Consiglio Superiore della Magistratura
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Consiglio Superiore della Magistratura Ufficio dei Referenti per la formazione decentrata dei magistrati del distretto di Milano “La disciplina delle intercettazioni telefoniche: i più recenti e significativi approdi della giurisprudenza di legittimità” Milano, 14 dicembre 2006 1. Premessa: linee generali della disciplina vigente. 2. Oggetto della disciplina. 2a. Sistema BUD, localizzazione mediante GPS, dati rilevati da display del cellulare, Digesistem. 3. La questione delle riprese visive e delle videoregistrazioni. 3a. Le riprese visive in luogo pubblico. 3b. Le riprese visive in luogo privato. 3b.-a. L’intervento della Corte Costituzionale. 3b.-b. La decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. 4. L’autorizzazione. 5. Le intercettazioni urgenti. 6. L’esecuzione delle operazioni: la regola generale dell’uso degli impianti installati nella procura della Repubblica e sue applicazioni; l’ “istradamento”. 6a. L’ipotesi eccezionale dell’utilizzazione di impianti in dotazione alla polizia giudiziaria: presupposti. 6b. La motivazione. 6b.-a. La questione della integrazione della motivazione ed il recente intervento delle Sezioni Unite. 6b.-b. Impianti installati nella procura ed impianti in dotazione alla polizia giudiziaria. 7. La “circolazione” delle intercettazioni tra i procedimenti. 8. Le operazioni di captazione nei riguardi dei parlamentari: le intercettazioni “dirette” e quelle “indirette” o “casuali”. 1. Premessa: linee generali della disciplina vigente. Com’è noto, l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni, prevista dal capo IV del titolo III del libro terzo del codice di procedura penale (artt. 266 e ss.), è un mezzo di ricerca della prova. A differenza dell’ispezione e della perquisizione, caratterizzate da attività palesi e coattive riguardanti persone e cose, l’intercettazione è attività occulta ed insidiosa, in quanto non è – o non dovrebbe essere, pena la sua concreta inutilità – avvertita dalla persona sottoposta ad indagini. Tale strumento processuale, secondo l’art. 266 cpp., ha ad oggetto le conversazioni e le comunicazioni telefoniche, nonché le altre forme di telecomunicazioni captate da un terzo. La norma nulla prevede in relazione alle riprese visive, fotografiche o filmate. 1 L’art. 266 cpp. consente l’intercettazione in caso di indagini relative ad alcuni particolari delitti da esso elencati; prevede poi la possibilità di intercettazione di discorsi tra persone presenti, anche nel loro domicilio, a condizione però, in tal caso, che in quel luogo si stia perpetrando uno dei delitti menzionati. Tale condizione, tuttavia, ai sensi dell’art. 13, primo comma, seconda parte, del D. L. 13 maggio 1991, n° 152 (convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n° 203) non è necessaria nel caso di indagini relative a delitti di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono; la stessa norma poi prevede che, in relazione a tali delitti, l’intercettazione possa essere autorizzata in caso di mera necessità – non è dunque necessario che essa sia assoluta – ed in presenza anche di soli sufficienti indizi di essi. In relazione ai medesimi delitti ed ai delitti commessi mediante l’impiego di tecnologie informatiche o telematiche è consentita l’intercettazione del flusso di comunicazioni relative a sistemi informatici o telematici, anche intercorrenti tra più sistemi. Secondo la previsione dell’art. 267 cpp., le intercettazioni sono disposte ed eseguite dal Pubblico Ministero - personalmente o delegando la p.g. – su autorizzazione che il Giudice dà, con decreto motivato dalla sussistenza di gravi indizi di reato e dall’assoluta indispensabilità dell’intercettazione ai fini della prosecuzione delle indagini. In caso di urgenza, quando si teme fondatamente che dal ritardo possa derivare grave pregiudizio alle indagini, può disporle lo stesso Pubblico Ministero senza autorizzazione del Giudice, salva convalida – richiesta entro ventiquattro ore – che il Giudice medesimo deve emettere nelle quarantotto ore successive, in difetto della quale l’attività dev’essere interrotta ed i risultati di essa non sono utilizzabili. Sono previsti termini di durata di quindici giorni (quaranta, nel caso di cui al citato art. 13), prorogabili più volte dal Giudice per altrettanti giorni (venti, nel caso citato). Le modalità esecutive sono rigidamente disciplinate dall’art. 268 cpp., che prevede la stesura di un verbale delle operazioni, nel quale sia sintetizzato il contenuto di quanto intercettato; i mezzi strumentali attraverso i quali compiere l’intercettazione; la trasmissione dei verbali e delle registrazioni al Pubblico Ministero; il loro deposito in segreteria – salva autorizzazione del Giudice a procrastinare il deposito non oltre la fine delle indagini preliminari, se dal deposito possa derivare grave pregiudizio per le indagini - entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni, unitamente ai decreti del giudice ad esse relativi; l’avviso del deposito ai difensori; la possibilità che i difensori consultino gli atti e ascoltino le registrazioni; l’acquisizione, nel contraddittorio tra le parti, delle conversazioni intercettate e la trascrizione integrale delle registrazioni, da eventualmente inserire anche nel fascicolo per il dibattimento. E’ poi previsto (art. 269) che fino al passaggio in giudicato della sentenza verbali e registrazioni siano conservati presso il P.M. che ha chiesto l’intercettazione, tranne quelli ritenuti superflui che, a richiesta degli interessati e ad esito di apposita udienza camerale fissata dal Giudice e sotto il suo controllo, possono essere distrutti, a tutela della riservatezza, con stesura di un verbale di tale operazione. 2 E’ espressamente disciplinata la possibilità che i risultati delle intercettazioni vengano utilizzati in procedimenti penali diversi da quello nel quale siano state disposte ed eseguite, a patto, tuttavia che ciò sia indispensabile per l’accertamento di delitti per i quali sia previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Nel caso in cui non siano stati rispettati i casi e le regole fissate dagli artt. 267 e 268, i risultati delle operazioni sono fulminati dalla sanzione dell’inutilizzabilità. Non sono utilizzabili, le intercettazioni di quanto dicono coloro che sono tenuti al segreto professionale, ai sensi del primo comma dell’art. 200 (ministri di culto, avvocati, investigatori privati, consulenti tecnici, notai, medici ed esercenti una professione sanitaria e quant’altri), a meno che costoro non abbiano deposto sugli stessi fatti. E’ prevista la distruzione in ogni stato e grado del processo, su disposizione del Giudice, della documentazione delle intercettazioni non utilizzabili, salvo che costituisca corpo del reato. Com’è noto, poi, l’ultimo comma dell’art. 68 della Costituzione prevede che sia necessaria l’autorizzazione della Camera d’appartenenza per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazione, in qualsiasi forma, di conversazioni e comunicazioni; in tal caso, ed in caso di necessità di acquisizione di tabulati relativi al traffico telefonico, l’art. 4 della legge 20 giugno 2003, n° 140, prevede – salvo il caso in cui il parlamentare sia colto nella flagranza di un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio o debba essere eseguita nei suoi confronti una sentenza irrevocabile di condanna – che l’autorizzazione venga richiesta dall’autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire, la cui esecuzione, nelle more, resta sospesa. La legge citata prevede un’articolata disciplina della distruzione dei verbali e delle registrazioni delle conversazioni e comunicazioni intercettate nel corso di procedimenti riguardanti terzi, alle quali abbiano preso parte membri del Parlamento. L’art. 132 del Codice in materia di protezione dei dati personali (D. Lgs. 30 giugno 2003, n° 196), infine, disciplina in modo articolato le modalità di acquisizione presso il fornitore, da parte dell’A.G., dei dati relativi al traffico telefonico. Così riassunta la vigente disciplina delle intercettazioni telefoniche, va rilevato come tutti noi abbiamo avuto modo di verificare quante e quanto complesse siano state le questioni interpretative sorte nella prassi quotidiana in relazione a molti aspetti di tale disciplina. Proviamo a passare in rassegna le questioni principali. 2. Oggetto della disciplina. L’intercettazione telefonica è consentita nell’ambito di indagini relative ai reati previsti dall’art. 266 cpp.. 3 E’ interessante notare come la giurisprudenza, abbia chiarito che tra i “delitti non colposi” indicati all’art. 266, primo comma, lett. a), sia ricompreso anche l’omicidio preterintenzionale previsto dall’art. 584, “la cui condotta, punita unitariamente, non può essere frazionata ai fini del rispetto dei limiti stabiliti dalla norma in vista della prescritta autorizzazione”: Cass., V, 10 ottobre 2005, n° 44032, imp. Rodà. Si è accennato, poi, alla disciplina delle intercettazioni disposte a norma dell’art. 13 della legge 12 luglio 1991, n° 203. Al riguardo, vale la pena di ricordare che la giurisprudenza ha chiarito che la nozione di criminalità organizzata cui detta norma si riferisce “deve essere intesa con riguardo alle finalità di essa, che mira a far rientrare nel suo ambito applicativo le attività criminose più diverse, purché realizzate da una pluralità di soggetti i quali, per la commissione del reato, abbiano costituito un apposito apparato organizzativo”: Cass., I, 20 dicembre 2004, n° 2612, imp. Tomasi ed altri; nello stesso senso, Cass., V, 20 ottobre 2003, n° 46221, imp. Altamura ed altro, che ha chiarito che sono riconducibili alla categoria dei reati di criminalità organizzata “non solo in reati di criminalità mafiosa, ma tutte le fattispecie criminose di tipo associativo”. Ciò ricordato, è bene rilevare che, secondo Cass., S.U. n° 36747 del 28 maggio 2003, “le intercettazioni regolate dagli artt. 266 e segg. cpp. consistono nella captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti che agiscano con l’intenzione di escludere gli altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuata da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere privato”. Ne risulta che l’intercettazione presuppone che l’intercettato intenda escludere gli altri: non è dunque attività di intercettazione quella di chi registri quanto altri dica ad alta voce ed in pubblico. Essa dev’essere posta in essere da un terzo, estraneo alla conversazione o alla comunicazione; ed infatti, le Sezioni Unite, nella decisione citata, hanno affermato che “la registrazione fonografica di conversazioni o comunicazioni realizzata, anche clandestinamente, da soggetto partecipe di dette comunicazioni, o comunque autorizzato ad assistervi, costituisce…prova documentale secondo la disciplina dell’art. 234 cpp.”. Non attività di intercettazione, dunque, ma di documentazione (con la conseguenza, quindi, che la relativa trascrizione non farà parte automaticamente del fascicolo del dibattimento, ma dovrà superare il vaglio di ammissibilità ai fini dell’acquisizione, al pari degli altri documenti). L’insegnamento delle S.U. è ormai consolidato ed è stato di recente ribadito da Cass., VI, 9 febbraio 2005, n° 12189, imp. Rosi. In ossequio a tale insegnamento, è stato deciso che “la registrazione ad opera della polizia giudiziaria dei colloqui con le persone informate sui fatti non costituisce attività di intercettazione in senso tecnico…ma integra una legittima modalità di documentazione 4 fonica…” (Cass., II, 15 dicembre 2005, n° 2829, imp. Pistorio); con la conseguenza che tale documento, seppure non utilizzabile in dibattimento stante il divieto ex art. 195, quarto comma, cpp. di testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di p.g., potrà invece essere utilizzato nel giudizio abbreviato, nel quale l’imputato accetta che siano valutati gli elementi acquisiti anche in deficit di contraddittorio. Tuttavia, “nell’ipotesi in cui si proceda ad intercettazione di conversazioni tra presenti ad opera della polizia giudiziaria é sempre necessaria l’autorizzazione del giudice anche se uno degli interlocutori ne é consapevole, in quanto la sua rinuncia alla riservatezza non rende lecita l'intercettazione ad opera di un terzo che é rimasto estraneo al colloquio”: Cass., II, 22 novembre 2001, n° 16590, imp. Lama. 2a.Sistema BUD, localizzazione mediante GPS, dati rilevati da display del cellulare, Digesistem. Così chiarito cosa sia l’intercettazione tipizzata dal codice di rito, ne consegue che non sia allora attività intercettatoria, soggetta alla disciplina dettata dagli artt. 266 e ss. cpp, l’installazione del sistema “bud” (blocco delle utenze disturbate), effettuabile in base a decreto motivato del P.M. (cfr. Cass., V, 8 febbraio 2005, n° 11949, imp. Ficara); la localizzazione mediante sistema satellitare (GPS) degli spostamenti di una persona indagata, che si traduce in una sorta di pedinamento (cfr. Cass., V, 7 maggio 2004, n° 24715, imp. Massa ed altro); la rilevazione e l’utilizzazione dei dati segnalati sul display di un apparecchio di telefonia mobile, acquisibile dalla p.g. quale oggetto da cui trarre tracce o elementi di prova (cfr. Cass., IV, 8 maggio 2003, n° 3435, imp. Lanzetta). Disciplina identica è quella prevista per l’acquisizione dei dati provenienti dalla rilevazione automatica (cosiddetto “digesistem”) delle chiamate in partenza da apparecchi telefonici pubblici verso un’utenza privata (cfr. Cass., II, 25 ottobre 2005, n° 41052, imp. Piscopo ed altri). A conclusioni parzialmente identiche si giunge in ordine alla questione riguardante l’acquisizione dei tabulati, contenenti i dati esterni relativi al traffico telefonico. La materia, notoriamente, non è regolata dal codice di rito ed è stata oggetto di previsione normativa, per la prima volta, con l’art. 3 del decreto legge 24 dicembre 2003, n° 354, come modificato dalla legge di conversione 26 febbraio 2004, n° 45, che ha modificato l’art. 132 del “codice della privacy”. Già le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la sentenza n° 6 del 23 febbraio 2000, imp. D’Amuri, avevano insegnato che i predetti tabulati fossero acquisibili sulla base di decreto motivato del P.M., “non essendo necessaria, per il diverso livello di intrusione nella sfera di riservatezza che ne deriva, l’osservanza delle disposizioni relative all’intercettazione di conversazioni o comunicazioni di cui agli articoli 266 e seguenti cpp.”. Sulla scia di tale insegnamento, era stato deciso che “nella fase del dibattimento l’acquisizione dei tabulati relativi ai dati esterni del traffico di un’utenza telefonica non 5 può avvenire a seguito di diretta produzione del pubblico ministero, ma soltanto in forza degli artt. 495 e 507 cpp. e pertanto, nel contraddittorio delle parti, a mezzo di ordinanza motivata del giudice, cui sia stata avanzata la relativa richiesta” (Cass., I, 3 dicembre 2003, n° 23961, imp. Raucci). Ancora una volta, quindi, attività di documentazione e non di intercettazione. Il citato articolo 132 del “codice della privacy” prevede attualmente che i dati relativi al traffico telefonico, inclusi quelli concernenti le chiamate senza risposta, vengano acquisiti presso il gestore nei primi ventiquattro mesi con decreto motivato del pubblico ministero; scaduto tale termine, i dati saranno acquisiti solo con decreto motivato del Giudice, che abbia ritenuto sussistenti sufficienti indizi dei delitti indicati dall’art. 407, comma 2, lett. a), del codice di rito o dei delitti in danno di sistemi informatici o telematici; è poi prevista l’acquisizione urgente, su decreto del pubblico ministero, sala tempestiva convalida del Giudice,con suo decreto motivato. Sono state invece sempre ritenute soggette alla rigida disciplina delle intercettazioni le riprese audiovisive (cfr. Cass., VI, 11 dicembre 2003, n° 6537, imp. Puggioni), anche se per escludere la necessità dell’autorizzazione del Giudice tutte le volte in cui fossero state effettuate in luogo diverso da quello di privata dimora (cfr. Cass., VI, 10 gennaio n2003, n° 3433, imp. Mostra). Questo rilievo ci serve da “ponte”, verso lo spinoso terreno delle intercettazioni meramente visive. 3. La questione delle riprese visive e delle videoregistrazioni. Come si accennava, la normativa codicistica in tema di intercettazioni non ha fatto alcun riferimento alle riprese visive, che non sono pertanto specificatamente disciplinate dalla legge. La cosa non è sembrata priva di significato, posto che l’art. 226 quinquies del codice di procedura penale abrogato, nel contesto della previgente disciplina delle intercettazioni telefoniche, conteneva nella sua ultima frase un esplicito riferimento alle “immagini” ottenute nei modi di cui all’art. 615 bis del codice penale (che punisce le interferenze illecite nella vita privata, “svolgentesi nei luoghi indicati dall’art. 614 cp.”), le quali venivano colpite da nullità insanabile, rilevabile d’ufficio. Autorevoli interpreti ne hanno dedotto che il legislatore del 1988, non riproducendo la citata disciplina delle intercettazioni di “immagini”, avesse inteso sancire la loro libera captazione, comunque effettuata, anche nel domicilio, con conseguente libera utilizzabilità processuale dei relativi reperti. Tale drastica conclusione, tuttavia, cozza con la tutela costituzionale fornita dagli artt. 13, 14 e 15 della Costituzione, rispettivamente alla libertà, anche morale, della persona, 6 all’inviolabilità del domicilio ed alla libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, nonché con la riserva di legge contenuta in tali articoli. Si è posto allora il problema della stessa legalità delle riprese visive, sia in luogo pubblico, sia nel privato del domicilio. 3a. Le riprese visive in luogo pubblico. La giurisprudenza di legittimità è pacifica nel considerare utilizzabili come prova le immagini visive riprese in luoghi pubblici (ad esempio, quelle effettuate dagli impianti di videosorveglianza degli esercizi pubblici); e ciò tanto se avvenute al di fuori del procedimento – prima o durante - (si pensi al proprietario di un fondo che riprenda fotograficamente o con una telecamera l’andirivieni di automezzi che scarichino continuativamente rifiuti sul suo terreno), quanto se se avvenute nell’ambito delle indagini preliminari (ad esempio, la videoriprese del teatro di un incidente stradale mortale, effettuata dalla Polizia Stradale). La captazione e l’uso di tali immagini sono leciti, in quanto non ledono le garanzie costituzionali poste a presidio del diritto alla riservatezza, perché la natura pubblica del luogo comporta un’implicita rinuncia alla riservatezza1. E’ sorto, tuttavia, contrasto circa le modalità, attraverso le quali la videoripresa “pubblica” possa entrare nel processo. Secondo un primo orientamento, le videoriprese vanno inquadrate nella categoria dei documenti, ai sensi del primo comma dell’art. 234 cpp., che comprende in tale categoria le “rappresentazioni di fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo”, sia con riferimento ad attività extraprocessuali2, sia con riferimento a riprese effettuate dalla polizia giudiziaria3. Altre pronunce, invece, hanno inquadrato le riprese visive “pubbliche”, sia extraprocessuali che endoprocessuali, nel novero delle prove atipiche disciplinate dall’art. 189 cpp., sul rilievo che il legislatore non avrebbe disciplinato le modalità di acquisizione e le regole di utilizzazione di tali riprese ed avendo egli avuto di mira e disciplinato, all’art. 234 cpp., solo il documento visivo “precostituito” e non anche quello realizzato attraverso un mezzo di ricerca della prova: tali riprese, dunque, non potrebbero essere ritenute documenti; quale prova atipica, essa potrebbe essere assunta in quanto non contrasterebbe con alcuna norma di legge, e segnatamente con quella codicistica che impone il limite del rispetto della libertà morale della persona, giacché, come rilevato, la pubblicità del luogo comporterebbe la rinuncia implicita alla riservatezza. Cfr. Cass., IV, 16 marzo 2000, n° 7063, imp. Viskovic. Cfr. Cass., V, 18 ottobre 1993, n° 10309, imp. Fumero; III, 15 giugno 1999, n° 11116, imp. Finocchiaro; V, 20 ottobre 2004, n° 46307, imp. Held ed altri. 3 Cfr. Cas., V, 25 marzo 1997, n° 1477, imp. Lomuscio; VI, 10 dicembre 1997, n° 4997, imp. Pani. 1 2 7 La realizzazione di videoriprese in luogo pubblico, quindi, in ogni caso, non cozza con i limiti costituzionali posti a tutela della libertà e della riservatezza e non richiede pertanto neppure la preventiva autorizzazione dell’A.G.4. Le due opinioni giurisprudenziali richiamate, tuttavia, non sono manifestazione di una irrilevante diversità di vedute; esse hanno invece ricadute operative diverse nel processo, conseguenza del fatto che il documento é cosa diversa dall’atto del procedimento. Se è vero, infatti, che il documento, secondo la relazione preliminare al codice di procedura penale e la più avveduta giurisprudenza, è solo quello formato fuori del processo5, ne consegue che solo le riprese visive effettuate fuori del procedimento possono essere introdotte nel processo come documenti e diventare quindi una prova documentale, mentre le altre, effettuate dalla polizia giudiziaria nell’ambito delle indagini e del procedimento, costituiscono solo la documentazione dell’attività investigativa e pertanto saranno soggette alle diverse regole di acquisizione, previste per le prove atipiche, ai sensi dell’art. 189 cpp.. Questa è la ricostruzione interpretativa che di recente hanno fornito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n° 26795 del 28 marzo 2006. Il contraddittorio tra le parti, al quale fa riferimento l’art. 189 cpp., sarà attivato dal Giudice al momento in cui sarà richiesto di decidere sull’ammissione della prova atipica. Non bisogna infatti dimenticare che, dopo la realizzazione della videoripresa – lecita, secondo quanto già evidenziato, anche senza il preventivo atto motivato dell’A.G., sia al di fuori che nell’ambito del procedimento - rimane il diverso problema dell’ammissione della ripresa visiva, sulla quale dovrà decidere il Giudice richiesto di assumerla come prova, decidendo anche sullo strumento processuale (perizia o mera riproduzione) da utilizzare per prendere visione delle immagini registrate. Ulteriore conseguenza pratica è che, a mio giudizio, solo la videoripresa endoprocessuale potrà essere inserita nel fascicolo del dibattimento, ai sensi dell’art. 431, primo comma, lett. b), quale attività irripetibile della polizia giudiziaria, unitamente ai verbali che descrivono l’attività effettuata per realizzare la videoriprese; né varrebbe in contrario sostenere che l’art. 431 cpp. prevede solo allegazioni scritte, giacché l’art. 134 cpp. che disciplina le modalità di documentazione degli atti, prevede al quarto comma che il verbale possa essere accompagnato dalla riproduzione audiovisiva. La giurisprudenza, peraltro, ha già ritenuto acquisibili agli atti del dibattimento le immagini registrate durante le operazioni di osservazione e pedinamento (Cass., II, 26 marzo 1997, n° 4095, imp. Baldini) o quelle riprese durante una perquisizione (Cass., II, 22 maggio 1997, n° 3513, imp. Acampora). Cfr. Cass., VI, 21 gennaio 2004, n° 7691, imp. Fiori; IV, 18 marzo 2004, n° 37561, imp. Galluzi; V, 7 maggio 2004, n° 24715, imp. Massa. 5 Cfr. Cass., V, 13 aprile 1999, n° 6887, imp. Gianferrari; V, 16 marzo 1999, n° 5337, imp. Di Marco). 4 8 3b. Le riprese visive in luogo privato. Più complessa è la questione della legittimità delle videoriprese effettuate nel domicilio e della loro utilizzabilità come prova. Si è sostenuto che le videoriprese siano vietate in radice, sul rilievo che la captazione di immagini rappresenterebbe un tipo di limitazione dell’inviolabilità del domicilio diverso ed ulteriore rispetto a quelli contemplati dall’art. 14, secondo comma, Cost., che fa espresso riferimento solo ad “ispezioni, perquisizioni e sequestri”; si è anche rilevato come, per un verso, le ipotesi di limitazioni dei diritti costituzionalmente protetti siano di stretta interpretazione e, per altro verso, vi sia una ontologica differenza tra ispezioni, perquisizioni e sequestri, atti di intrusione palesi, e le riprese visive, atti di invasione occulti. Si è fatto, tuttavia, osservare in contrario come la disciplina costituzionale dei diritti di libertà, nel suo complesso, dimostri che la libertà del domicilio trovi una copertura costituzionale più debole rispetto alla libertà della persona e sia quindi compatibile con la possibilità di limitazioni sulla base di semplice atto motivato dell’A.G.. Altra parte della giurisprudenza ha sostenuto la soggezione delle intercettazioni visive al regime dell’art. 266, comma 2, del codice di rito, giacché esso, autorizzando l‘intercettazione delle comunicazioni – e non delle solo conversazioni – comprende anche la comunicazione gestuale, escludendo, tuttavia, che sia regolata dal codice la captazione di immagini non aventi contenuto comunicativo6, le quali ultime non sarebbero utilizzabili neppure come prove atipiche ex art. 189 cpp, in quanto illegittime per contrasto con i citati parametri costituzionali. 3 b.-a. L’intervento della Corte Costituzionale. Con l’ordinanza del 5 luglio del 2000, il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Alba, rilevata l’assenza di specifica disciplina processuale, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale “degli artt. 189 e 266-271 del codice di procedura penale e, segnatamente, dell’art. 266, comma 2, del codice di procedura penale” nella parte in cui “non estendono la disciplina delle intercettazioni delle comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’art. 614 del codice penale alle riprese visive o videoregistrazioni effettuate nei medesimi luoghi”. 6 “In tema di intercettazione di conversazioni o di comunicazioni, poiché la nozione di comunicazione consiste nello scambio di messaggi fra più soggetti, in qualsiasi modo realizzati (ad esempio, tramite colloquio orale o anche gestuale), e poiché l’attività di intercettazione é appunto diretta a captare tali messaggi, non é consentito, attraverso l’attivazione di intercettazioni ambientali, realizzate con la collocazione di una videocamera all’interno di un appartamento, captare immagini relative alla mera presenza di cose o persone o ai loro movimenti, non funzionali alla captazione di messaggi. Né tale attività può considerarsi legittima configurandola quale mezzo atipico di ricerca della prova, ex artt. 189 e 234 cod. proc. pen., poiché, trattandosi di riprese visive non effettuate in luoghi aperti o pubblici, ma in luoghi di privata dimora, viene in rilievo in tale materia il limite della inviolabilità del domicilio di cui all’art. 14 Cost.”: Cass., VI, 10 novembre 1997, n° 4937, imp. Greco. 9 Il Giudice rilevava che, poiché l’art. 14 della Costituzione prevede la possibilità di limiti e deroghe al principio di inviolabilità del domicilio a salvaguardia di altri valori costituzionali, quali l’accertamento e la repressione dei reati, e non sussistendo i presupposti per estendere alle videoriprese la disciplina delle intercettazioni, le riprese visive dovrebbero essere ritenute possibili sulla base di mero atto motivato dell’A.G. e disciplinate come prova atipica, ai sensi dell’art. 189 cpp.. Il remittente, tuttavia, sottolineava il contrasto tra la normativa processuale, così interpretata, ed il principio costituzionale di uguaglianza, ritenendo irragionevole la disparità di trattamento tra le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni non verbali e quelle di immagini, ugualmente “invasive”; rimarcava anche il mancato rispetto dell’art. 14 Cost., che impone che il sacrificio del principio di inviolabilità del domicilio possa avvenire solo “nei casi e nei modi disciplinati dalla legge”, vale a dire, attraverso una compiuta ed articolata disciplina legislativa, in concreto mai introdotta nell’ordinamento e non costituita certo dall’art. 189 cpp.. La Corte Costituzionale, con la nota sentenza n° 135 del giorno 11 aprile 2002, depositata il 24 aprile 2002, est. Flick, ha giudicato infondata la questione di costituzionalità. Il Giudice delle Leggi, infatti, ha escluso che l’attività investigativa in esame si scontri con un divieto costituzionale assoluto, rilevando come il riferimento dell’art. 14 Cost. alle ispezioni, perquisizioni e sequestri non sia espressivo di una tipizzazione esclusiva; ha rimarcato che la configurazione delle ispezioni come atto palese non sia opera della norma costituzionale, ma solo della disciplina processuale ordinaria del predetto mezzo di ricerca della prova; ha fatto poi notare come l’ipotizzata limitazione alla possibilità della pubblica autorità di interferire nella libertà del domicilio non trovi riscontro neppure nelle fonti normative sopranazionali, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea compresa7. Esclusa quindi l’esistenza di un divieto costituzionale assoluto di intrusione nella sfera domiciliare, la Corte ha poi riaffermato la menzionata tesi giurisprudenziale dell’estensione della disciplina codicistica delle intercettazioni alle riprese visive di comunicazioni gestuali, vale a dire di comportamenti a contenuto comunicativo (rimarcando come il problema di individuare i limiti entro i quali le immagini concretamente riprese abbiano ad oggetto tali comportamenti sia questione di fatto, rimessa all’apprezzamento del Giudice di merito). I Giudici della Consulta hanno pertanto affermato che anche l’intercettazione visiva operata al di fuori di tali limiti sia costituzionalmente legittima, evidenziando come le situazioni a confronto siano eterogenee e non vi sia dunque lesione del principio di uguaglianza, giacché “sebbene…libertà di domicilio e libertà di comunicazione rientrino entrambe in una comune e più ampia prospettiva di tutela della “vita privata”” – tanto da 7 E’ interessante il richiamo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che la Corte esplicitamente ha operato - ancorché priva di efficacia giuridica – per il fatto che essa fosse espressione di “principi comuni agli ordinamenti europei”; sembra di capire che i Giudici costituzionali ritengano che la Carta sia comunque un parametro interpretativo utilizzabile sin da subito non solo dalle istituzioni comunitarie, ma dagli stessi giudici ordinari degli Stati dell’Unione. 10 essere oggetto di previsione congiunta ad opera dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’art. 17 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e, da ultimo, dell’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza nel dicembre del 2000 - esse sin differenziano significativamente sul piano dei contenuti. Infatti, “la libertà di domicilio ha una valenza essenzialmente negativa, concretandosi nel diritto di preservare da interferenze esterne, pubbliche e private, determinati luoghi in cui si svolge la vita intima di ciascun individuo. La libertà di comunicazione, per converso – pur presentando anch’essa un fondamentale profilo negativo, di esclusione dei soggetti non legittimati dalla percezione del messaggio informativo – ha contenuto qualificante positivo, quale momento di contatto fra due o più persone finalizzato alla trasmissione di dati significanti”. La sentenza afferma poi espressamente che l’ipotesi della videoripresa di comportamenti a carattere non comunicativo sia priva di disciplina ed auspica l’intervento del legislatore. A molti, ed anche a me, tuttavia, è parso che la motivazione non sia del tutto dirimente, in quanto i Giudici Costituzionali non hanno dichiarato esplicitamente che il vuoto di disciplina implichi l’inammissibilità, allo stato, di riprese visive di comportamenti non comunicativi effettuate nel domicilio, lasciando poi intendere, a mio giudizio, che l’auspicato intervento legislativo potrebbe limitarsi a prevedere che tale intercettazione visiva sia realizzabile sulla base di semplice atto motivato dell’A.G., giacché implicherebbe solo una limitazione al principio dell’inviolabilità del domicilio e non anche di quello, di più intensa copertura costituzionale, dell’inviolabilità della segretezza delle comunicazioni. La cosa è oggettivamente strana, tanto più se si considera che il Giudice remittente aveva posto proprio il problema della (da lui) ritenuta illegittimità del ricorso allo strumento dell’art. 189 cpp.. 3b.- b. La decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Quasi un anno dopo, la prima sezione della Corte di Cassazione, nella sentenza n° 16965 del 29 gennaio 2003, imp. Agugliaro ed altri, è giunta a conclusioni sostanzialmente analoghe, affermando che “in tema di intercettazioni ambientali, sono utilizzabili i risultati delle video-registrazioni effettuate con videocamera all’interno di abitazione privata, in quanto esse sono previste dal vigente codice di rito il quale, autorizzando, ex art. 266, comma 2, l’intercettazione delle comunicazioni – e non delle sole conversazioni tra presenti – comprende nel proprio ambito previsionale, non solo la comunicazione convenzionale mediante l’uso del linguaggio, ma anche quella gestuale, mentre non regola, con conseguente inutilizzabilità processuale, ogni altra captazione di immagini non avente natura di messaggio intenzionalmente trasmesso da un soggetto ad un altro. Né tale regolamentazione delle intercettazioni delle comunicazioni tra presenti, anche effettuate mediante videoregistrazioni, contrasta con gli artt. 14 e 15 Cost. e 8 Conv. Eur. dei diritti dell’uomo, i quali stabiliscono che i diritti all’inviolabilità del domicilio e la segretezza di ogni forma di comunicazione possono essere limitati, per atto motivato dell’autorità giudiziaria, al fine di salvaguardare la sicurezza nazionale nonché l’ordine e la prevenzione dei reati”. 11 Nello stesso senso si è espressa l’anno scorso la quarta sezione, con la sentenza n° 11181 del 19 gennaio 2005, imp. Besnik8. Il problema è stata recentemente affrontato dalle Sezioni Unite, con la sentenza del 28 marzo 2006, n° 26795, depositata il 28 luglio 2006, nell’ambito di una vicenda processuale relativa alla videoriprese effettuata – sulla base di decreto motivato del Pubblico Ministero - dalla p.g. mediante microtelecamere nei salottini privati di un locale pubblico. La Corte, dopo un’ampia disamina del contrasto giurisprudenziale che si è agitato intorno al problema delle riprese visive, ha affrontato il tema in radice, esaminando sia la questione delle intercettazioni visive in luogo pubblico, sia quella delle videoriprese in luogo privato. Con riguardo alle videoriprese pubbliche, ha sostanzialmente affermato – secondo quanto già esposto – le legalità di esse, sia se effettuate fuori del procedimento che nel corso delle indagini preliminari, distinguendo soltanto circa le modalità di loro acquisizione: con le regole dei documenti, nel primo caso, e con lo strumento dell’art. 189 cpp., nel secondo. Più complesso è stato il ragionamento ermeneutico relativo alle videoriprese “pubbliche”. I Giudici di legittimità hanno dapprima rimarcato come la motivazione della citata sentenza della Corte Costituzionale fosse ambigua, giacché dopo avere lasciato intendere che le riprese visive di comportamenti non comunicativi in ambito domiciliare fossero inammissibili, non l’ha dichiarato, lasciando sostanzialmente aperta la porta ad un’interpretazione fondata ancora una volta sullo strumento dell’art. 189 cpp.. Hanno, invece, evidenziato che non vi sia nell’ordinamento positivo una specifica ed articolata disciplina che, sola, come richiesto dall’art. 14 della Carta Costituzionale, possa rendere lecita la violazione del domicilio attraverso la ripresa di comportamenti non comunicativi, giacché tale disciplina non è quella, assolutamente generica e generale, prevista dall’art. 189 cpp., ed hanno quindi – facendo il passo che la Corte Costituzionale non aveva fatto - affermato il principio di diritto, secondo il quale “non possono considerarsi ammissibili, come prove atipiche, le videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi effettuati in ambito domiciliare”. I Supremi Giudici sono pervenuti a tale conclusione rilevando che l’inutilizzabilità, come sanzione processuale per la violazione di regole anche di rango costituzionale, riguarda le prove tipiche; con riguardo, invece alle prove atipiche, la conseguenza processuale della loro ritenuta illegalità – nel caso di specie, per violazione del precetto costituzionale 8 “In tema di intercettazioni ambientali, sono utilizzabili i risultati delle videoregistrazioni effettuate con videocamera all’interno di un’abitazione privata, in quanto esse sono previste dal vigente codice di rito il quale, autorizzando, ex art. 266, comma secondo, l’intercettazione delle comunicazioni, e non solo delle conversazioni tra presenti, comprende nel proprio ambito, non solo la comunicazione convenzionale mediante l’uso del linguaggio, ma anche quella gestuale”. 12 contenuto nell’art. 14 e quindi del dettato dell’art. 191, primo comma, cpp.9 – sarebbe quella della loro inammissibilità. In ultima analisi, la videoripresa in ambito domiciliare di comportamenti non comunicativi ha natura di prova atipica; essa, tuttavia, in mancanza di espressa e specifica normativa che – in ossequio alla riserva di legge contenuta nell’art. 14 Cost. consenta di superare i limiti posti dal citato art. 14 all’inviolabilità del domicilio, è allo stato vietata dalla legge e pertanto, in ossequio al dettato degli artt. 189 e 190, primo comma, cpp., inammissibile. Le Sezioni Unite, con l’occasione, non hanno mancato di affrontare anche l’importante tema della nozione di domicilio, rilevante ai fini delle questioni che stiamo analizzando. Dopo un ulteriore esauriente disamina dello stato della giurisprudenza al riguardo, che ha evidenziato il contrasto tuttora esistente circa la possibilità di riconoscere un domicilio anche nell’abitacolo di un’autovettura o nella toilette di un locale pubblico, la Corte ha affermato che “il concetto di domicilio non può essere esteso fino a farlo coincidere con qualunque ambiente che tende a garantire intimità e riservatezza”, rilevando come “il rapporto tra persona e il luogo deve essere tale da giustificare la tutela di questo anche quando la persona è assente”, prevedendo un rapporto di “stabilità”. La toilette di un locale pubblico è dunque luogo pubblico, al pari dei camerini o dei privés di alcuni locali pubblici; tanto è vero che chiunque può entrare in una toilette pubblica quando è libera e la polizia giudiziaria potrebbe ispezionarla indipendentemente dalla sussistenza dei presupposti processuali di un’ispezione. La conseguenza è che alle videoriprese effettuate in tali ambienti si debbano applicare le regole delle videoregistrazioni in luogo pubblico che, se effettuate nel contesto procedimentale, saranno soggette - quale prove atipiche raccolte non in violazione di precetti costituzionali (stante la pubblicità del luogo e la conseguente inesistenza di riservatezza) alle regole dell’art. 189 cpp., previo atto motivato dell’A.G.. A tale riguardo – e per concludere sul punto – non è fuor di luogo sottolineare l’opportunità che tal atti siano congruamente motivati anche con riguardo allo scopo che tramite la videoriprese si intenda raggiungere. 4. L’autorizzazione. Come si è accennato, il mezzo di ricerca della prova di cui ci stiamo occupando dev’essere preventivamente autorizzato dal Giudice, con l’evidente intento del legislatore di imporre un preventivo accertamento della serietà delle esigenze investigative, che possa 9 Al riguardo, i Supremi Giudici non hanno mancato di osservare che “se il sistema processuale deve avere una sua coerenza risulta difficile accettare l’idea che una violazione del domicilio che la legge processuale non prevede (e che per tale ragione risulta in contrasto con il contenuto precettivo dell’art. 14 Cost.) possa legittimare la produzione di materiale di valore probatorio e che inoltre per le riprese di comportamenti non comunicativi possano valere regole meno garantiste di quelle applicabili alle riprese di comportamenti comunicativi…”. 13 giustificare la compressione del diritto costituzionalmente protetto alla libertà e segretezza delle comunicazioni. Con riguardo all’autorizzazione che il Giudice deve dare per consentire al P.M. di effettuare l’intercettazione, le principali questioni applicative riguardano i presupposti del provvedimento autorizzatorio e la sua motivazione. Con riguardo al primo aspetto, la giurisprudenza ha affermato che “…l’assoluta indispensabilità delle operazioni ai fini della prosecuzione delle indagini – cui l’art. 267 comma primo cpp. subordina tra l’altro il rilascio dell’autorizzazione giudiziale – è questione rimessa alla valutazione esclusiva del giudice di merito, la cui decisione può essere censurata, in sede di legittimità, sotto il solo profilo della manifesta illogicità della motivazione”: Cass., VI, 25 settembre 2003, n° 49119, imp. Scremin. La giurisprudenza è poi costante nell’affermare che il requisito della gravità degli indizi di reato “va inteso non in senso probatorio (ossia come valutazione del fondamento dell’accusa), ma come vaglio di particolare serietà delle ipotesi delittuose configurate, che non devono essere meramente ipotetiche”: Cass. V, 8 ottobre 2003, n° 41131, imp. Liscai; conf. Cass., IV, 16 gennaio 2005, n° 1848, imp. Bruzzese ed altro, rel. ed est. Bricchetti, secondo cui “i gravi indizi di reato (e non di reità)…attengono all’esistenza dell’illecito penale, e non alla colpevolezza”. Di conseguenza, sono state ritenute legittime le intercettazioni effettuate a carico di persona non identificata, non ancora iscritta nel registro degli indagati o non raggiunta personalmente da indizi di reato. Con riguardo alla motivazione dell’ordinanza, la giurisprudenza, vista l’importanza ed il rilievo, anche costituzionale, degli interessi in gioco, ha rammentato che “il giudice deve fornire concreta dimostrazione del corretto uso del potere conferitogli tramite un’adeguata e specifica motivazione del provvedimento autorizzativi. Ne consegue che detto obbligo motivazionale non può ritenersi assolto con il ricorso a citazioni o perifrasi apodittiche del contenuto delle norme che disciplinano l’assunzione del mezzo probatorio, né con il mero richiamo del contenuto delle richieste inoltrate dagli organi investigativi”: Cass., VI, 25 novembre 2003, n° 727, imp. Matarrelli. E’ stata, tuttavia, ritenuta legittima la motivazione per relationem rispetto alla richiesta del P.M., se allegata, seppure in modo parziale o priva della sottoscrizione (cfr. Cass., S.U., 26 novembre 2003, n° 919, imp. Gatto; conf. I, 3 febbraio 2005, n° 11525, imp. Gallace) e se adeguatamente motivata (cfr. Cass., I, 20 dicembre 2004, n° 2612, ric. P.G.), giacché in tutti questi casi è evidenziato l’iter cognitivo e valutativo seguito dal Giudice per giustificare il mezzo di ricerca della prova. E’ bene comunque ricordare che “la motivazione dei decreti di autorizzazione all’intercettazione di comunicazioni, ove sia manchevole, non può essere integrata (nel senso proprio del termine) da quella contenuta in altri, successivi provvedimenti giudiziari, i quali possono, però, fornirne una interpretazione che valga a chiarirne, anche 14 con riferimento ad altri atti del procedimento, la effettiva portata”: Cass., VI, 11 maggio 2005, n° 33750, imp. Longoni ed altro. Un’ultima annotazione. “…I decreti autorizzativi delle intercettazioni non rientrano tra gli atti che, ai sensi dell’art. 431, comma primo, cpp. devono entrare a far parte del fascicolo per il dibattimento, sicché il mancato inserimento di tali atti nel fascicolo non determina alcuna inutilizzabilità o nullità del mezzo di ricerca della prova, in quanto siffatte conseguenza sono riconducibili solo all’inesistenza o non validità dei decreti che comportano, ove prospettate, le necessarie verifiche da parte del giudice procedente”: Cass., I, 21 settembre 2005, n° 45418, imp. Auriemma ed altri; conf. Cass., IV, 17 dicembre 2003, n° 11528, imp. Federigi ed altri, Cass., IV, 25 febbraio 2004, n° 21726, imp. Spadaio ed altri. 5. Le intercettazioni urgenti. La disciplina è prevista dall’art. 267, secondo comma, cpp.. Poche annotazioni giurisprudenziali. La prima attiene al principio, secondo il quale “i casi di urgenza che abilitano il P.M. all’emissione del decreto di intercettazione di conversazioni o comunicazioni ex art. 267, secondo comma, cpp. possono essere considerati come le “le eccezionali ragioni d’urgenza”, che legittimano l’esecuzione mediante impianti in dotazione alla polizia giudiziaria – in quanto quelli istallati nella Procura della Repubblica siano insufficienti o inidonei – quando le ragioni addotte a fondamento dell’esigenza di attuare immediatamente le operazioni di intercettazione risultano incompatibili non solo con la procedura ordinaria della richiesta autorizzatoria al giudice per le indagini preliminari, ma anche con la sufficienza o idoneità degli impianti presenti nei locali della procura della Repubblica”: Cass., VI, 11 aprile 2005, n° 27852, imp. Sorrenti. Nello stesso senso si è espressa Cass., VI, 19 maggio 2005, n° 32469, imp. Roveto, che ne ha tratto la conseguenza, in punto di convalida, che “se il decreto di urgenza del P.M. è convalidato dal giudice, non può più farsi questione della sussistenza dei requisiti di urgenza ai fini sia dell’art. 267, secondo comma, sia dell’art. 268, comma terzo, cpp.”; conf. già Cass., I, 22 aprile 2004, n° 23512, imp. Termini. La secondo annotazione riguarda il termine (immediatamente e comunque non oltre le ventiquattro ore) previsto dall’art. 267, comma 2, per la trasmissione al giudice della convalida del decreto con il quale il P.M. abbia disposto l’intercettazione urgente: esso è stato giudicato di carattere “meramente ordinatorio” da Cass., I, 4 novembre 2003, n° 6875, imp. Carbonaro, che ne ha dedotto che “la sanzione di inutilizzabilità delle risultanze acquisite si determina solo nel caso che il provvedimento di convalida del giudice non intervenga entro quarantotto ore dall’adozione del decreto in questione. 15 E qui, oltre alle frizioni fra gli Uffici, sorge la questione ulteriore delle modalità di certificazione dei passaggi della richiesta dalla Procura della Repubblica all’Ufficio del Gip., ai fini della verifica del rispetto dei termini che, come si è visto, sono strettissimi. La giurisprudenza al riguardo è sufficientemente chiara. Posto che, fuori dai casi di lettura o comunicazione in udienza, “un provvedimento del P.M. o del Giudice è pubblicato con il deposito presso la segreteria o la cancelleria”, che segna il momento in cui si determinano “gli effetti giuridici del provvedimento”, ancorché già “valido e perfetto” (cfr. Cass., II, 23 novembre 2004, n° 42, imp. Meta ed altro), “l’attestazione dell’ora di ricezione presso l’ufficio G.i.p. della richiesta di convalida del provvedimento d’urgenza di proroga delle intercettazioni e l’attestazione sul conseguente decreto di convalida dell’ora di emissione non sono adempimenti prescritti dalla legge a pena di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, ma l’eventuale intempestività di tali atti può essere provata attraverso le annotazioni apposte sul registro interno di passaggio. E’ onere della parte, che deduce l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, richiedere una certificazione delle annotazioni del registro interno di passaggio alla cancelleria o segreteria degli uffici interessati per fare così risultare il mancato rispetto delle cadenza temporali previste per il procedimento di convalida”: Cass., VI, 7 luglio 2005, n° 38325, imp. Badami; nello stesso senso, Cass., II, 13 ottobre 2005, n° 41603, imp. D’Arpa, in relazione a provvedimento di convalida datato e sottoscritto dal Gip., ma non dal cancelliere. In conclusione: “il provvedimento che è emesso fuori dell’udienza, se privo della data di deposito, non é nullo o addirittura inesistente, perché la data è elemento estrinseco al provvedimento, previsto ai fini dell’efficacia, e serve a fissare il momento di inizio della sua rilevanza esterna. Ne consegue che alla omessa indicazione della data di deposito si può sopperire in presenza di altre formalità del pari fidefacienti, contenute anche in atti connessi, e che vi è pertanto difetto essenziale della data solo se la data certa non possa desumersi aliunde”: Cass., II, 18 ottobre 2005, n° 42318, imp. Prati. Cosa dire? Che vale la pena di curare, ciascuno per la parte di propria competenza e nei limiti del possibile, che cancellerie e segreterie attestino con cura e tempestività il deposito dei provvedimenti, nell’ambito di precise opzioni organizzative; ciò varrà non solo ad eliminare contrasti e contestazioni, ma determinerà un minore aggravio del lavoro dei collaboratori del magistrato, che verranno sollevati dall’onere delle citate certificazioni. 6. L’esecuzione delle operazioni: la regola generale dell’uso degli impianti installati nella procura della Repubblica e sue applicazioni; l’ “istradamento”. La disciplina codicistica – lo si è accennato – prevede che le operazioni captative di conversazioni e comunicazioni, anche tra persone presenti, siano disposte ex art. 267 cpp., previo decreto motivato di autorizzazione del Giudice, dal Pubblico Ministero, il quale detta anche le modalità e la durata di esse, curandone l’esecuzione direttamente oppure delegandola, sotto il proprio diretto controllo, alla polizia giudiziaria. 16 Scopo della disciplina è quello di rendere possibile la valutazione, da parte del Giudice, del bilanciamento degli interessi di rango costituzionale in conflitto – quello alla riservatezza e quello alla prevenzione e repressione dei reati -, al fine di prevenire abusi. In vista di tale importante obiettivo, la norma processuale prevede, oltre al controllo giurisdizionale, ulteriori garanzie di natura tecnica, relative agli impianti utilizzati. La stessa Corte Costituzionale, del resto, ha più volte rilevato che ogni compressione del diritto alla riservatezza è legittimata solo dal provvedimento motivato del Giudice, con la conseguenza che a tale garanzia non possono essere sottratte le modalità concrete con le quali si procede alle intercettazioni10. Per tale ragione il codice ha stabilito la regola generale fissata dal primo comma dell’art. 368 cpp., secondo cui “le operazioni possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella Procura della Repubblica”, ritenuti, all’evidenza, maggiormente affidabili e non manipolabili, in quanto nella immediata e concreta disponibilità dell’Autorità Giudiziaria e sottoposti al suo diretto controllo. Poco importa, dunque, che le operazioni di ascolto avvengano utilizzando il sistema dell’istradamento – vale a dire la destinazione ad uno specifico nodo telefonico – del suono negli uffici dei comandi della polizia giudiziaria, anziché nei locali della Procura della Repubblica, purché tali modalità esecutive assicurino comunque la possibilità di ascolto anche nell’Ufficio giudiziario, dove avviene concretamente la captazione, grazie agli strumenti ivi esistenti: tale modalità non rende inutilizzabili le intercettazioni: Cass., IV, 28 febbraio 2005, n° 20140, imp. Lettera. E’ stata ritenuta legittima anche la modalità dell’istradamento delle telefonate estere provenienti da una determinata zona, senza che fosse stata avviata un’apposita rogatoria internazionale, posto che l’intera attività di captazione e registrazione si svolge sul territorio nazionale: cfr. Cass., VI, 2 novembre 2004, n° 7258, imp. Commisso ed altri; conf. Cass., IV, 14 maggio 2004, n° 32904, imp. Belforte ed altri 11. Né comporta inutilizzabilità il fatto che la redazione del verbale concernente le operazioni di intercettazione, con la contestuale sommaria trascrizione del contenuto delle comunicazioni intercettate avvenga negli uffici della polizia giudiziaria, purché la captazione delle comunicazioni avvenga mediante impianti e strumenti esistenti nell’Ufficio giudiziario: Cass., VI, 14 gennaio 2005, n° 7245, imp. Sardi. 10 Cfr. Corte Cost. sent. 21 marzo 1973, n° 34; sent. 16 dicembre 1992, n° 81; ord. 7 aprile 2004, n° 275. Non é superfluo evidenziare come la giurisprudenza abbia avuto modo di affermare anche che “in tema di intercettazioni telefoniche, nel caso in cui le relative operazioni riguardino un’utenza telefonica mobile, non rileva, al fine della individuazione della giurisdizione competente, il luogo dove sia in uso il relativo apparecchio, bensì esclusivamente la nazionalità dell’utenza, essendo tali apparecchi soggetti alla regolamentazione tecnica e giuridica dello stato cui appartiene l’ente gestore del servizio. Ne consegue che non è necessario esperire una rogatoria internazionale, se le operazioni di intercettazione di un’utenza mobile nazionale in uso all’estero possono essere svolte interamente nel territorio dello Stato”: Cass., IV, 7 giugno 2005, n° 35229, imp. Mercato Vasquez. 11 17 E’ tuttavia possibile che si faccia ricorso ad apparecchiature e strumenti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria. 6.a. L’ipotesi eccezionale dell’utilizzazione di impianti in dotazione alla polizia giudiziaria: presupposti. La possibilità di deroga alla regola generale è soggetta all’esistenza di due presupposti: che gli impianti esistenti presso l’Ufficio giudiziario siano insufficienti o inidonei e che sussistano eccezionali ragioni di urgenza. La giurisprudenza si è ovviamente occupata di meglio chiarire la portata di tali presupposti ed ha spiegato che “l’idoneità dell’impianto…attiene non solo all’aspetto “tecnico” o “strutturale”, concernente le condizioni materiali dell’impianto stesso, ma anche a quello cosiddetto “funzionale”, da valutare in relazione al tipo di indagine che si svolge e allo specifico delitto per il quale si procede”: Cass., I, 14 novembre 2005, n° 1033, imp. Cerchi ed altri; conf. Cass., I, 23 giugno 2005, n° 34814, imp. D’Agostino ed altri e Cass., I, 17 febbraio 2006, n° 11576, imp. Vecchione ed altro. E’ stato così ritenuto legittimo l’utilizzo di impianti esterni determinato dall’esigenza di collocare le postazioni d’ascolto nelle immediate vicinanze dei luoghi di esecuzione di efferati delitti, al fine di poter tempestivamente ed efficacemente intervenire, oppure dall’esigenza di catturare un latitante. Può essere interessante aggiungere che la giurisprudenza ha affermato che non è necessario, ai fini dell’utilizzabilità dell’intercettazione, che il P.M. alleghi una certificazione dell’insufficienza o dell’inidoneità dei suoi impianti, giacché “l’accertamento della carenza o inidoneità degli impianti…è di competenza del P.M. e per esso non è richiesta alcuna certificazione ma la sola indicazione delle ragioni delle carenze degli impianti stessi”: Cass., VI, 16 giugno 2005, n° 28521, imp. Ciaramitaro. Quanto al presupposto delle “eccezionali ragioni di urgenza”, spesso la Suprema Corte ha affermato che i “casi d’urgenza”, in base ai quali il P.M. può disporre l’intercettazione ex art. 267, secondo comma, cpp. senza la previa autorizzazione del Giudice, “comprendono di norma” le “eccezionali ragioni di urgenza” che legittimano ex art. 268, terzo comma, cpp. il ricorso ad impianti esterni alla Procura della Repubblica, con la conseguenza che la motivazione sull’urgenza ex art. 267 cpp. assorbirebbe quella sulla eccezionale urgenza ex art. 268 cpp. se le ragioni addotte appaiano incompatibili con l’attesa di ottenere la disponibilità degli impianto dell’Ufficio Giudiziario (cfr., da ultimo, Cass., VI, 19 maggio 2005, n° 32469, imp. Roveto. Secondo Cass., S.U., 26 novembre 2003, n°919, imp. Gatto, tuttavia, l’uso dell’aggettivo “eccezionale” rende evidente il fatto che le ragioni che legittimano il ricorso all’utilizzo di impianti “esterni” non coincidono con quelle che giustificano l’esecuzione disposta in via d’urgenza con decreto dal Pubblico Ministero ex art. 267, secondo comma, cpp., giacché quelle che giustificano il ricorso ad impianti della polizia giudiziaria sono ragioni più cospicue e pregnanti. 18 Appare allora evidente l’importanza fondamentale che assume la motivazione dei relativi provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria. 6.b. La motivazione. Intanto, la motivazione ci dev’essere. La Corte di Cassazione, infatti, ha affermato che “la totale mancanza di motivazione dei decreti del P.M. che autorizzano l’ascolto mediante impianti diversi da quelli installati nella Procura della Repubblica per la inadeguatezza o indisponibilità di questi ultimi, comporta la inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni…”: Cass. I, 9 luglio 2004, n° 37163, imp. Contaldo ed altri. Inoltre, “…la motivazione relativa alla insufficienza o inidoneità degli impianti della procura della Repubblica non può limitarsi a dare atto di tale situazione, ma deve anche specificare le ragioni di tale inidoneità o insufficienza, sia pure mediante una indicazione sintetica, purché non si traduca nella mera riproduzione del testo della legge bensì dia conto del fatto storico, ricadente nell’ambito dei poteri di cognizione del P.M., che ha dato causa ad essa”: Cass., 4 ottobre 2004, n° 46551, imp. Antonietti ed altri; conf. Cass., S.U., 26 novembre 2003, n° 919, imp. Gatto e, da ultimo, Cass., S.U., 29 novembre 2005, n° 2737, imp. Campenni. La ragione è evidente: solo la motivazione dà conto del fatto che il magistrato ha accertato l’esistenza dei presupposti, ha proceduto alla corretta valutazione degli interessi di rango costituzionale in conflitto, ha proceduto ad un corretto uso del potere conferitogli, ha vagliato il rispetto delle garanzie relative agli aspetti tecnici dell’intercettazione e può quindi assicurare che si proceda alle specifiche intercettazioni autorizzate, nei limiti dell’autorizzazione. E’ stata ritenuta legittima la motivazione per relationem, “allorché 1) il provvedimento a tal fine richiamato (nella specie il decreto autorizzativi del ricorso al mezzo di ricerca della prova emesso dal giudice per le indagini preliminari) contenga idonea giustificazione della sussistenza di eccezionali ragioni di urgenza o dell’insufficienza o inidoneità degli apparati installati presso l’ufficio di procura; 2) abbia natura di atto del medesimo procedimento; 3) sia, se non allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, conosciuto dall’interessato ovvero a lui ostensibile…”: Cass., S.U. 31 ottobre 2001, n° 42792, imp. Policastro ed altri. E’ stata ritenuta legittima anche la motivazione implicita, che si verifica “allorquando essa sia desumibile dal riferimento ad attività criminosa in corso, quale deve ritenersi quella di un’associazione di tipo mafioso, per sua natura di carattere permanente”: Cass., I, 3 febbraio 2005, n° 11525, imp. Gallace. 19 6.b. a. La questione della integrazione della motivazione ed il recente intervento delle Sezioni Unite. E’ stata poi molto dibattuta la possibilità che la motivazione del decreto del Pubblico Ministero di autorizzazione a far uso di impianti esterni alla Procura della Repubblica possa essere adottata o anche solo integrata con un successivo provvedimento, emesso dopo l’esecuzione delle operazioni captatorie, ma prima dell’utilizzazione dei loro risultati. Secondo un primo orientamento, l’eventuale deficit motivazionale del decreto del P.M. con il quale si sia disposto l’utilizzo di impianti esterni all’Ufficio giudiziario potrebbe essere colmato da un provvedimento successivo all’inizio delle operazioni di intercettazione, ma anteriore all’utilizzazione del risultato dell’operazione; “in tal caso, infatti, il provvedimento successivo ha valenza integrativa ed esplicativa del precedente provvedimento, cui accede e col quale si coniuga, ed il suo intervento prima dell’utilizzazione delle risultanze dell’operazione per un verso consente il controllo del giudice cui l’atto è sottoposto,e, per altro verso, rende edotto anche l’interessato delle ragioni effettive che hanno giustificato la deroga alla regola generale”: Cass. 21 giugno 2004, n° 34181, imp. Sgroi; conf. Cass., VI, 21 gennaio 1994, n° 7691, imp. Flori. Secondo un diverso orientamento, “gli elementi ricavati da intercettazioni eseguite presso impianti diversi da quelli in dotazione alla Procura della Repubblica, in totale mancanza di specifico provvedimento del P.M. ai sensi dell'art. 268, comma terzo, del codice di procedura penale, sono inutilizzabili in giudizio. Ed invero, la mancata attuazione, nelle forme prescritte, del preventivo controllo dell'autorità giudiziaria circa le modalità dell’intercettazione, coinvolgendo il diritto, di rango costituzionale, alla riservatezza delle comunicazioni che riguarda non il solo indagato, ma una pluralità non preventivamente determinabile di soggetti, dà luogo automaticamente ad una situazione di radicale illegittimità sanzionata non solo dalla inutilizzabilità dei risultati, ma addirittura dalla fisica distruzione del materiale ricavato, che il giudice deve disporre d'ufficio in ogni stato e grado del processo: il che esclude altresì, evidentemente, la possibilità di qualsiasi intervento correttivo successivo all’esecuzione delle operazioni”: Cass., 7 ottobre 1997, n° 11077, imp. Bonavota ed altri. Sul punto sono intervenute di recente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza del 29 novembre 2005, n° 2737, imp. Campenni. I Supremi Giudici hanno ribadito che il ricorso ad impianti esterni alla Procura della Repubblica è legittimo solo in presenza dei presupposti della insufficienza o inidoneità degli impianti dell’Ufficio giudiziario e della ricorrenza di eccezionali ragioni di urgenza, da una parte, e di provvedimento motivato dell’A.G., dall’altra. Hanno quindi rimarcato come le finalità della motivazione siano quelle di dare contezza del ponderato bilanciamento degli interessi di rango costituzionale in gioco, della correttezza dell’uso del potere attribuito al P.M., dell’affidabilità tecnica delle apparecchiature utilizzate e del fatto che si proceda all’effettuazione proprio delle specifiche intercettazioni autorizzate dal Giudice, nei limiti dell’autorizzazione da lui concessa. 20 Ne hanno quindi tratto la conseguenza che poiché “solo il decreto motivato (e, quindi, il provvedimento determinativo al riguardo unitamente alle ragioni che lo sorreggono) autorizza il ricorso a quegli strumenti operativi e rende legittima l’attività captativa che realizza in concreto quella “formidabile capacità intrusiva” che le è connaturata, non può non convenirsi – tanto fungendo da requisito ineludibile per l’espletamento di tale attività con quelle modalità tecniche – che tale condizione deve essere assicurata ed assolta prima che l’attività medesima venga posta in essere: l’assolvimento di tale obbligo funge, difatti, da condizione legittimante la futura attività captativa, e non può, perciò, che precederla”. Ovvia allora la conclusione: “il mancato adempimento di tale previa attività connota, quindi, di definitiva ed irreversibile patologicità l’attività in tal guisa posta in essere, patologicità che…sortisce, poi, l’esito della inutilizzabilità delle relative acquisizioni, quale sua ineludibile conseguenza”. Il ragionamento e le conclusioni sono tanto perentori, quanto chiari. Due le conseguenze di carattere pratico. La prima: visto che il controllo sulla sussistenza dei presupposti della deroga alla regola generale, esplicitato nella congrua motivazione del provvedimento dell’A.G., deve necessariamente precedere il compimento dell’attività captatoria, costituendone condizione di legittimità, l’eventuale integrazione della motivazione del provvedimento, certo possibile (sempre nella richiesta forma documentale), deve comunque precedere l’inizio delle operazioni di intercettazione; “è, difatti, il compimento dell’atto che segna il discrimine invalicabile entro ci la motivazione deve essere resa…Ove tali obblighi di legge vengano assolti in epoca successiva al compimento dell’atto, tratterebbesi di un controllo e di una delibazione non più preventivi, idonei cioè a legittimare un’attività che si intende compiere, ma successivi, intesi, semmai, a giustificare un’attività già posta in essere”, in violazione della norma costituzionale che vuole che il controllo sia preventivo, per evitare interventi sostanzialmente autoreferenziali ed incontrollabili. Seconda conseguenza: l’eventuale integrazione motivazionale non può mai essere operata dal Giudice ex post; tanto più che le modalità esecutive dell’attività intercettative sono di pertinenza del Pubblico Ministero e , secondo i principi generali, non è dato al Giudice di integrare un atto di parte, ancorché pubblica. Il Giudice potrà quindi solo limitarsi a valutare la congruità della motivazione alla luce delle ragioni in essa esplicitate. Le Sezioni Unite hanno quindi affermato esplicitamente il seguente principio di diritto: “in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di autorizzazione alla utilizzazione di impianti diversi da quelli in dotazione alla Procura della Repubblica, ai sensi dell’art. 268, terzo comma, cpp., la motivazione del decreto del pubblico ministero, in ordine ad entrambi i presupposti di legge (la inidoneità o 21 insufficienza degli apparati in uso all’ufficio giudiziario e la eccezionale urgenza) deve intervenire prima della esecuzione delle operazioni captative; il pubblico ministero può rendere la relativa motivazione, o integrarla, anche in momento successivo a quello in cui abbia, eventualmente, disposto l’esecuzione delle operazioni, ma comunque sempre ed in ogni caso prima che le operazioni medesime vengano eseguite. Non è dato al giudice di emendare il decreto del pubblico ministero sostituendosi a lui nel rendere una motivazione non data dall’inquirente o di integrarla, appropriandosi di ambiti di discrezionalità delibativi e determinativa che spettano solo alla parte pubblica”. Compatibile con tale principio è l’affermazione, secondo la quale la effettiva sussistenza delle condizioni che legittimano il ricorso all’utilizzazione di impianti esterni alla procura possa “essere autonomamente accertata ex post dalla Cassazione, nei limiti in cui sia desumibile dai dati di fatto” (Cass., V, 12 aprile 2006, n° 16956, imp. Pulvirenti; conf. Cass., V, 12 gennaio 2006, n° 7039, imp. Gandolfo e Cass., V, 12 gennaio 2006, n° 10449, imp. Di Stefano), trattandosi di questione che attiene alla valutazione della eventuale, conseguente invalidità processuale. E’ stato anche ritenuto che “se il decreto con cui il pubblico ministero dispone l’utilizzo di impianti diversi da quelli installati nella procura della Repubblica è motivato, o integrato nella motivazione, in un momento successivo alla sua emissione e ad operazioni di ascolto già iniziate, i risultati intercettativi utilizzabili sono solo quelli raccolti da quel momento in avanti, e sono invece inutilizzabili i risultati intercettativi raccolti dall’inizio delle operazioni e sino al momento dell’intervento tardivo sulla motivazione del decreto”: Cass., II, 15 febbraio 2006, n° 7788, imp. Navarria. Resta solo da stabilire, per completezza di analisi, quali siano gli impianti installati presso la Procura della Repubblica e quali quelli in dotazione alla polizia giudiziaria. 6.b.b. Impianti installati nella procura ed impianti in dotazione alla polizia giudiziaria. L’art. 268, terzo comma, cpp. fa riferimento espresso agli “impianti installati nella procura della Repubblica”. Poiché essere installati non significa necessariamente appartenere all’Ufficio Giudiziario, è stato chiarito che “la modalità ordinaria di esecuzione delle operazioni consiste nell’uso di impianti installati nella procura della Repubblica, senza che abbia alcun rilievo il titolo da cui deriva la disponibilità degli stessi impianti, che ben può essere costituito da un contratto di locazione stipulato al fine specifico di condurre le operazioni da compiere. Anche in tale ultimo caso non ricorre l’ipotesi del ricorso ad impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria, essendo gli apparecchi comunque installati presso la procura…”: Cass., I, 11 novembre 2003, n° 6905, imp. Franchini ed altri; conf. Cass., VI, 1° dicembre 2003, n° 2845, imp. Cavataio. Quanto invece agli impianti in dotazione alla polizia giudiziaria, la giurisprudenza ha chiarito che debba considerarsi tale “qualunque apparecchiatura della quale la stessa abbia la disponibilità presso i propri uffici, e dunque anche il materiale tecnico che, 22 appartenendo a privati, venga da costoro consegnato in via precaria per effetto di noleggio o d’un qualunque altro contratto”: Cass., II, 18 novembre 2004, n° 48461, imp. Chirillo; conf. Cass., IV, 1° luglio 2003, n° 35186, imp. Rodorigo ed altro, nonché Cass., I, 20 dicembre 2004, n° 2613, imp. Bolognino ed altri, e Cass., II, 14 dicembre 2005, n° 1595, imp. Prezzavento, che hanno specificato tale uso è legittimo a condizione che le operazioni avvengano sotto il controllo della polizia giudiziaria ed il privato agisca come longa manus di essa. E’ stato ulteriormente precisato, infine, che le apparecchiature utilizzate dalla polizia giudiziaria possono anche restare di proprietà del privato, ma al privato, in tal caso, è fatto divieto di accedere alla propria strumentazione fino a quando essa è utilizzata per l’intercettazione: cfr. Cass., VI, 16 giugno 2005, n° 28514, imp. Contorno. 7. La “circolazione” delle intercettazioni tra i procedimenti. L’art. 270, primo comma, cpp. fissa la regola generale, secondo la quale “i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti”, nell’evidente intento di salvaguardare il diritto di difesa degli indagati nel procedimento diverso. E’ noto, tuttavia, che è prevista l’eccezione a tale regola, nel caso in cui le intercettazioni risultino “indispensabili” per l’accertamento di quei reati più gravi, per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. E’ importante, allora, intendersi anzitutto su quale sia il procedimento diverso, nel quale l’utilizzazione del risultato dell’intercettazione sia indispensabile, perché – ovviamente solo per il procedimento diverso valgono i limiti di utilizzabilità fissati dal codice. La Corte di Cassazione ha specificato che “il concetto di diverso procedimento…non si estende fino ad escludere la possibilità di utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti concernenti indagini strettamente connesse o collegate, sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato in ordine al quale il mezzo di ricerca della prova è stato disposto. Inoltre, la diversità del procedimento di cui si parla deve assumere rilievo di carattere sostanziale e non può essere ricollegata a dati meramente formali, quale la materiale distinzione degli incartamenti relativi a due procedimenti o il loro diverso numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato”: Cass., II, 19 gennaio 2004, n° 9579, imp. Amato; conf. Cass. VI, 15 gennaio 2004, n° 4942, imp. Kolakowska Bozena. Quindi, la diversità del procedimento non dipende dalla diversità del reato oggetto di esso, ma è diverso solo quel procedimento che, in senso sostanziale, riguardi un fatto diverso, non connesso o collegato all’altro sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico: cfr. Cass., I, 4 novembre 2004, n° 46075, imp. Kunsmonas; conf. già Cass., VI, 17 maggio 1997, n° 1972, imp. Pacini Battaglia. Anche se la Suprema Corte non ha avuto modo di chiarirlo espressamente, credo che non si possa dubitare che, data la codificazione delle relative categorie, i procedimenti siano 23 connessi o collegati nei casi disciplinati, rispettivamente, dagli artt. 12 e 371, secondo comma, cpp.. Quanto alla nozione di “indispensabilità”, la Corte di Cassazione ha affermato che non possa darsene un’interpretazione riduttiva, nel senso che l’utilizzazione sia possibile solo quando i risultati dell’intercettazione siano indispensabili all’accertamento del reato, altrimenti non dimostrabile attraverso altro mezzo di prova, ma “deve ritenersi che l’indispensabilità dell’accertamento vada riferita a tutta l’imputazione, compresi i fatti relativi alla punibilità, alla determinazione della pena ed alla qualificazione del reato medesimo in rapporto alle circostanze attenuanti o aggravanti: Cass., VI, 27 maggio 2005, n° 33968, imp. Martinelli; conf. già Cass., VI, 26 marzo 1996, n° 5363, imp. Sollecito, nonché Cass., II, 25 novembre 2005, n° 2809, imp. Parisi, secondo la quale la “circolazione” può avvenire anche quando il risultato dell’intercettazione serva nel procedimento ad quem per riscontrare dichiarazioni accusatorie. Se ricorrono le condizioni previste dalla legge, il risultato delle intercettazioni effettuate nel procedimento a quo potrà essere utilizzato nel procedimento ad quem in tutte le sue fasi e dunque anche nell’ambito delle indagini preliminari, al fine di acquisire ulteriori fonti di prova, ad esempio per disporre una perquisizione ed il relativo sequestro: cfr. Cass., III, 19 ottobre 2005, n° 41957, imp. Garruti. Come si accennava, l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in un procedimento diverso comporta un certo sacrificio del diritto di difesa di chi sia indagato nel procedimento ad quem. Per limitare questo sacrificio, il legislatore ha previsto il deposito dei verbali e delle registrazioni presso la cancelleria del Giudice ad quem e l’estensione al procedimento “ricevente” delle garanzie previste dall’art. 268, commi 6, 7 e 8, cpp., vale a dire il diritto agli avvisi di deposito, ad esaminare gli atti e ad ascoltare le registrazioni, alla trascrizione, all’estrazione di copia. La Corte di Cassazione è intervenuta anche in ordine a tali aspetti. Cass., I, 22 marzo 2005, n° 15328, imp. D’Amico ed altri, ha affermato, ad esempio, che “l’art. 270 cpp., nel richiamare il rispetto delle disposizioni dell’art. 268, commi sesto, settimo ed ottavo, non esige il rifacimento delle operazioni di trascrizione12, risultando Vale la pena di ricordare che la trascrizione mediante perizia è la forma più completa e garantita di trasposizione grafica del contenuto delle comunicazioni o delle conversazioni intercettate; da essa vanno distinti i cosiddetti brogliacci di ascolto ovvero gli appunti, redatti dalla polizia giudiziaria durante le intercettazioni, facenti parte ex art. 268, secondo comma, cpp. del verbale delle operazioni captative, nonché le trascrizioni che del contenuto delle intercettazione possano essere state fatte dalla polizia giudiziaria medesima, alle quali è attribuita diversa efficacia probatoria. 12 La giurisprudenza ha rimarcato tale distinzione, affermando, ad esempio, che “la richiesta di misura cautelare può legittimamente essere fondata sull’allegazione delle trascrizioni sommarie del contenuto delle comunicazioni (brogliacci di ascolto) ovvero degli appunti raccolti durante le intercettazioni, senza la necessità di allegazione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni medesime” (cfr. Cass., IV, 26 maggio 2004, n° 39469, imp. Trabelsi Kheimas ed altro). 24 salvaguardate le prerogative della difesa attraverso il deposito nel procedimento “diverso” degli atti concernenti le intercettazioni”. Il dibattito giurisprudenziale è stato più articolato in merito a quali documenti dovessero essere depositati nel procedimento ad quem ai fini dell’utilizzabilità in esso dei risultati delle intercettazioni. Secondo un primo indirizzo, basato sulla previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 270 cpp. – che prevede il deposito di verbali e registrazioni “ai fini dell’utilizzazione prevista dal comma primo -, l’utilizzabilità delle intercettazioni nel procedimento diverso è subordinata al deposito presso l’A.G. ricevente solo dei verbali e delle registrazioni delle operazioni captative, “a nulla rilevando che non siano stati acquisiti anche la richiesta del pubblico ministero e persino lo stesso decreto autorizzativo”: Cass., VI, 14 aprile 2003, n° 35389, imp. Femia; conf. Cass., F. 31 luglio 2003, n° 38291, imp. Abbinante. Secondo altro orientamento, invece, “ai fini dell’utilizzabilità dei risultati di intercettazioni legittimamente eseguite in altro procedimento ai sensi dell’art. 270 cpp. non è richiesto il deposito delle registrazioni (bobine) di esse, come pure dei verbali e dei decreti di autorizzazione, atteso che tali inosservanze non rientrano tra quelle indicate, con carattere di tassatività, dall’art. 271 cpp.”: Cass. IV, 24 settembre 2003 n° 44518, imp. Grado ed altri; ed, in effetti, l’art. 271 cpp. prevede l’inutilizzabilità solo di quelle operazioni che non abbiano rispettato le previsioni degli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, e non anche, dunque, dell’art. 270, secondo comma, cpp.. Un terzo orientamento è stato espresso da Cass., I, 17 febbraio 2003, n° 11968, imp. Gullo, secondo cui “il principio secondo il quale al giudice che adotta una misura cautelare e, successivamente, al giudice del riesame debbono essere trasmessi gli atti autorizzativi delle intercettazioni trova applicazione anche nel caso in cui si tratti di intercettazioni eseguite in altri procedimenti ai sensi dell’art. 270 cpp., stante la generale valenza del disposto dell’art. 271 cpp. e non essendovi ragione di ritenere inoperanti, nel procedimento in cui l’esito delle intercettazioni é riversato, le garanzie normalmente spettanti all’indagato nel procedimento da cui le stesse provengono né potendosi ritenere le operazioni di captazione disposte in una dato procedimento assistite, in quello diverso, da presunzione di legittimità e sottratte alla doverosa verifica giudiziale dei presupposti di utilizzabilità”; conf. Cass., I, 22 dicembre 2000, n° 8781, imp. Caramazza, Cass., IV, 24 novembre 2000, n° 5235, imp. Sadra El Hassan. La questione è stata affrontata e risolta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza del 17 novembre 2004, n° 45189, imp. Esposito, che ha affermato il principio di diritto secondo cui “ai fini dell’utilizzabilità degli esiti di intercettazioni di conversazioni Ha anche insegnato che “in tema di intercettazioni telefoniche debbono distinguersi dai cosiddetti “brogliacci”, consistenti nella sommaria trascrizione delle conversazioni intercettate, effettuata ex art 268, secondo comma, cpp. nei verbali delle operazioni e in nessun caso utilizzabili ai fini della decisione,le trascrizioni delle intercettazioni medesime eventualmente effettuate dalla polizia giudiziaria. Le seconde, a differenza dei primi, ben possono essere utilizzate per la pronuncia della sentenza, fermo il diritto delle parti di chiedere la trascrizione mediante perizia”: Cass., 28 settembre 2004, n° 47891, imp. Mauro ed altri. 25 o comunicazioni in procedimento diverso da quello nel quale esse furono disposte, non occorre la produzione del relativo decreto autorizzativo, essendo sufficiente il deposito, presso l’Autorità giudiziaria competente per il “diverso” procedimento, dei verbali e delle registrazioni delle intercettazioni medesime”. La Corte era stata chiamata a valutare la congruità della decisione di un Tribunale della Libertà che, riesaminando l’ordinanza di applicazione della misura cautelare basata solo sui risultati di intercettazioni telefoniche effettuate in un procedimento diverso, aveva annullato la misura cautelare sul rilievo che non fosse stata depositata presso il giudice ad quem la nota della polizia giudiziaria alla quale aveva fatto rimando il decreto autorizzativo, la cui legittimità dunque il Tribunale del riesame non aveva potuto vagliare. I Supremi Giudici hanno fatto notare come il sistema normativo in materia di intercettazioni distingua nettamente il procedimento volto all’ammissione dell’intercettazione, intesa come mezzo di ricerca della prova, da quello, successivo, teso alla selezione della prova ottenuta tramite quello strumento. Una cosa, infatti, è l’ammissibilità del ricorso allo strumento processuale dell’intercettazione, in cui è fondamentale verificare l’effettività dell’esigenza di interferire sulla libertà e segretezza delle comunicazioni; altra cosa è l’ammissibilità della prova ottenuta, la cui verifica si avvia solo quando l’attività captatoria si è già conclusa. Da quest’ultimo momento, infatti, inizia il complesso procedimento, disciplinato dai commi quarto, quinto, sesto ed ottavo dell’art. 268 cpp. (trasmissione dei verbali e delle registrazione al P.M.; loro deposito in segreteria, insieme ai decreti che hanno disposto, autorizzato, convalidato o prorogato l’intercettazione; avviso ai difensori di tale deposito e della loro facoltà di esaminare gli atti ed ascoltare le registrazioni; intervento del giudice, che dispone l’acquisizione delle intercettazioni non manifestamente irrilevanti indicate dalle parti e lo stralcio anche d’ufficio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione, mentre verbali e registrazioni che non sono stati neppure acquisiti come prova rimangono ex art. 269 cpp. custoditi presso il P.M. fino al passaggio in giudicato della sentenza). Ne consegue che “mentre per l’ammissione dell’intercettazione si applicano i criteri di ammissibilità previsti dall’art. 267 cpp., per la selezione dei suoi risultati sono invece applicabili i criteri di ammissibilità previsti dall’art. 190, comma, 1, cpp.”. Ciò evidenziato in generale, passando poi alla disciplina eccezionale delineata dall’art. 270 cpp. le Sezioni Unite hanno evidenziato che, siccome essa viene in gioco, ad operazioni di intercettazione già ultimate, nel caso in cui l’intercettazione sia indispensabile nel procedimento diverso per l’accertamento di alcuni specifici reati e la rilevanza della prova acquisita attraverso l’intercettazione dipende dalle specifiche ipotesi di accusa formulate nel procedimento ad quem, il legislatore ha codificato solo (art. 270, secondo comma, primo inciso) il rinnovo del deposito di verbali e registrazioni e (art. 268, secondo comma, secondo inciso, che richiama i commi 6, 7 e 8 dell’art. 268 cpp.) la successiva fase di cernita delle conversazioni rilevanti, disciplinando così solo il secondo dei due citati procedimenti previsti dalla disciplina generale, mentre il procedimento di ammissione del 26 mezzo di prova rimane del tutto estraneo alla disciplina dell’utilizzabilità nel procedimento diverso del risultato dell’intercettazione. Ecco perché il mancato deposito nel procedimento ad quem dei decreti autorizzativi adottati nel procedimento a quo non incide sull’utilizzabilità nel primo dei risultati acquisiti nel secondo. E, del resto, il primo comma dell’art. 270 cpp., significativamente, fa espresso riferimento proprio ai “risultati” dell’intercettazione. Questo, secondo le Sezioni Unite, non significa, tuttavia, che l’eventuale illegittimità del procedimento di ammissione del mezzo di prova nel procedimento a quo sia indifferente nel giudizio ad quem. In tale giudizio essa potrà certamente essere oggetto di valutazione, perché sarebbe del tutto irragionevole il contrario; solo che l’eventuale inutilizzabilità sarà conseguenza non del mero difetto di trasmissione dell’atto che ha legittimato l’intercettazione, ma dalla illegalità - verrebbe da dire, ontologica - dell’ammissione del mezzo di prova, conseguenza della illegittimità del decreto, dell’autorizzazione, della proroga…, secondo il dettato dell’art. 271 cpp., che, appunto, non richiama appunto il comma 4 dell’art. 268 cpp.. In buona sostanza, mentre il mancato deposito ex art. 270, secondo comma, cpp. di verbali e registrazioni comporta di per sé, automaticamente, l’inutilizzabilità del risultato dell’intercettazione, l’eventuale illegittimità del procedimento di ammissione del mezzo di prova, implicante l’illegittimità del risultato probatorio, potrà essere provata attraverso la produzione, ad istanza della parte che la sostiene, dei decreti autorizzativi insufficienti o illegittimi, che costituiscono atti di un diverso procedimento penale e dunque documenti, che la medesima parte potrà previamente ottenere in copia ex art. 116 cpp.,dal giudice a quo, stante il suo evidente interesse. Il controllo sulla legalità del procedimento di ammissione del mezzo di ricerca della prova è dunque demandato all’iniziativa delle parti, mentre il Giudice è tenuto d’ufficio solo a rilevare l’inutilizzabilità che risulti dagli atti già in suo possesso, senza essere tenuto a ricercarne d’ufficio la prova. Se, dunque, nel procedimento a quo la parte ha solo l’onere di allegazione della illegittimità di atti che, facendo già parte di quel procedimento, non devono essere prodotti, nel procedimento ad quem la parte ha non solo l’onere di allegazione della predetta illegittimità, ma anche di prova documentale di essa. 8. Le operazioni di captazione nei riguardi dei parlamentari: le intercettazioni “dirette” e quelle “indirette” o “casuali”. Com’è noto, prima della legge costituzionale 29 ottobre 1993, n° 3, l’art. 68 della nostra Costituzione, riguardante le immunità dei membri del Parlamento, nulla diceva in relazione alle intercettazioni telefoniche. 27 Il nuovo testo del predetto articolo oggi disciplina espressamente il tema delle intercettazioni telefoniche, prevedendo che senza l’autorizzazione della Camera d’appartenenza i parlamentari non possano essere sottoposti “ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni”. A tale norma costituzionale è stata data attuazione con la legge 20 giugno 2003, n° 140. L’art. 4 della legge ha disciplinato le modalità di esecuzione delle intercettazioni “nei confronti di un membro del Parlamento” prevedendo, come accennato all’inizio di queste riflessioni, che – salvo il caso in cui il parlamentare sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto in flagranza o nei suoi confronti si debba eseguire una sentenza irrevocabile di condanna - l’autorizzazione sia richiesta dall’autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire, le cui efficacia, nelle more, resta sospesa. La norma dunque disciplina le cosiddette intercettazioni “dirette”, vale a dire quelle eseguite nei confronti del parlamentare, sia o meno sottoposto ad indagini, su utenze a lui intestate o da lui utilizzate o in luoghi che siano nella sua disponibilità o dove si ritiene che egli possa trovarsi. In realtà, al di là dell’ipotesi in cui il parlamentare sia indagato, nel qual caso l’intercettazione, attraverso il meccanismo della preventiva richiesta di autorizzazione, perderebbe concretamente la sua funzione di atto a sorpresa e dunque efficacia, l’intercettazione “diretta” è prevalentemente quella in cui sia necessario intercettare il parlamentare quale persona offesa dal reato o, nei casi in cui possa avere rilievo, persona informata sui fatti, nei quali l’effetto sorpresa permane nei riguardi dell’indagato. L’art. 6 della legge citata disciplina invece il caso in cui il parlamentare sia stato intercettato, in qualsiasi forma, casualmente, nell’ambito di un procedimento penale riguardante terzi: è il caso delle intercettazioni “indirette” o “casuali”. La norma prevede due ipotesi. La prima, disciplinata dal primo comma, è che il Gip. ritenga irrilevanti, ai fini del procedimento riguardante il terzo, i verbali e le registrazioni; in questo caso, sentite le parti in camera di consiglio, ne ordinerà la distruzione a norma dell’art. 269, commi 2 e 3, cpp., al pari di ciò che avviene a tutela della riservatezza di qualsiasi cittadino. La seconda ipotesi è quella in cui le conversazioni intercettate siano rilevanti; in tal caso, il giudice per le indagini preliminari, su istanza di parte e sentite le altre, richiede con ordinanza, entro dieci giorni, l’autorizzazione alla Camera d’appartenenza del parlamentare casualmente intercettato; se l’autorizzazione sarà stata negata, la documentazione delle intercettazioni sarà distrutta immediatamente o nei dieci giorni dalla comunicazione del diniego ed, in ogni caso, sarà dal giudice dichiarata inutilizzabile in ogni stato e grado del procedimento. E’ sorto tuttavia il problema interpretativo relativo alla nozione di intercettazione indiretta: è tale anche quella in cui, nell’ambito di un procedimento relativo a terzi, 28 emergano indizi di reato nei confronti di un parlamentare? Sarà in tal caso necessaria l’autorizzazione preventiva di cui all’art. 4 della legge n° 140/03 o, ai sensi dell’art. 6, l’autorizzazione dovrà eventualmente essere richiesta ex post, dopo il giudizio di rilevanza del Gip.? A mio parere, anche questo caso è soggetto alla disciplina delle intercettazioni dirette introdotta dall’art. 4. Se, infatti, è necessaria l’autorizzazione della Camera d’appartenenza per sottoporre il parlamentare ad intercettazione, non si comprende perché ciò non debba avvenire anche nei casi in cui la notizia di reato nei suoi confronti sia emersa casualmente, indagando per fatti commessi da terzi; in tal caso, ovviamente, l’autorizzazione - giacché l’intercettazione, ritualmente autorizzata nei confronti del terzo, è già stata effettuata – sarà necessaria ai fini della utilizzabilità nei confronti del parlamentare del risultato dell’intercettazione. Su questa linea si è espressa Cass., IV, 4 febbraio 2004, n° 10772, imp. Donno, che ha affrontato in modo approfondito la questione (nell’ambito del procedimento in cui l’indagato era accusato di avere fatto da tramite per l’acquisto di cocaina da parte di un senatore). A tale argomento va aggiunto quello, già sottolineato, che poneva in evidenza come l’art. 4, sulle intercettazioni dirette, abbia un senso solo se riferito a procedimenti nei quali il parlamentare sia persona offesa o informata sui fatti, pena la perdita dell’effetto sorpresa; è allora del tutto evidente che tali procedimenti siano relativi ad indagati “terzi”. In ultima analisi, dunque, sarebbe “indiretta” solo l’intercettazione alla quale “prenda parte” (ex art. 6) il parlamentare non indagato, mentre sarebbe “diretta” e dunque sottoposta al regime di cui all’art. 4 l’intercettazione del parlamentare “comunque” indagato, anche se a seguito di notizia di reato emersa nell’ambito di procedimento relativo a terze persone. La Corte di Cassazione, portando avanti il ragionamento, ha quindi ritenuto che l’art. 6, secondo comma, della legge n° 140/03, pur se relativo alle intercettazioni indirette nel più ristretto significato che a tale espressione si debba attribuire (vale a dire quello di intercettazioni di comunicazioni di un parlamentare non indagato, casualmente effettuate nell’ambito di un procedimento penale riguardante terzi), sarebbe costituzionalmente illegittimo, giacché, apprestando per le intercettazioni delle comunicazioni di terzi, casualmente coinvolgenti un parlamentare non indagato, la tutela prevista dall’art. 68 Cost., avrebbe irragionevolmente esteso l’ambito di operatività della norma costituzionale, che prevede una tutela privilegiata solo per le intercettazioni dirette, cioè quelle relative a parlamentare comunque sottoposto ad indagini. La Corte, sollevando la relativa questione di costituzionalità, ha, da un lato, ritenuto irragionevole la diversità di disciplina tra il parlamentare ed il cittadino comune, in virtù del principio della parità di trattamento davanti alla giurisdizione e, per altro verso, ritenuto tale disciplina in contrasto con la garanzia apprestata dall’art. 24 al diritto di 29 difesa, giacché il cittadino indagato nel procedimento penale che abbia intersecato conversazioni di un parlamentare, potrebbe vedersi negare la possibilità di difesa derivante dall’utilizzo, eventualmente negatogli in conseguenza della valutazione discrezionale del ramo del Parlamento interessato, delle conversazioni del parlamentare, rilevanti a fini difensivi. Non può negarsi, a mio giudizio, che se la prima censura appare infondata, giacché la condizione del parlamentare può agevolmente essere giudicata diversa da quella del comune cittadino proprio e solo in ragione della garanzia costituzionale che deve essere riconosciuta al membro del Parlamento, convincenti siano le ulteriori argomentazioni della Corte in punto di limitazioni del diritto di difesa, alle quali si potrebbero aggiungere quelle, speculari, al diritto – verrebbe da dire – dell’accusa, ex art. 112 Cost. La Corte di Cassazione, poi, nella stessa decisione, ha affrontato ulteriormente il problema della nozione di intercettazione indiretta, mostrando di non condividere l’opinione – espressa del P.G. d’udienza sulla base del dato letterale del primo comma dell’art. 6 della legge n° 140/03 - secondo la quale sarebbe tale solo l’intercettazione di comunicazioni o conversazioni alle quali il parlamentare non “prenda parte” personalmente e direttamente, escludendo dal novero quelle in cui a conversare o comunicare sarebbe un suo mero nuncius, con la conseguente inapplicabilità della disciplina dell’art. 6 alle comunicazioni ed alle conversazioni in cui il parlamentare operi attraverso altri (nel caso di specie, il senatore chiedeva, per bocca del collaboratore, di poter acquistare la cocaina di cui aveva bisogno). I Giudici di legittimità hanno, infatti, sostenuto che “prendere parte” ad una conversazione o ad una comunicazione non implichi che ciò debba avvenire personalmente, giacché si può trasmettere il proprio pensiero anche tramite altri, e ne hanno tratto la conclusione che quel che conta ai fini dell’applicazione dell’art. 6 della legge n° 140/03 sia l’interlocutore “reale”. Per Cass., n° 10772/04 cit., quindi, in ultima analisi, sono intercettazioni dirette le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni di un parlamentare comunque indagato, per le quali trova applicazione la disciplina dell’art. 4 della legge n° 140 del 2003, con la conseguente necessità dell’autorizzazione della Camera d’appartenenza per l’esecuzione delle operazioni di intercettazione nel caso di parlamentare originariamente o autonomamente indagato e per l’utilizzabilità nei suoi confronti delle intercettazioni relative a parlamentare indagato a seguito di intercettazione casuale di sue comunicazioni o conversazioni, nell’ambito di un procedimento penale avviato nei confronti di terzi. Sono invece intercettazioni indirette quelle eseguite nell’ambito di un procedimento penale nei confronti di terzi, nel quale il parlamentare non sia a sua volta indagato, ma prenda parte – personalmente o per mezzo di un nuncius – alle conversazioni o alle comunicazioni. La Corte Costituzionale, con la sua sentenza n° 163 del giorno 8 maggio 2005, rel. Flick, ha ritenuto irrilevante e quindi dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità. 30 Il Giudice delle Leggi ha dapprima affermato che, “alla stregua del significato comune dell’espressione”, prende parte ad una conversazione o comunicazione “chi interloquisce in essa, non colui su mandato del quale uno degli interlocutori interviene”, così ritenendo applicabile la disciplina dell’art. 6 solo alle conversazioni o comunicazioni in cui il parlamentare interloquisca personalmente e direttamente e ritenendo quindi che le altre comunicazioni effettuate dal parlamentare tramite nuncius siano captabili ed utilizzabili senza necessità di autorizzazione parlamentare; ha poi omesso di valutare nel merito la questione di costituzionalità dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge n° 140/03 giudicandola irrilevante nel caso di specie, nel quale il parlamentare non aveva interloquito personalmente, ma per mezzo di un nuncius. Preso atto di tale decisione, la Corte di Cassazione, chiamata nuovamente a pronunciarsi nel citato caso del senatore, ha preso atto dell’orientamento della Corte Costituzionale ed ha affermato il principio di diritto secondo il quale “in tema di intercettazioni indirette, l’intercettazione della conversazione effettuata dal collaboratore del parlamentare, il quale svolga funzioni di “nuncius” di quest’ultimo, limitandosi esclusivamente a trasmetterne il messaggio, non rientra nell’ambito della tutela apprestata dall’art. 6, commi primo e secondo della legge n. 140 del 2003”, con la conseguenza che, in tal caso, la “autorizzazione non è richiesta ed i risultati delle intercettazioni non sono sottoposti ai divieti di cui al suddetto art. 6 e sono, pertanto, pienamente utilizzabili”: Cass., IV, 20 settembre 2005, n° 43938, imp. Donno; conf. Cass., I, 21 giugno 2006, n° 24621, imp. Di Giandomenico. Questo lo stato attuale della giurisprudenza, secondo il quale, pertanto, l’autorizzazione della Camera di appartenenza è necessaria per le intercettazioni dirette e per quelle indirette, intendendosi per tali quelle relative alle conversazioni o comunicazioni del parlamentare non inquisito, che abbia interloquito personalmente e non tramite nuncius. Resta, tuttavia, aperta, a mio giudizio, la questione di costituzionalità del secondo e dei successivi commi dell’art. 6 della legge n° 140 del 2003, nella parte in cui, contrariamente al più circoscritto dettato dell’art. 68 Cost., subordina ad autorizzazione parlamentare anche le intercettazioni indirette, pur intese nel più limitato senso chiarito dalla citata sentenza della Corte Costituzionale, vale a dire quelle in cui il parlamentare non inquisito abbia interloquito personalmente. Giuseppe Fazio magistrato 31