’inviolabilità del domicilio e la segretezza di ogni forma di
comunicazione possono essere limitati, per atto motivato dell’autorità giudiziaria, al fine
di salvaguardare la sicurezza nazionale nonché l’ordine e la prevenzione dei reati”.
11
Nello stesso senso si è espressa l’anno scorso la quarta sezione, con la sentenza n° 11181
del 19 gennaio 2005, imp. Besnik8.
Il problema è stata recentemente affrontato dalle Sezioni Unite, con la sentenza del 28
marzo 2006, n° 26795, depositata il 28 luglio 2006, nell’ambito di una vicenda processuale
relativa alla videoriprese effettuata – sulla base di decreto motivato del Pubblico Ministero
- dalla p.g. mediante microtelecamere nei salottini privati di un locale pubblico.
La Corte, dopo un’ampia disamina del contrasto giurisprudenziale che si è agitato intorno
al problema delle riprese visive, ha affrontato il tema in radice, esaminando sia la
questione delle intercettazioni visive in luogo pubblico, sia quella delle videoriprese in
luogo privato.
Con riguardo alle videoriprese pubbliche, ha sostanzialmente affermato – secondo
quanto già esposto – le legalità di esse, sia se effettuate fuori del procedimento che nel
corso delle indagini preliminari, distinguendo soltanto circa le modalità di loro
acquisizione: con le regole dei documenti, nel primo caso, e con lo strumento dell’art. 189
cpp., nel secondo.
Più complesso è stato il ragionamento ermeneutico relativo alle videoriprese “pubbliche”.
I Giudici di legittimità hanno dapprima rimarcato come la motivazione della citata
sentenza della Corte Costituzionale fosse ambigua, giacché dopo avere lasciato intendere
che le riprese visive di comportamenti non comunicativi in ambito domiciliare fossero
inammissibili, non l’ha dichiarato, lasciando sostanzialmente aperta la porta ad
un’interpretazione fondata ancora una volta sullo strumento dell’art. 189 cpp..
Hanno, invece, evidenziato che non vi sia nell’ordinamento positivo una specifica ed
articolata disciplina che, sola, come richiesto dall’art. 14 della Carta Costituzionale, possa
rendere lecita la violazione del domicilio attraverso la ripresa di comportamenti non
comunicativi, giacché tale disciplina non è quella, assolutamente generica e generale,
prevista dall’art. 189 cpp., ed hanno quindi – facendo il passo che la Corte Costituzionale
non aveva fatto - affermato il principio di diritto, secondo il quale “non possono
considerarsi ammissibili, come prove atipiche, le videoregistrazioni di comportamenti
non comunicativi effettuati in ambito domiciliare”.
I Supremi Giudici sono pervenuti a tale conclusione rilevando che l’inutilizzabilità, come
sanzione processuale per la violazione di regole anche di rango costituzionale, riguarda le
prove tipiche; con riguardo, invece alle prove atipiche, la conseguenza processuale della
loro ritenuta illegalità – nel caso di specie, per violazione del precetto costituzionale
8
“In tema di intercettazioni ambientali, sono utilizzabili i risultati delle videoregistrazioni effettuate con
videocamera all’interno di un’abitazione privata, in quanto esse sono previste dal vigente codice di rito il
quale, autorizzando, ex art. 266, comma secondo, l’intercettazione delle comunicazioni, e non solo delle
conversazioni tra presenti, comprende nel proprio ambito, non solo la comunicazione convenzionale
mediante l’uso del linguaggio, ma anche quella gestuale”.
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contenuto nell’art. 14 e quindi del dettato dell’art. 191, primo comma, cpp.9 – sarebbe
quella della loro inammissibilità.
In ultima analisi, la videoripresa in ambito domiciliare di comportamenti non
comunicativi ha natura di prova atipica; essa, tuttavia, in mancanza di espressa e
specifica normativa che – in ossequio alla riserva di legge contenuta nell’art. 14 Cost. consenta di superare i limiti posti dal citato art. 14 all’inviolabilità del domicilio, è allo
stato vietata dalla legge e pertanto, in ossequio al dettato degli artt. 189 e 190, primo
comma, cpp., inammissibile.
Le Sezioni Unite, con l’occasione, non hanno mancato di affrontare anche l’importante
tema della nozione di domicilio, rilevante ai fini delle questioni che stiamo analizzando.
Dopo un ulteriore esauriente disamina dello stato della giurisprudenza al riguardo, che ha
evidenziato il contrasto tuttora esistente circa la possibilità di riconoscere un domicilio
anche nell’abitacolo di un’autovettura o nella toilette di un locale pubblico, la Corte ha
affermato che “il concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con
qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza”, rilevando come “il
rapporto tra persona e il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche
quando la persona è assente”, prevedendo un rapporto di “stabilità”.
La toilette di un locale pubblico è dunque luogo pubblico, al pari dei camerini o dei
privés di alcuni locali pubblici; tanto è vero che chiunque può entrare in una toilette
pubblica quando è libera e la polizia giudiziaria potrebbe ispezionarla indipendentemente
dalla sussistenza dei presupposti processuali di un’ispezione.
La conseguenza è che alle videoriprese effettuate in tali ambienti si debbano applicare le
regole delle videoregistrazioni in luogo pubblico che, se effettuate nel contesto
procedimentale, saranno soggette - quale prove atipiche raccolte non in violazione di
precetti costituzionali (stante la pubblicità del luogo e la conseguente inesistenza di
riservatezza) alle regole dell’art. 189 cpp., previo atto motivato dell’A.G..
A tale riguardo – e per concludere sul punto – non è fuor di luogo sottolineare
l’opportunità che tal atti siano congruamente motivati anche con riguardo allo scopo che
tramite la videoriprese si intenda raggiungere.
4. L’autorizzazione.
Come si è accennato, il mezzo di ricerca della prova di cui ci stiamo occupando dev’essere
preventivamente autorizzato dal Giudice, con l’evidente intento del legislatore di imporre
un preventivo accertamento della serietà delle esigenze investigative, che possa
9
Al riguardo, i Supremi Giudici non hanno mancato di osservare che “se il sistema processuale deve avere
una sua coerenza risulta difficile accettare l’idea che una violazione del domicilio che la legge processuale
non prevede (e che per tale ragione risulta in contrasto con il contenuto precettivo dell’art. 14 Cost.) possa
legittimare la produzione di materiale di valore probatorio e che inoltre per le riprese di comportamenti
non comunicativi possano valere regole meno garantiste di quelle applicabili alle riprese di
comportamenti comunicativi…”.
13
giustificare la compressione del diritto costituzionalmente protetto alla libertà e segretezza
delle comunicazioni.
Con riguardo all’autorizzazione che il Giudice deve dare per consentire al P.M. di
effettuare l’intercettazione, le principali questioni applicative riguardano i presupposti del
provvedimento autorizzatorio e la sua motivazione.
Con riguardo al primo aspetto, la giurisprudenza ha affermato che “…l’assoluta
indispensabilità delle operazioni ai fini della prosecuzione delle indagini – cui l’art. 267
comma primo cpp. subordina tra l’altro il rilascio dell’autorizzazione giudiziale – è
questione rimessa alla valutazione esclusiva del giudice di merito, la cui decisione può
essere censurata, in sede di legittimità, sotto il solo profilo della manifesta illogicità della
motivazione”: Cass., VI, 25 settembre 2003, n° 49119, imp. Scremin.
La giurisprudenza è poi costante nell’affermare che il requisito della gravità degli indizi
di reato “va inteso non in senso probatorio (ossia come valutazione del fondamento
dell’accusa), ma come vaglio di particolare serietà delle ipotesi delittuose configurate, che
non devono essere meramente ipotetiche”: Cass. V, 8 ottobre 2003, n° 41131, imp. Liscai;
conf. Cass., IV, 16 gennaio 2005, n° 1848, imp. Bruzzese ed altro, rel. ed est. Bricchetti,
secondo cui “i gravi indizi di reato (e non di reità)…attengono all’esistenza dell’illecito
penale, e non alla colpevolezza”.
Di conseguenza, sono state ritenute legittime le intercettazioni effettuate a carico di
persona non identificata, non ancora iscritta nel registro degli indagati o non raggiunta
personalmente da indizi di reato.
Con riguardo alla motivazione dell’ordinanza, la giurisprudenza, vista l’importanza ed il
rilievo, anche costituzionale, degli interessi in gioco, ha rammentato che “il giudice deve
fornire concreta dimostrazione del corretto uso del potere conferitogli tramite un’adeguata
e specifica motivazione del provvedimento autorizzativi. Ne consegue che detto obbligo
motivazionale non può ritenersi assolto con il ricorso a citazioni o perifrasi apodittiche del
contenuto delle norme che disciplinano l’assunzione del mezzo probatorio, né con il mero
richiamo del contenuto delle richieste inoltrate dagli organi investigativi”: Cass., VI, 25
novembre 2003, n° 727, imp. Matarrelli.
E’ stata, tuttavia, ritenuta legittima la motivazione per relationem rispetto alla richiesta del
P.M., se allegata, seppure in modo parziale o priva della sottoscrizione (cfr. Cass., S.U., 26
novembre 2003, n° 919, imp. Gatto; conf. I, 3 febbraio 2005, n° 11525, imp. Gallace) e se
adeguatamente motivata (cfr. Cass., I, 20 dicembre 2004, n° 2612, ric. P.G.), giacché in tutti
questi casi è evidenziato l’iter cognitivo e valutativo seguito dal Giudice per giustificare il
mezzo di ricerca della prova.
E’ bene comunque ricordare che “la motivazione dei decreti di autorizzazione
all’intercettazione di comunicazioni, ove sia manchevole, non può essere integrata (nel
senso proprio del termine) da quella contenuta in altri, successivi provvedimenti
giudiziari, i quali possono, però, fornirne una interpretazione che valga a chiarirne, anche
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con riferimento ad altri atti del procedimento, la effettiva portata”: Cass., VI, 11 maggio
2005, n° 33750, imp. Longoni ed altro.
Un’ultima annotazione.
“…I decreti autorizzativi delle intercettazioni non rientrano tra gli atti che, ai sensi
dell’art. 431, comma primo, cpp. devono entrare a far parte del fascicolo per il
dibattimento, sicché il mancato inserimento di tali atti nel fascicolo non determina alcuna
inutilizzabilità o nullità del mezzo di ricerca della prova, in quanto siffatte conseguenza
sono riconducibili solo all’inesistenza o non validità dei decreti che comportano, ove
prospettate, le necessarie verifiche da parte del giudice procedente”: Cass., I, 21 settembre
2005, n° 45418, imp. Auriemma ed altri; conf. Cass., IV, 17 dicembre 2003, n° 11528, imp.
Federigi ed altri, Cass., IV, 25 febbraio 2004, n° 21726, imp. Spadaio ed altri.
5. Le intercettazioni urgenti.
La disciplina è prevista dall’art. 267, secondo comma, cpp..
Poche annotazioni giurisprudenziali.
La prima attiene al principio, secondo il quale “i casi di urgenza che abilitano il P.M.
all’emissione del decreto di intercettazione di conversazioni o comunicazioni ex art. 267,
secondo comma, cpp. possono essere considerati come le “le eccezionali ragioni
d’urgenza”, che legittimano l’esecuzione mediante impianti in dotazione alla polizia
giudiziaria – in quanto quelli istallati nella Procura della Repubblica siano insufficienti o
inidonei – quando le ragioni addotte a fondamento dell’esigenza di attuare
immediatamente le operazioni di intercettazione risultano incompatibili non solo con la
procedura ordinaria della richiesta autorizzatoria al giudice per le indagini preliminari,
ma anche con la sufficienza o idoneità degli impianti presenti nei locali della procura della
Repubblica”: Cass., VI, 11 aprile 2005, n° 27852, imp. Sorrenti.
Nello stesso senso si è espressa Cass., VI, 19 maggio 2005, n° 32469, imp. Roveto, che ne ha
tratto la conseguenza, in punto di convalida, che “se il decreto di urgenza del P.M. è
convalidato dal giudice, non può più farsi questione della sussistenza dei requisiti di
urgenza ai fini sia dell’art. 267, secondo comma, sia dell’art. 268, comma terzo, cpp.”; conf.
già Cass., I, 22 aprile 2004, n° 23512, imp. Termini.
La secondo annotazione riguarda il termine (immediatamente e comunque non oltre le
ventiquattro ore) previsto dall’art. 267, comma 2, per la trasmissione al giudice della
convalida del decreto con il quale il P.M. abbia disposto l’intercettazione urgente: esso è
stato giudicato di carattere “meramente ordinatorio” da Cass., I, 4 novembre 2003, n°
6875, imp. Carbonaro, che ne ha dedotto che “la sanzione di inutilizzabilità delle risultanze
acquisite si determina solo nel caso che il provvedimento di convalida del giudice non
intervenga entro quarantotto ore dall’adozione del decreto in questione.
15
E qui, oltre alle frizioni fra gli Uffici, sorge la questione ulteriore delle modalità di
certificazione dei passaggi della richiesta dalla Procura della Repubblica all’Ufficio del
Gip., ai fini della verifica del rispetto dei termini che, come si è visto, sono strettissimi.
La giurisprudenza al riguardo è sufficientemente chiara.
Posto che, fuori dai casi di lettura o comunicazione in udienza, “un provvedimento del
P.M. o del Giudice è pubblicato con il deposito presso la segreteria o la cancelleria”, che
segna il momento in cui si determinano “gli effetti giuridici del provvedimento”, ancorché
già “valido e perfetto” (cfr. Cass., II, 23 novembre 2004, n° 42, imp. Meta ed altro),
“l’attestazione dell’ora di ricezione presso l’ufficio G.i.p. della richiesta di convalida del
provvedimento d’urgenza di proroga delle intercettazioni e l’attestazione sul conseguente
decreto di convalida dell’ora di emissione non sono adempimenti prescritti dalla legge a
pena di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, ma l’eventuale intempestività di
tali atti può essere provata attraverso le annotazioni apposte sul registro interno di
passaggio. E’ onere della parte, che deduce l’inutilizzabilità dei risultati delle
intercettazioni, richiedere una certificazione delle annotazioni del registro interno di
passaggio alla cancelleria o segreteria degli uffici interessati per fare così risultare il
mancato rispetto delle cadenza temporali previste per il procedimento di convalida”:
Cass., VI, 7 luglio 2005, n° 38325, imp. Badami; nello stesso senso, Cass., II, 13 ottobre 2005,
n° 41603, imp. D’Arpa, in relazione a provvedimento di convalida datato e sottoscritto dal
Gip., ma non dal cancelliere.
In conclusione: “il provvedimento che è emesso fuori dell’udienza, se privo della data di
deposito, non é nullo o addirittura inesistente, perché la data è elemento estrinseco al
provvedimento, previsto ai fini dell’efficacia, e serve a fissare il momento di inizio della
sua rilevanza esterna. Ne consegue che alla omessa indicazione della data di deposito si
può sopperire in presenza di altre formalità del pari fidefacienti, contenute anche in atti
connessi, e che vi è pertanto difetto essenziale della data solo se la data certa non possa
desumersi aliunde”: Cass., II, 18 ottobre 2005, n° 42318, imp. Prati.
Cosa dire? Che vale la pena di curare, ciascuno per la parte di propria competenza e nei
limiti del possibile, che cancellerie e segreterie attestino con cura e tempestività il deposito
dei provvedimenti, nell’ambito di precise opzioni organizzative; ciò varrà non solo ad
eliminare contrasti e contestazioni, ma determinerà un minore aggravio del lavoro dei
collaboratori del magistrato, che verranno sollevati dall’onere delle citate certificazioni.
6. L’esecuzione delle operazioni: la regola generale dell’uso degli impianti installati nella procura
della Repubblica e sue applicazioni; l’ “istradamento”.
La disciplina codicistica – lo si è accennato – prevede che le operazioni captative di
conversazioni e comunicazioni, anche tra persone presenti, siano disposte ex art. 267 cpp.,
previo decreto motivato di autorizzazione del Giudice, dal Pubblico Ministero, il quale
detta anche le modalità e la durata di esse, curandone l’esecuzione direttamente oppure
delegandola, sotto il proprio diretto controllo, alla polizia giudiziaria.
16
Scopo della disciplina è quello di rendere possibile la valutazione, da parte del Giudice,
del bilanciamento degli interessi di rango costituzionale in conflitto – quello alla
riservatezza e quello alla prevenzione e repressione dei reati -, al fine di prevenire abusi.
In vista di tale importante obiettivo, la norma processuale prevede, oltre al controllo
giurisdizionale, ulteriori garanzie di natura tecnica, relative agli impianti utilizzati.
La stessa Corte Costituzionale, del resto, ha più volte rilevato che ogni compressione del
diritto alla riservatezza è legittimata solo dal provvedimento motivato del Giudice, con la
conseguenza che a tale garanzia non possono essere sottratte le modalità concrete con le
quali si procede alle intercettazioni10.
Per tale ragione il codice ha stabilito la regola generale fissata dal primo comma dell’art.
368 cpp., secondo cui “le operazioni possono essere compiute esclusivamente per mezzo
degli impianti installati nella Procura della Repubblica”, ritenuti, all’evidenza,
maggiormente affidabili e non manipolabili, in quanto nella immediata e concreta
disponibilità dell’Autorità Giudiziaria e sottoposti al suo diretto controllo.
Poco importa, dunque, che le operazioni di ascolto avvengano utilizzando il sistema
dell’istradamento – vale a dire la destinazione ad uno specifico nodo telefonico – del
suono negli uffici dei comandi della polizia giudiziaria, anziché nei locali della Procura
della Repubblica, purché tali modalità esecutive assicurino comunque la possibilità di
ascolto anche nell’Ufficio giudiziario, dove avviene concretamente la captazione, grazie
agli strumenti ivi esistenti: tale modalità non rende inutilizzabili le intercettazioni: Cass.,
IV, 28 febbraio 2005, n° 20140, imp. Lettera.
E’ stata ritenuta legittima anche la modalità dell’istradamento delle telefonate estere
provenienti da una determinata zona, senza che fosse stata avviata un’apposita rogatoria
internazionale, posto che l’intera attività di captazione e registrazione si svolge sul
territorio nazionale: cfr. Cass., VI, 2 novembre 2004, n° 7258, imp. Commisso ed altri; conf.
Cass., IV, 14 maggio 2004, n° 32904, imp. Belforte ed altri 11.
Né comporta inutilizzabilità il fatto che la redazione del verbale concernente le operazioni
di intercettazione, con la contestuale sommaria trascrizione del contenuto delle
comunicazioni intercettate avvenga negli uffici della polizia giudiziaria, purché la
captazione delle comunicazioni avvenga mediante impianti e strumenti esistenti
nell’Ufficio giudiziario: Cass., VI, 14 gennaio 2005, n° 7245, imp. Sardi.
10
Cfr. Corte Cost. sent. 21 marzo 1973, n° 34; sent. 16 dicembre 1992, n° 81; ord. 7 aprile 2004, n° 275.
Non é superfluo evidenziare come la giurisprudenza abbia avuto modo di affermare anche che “in tema di
intercettazioni telefoniche, nel caso in cui le relative operazioni riguardino un’utenza telefonica mobile, non
rileva, al fine della individuazione della giurisdizione competente, il luogo dove sia in uso il relativo
apparecchio, bensì esclusivamente la nazionalità dell’utenza, essendo tali apparecchi soggetti alla
regolamentazione tecnica e giuridica dello stato cui appartiene l’ente gestore del servizio. Ne consegue che
non è necessario esperire una rogatoria internazionale, se le operazioni di intercettazione di un’utenza
mobile nazionale in uso all’estero possono essere svolte interamente nel territorio dello Stato”: Cass., IV, 7
giugno 2005, n° 35229, imp. Mercato Vasquez.
11
17
E’ tuttavia possibile che si faccia ricorso ad apparecchiature e strumenti di pubblico
servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria.
6.a. L’ipotesi eccezionale dell’utilizzazione di impianti in dotazione alla polizia giudiziaria:
presupposti.
La possibilità di deroga alla regola generale è soggetta all’esistenza di due presupposti:
che gli impianti esistenti presso l’Ufficio giudiziario siano insufficienti o inidonei e che
sussistano eccezionali ragioni di urgenza.
La giurisprudenza si è ovviamente occupata di meglio chiarire la portata di tali
presupposti ed ha spiegato che “l’idoneità dell’impianto…attiene non solo all’aspetto
“tecnico” o “strutturale”, concernente le condizioni materiali dell’impianto stesso, ma
anche a quello cosiddetto “funzionale”, da valutare in relazione al tipo di indagine che si
svolge e allo specifico delitto per il quale si procede”: Cass., I, 14 novembre 2005, n° 1033,
imp. Cerchi ed altri; conf. Cass., I, 23 giugno 2005, n° 34814, imp. D’Agostino ed altri e Cass.,
I, 17 febbraio 2006, n° 11576, imp. Vecchione ed altro.
E’ stato così ritenuto legittimo l’utilizzo di impianti esterni determinato dall’esigenza di
collocare le postazioni d’ascolto nelle immediate vicinanze dei luoghi di esecuzione di
efferati delitti, al fine di poter tempestivamente ed efficacemente intervenire, oppure
dall’esigenza di catturare un latitante.
Può essere interessante aggiungere che la giurisprudenza ha affermato che non è
necessario, ai fini dell’utilizzabilità dell’intercettazione, che il P.M. alleghi una
certificazione dell’insufficienza o dell’inidoneità dei suoi impianti, giacché
“l’accertamento della carenza o inidoneità degli impianti…è di competenza del P.M. e per
esso non è richiesta alcuna certificazione ma la sola indicazione delle ragioni delle carenze
degli impianti stessi”: Cass., VI, 16 giugno 2005, n° 28521, imp. Ciaramitaro.
Quanto al presupposto delle “eccezionali ragioni di urgenza”, spesso la Suprema Corte
ha affermato che i “casi d’urgenza”, in base ai quali il P.M. può disporre l’intercettazione
ex art. 267, secondo comma, cpp. senza la previa autorizzazione del Giudice,
“comprendono di norma” le “eccezionali ragioni di urgenza” che legittimano ex art. 268,
terzo comma, cpp. il ricorso ad impianti esterni alla Procura della Repubblica, con la
conseguenza che la motivazione sull’urgenza ex art. 267 cpp. assorbirebbe quella sulla
eccezionale urgenza ex art. 268 cpp. se le ragioni addotte appaiano incompatibili con
l’attesa di ottenere la disponibilità degli impianto dell’Ufficio Giudiziario (cfr., da ultimo,
Cass., VI, 19 maggio 2005, n° 32469, imp. Roveto.
Secondo Cass., S.U., 26 novembre 2003, n°919, imp. Gatto, tuttavia, l’uso dell’aggettivo
“eccezionale” rende evidente il fatto che le ragioni che legittimano il ricorso all’utilizzo di
impianti “esterni” non coincidono con quelle che giustificano l’esecuzione disposta in via
d’urgenza con decreto dal Pubblico Ministero ex art. 267, secondo comma, cpp., giacché
quelle che giustificano il ricorso ad impianti della polizia giudiziaria sono ragioni più
cospicue e pregnanti.
18
Appare allora evidente l’importanza fondamentale che assume la motivazione dei
relativi provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria.
6.b. La motivazione.
Intanto, la motivazione ci dev’essere.
La Corte di Cassazione, infatti, ha affermato che “la totale mancanza di motivazione dei
decreti del P.M. che autorizzano l’ascolto mediante impianti diversi da quelli installati
nella Procura della Repubblica per la inadeguatezza o indisponibilità di questi ultimi,
comporta la inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni…”: Cass. I, 9 luglio 2004, n°
37163, imp. Contaldo ed altri.
Inoltre, “…la motivazione relativa alla insufficienza o inidoneità degli impianti della
procura della Repubblica non può limitarsi a dare atto di tale situazione, ma deve anche
specificare le ragioni di tale inidoneità o insufficienza, sia pure mediante una
indicazione sintetica, purché non si traduca nella mera riproduzione del testo della legge
bensì dia conto del fatto storico, ricadente nell’ambito dei poteri di cognizione del P.M.,
che ha dato causa ad essa”: Cass., 4 ottobre 2004, n° 46551, imp. Antonietti ed altri; conf.
Cass., S.U., 26 novembre 2003, n° 919, imp. Gatto e, da ultimo, Cass., S.U., 29 novembre
2005, n° 2737, imp. Campenni.
La ragione è evidente: solo la motivazione dà conto del fatto che il magistrato ha accertato
l’esistenza dei presupposti, ha proceduto alla corretta valutazione degli interessi di rango
costituzionale in conflitto, ha proceduto ad un corretto uso del potere conferitogli, ha
vagliato il rispetto delle garanzie relative agli aspetti tecnici dell’intercettazione e può
quindi assicurare che si proceda alle specifiche intercettazioni autorizzate, nei limiti
dell’autorizzazione.
E’ stata ritenuta legittima la motivazione per relationem, “allorché 1) il provvedimento a
tal fine richiamato (nella specie il decreto autorizzativi del ricorso al mezzo di ricerca della
prova emesso dal giudice per le indagini preliminari) contenga idonea giustificazione
della sussistenza di eccezionali ragioni di urgenza o dell’insufficienza o inidoneità degli
apparati installati presso l’ufficio di procura; 2) abbia natura di atto del medesimo
procedimento; 3) sia, se non allegato o trascritto nel provvedimento da motivare,
conosciuto dall’interessato ovvero a lui ostensibile…”: Cass., S.U. 31 ottobre 2001, n°
42792, imp. Policastro ed altri.
E’ stata ritenuta legittima anche la motivazione implicita, che si verifica “allorquando essa
sia desumibile dal riferimento ad attività criminosa in corso, quale deve ritenersi quella di
un’associazione di tipo mafioso, per sua natura di carattere permanente”: Cass., I, 3
febbraio 2005, n° 11525, imp. Gallace.
19
6.b. a. La questione della integrazione della motivazione ed il recente intervento delle Sezioni Unite.
E’ stata poi molto dibattuta la possibilità che la motivazione del decreto del Pubblico
Ministero di autorizzazione a far uso di impianti esterni alla Procura della Repubblica
possa essere adottata o anche solo integrata con un successivo provvedimento, emesso
dopo l’esecuzione delle operazioni captatorie, ma prima dell’utilizzazione dei loro
risultati.
Secondo un primo orientamento, l’eventuale deficit motivazionale del decreto del P.M.
con il quale si sia disposto l’utilizzo di impianti esterni all’Ufficio giudiziario potrebbe
essere colmato da un provvedimento successivo all’inizio delle operazioni di
intercettazione, ma anteriore all’utilizzazione del risultato dell’operazione; “in tal caso,
infatti, il provvedimento successivo ha valenza integrativa ed esplicativa del precedente
provvedimento, cui accede e col quale si coniuga, ed il suo intervento prima
dell’utilizzazione delle risultanze dell’operazione per un verso consente il controllo del
giudice cui l’atto è sottoposto,e, per altro verso, rende edotto anche l’interessato delle
ragioni effettive che hanno giustificato la deroga alla regola generale”: Cass. 21 giugno
2004, n° 34181, imp. Sgroi; conf. Cass., VI, 21 gennaio 1994, n° 7691, imp. Flori.
Secondo un diverso orientamento, “gli elementi ricavati da intercettazioni eseguite presso
impianti diversi da quelli in dotazione alla Procura della Repubblica, in totale mancanza
di specifico provvedimento del P.M. ai sensi dell'art. 268, comma terzo, del codice di
procedura penale, sono inutilizzabili in giudizio. Ed invero, la mancata attuazione, nelle
forme prescritte, del preventivo controllo dell'autorità giudiziaria circa le modalità
dell’intercettazione, coinvolgendo il diritto, di rango costituzionale, alla riservatezza delle
comunicazioni che riguarda non il solo indagato, ma una pluralità non preventivamente
determinabile di soggetti, dà luogo automaticamente ad una situazione di radicale
illegittimità sanzionata non solo dalla inutilizzabilità dei risultati, ma addirittura dalla
fisica distruzione del materiale ricavato, che il giudice deve disporre d'ufficio in ogni stato
e grado del processo: il che esclude altresì, evidentemente, la possibilità di qualsiasi
intervento correttivo successivo all’esecuzione delle operazioni”: Cass., 7 ottobre 1997, n°
11077, imp. Bonavota ed altri.
Sul punto sono intervenute di recente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la
sentenza del 29 novembre 2005, n° 2737, imp. Campenni.
I Supremi Giudici hanno ribadito che il ricorso ad impianti esterni alla Procura della
Repubblica è legittimo solo in presenza dei presupposti della insufficienza o inidoneità
degli impianti dell’Ufficio giudiziario e della ricorrenza di eccezionali ragioni di urgenza,
da una parte, e di provvedimento motivato dell’A.G., dall’altra.
Hanno quindi rimarcato come le finalità della motivazione siano quelle di dare contezza
del ponderato bilanciamento degli interessi di rango costituzionale in gioco, della
correttezza dell’uso del potere attribuito al P.M., dell’affidabilità tecnica delle
apparecchiature utilizzate e del fatto che si proceda all’effettuazione proprio delle
specifiche intercettazioni autorizzate dal Giudice, nei limiti dell’autorizzazione da lui
concessa.
20
Ne hanno quindi tratto la conseguenza che poiché “solo il decreto motivato (e, quindi, il
provvedimento determinativo al riguardo unitamente alle ragioni che lo sorreggono)
autorizza il ricorso a quegli strumenti operativi e rende legittima l’attività captativa che
realizza in concreto quella “formidabile capacità intrusiva” che le è connaturata, non può
non convenirsi – tanto fungendo da requisito ineludibile per l’espletamento di tale attività
con quelle modalità tecniche – che tale condizione deve essere assicurata ed assolta
prima che l’attività medesima venga posta in essere: l’assolvimento di tale obbligo
funge, difatti, da condizione legittimante la futura attività captativa, e non può, perciò,
che precederla”.
Ovvia allora la conclusione: “il mancato adempimento di tale previa attività connota,
quindi, di definitiva ed irreversibile patologicità l’attività in tal guisa posta in essere,
patologicità che…sortisce, poi, l’esito della inutilizzabilità delle relative acquisizioni, quale
sua ineludibile conseguenza”.
Il ragionamento e le conclusioni sono tanto perentori, quanto chiari.
Due le conseguenze di carattere pratico.
La prima: visto che il controllo sulla sussistenza dei presupposti della deroga alla regola
generale, esplicitato nella congrua motivazione del provvedimento dell’A.G., deve
necessariamente precedere il compimento dell’attività captatoria, costituendone
condizione di legittimità, l’eventuale integrazione della motivazione del
provvedimento, certo possibile (sempre nella richiesta forma documentale), deve
comunque precedere l’inizio delle operazioni di intercettazione; “è, difatti, il
compimento dell’atto che segna il discrimine invalicabile entro ci la motivazione deve
essere resa…Ove tali obblighi di legge vengano assolti in epoca successiva al compimento
dell’atto, tratterebbesi di un controllo e di una delibazione non più preventivi, idonei cioè
a legittimare un’attività che si intende compiere, ma successivi, intesi, semmai, a
giustificare un’attività già posta in essere”, in violazione della norma costituzionale che
vuole che il controllo sia preventivo, per evitare interventi sostanzialmente
autoreferenziali ed incontrollabili.
Seconda conseguenza: l’eventuale integrazione motivazionale non può mai essere
operata dal Giudice ex post; tanto più che le modalità esecutive dell’attività intercettative
sono di pertinenza del Pubblico Ministero e , secondo i principi generali, non è dato al
Giudice di integrare un atto di parte, ancorché pubblica.
Il Giudice potrà quindi solo limitarsi a valutare la congruità della motivazione alla luce
delle ragioni in essa esplicitate.
Le Sezioni Unite hanno quindi affermato esplicitamente il seguente principio di diritto:
“in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di
autorizzazione alla utilizzazione di impianti diversi da quelli in dotazione alla Procura
della Repubblica, ai sensi dell’art. 268, terzo comma, cpp., la motivazione del decreto del
pubblico ministero, in ordine ad entrambi i presupposti di legge (la inidoneità o
21
insufficienza degli apparati in uso all’ufficio giudiziario e la eccezionale urgenza) deve
intervenire prima della esecuzione delle operazioni captative; il pubblico ministero può
rendere la relativa motivazione, o integrarla, anche in momento successivo a quello in cui
abbia, eventualmente, disposto l’esecuzione delle operazioni, ma comunque sempre ed in
ogni caso prima che le operazioni medesime vengano eseguite. Non è dato al giudice di
emendare il decreto del pubblico ministero sostituendosi a lui nel rendere una
motivazione non data dall’inquirente o di integrarla, appropriandosi di ambiti di
discrezionalità delibativi e determinativa che spettano solo alla parte pubblica”.
Compatibile con tale principio è l’affermazione, secondo la quale la effettiva sussistenza
delle condizioni che legittimano il ricorso all’utilizzazione di impianti esterni alla procura
possa “essere autonomamente accertata ex post dalla Cassazione, nei limiti in cui sia
desumibile dai dati di fatto” (Cass., V, 12 aprile 2006, n° 16956, imp. Pulvirenti; conf. Cass.,
V, 12 gennaio 2006, n° 7039, imp. Gandolfo e Cass., V, 12 gennaio 2006, n° 10449, imp. Di
Stefano), trattandosi di questione che attiene alla valutazione della eventuale,
conseguente invalidità processuale.
E’ stato anche ritenuto che “se il decreto con cui il pubblico ministero dispone l’utilizzo di
impianti diversi da quelli installati nella procura della Repubblica è motivato, o integrato
nella motivazione, in un momento successivo alla sua emissione e ad operazioni di ascolto
già iniziate, i risultati intercettativi utilizzabili sono solo quelli raccolti da quel momento
in avanti, e sono invece inutilizzabili i risultati intercettativi raccolti dall’inizio delle
operazioni e sino al momento dell’intervento tardivo sulla motivazione del decreto”:
Cass., II, 15 febbraio 2006, n° 7788, imp. Navarria.
Resta solo da stabilire, per completezza di analisi, quali siano gli impianti installati presso
la Procura della Repubblica e quali quelli in dotazione alla polizia giudiziaria.
6.b.b. Impianti installati nella procura ed impianti in dotazione alla polizia giudiziaria.
L’art. 268, terzo comma, cpp. fa riferimento espresso agli “impianti installati nella procura
della Repubblica”.
Poiché essere installati non significa necessariamente appartenere all’Ufficio Giudiziario,
è stato chiarito che “la modalità ordinaria di esecuzione delle operazioni consiste nell’uso
di impianti installati nella procura della Repubblica, senza che abbia alcun rilievo il
titolo da cui deriva la disponibilità degli stessi impianti, che ben può essere costituito da
un contratto di locazione stipulato al fine specifico di condurre le operazioni da compiere.
Anche in tale ultimo caso non ricorre l’ipotesi del ricorso ad impianti di pubblico servizio
o in dotazione alla polizia giudiziaria, essendo gli apparecchi comunque installati presso
la procura…”: Cass., I, 11 novembre 2003, n° 6905, imp. Franchini ed altri; conf. Cass., VI,
1° dicembre 2003, n° 2845, imp. Cavataio.
Quanto invece agli impianti in dotazione alla polizia giudiziaria, la giurisprudenza ha
chiarito che debba considerarsi tale “qualunque apparecchiatura della quale la stessa abbia
la disponibilità presso i propri uffici, e dunque anche il materiale tecnico che,
22
appartenendo a privati, venga da costoro consegnato in via precaria per effetto di noleggio
o d’un qualunque altro contratto”: Cass., II, 18 novembre 2004, n° 48461, imp. Chirillo; conf.
Cass., IV, 1° luglio 2003, n° 35186, imp. Rodorigo ed altro, nonché Cass., I, 20 dicembre
2004, n° 2613, imp. Bolognino ed altri, e Cass., II, 14 dicembre 2005, n° 1595, imp.
Prezzavento, che hanno specificato tale uso è legittimo a condizione che le operazioni
avvengano sotto il controllo della polizia giudiziaria ed il privato agisca come longa manus
di essa.
E’ stato ulteriormente precisato, infine, che le apparecchiature utilizzate dalla polizia
giudiziaria possono anche restare di proprietà del privato, ma al privato, in tal caso, è fatto
divieto di accedere alla propria strumentazione fino a quando essa è utilizzata per
l’intercettazione: cfr. Cass., VI, 16 giugno 2005, n° 28514, imp. Contorno.
7. La “circolazione” delle intercettazioni tra i procedimenti.
L’art. 270, primo comma, cpp. fissa la regola generale, secondo la quale “i risultati delle
intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali
sono stati disposti”, nell’evidente intento di salvaguardare il diritto di difesa degli indagati
nel procedimento diverso.
E’ noto, tuttavia, che è prevista l’eccezione a tale regola, nel caso in cui le intercettazioni
risultino “indispensabili” per l’accertamento di quei reati più gravi, per i quali è
obbligatorio l’arresto in flagranza.
E’ importante, allora, intendersi anzitutto su quale sia il procedimento diverso, nel quale
l’utilizzazione del risultato dell’intercettazione sia indispensabile, perché – ovviamente solo per il procedimento diverso valgono i limiti di utilizzabilità fissati dal codice.
La Corte di Cassazione ha specificato che “il concetto di diverso procedimento…non si
estende fino ad escludere la possibilità di utilizzazione delle intercettazioni in
procedimenti concernenti indagini strettamente connesse o collegate, sotto il profilo
oggettivo, probatorio e finalistico al reato in ordine al quale il mezzo di ricerca della prova
è stato disposto. Inoltre, la diversità del procedimento di cui si parla deve assumere rilievo
di carattere sostanziale e non può essere ricollegata a dati meramente formali, quale la
materiale distinzione degli incartamenti relativi a due procedimenti o il loro diverso
numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato”: Cass., II, 19 gennaio 2004, n° 9579,
imp. Amato; conf. Cass. VI, 15 gennaio 2004, n° 4942, imp. Kolakowska Bozena.
Quindi, la diversità del procedimento non dipende dalla diversità del reato oggetto di
esso, ma è diverso solo quel procedimento che, in senso sostanziale, riguardi un fatto
diverso, non connesso o collegato all’altro sotto il profilo oggettivo, probatorio o
finalistico: cfr. Cass., I, 4 novembre 2004, n° 46075, imp. Kunsmonas; conf. già Cass., VI, 17
maggio 1997, n° 1972, imp. Pacini Battaglia.
Anche se la Suprema Corte non ha avuto modo di chiarirlo espressamente, credo che non
si possa dubitare che, data la codificazione delle relative categorie, i procedimenti siano
23
connessi o collegati nei casi disciplinati, rispettivamente, dagli artt. 12 e 371, secondo
comma, cpp..
Quanto alla nozione di “indispensabilità”, la Corte di Cassazione ha affermato che non
possa darsene un’interpretazione riduttiva, nel senso che l’utilizzazione sia possibile solo
quando i risultati dell’intercettazione siano indispensabili all’accertamento del reato,
altrimenti non dimostrabile attraverso altro mezzo di prova, ma “deve ritenersi che
l’indispensabilità dell’accertamento vada riferita a tutta l’imputazione, compresi i fatti
relativi alla punibilità, alla determinazione della pena ed alla qualificazione del reato
medesimo in rapporto alle circostanze attenuanti o aggravanti: Cass., VI, 27 maggio 2005,
n° 33968, imp. Martinelli; conf. già Cass., VI, 26 marzo 1996, n° 5363, imp. Sollecito, nonché
Cass., II, 25 novembre 2005, n° 2809, imp. Parisi, secondo la quale la “circolazione” può
avvenire anche quando il risultato dell’intercettazione serva nel procedimento ad quem per
riscontrare dichiarazioni accusatorie.
Se ricorrono le condizioni previste dalla legge, il risultato delle intercettazioni effettuate
nel procedimento a quo potrà essere utilizzato nel procedimento ad quem in tutte le sue fasi
e dunque anche nell’ambito delle indagini preliminari, al fine di acquisire ulteriori fonti
di prova, ad esempio per disporre una perquisizione ed il relativo sequestro: cfr. Cass., III,
19 ottobre 2005, n° 41957, imp. Garruti.
Come si accennava, l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in un procedimento
diverso comporta un certo sacrificio del diritto di difesa di chi sia indagato nel
procedimento ad quem.
Per limitare questo sacrificio, il legislatore ha previsto il deposito dei verbali e delle
registrazioni presso la cancelleria del Giudice ad quem e l’estensione al procedimento
“ricevente” delle garanzie previste dall’art. 268, commi 6, 7 e 8, cpp., vale a dire il diritto
agli avvisi di deposito, ad esaminare gli atti e ad ascoltare le registrazioni, alla trascrizione,
all’estrazione di copia.
La Corte di Cassazione è intervenuta anche in ordine a tali aspetti.
Cass., I, 22 marzo 2005, n° 15328, imp. D’Amico ed altri, ha affermato, ad esempio, che
“l’art. 270 cpp., nel richiamare il rispetto delle disposizioni dell’art. 268, commi sesto,
settimo ed ottavo, non esige il rifacimento delle operazioni di trascrizione12, risultando
Vale la pena di ricordare che la trascrizione mediante perizia è la forma più completa e garantita di
trasposizione grafica del contenuto delle comunicazioni o delle conversazioni intercettate; da essa vanno
distinti i cosiddetti brogliacci di ascolto ovvero gli appunti, redatti dalla polizia giudiziaria durante le
intercettazioni, facenti parte ex art. 268, secondo comma, cpp. del verbale delle operazioni captative, nonché
le trascrizioni che del contenuto delle intercettazione possano essere state fatte dalla polizia giudiziaria
medesima, alle quali è attribuita diversa efficacia probatoria.
12
La giurisprudenza ha rimarcato tale distinzione, affermando, ad esempio, che “la richiesta di misura
cautelare può legittimamente essere fondata sull’allegazione delle trascrizioni sommarie del contenuto delle
comunicazioni (brogliacci di ascolto) ovvero degli appunti raccolti durante le intercettazioni, senza la
necessità di allegazione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni medesime” (cfr. Cass., IV, 26 maggio
2004, n° 39469, imp. Trabelsi Kheimas ed altro).
24
salvaguardate le prerogative della difesa attraverso il deposito nel procedimento
“diverso” degli atti concernenti le intercettazioni”.
Il dibattito giurisprudenziale è stato più articolato in merito a quali documenti dovessero
essere depositati nel procedimento ad quem ai fini dell’utilizzabilità in esso dei risultati
delle intercettazioni.
Secondo un primo indirizzo, basato sulla previsione contenuta nel secondo comma
dell’art. 270 cpp. – che prevede il deposito di verbali e registrazioni “ai fini
dell’utilizzazione prevista dal comma primo -, l’utilizzabilità delle intercettazioni nel
procedimento diverso è subordinata al deposito presso l’A.G. ricevente solo dei verbali e
delle registrazioni delle operazioni captative, “a nulla rilevando che non siano stati
acquisiti anche la richiesta del pubblico ministero e persino lo stesso decreto
autorizzativo”: Cass., VI, 14 aprile 2003, n° 35389, imp. Femia; conf. Cass., F. 31 luglio 2003,
n° 38291, imp. Abbinante.
Secondo altro orientamento, invece, “ai fini dell’utilizzabilità dei risultati di intercettazioni
legittimamente eseguite in altro procedimento ai sensi dell’art. 270 cpp. non è richiesto il
deposito delle registrazioni (bobine) di esse, come pure dei verbali e dei decreti di
autorizzazione, atteso che tali inosservanze non rientrano tra quelle indicate, con carattere
di tassatività, dall’art. 271 cpp.”: Cass. IV, 24 settembre 2003 n° 44518, imp. Grado ed altri;
ed, in effetti, l’art. 271 cpp. prevede l’inutilizzabilità solo di quelle operazioni che non
abbiano rispettato le previsioni degli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, e non anche, dunque,
dell’art. 270, secondo comma, cpp..
Un terzo orientamento è stato espresso da Cass., I, 17 febbraio 2003, n° 11968, imp. Gullo,
secondo cui “il principio secondo il quale al giudice che adotta una misura cautelare e,
successivamente, al giudice del riesame debbono essere trasmessi gli atti autorizzativi
delle intercettazioni trova applicazione anche nel caso in cui si tratti di intercettazioni
eseguite in altri procedimenti ai sensi dell’art. 270 cpp., stante la generale valenza del
disposto dell’art. 271 cpp. e non essendovi ragione di ritenere inoperanti, nel
procedimento in cui l’esito delle intercettazioni é riversato, le garanzie normalmente
spettanti all’indagato nel procedimento da cui le stesse provengono né potendosi ritenere
le operazioni di captazione disposte in una dato procedimento assistite, in quello diverso,
da presunzione di legittimità e sottratte alla doverosa verifica giudiziale dei presupposti di
utilizzabilità”; conf. Cass., I, 22 dicembre 2000, n° 8781, imp. Caramazza, Cass., IV, 24
novembre 2000, n° 5235, imp. Sadra El Hassan.
La questione è stata affrontata e risolta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con
la sentenza del 17 novembre 2004, n° 45189, imp. Esposito, che ha affermato il principio di
diritto secondo cui “ai fini dell’utilizzabilità degli esiti di intercettazioni di conversazioni
Ha anche insegnato che “in tema di intercettazioni telefoniche debbono distinguersi dai cosiddetti
“brogliacci”, consistenti nella sommaria trascrizione delle conversazioni intercettate, effettuata ex art 268,
secondo comma, cpp. nei verbali delle operazioni e in nessun caso utilizzabili ai fini della decisione,le
trascrizioni delle intercettazioni medesime eventualmente effettuate dalla polizia giudiziaria. Le seconde, a
differenza dei primi, ben possono essere utilizzate per la pronuncia della sentenza, fermo il diritto delle parti
di chiedere la trascrizione mediante perizia”: Cass., 28 settembre 2004, n° 47891, imp. Mauro ed altri.
25
o comunicazioni in procedimento diverso da quello nel quale esse furono disposte, non
occorre la produzione del relativo decreto autorizzativo, essendo sufficiente il deposito,
presso l’Autorità giudiziaria competente per il “diverso” procedimento, dei verbali e
delle registrazioni delle intercettazioni medesime”.
La Corte era stata chiamata a valutare la congruità della decisione di un Tribunale della
Libertà che, riesaminando l’ordinanza di applicazione della misura cautelare basata solo
sui risultati di intercettazioni telefoniche effettuate in un procedimento diverso, aveva
annullato la misura cautelare sul rilievo che non fosse stata depositata presso il giudice ad
quem la nota della polizia giudiziaria alla quale aveva fatto rimando il decreto
autorizzativo, la cui legittimità dunque il Tribunale del riesame non aveva potuto vagliare.
I Supremi Giudici hanno fatto notare come il sistema normativo in materia di
intercettazioni distingua nettamente il procedimento volto all’ammissione
dell’intercettazione, intesa come mezzo di ricerca della prova, da quello, successivo, teso
alla selezione della prova ottenuta tramite quello strumento.
Una cosa, infatti, è l’ammissibilità del ricorso allo strumento processuale
dell’intercettazione, in cui è fondamentale verificare l’effettività dell’esigenza di interferire
sulla libertà e segretezza delle comunicazioni; altra cosa è l’ammissibilità della prova
ottenuta, la cui verifica si avvia solo quando l’attività captatoria si è già conclusa.
Da quest’ultimo momento, infatti, inizia il complesso procedimento, disciplinato dai
commi quarto, quinto, sesto ed ottavo dell’art. 268 cpp. (trasmissione dei verbali e delle
registrazione al P.M.; loro deposito in segreteria, insieme ai decreti che hanno disposto,
autorizzato, convalidato o prorogato l’intercettazione; avviso ai difensori di tale deposito e
della loro facoltà di esaminare gli atti ed ascoltare le registrazioni; intervento del giudice,
che dispone l’acquisizione delle intercettazioni non manifestamente irrilevanti indicate
dalle parti e lo stralcio anche d’ufficio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata
l’utilizzazione, mentre verbali e registrazioni che non sono stati neppure acquisiti come
prova rimangono ex art. 269 cpp. custoditi presso il P.M. fino al passaggio in giudicato
della sentenza).
Ne consegue che “mentre per l’ammissione dell’intercettazione si applicano i criteri di
ammissibilità previsti dall’art. 267 cpp., per la selezione dei suoi risultati sono invece
applicabili i criteri di ammissibilità previsti dall’art. 190, comma, 1, cpp.”.
Ciò evidenziato in generale, passando poi alla disciplina eccezionale delineata dall’art. 270
cpp. le Sezioni Unite hanno evidenziato che, siccome essa viene in gioco, ad operazioni di
intercettazione già ultimate, nel caso in cui l’intercettazione sia indispensabile nel
procedimento diverso per l’accertamento di alcuni specifici reati e la rilevanza della prova
acquisita attraverso l’intercettazione dipende dalle specifiche ipotesi di accusa formulate
nel procedimento ad quem, il legislatore ha codificato solo (art. 270, secondo comma, primo
inciso) il rinnovo del deposito di verbali e registrazioni e (art. 268, secondo comma,
secondo inciso, che richiama i commi 6, 7 e 8 dell’art. 268 cpp.) la successiva fase di cernita
delle conversazioni rilevanti, disciplinando così solo il secondo dei due citati
procedimenti previsti dalla disciplina generale, mentre il procedimento di ammissione del
26
mezzo di prova rimane del tutto estraneo alla disciplina dell’utilizzabilità nel
procedimento diverso del risultato dell’intercettazione.
Ecco perché il mancato deposito nel procedimento ad quem dei decreti autorizzativi
adottati nel procedimento a quo non incide sull’utilizzabilità nel primo dei risultati
acquisiti nel secondo.
E, del resto, il primo comma dell’art. 270 cpp., significativamente, fa espresso riferimento
proprio ai “risultati” dell’intercettazione.
Questo, secondo le Sezioni Unite, non significa, tuttavia, che l’eventuale illegittimità
del procedimento di ammissione del mezzo di prova nel procedimento a quo sia
indifferente nel giudizio ad quem.
In tale giudizio essa potrà certamente essere oggetto di valutazione, perché sarebbe del
tutto irragionevole il contrario; solo che l’eventuale inutilizzabilità sarà conseguenza non
del mero difetto di trasmissione dell’atto che ha legittimato l’intercettazione, ma dalla
illegalità - verrebbe da dire, ontologica - dell’ammissione del mezzo di prova, conseguenza
della illegittimità del decreto, dell’autorizzazione, della proroga…, secondo il dettato
dell’art. 271 cpp., che, appunto, non richiama appunto il comma 4 dell’art. 268 cpp..
In buona sostanza, mentre il mancato deposito ex art. 270, secondo comma, cpp. di verbali
e registrazioni comporta di per sé, automaticamente, l’inutilizzabilità del risultato
dell’intercettazione, l’eventuale illegittimità del procedimento di ammissione del mezzo di
prova, implicante l’illegittimità del risultato probatorio, potrà essere provata attraverso la
produzione, ad istanza della parte che la sostiene, dei decreti autorizzativi insufficienti o
illegittimi, che costituiscono atti di un diverso procedimento penale e dunque documenti,
che la medesima parte potrà previamente ottenere in copia ex art. 116 cpp.,dal giudice a
quo, stante il suo evidente interesse.
Il controllo sulla legalità del procedimento di ammissione del mezzo di ricerca della prova
è dunque demandato all’iniziativa delle parti, mentre il Giudice è tenuto d’ufficio solo a
rilevare l’inutilizzabilità che risulti dagli atti già in suo possesso, senza essere tenuto a
ricercarne d’ufficio la prova.
Se, dunque, nel procedimento a quo la parte ha solo l’onere di allegazione della illegittimità
di atti che, facendo già parte di quel procedimento, non devono essere prodotti, nel
procedimento ad quem la parte ha non solo l’onere di allegazione della predetta
illegittimità, ma anche di prova documentale di essa.
8. Le operazioni di captazione nei riguardi dei parlamentari: le intercettazioni “dirette” e quelle
“indirette” o “casuali”.
Com’è noto, prima della legge costituzionale 29 ottobre 1993, n° 3, l’art. 68 della nostra
Costituzione, riguardante le immunità dei membri del Parlamento, nulla diceva in
relazione alle intercettazioni telefoniche.
27
Il nuovo testo del predetto articolo oggi disciplina espressamente il tema delle
intercettazioni telefoniche, prevedendo che senza l’autorizzazione della Camera
d’appartenenza i parlamentari non possano essere sottoposti “ad intercettazioni, in
qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni”.
A tale norma costituzionale è stata data attuazione con la legge 20 giugno 2003, n° 140.
L’art. 4 della legge ha disciplinato le modalità di esecuzione delle intercettazioni “nei
confronti di un membro del Parlamento” prevedendo, come accennato all’inizio di queste
riflessioni, che – salvo il caso in cui il parlamentare sia colto nell’atto di commettere un
delitto per il quale è previsto l’arresto in flagranza o nei suoi confronti si debba eseguire
una sentenza irrevocabile di condanna - l’autorizzazione sia richiesta dall’autorità che ha
emesso il provvedimento da eseguire, le cui efficacia, nelle more, resta sospesa.
La norma dunque disciplina le cosiddette intercettazioni “dirette”, vale a dire quelle
eseguite nei confronti del parlamentare, sia o meno sottoposto ad indagini, su utenze a
lui intestate o da lui utilizzate o in luoghi che siano nella sua disponibilità o dove si
ritiene che egli possa trovarsi.
In realtà, al di là dell’ipotesi in cui il parlamentare sia indagato, nel qual caso
l’intercettazione, attraverso il meccanismo della preventiva richiesta di autorizzazione,
perderebbe concretamente la sua funzione di atto a sorpresa e dunque efficacia,
l’intercettazione “diretta” è prevalentemente quella in cui sia necessario intercettare il
parlamentare quale persona offesa dal reato o, nei casi in cui possa avere rilievo, persona
informata sui fatti, nei quali l’effetto sorpresa permane nei riguardi dell’indagato.
L’art. 6 della legge citata disciplina invece il caso in cui il parlamentare sia stato
intercettato, in qualsiasi forma, casualmente, nell’ambito di un procedimento penale
riguardante terzi: è il caso delle intercettazioni “indirette” o “casuali”.
La norma prevede due ipotesi.
La prima, disciplinata dal primo comma, è che il Gip. ritenga irrilevanti, ai fini del
procedimento riguardante il terzo, i verbali e le registrazioni; in questo caso, sentite le
parti in camera di consiglio, ne ordinerà la distruzione a norma dell’art. 269, commi 2 e 3,
cpp., al pari di ciò che avviene a tutela della riservatezza di qualsiasi cittadino.
La seconda ipotesi è quella in cui le conversazioni intercettate siano rilevanti; in tal caso, il
giudice per le indagini preliminari, su istanza di parte e sentite le altre, richiede con
ordinanza, entro dieci giorni, l’autorizzazione alla Camera d’appartenenza del
parlamentare casualmente intercettato; se l’autorizzazione sarà stata negata, la
documentazione delle intercettazioni sarà distrutta immediatamente o nei dieci giorni
dalla comunicazione del diniego ed, in ogni caso, sarà dal giudice dichiarata inutilizzabile
in ogni stato e grado del procedimento.
E’ sorto tuttavia il problema interpretativo relativo alla nozione di intercettazione
indiretta: è tale anche quella in cui, nell’ambito di un procedimento relativo a terzi,
28
emergano indizi di reato nei confronti di un parlamentare? Sarà in tal caso necessaria
l’autorizzazione preventiva di cui all’art. 4 della legge n° 140/03 o, ai sensi dell’art. 6,
l’autorizzazione dovrà eventualmente essere richiesta ex post, dopo il giudizio di rilevanza
del Gip.?
A mio parere, anche questo caso è soggetto alla disciplina delle intercettazioni dirette
introdotta dall’art. 4.
Se, infatti, è necessaria l’autorizzazione della Camera d’appartenenza per sottoporre il
parlamentare ad intercettazione, non si comprende perché ciò non debba avvenire anche
nei casi in cui la notizia di reato nei suoi confronti sia emersa casualmente, indagando per
fatti commessi da terzi; in tal caso, ovviamente, l’autorizzazione
- giacché
l’intercettazione, ritualmente autorizzata nei confronti del terzo, è già stata effettuata –
sarà necessaria ai fini della utilizzabilità nei confronti del parlamentare del risultato
dell’intercettazione.
Su questa linea si è espressa Cass., IV, 4 febbraio 2004, n° 10772, imp. Donno, che ha
affrontato in modo approfondito la questione (nell’ambito del procedimento in cui
l’indagato era accusato di avere fatto da tramite per l’acquisto di cocaina da parte di un
senatore).
A tale argomento va aggiunto quello, già sottolineato, che poneva in evidenza come l’art.
4, sulle intercettazioni dirette, abbia un senso solo se riferito a procedimenti nei quali il
parlamentare sia persona offesa o informata sui fatti, pena la perdita dell’effetto sorpresa;
è allora del tutto evidente che tali procedimenti siano relativi ad indagati “terzi”.
In ultima analisi, dunque, sarebbe “indiretta” solo l’intercettazione alla quale “prenda
parte” (ex art. 6) il parlamentare non indagato, mentre sarebbe “diretta” e dunque
sottoposta al regime di cui all’art. 4 l’intercettazione del parlamentare “comunque”
indagato, anche se a seguito di notizia di reato emersa nell’ambito di procedimento
relativo a terze persone.
La Corte di Cassazione, portando avanti il ragionamento, ha quindi ritenuto che l’art. 6,
secondo comma, della legge n° 140/03, pur se relativo alle intercettazioni indirette nel più
ristretto significato che a tale espressione si debba attribuire (vale a dire quello di
intercettazioni di comunicazioni di un parlamentare non indagato, casualmente effettuate
nell’ambito di un procedimento penale riguardante terzi), sarebbe costituzionalmente
illegittimo, giacché, apprestando per le intercettazioni delle comunicazioni di terzi,
casualmente coinvolgenti un parlamentare non indagato, la tutela prevista dall’art. 68
Cost., avrebbe irragionevolmente esteso l’ambito di operatività della norma costituzionale,
che prevede una tutela privilegiata solo per le intercettazioni dirette, cioè quelle relative a
parlamentare comunque sottoposto ad indagini.
La Corte, sollevando la relativa questione di costituzionalità, ha, da un lato, ritenuto
irragionevole la diversità di disciplina tra il parlamentare ed il cittadino comune, in virtù
del principio della parità di trattamento davanti alla giurisdizione e, per altro verso,
ritenuto tale disciplina in contrasto con la garanzia apprestata dall’art. 24 al diritto di
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difesa, giacché il cittadino indagato nel procedimento penale che abbia intersecato
conversazioni di un parlamentare, potrebbe vedersi negare la possibilità di difesa
derivante dall’utilizzo, eventualmente negatogli in conseguenza della valutazione
discrezionale del ramo del Parlamento interessato, delle conversazioni del parlamentare,
rilevanti a fini difensivi.
Non può negarsi, a mio giudizio, che se la prima censura appare infondata, giacché la
condizione del parlamentare può agevolmente essere giudicata diversa da quella del
comune cittadino proprio e solo in ragione della garanzia costituzionale che deve essere
riconosciuta al membro del Parlamento, convincenti siano le ulteriori argomentazioni
della Corte in punto di limitazioni del diritto di difesa, alle quali si potrebbero aggiungere
quelle, speculari, al diritto – verrebbe da dire – dell’accusa, ex art. 112 Cost.
La Corte di Cassazione, poi, nella stessa decisione, ha affrontato ulteriormente il problema
della nozione di intercettazione indiretta, mostrando di non condividere l’opinione –
espressa del P.G. d’udienza sulla base del dato letterale del primo comma dell’art. 6 della
legge n° 140/03 - secondo la quale sarebbe tale solo l’intercettazione di comunicazioni o
conversazioni alle quali il parlamentare non “prenda parte” personalmente e direttamente,
escludendo dal novero quelle in cui a conversare o comunicare sarebbe un suo mero
nuncius, con la conseguente inapplicabilità della disciplina dell’art. 6 alle comunicazioni ed
alle conversazioni in cui il parlamentare operi attraverso altri (nel caso di specie, il
senatore chiedeva, per bocca del collaboratore, di poter acquistare la cocaina di cui aveva
bisogno).
I Giudici di legittimità hanno, infatti, sostenuto che “prendere parte” ad una
conversazione o ad una comunicazione non implichi che ciò debba avvenire
personalmente, giacché si può trasmettere il proprio pensiero anche tramite altri, e ne
hanno tratto la conclusione che quel che conta ai fini dell’applicazione dell’art. 6 della
legge n° 140/03 sia l’interlocutore “reale”.
Per Cass., n° 10772/04 cit., quindi, in ultima analisi, sono intercettazioni dirette le
intercettazioni di comunicazioni o conversazioni di un parlamentare comunque indagato,
per le quali trova applicazione la disciplina dell’art. 4 della legge n° 140 del 2003, con la
conseguente necessità dell’autorizzazione della Camera d’appartenenza per l’esecuzione
delle operazioni di intercettazione nel caso di parlamentare originariamente o
autonomamente indagato e per l’utilizzabilità nei suoi confronti delle intercettazioni
relative a parlamentare indagato a seguito di intercettazione casuale di sue comunicazioni
o conversazioni, nell’ambito di un procedimento penale avviato nei confronti di terzi.
Sono invece intercettazioni indirette quelle eseguite nell’ambito di un procedimento
penale nei confronti di terzi, nel quale il parlamentare non sia a sua volta indagato, ma
prenda parte – personalmente o per mezzo di un nuncius – alle conversazioni o alle
comunicazioni.
La Corte Costituzionale, con la sua sentenza n° 163 del giorno 8 maggio 2005, rel. Flick, ha
ritenuto irrilevante e quindi dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità.
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Il Giudice delle Leggi ha dapprima affermato che, “alla stregua del significato comune
dell’espressione”, prende parte ad una conversazione o comunicazione “chi interloquisce
in essa, non colui su mandato del quale uno degli interlocutori interviene”, così ritenendo
applicabile la disciplina dell’art. 6 solo alle conversazioni o comunicazioni in cui il
parlamentare interloquisca personalmente e direttamente e ritenendo quindi che le altre
comunicazioni effettuate dal parlamentare tramite nuncius siano captabili ed utilizzabili
senza necessità di autorizzazione parlamentare; ha poi omesso di valutare nel merito la
questione di costituzionalità dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge n° 140/03
giudicandola irrilevante nel caso di specie, nel quale il parlamentare non aveva
interloquito personalmente, ma per mezzo di un nuncius.
Preso atto di tale decisione, la Corte di Cassazione, chiamata nuovamente a pronunciarsi
nel citato caso del senatore, ha preso atto dell’orientamento della Corte Costituzionale ed
ha affermato il principio di diritto secondo il quale “in tema di intercettazioni indirette,
l’intercettazione della conversazione effettuata dal collaboratore del parlamentare, il quale
svolga funzioni di “nuncius” di quest’ultimo, limitandosi esclusivamente a trasmetterne il
messaggio, non rientra nell’ambito della tutela apprestata dall’art. 6, commi primo e
secondo della legge n. 140 del 2003”, con la conseguenza che, in tal caso, la
“autorizzazione non è richiesta ed i risultati delle intercettazioni non sono sottoposti ai
divieti di cui al suddetto art. 6 e sono, pertanto, pienamente utilizzabili”: Cass., IV, 20
settembre 2005, n° 43938, imp. Donno; conf. Cass., I, 21 giugno 2006, n° 24621, imp. Di
Giandomenico.
Questo lo stato attuale della giurisprudenza, secondo il quale, pertanto, l’autorizzazione
della Camera di appartenenza è necessaria per le intercettazioni dirette e per quelle
indirette, intendendosi per tali quelle relative alle conversazioni o comunicazioni del
parlamentare non inquisito, che abbia interloquito personalmente e non tramite nuncius.
Resta, tuttavia, aperta, a mio giudizio, la questione di costituzionalità del secondo e dei
successivi commi dell’art. 6 della legge n° 140 del 2003, nella parte in cui, contrariamente
al più circoscritto dettato dell’art. 68 Cost., subordina ad autorizzazione parlamentare
anche le intercettazioni indirette, pur intese nel più limitato senso chiarito dalla citata
sentenza della Corte Costituzionale, vale a dire quelle in cui il parlamentare non
inquisito abbia interloquito personalmente.
Giuseppe Fazio
magistrato
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