IL PRIVILEGIO IVA DEI PRESTATORI DI SERVIZI aggiornamento

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IL PRIVILEGIO IVA DEI PRESTATORI DI SERVIZI aggiornamento
COMMISSIONE PRECEDURE CONCORSUALI
Gruppo di studio formato da:
Malagoli Rag. Claudio (responsabile)
Altomonte Dott. Luca
Giovanardi Dott.ssa Enrica
Luppi Dott.ssa Stefania
Menetti Dott. Pietro Marco
Pignatti Morano Dott. G. Battista
Quartieri Dott.ssa Cristina
Riva Dott. Andrea
Spinelli Dott. Alberto
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IL PRIVILEGIO IVA DEI PRESTATORI DI SERVIZI
L’articolo 2758, 2° comma, C.C. e l’articolo 18 del D.P.R. 633/72 sanciscono che il credito
di rivalsa per l’IVA derivante da forniture di beni o prestazioni di servizi ha privilegio
speciale sui beni oggetto della cessione e della prestazione.
Se l’argomento presenta pochi margini di discussione per quanto riguarda le forniture di
beni, molte sono le questioni sorte attorno alle prestazioni di servizi, le quali - di frequente
– non possono, di fatto, giovarsi del privilegio mancando la possibilità di individuare il
bene su cui il privilegio, in ipotesi, insiste. Ovvero, quando lo si individua, non è nella
disponibilità della procedura.
Tali circostanze, con un privilegio che può definirsi “teorico”, hanno provocato discussioni
in Giurisprudenza ed in Dottrina.
Tentiamo qui di fare il punto della situazione ad oggi, anche alla luce di una sentenza della
Suprema Corte che si è occupata di un caso modenese, allargando il campo di indagine alle
conseguenze ed ai comportamenti suggeriti dalla normativa fiscale.
1) L’emissione o meno della fattura collegata all’insinuazione
L’articolo 6 del D.P.R. 633/72, nel suo terzo comma, prevede che i prestatori di servizi
possano emettere la fattura al momento dell’incasso del corrispettivo.
a) Accade molto frequentemente che, per non anticipare il tributo, il documento venga
emesso soltanto all’atto del pagamento. In tal caso il creditore è titolare del solo
diritto di credito liquido ed esigibile relativo al corrispettivo della prestazione,
ottenendo – per questo – l’ammissione privilegiata o chirografaria secondo la
natura della prestazione. Per poter prendere in esame l’esistenza del credito per
IVA occorre che risulti un regolare documento dal quale tale credito emerga1.
b) Se il prestatore di servizio, ancorché non tenuto, ha emesso la fattura prima della
dichiarazione di fallimento, potrà chiedere l’ammissione al passivo per i due distinti
crediti, corrispettivo e tributo; per il primo potrà avvalersi o meno del privilegio a
seconda della natura della prestazione (come sub “a”); per il secondo potrà chiedere
il riconoscimento del privilegio speciale ai sensi del citato secondo comma dell’art.
2758 C.C., salvi i problemi sopra evidenziati.
Qualora sia stato seguito il comportamento sub a), il più frequente, taluni hanno ritenuto
possibile la domanda di ammissione tardiva per il tributo, nel momento in cui il pagamento
del corrispettivo abbia fatto scattare l’obbligo della fatturazione.
In linea teorica tale possibilità esiste soltanto nel caso in cui non sia stata richiesta
l’ammissione dell’IVA in occasione della domanda tempestiva.
Non è infatti possibile azionare un credito in sede tardiva quando ne sia già stata chiesta
l’ammissione, essendo l’art. 98 l.f. (opposizione) l’unico rimedio previsto in caso di
mancato accoglimento della domanda2.
1
Per la verità Cassazione Civile Sez. I, con sentenza n. 12527 del 24.11.1992, pur disconoscendo il privilegio
sul tributo indiretto su una parcella professionale, ha ritenuto che, anche in assenza dell’emissione della
fattura, in virtù della norma che ne rende obbligatoria l’emissione soltanto all’atto del pagamento, l’IVA
possa essere ammessa in chirografo.
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Sul tema, oltre ad una serie di pronunce datate che consentono di stabilire consolidato il principio, il
Tribunale di Bologna, con sentenza del 20.4.1988, ha respinto la domanda di un professionista che, avendo
chiesto l’ammissione anche del tributo IVA con domanda tempestiva si era poi insinuato tardivamente,
accampando l’accessorietà del tributo al corrispettivo e, dunque, l’impossibilità di separata domanda. I
Giudici bolognesi hanno confermato l’autonomia dei due crediti, già sancita dalla Cassazione (Cass.,
27.10.1982, n. 5623).
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Si deve peraltro aggiungere che i tempi procedurali imposti dalla Riforma (si veda l’art.
101 l.f.) rendono alquanto improbabile che possa essere eseguito un riparto, con
conseguente emissione di fattura per pagamenti incassati ed emergere del credito IVA,
prima del decorso del termine per la presentazione della domanda tardiva.
2) Soluzioni prospettate al mancato riconoscimento del privilegio
A questo problema, basandosi sulla considerazione esposta al punto 1 (e sulla conseguente
utilizzazione da parte della procedura del tributo a credito), parte della Dottrina ed una
piccola parte della Giurisprudenza di merito ha tentato di ovviare al mancato
riconoscimento del privilegio sostenendo la c.d. pre deducibilità del tributo, prevista per il
pagamento delle spese affrontate in corso della procedura medesima.
L’art. 111 della Legge Fallimentare, che elenca tali spese procedurali con elencazione
tassativa, e con ancora maggiore severità l’art. 111-bis introdotto dalla riforma, non
contempla fra esse il tributo in esame. Tanto che, finora, la Giurisprudenza più autorevole,
e soprattutto quella di legittimità – in maniera costante -, ha contrastato la soluzione
suddetta (Cass. 4.6.1994 n. 5429, Cass. 1.2.1995 n. 1115, Cass. 2.2.1995 n. 1227, Cass.
13.12.1996 n. 11143).
Altra soluzione prospettata, già richiamata nella nota precedente, è quella di richiedere che
il tributo sia considerato, ai fini del privilegio, accessorio della prestazione, con l’ancor più
ambizioso fine di farlo concorrere – nel caso di prestazioni di servizi comprese nell’art.
2751 bis C.C. – con le prelazioni previste da tale norma. La medesima Giurisprudenza
richiamata in nota, ed anche la più recente Sentenza della Suprema Corte del 13.11.1992 n.
12207, lo esclude, stante la chiara disposizione dei citati artt. 2758 C.C. e 18/633, nel senso
che il credito di rivalsa IVA beneficia di titolo di prelazione altro rispetto a quello del suo
imponibile.
3) L’emissione della nota di accredito
Grande interesse aveva suscitato la modifica introdotta all’art. 26 del D.P.R. 633/72
dell’art. 2, comma 1, lettera c-bis del D.L. 31.12.1996, n. 669, convertito, con modifiche,
dalla Legge 28.2.1997, n. 30 e dall’art. 13-bis del D.L. 28.3.1997, n. 79, convertito dalla
Legge 28.5.1997, n. 140.3.
Si tratta della norma che ha inserito nel secondo comma dell’art. 26 il passaggio che
consente “di portare in detrazione ai sensi dell’art. 19 l’imposta corrispondente alla
variazione” quando “un’operazione per la quale sia stata emessa fattura ... viene meno in
tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, per mancato pagamento in tutto o
in parte a causa di procedure concorsuali ...”
Con successiva circolare4 il Ministero ha dato istruzioni sull’applicazione della norma,
individuando il momento in cui si verifica il presupposto del mancato pagamento che
consente l’emissione della nota di variazione nelle varie procedure, secondo il seguente
schema:
Procedura
Fallimento
Liquidazione
Verifica del presupposto
Definitività del piano di riparto ovvero, in mancanza di riparto,
scadenza del termine per il reclamo al decreto di chiusura del
fallimento5.
Coatta Decorrenza dei termini di cui all’art. 213 l.f. dopo l’approvazione
3
La pedante trascrizione del complesso iter normativo attesta la laboriosa costruzione del provvedimento.
Circolare Ministeriale n. 77/E del 17.4.2000.
5
Ambedue i termini sono stati portati da 10 a 15 giorni dalla riforma (artt. 110 e 119 l.f.).
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Amministrativa
Concordato fallimentare
Concordato preventivo
del piano di riparto.
Passaggio in giudicato del decreto di omologazione.
Definitività del decreto di omologazione o momento in cui il
debitore o l’assuntore adempie agli obblighi concordatari.
Con decorrenza dal 13 dicembre 2014, per effetto delle modifiche apportate alla norma
dall’art. 31 del D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175, il 2° comma dell’art. 26 permette la
variazione dell’IVA nel caso di “mancato pagamento in tutto o in parte a causa di
procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose o a seguito di un
accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182-bis del Regio
Decreto 16 marzo 1942, n. 267, ovvero di un piano attestato ai sensi dell’art. 67, terzo
comma, lettera d), del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, pubblicato nel registro delle
imprese … ecc.” (il resto immutato).
Al momento della stesura delle presenti note non sono intervenuti chiarimenti per quanto
riguarda le due nuove procedure alternative di risoluzione della crisi aziendale.
Per quanto concerne l’accordo di ristrutturazione dei debiti, in analogia a quanto previsto
per il concordato preventivo si può ritenere che il diritto in esame decorra dalla definitività
del decreto di omologazione, dato che la procedura prevede tale momento di vaglio
giudiziario.
Più complessa è la determinazione della decorrenza del diritto per quanto attiene il piano
attestato per il quale l’unico momento di pubblicità è quello, facoltativo, di possibile
pubblicazione del piano nel registro delle imprese. Salvo diverse indicazioni potrebbe
essere questo il momento di riferimento, quanto il debitore sceglie di pubblicare il piano.
Ma poiché nella maggior parte dei casi tale scelta non viene attuata il problema resta
aperto.
L’emissione della nota di variazione fa sorgere in capo alla controparte (curatore,
commissario) l’obbligo di registrare la variazione in aumento nel registro delle fatture
emesse. Gli effetti di tale operazione suscitano parecchie perplessità. Infatti, soprattutto in
caso di fallimento, la redazione del piano di ripartizione non può aver tenuto conto del
futuro onere derivante dall’IVA a debito emergente da note di variazione di futura
emissione. Non è infatti prevedibile l’entità delle stesse, trattandosi di una facoltà e non di
un obbligo del creditore.
Non resta che immaginare che il debito tributario venga trasmesso al debitore tornato in
bonis, assieme agli obblighi fiscali su di lui incombenti. Sennonché la riforma prevede che
il curatore provveda alla cancellazione della società dal Registro delle Imprese6, operazione
che può essere eseguita soltanto se non esistono più crediti o debiti.
Se esiste, al momento della chiusura della procedura, un credito IVA (tributo sul compenso
del curatore e/o dei legali della procedura, ecc.) i tributi a debito provenienti dalle note di
variazione ricevute potrebbero essere compensati con questo credito.
E se il curatore, una volta esaurita la liquidazione dell’attivo, avesse chiuso,
legittimamente, la partita IVA? Poiché la chiusura della partita IVA determina la
cessazione degli obblighi relativi a tale tributo, quale utilità avrebbe l’obbligo di
registrazione delle note di accredito?
Insomma, tutto conferma la sensazione che il legislatore tributario e quello
civile/fallimentare soffrano di una pericolosa, ma incurabile, sindrome di incomunicabilità.
Ognuno di loro legifera ignorando l’altro, come due separati in casa che non dialogano fra
di loro, lasciando agli interpreti il difficile, spesso impossibile, compito di coordinare le
due normative.
6
Art.118, u.c., l.f.
4
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Ma torniamo all’applicazione della norma relativa all’emissione della nota di accredito
relativamente ai prestatori di servizi.
Essa è apparsa da subito inidonea a correggere le distorsioni derivanti dal mancato
pagamento del tributo a tale categoria di contribuenti in sede di liquidazione concorsuale.
L’interpretazione che da più parti viene data alla norma esclude che la nota di variazione
possa riguardare il solo tributo, mentre il caso più frequente è proprio quello del prestatore
di servizi (professionista, agente, artigiano …) che vede soddisfatto il privilegio ex art.
2751bis C.C. (parte imponibile) e non il tributo IVA, anche quando avesse emesso la
fattura prima del riparto.
Il passaggio della norma che recita “se un’operazione … viene meno in tutto o in parte, o
se ne riduce l’ammontare imponibile …” potrebbe lasciare intendere che la riduzione
dell’imponibile è solo una delle alternative possibili (si noti l’uso della congiunzione
disgiuntiva “o” e non di quella coordinativa “e”), mentre il venir meno di una parte
dell’operazione potrebbe lasciar intendere che il legislatore possa essersi riferito anche ad
una sola parte dell’operazione; ad esempio quella riferita al solo tributo.
Sta di fatto che la logica della nota di variazione è quella di prevedere un imponibile da
correggere, e la corrispondente IVA; ed è a questa interpretazione che si adegua anche il
più recente pronunciamento dell’Amministrazione Finanziaria sul tema, la Risoluzione
Ministeriale n. 127/E del 3.4.2008, nel quale si legge testualmente che “non è possibile
emettere nota di variazione per il recupero della sola imposta”7.
Il prestatore di servizi potrà allora emettere una nota di variazione soltanto nel caso in cui
incassi dal riparto fallimentare un minor imponibile di una fattura emessa. Ad esempio
incassi 80 su un credito imponibile di 100, nel qual caso potrà emettere la nota di
variazione per imponibili 20 e portare in detrazione la relativa IVA di 4.
Il quesito principale al quale la risoluzione risponde è però quello relativo al
comportamento da tenere nel più frequente caso della mancata, precedente emissione della
fattura.
Qui, una volta di più, vengono sconvolti i collegamenti fra norma civilistica e dettato
fiscale. Quando si afferma che ancorché il piano di riparto “faccia riferimento alla sola
voce imponibile iscritta tra i crediti privilegiati, sotto il profilo fiscale, i professionisti
emetteranno fattura per un importo complessivo pari a quello ricevuto dal curatore, dal
quale andrà scorporata l’Iva relativa”. Soluzione pragmatica, peraltro di non nuovissimo
conio, che mette in contrasto la norma sui privilegi ed i numeri del piano di riparto con la
fattura emessa, trasformando il pagamento del privilegio ex art. 2751-bis n. 2 C.C.,
previsto dal piano di riparto (l’imponibile/corrispettivo professionale), nel pagamento
parziale di questo (imponibile al netto dello scorporo del tributo) e di una parte del
privilegio ex art. 2758, 2° comma, C.C. (IVA di rivalsa) di cui non v’è traccia nel piano
stesso.
Valga a consolazione il fatto che l’orientamento suggerito dal Ministero (che sarà
comunque d’uopo seguire) sarà meno gravoso per il professionista di quello che un più
rigoroso adeguamento alla norma aveva fino ad ora suggerito.
Si pensi infatti ad un professionista che, ricevendo 100, avrebbe emesso una fattura di 100
+ 20 di IVA, senza avere la possibilità di emettere la nota di variazione per sola IVA e
7
La giustificazione che viene data a tale atteggiamento di negazione è che “a fronte di un’operazione per la
quale è stato interamente riscosso il corrispettivo, l’Erario non incasserebbe alcuna imposta sul valore
aggiunto”. La situazione, definita paradossale, non corrisponde a quanto accade, se è vero, come è vero, che
dall’altra parte sorge l’obbligo di registrare a debito il tributo.
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senza alcuna possibilità di recuperare dalla procedura8 il tributo che avrebbe dovuto versare
nell’ambito della propria liquidazione periodica. Il 20 avrebbe rappresentato una perdita
secca, mentre l’emissione di una fattura il cui importo sarà di 83,33 imponibili + 16,67 di
IVA lo costringerà a versare il tributo che avrà comunque incassato, benché a scapito del
proprio credito professionale, che avrà subito una decurtazione pari all’IVA scorporata.
Ultima notazione. Anche la percentuale dovuta alla Cassa di Previdenza può rientrare in un
più ampio9 scorporo? Perché no?
4) Gli interessi post fallimentari sui crediti privilegiati – Problemi fiscali
A completare l’esempio che precede manca la componente interessi.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 162 del 28 maggio 2001 ha posto fine alla
questione circa l’applicabilità degli interessi post-fallimentari anche ai crediti privilegiati e
non soltanto ai crediti assistiti da pegno e ipoteca10. L’ultima parte del terzo comma
dell’art. 54 riformato sancisce che “per i crediti assistiti da privilegio generale, il decorso
degli interessi cessa alla data del deposito del progetto di riparto nel quale il credito è
soddisfatto anche se parzialmente”.
Si pone il problema del trattamento fiscale degli interessi ai fini fiscali. Sono o no soggetti
ad I.V.A.? Su di essi si deve operare la ritenuta d’acconto? E se sì, in quale misura?
Occorre preliminarmente verificare quale sia la natura degli interessi in questione,
individuandola fra le tre tipologie che il codice distingue. In base alla funzione economica
assolta11 possiamo avere:
− gli interessi moratori, disciplinati dall’art. 1224 C.C., i quali adempiono ad una
funzione risarcitoria, rappresentando di fatto una liquidazione forfetaria del danno subito
dal creditore a causa del ritardato adempimento di un’obbligazione pecuniaria; hanno come
presupposto la costituzione in mora del debitore;
− gli interessi corrispettivi, disciplinati dall’art. 1282 .C., i quali maturano sui crediti
liquidi ed esigibili, indipendentemente dalla costituzione in mora del debitore principale;
− gli interessi compensativi, disciplinati dall’art. 1499 C.C., i quali adempiono ad una
funzione equitativa, in quanto hanno lo scopo di compensare una parte del vantaggio che la
controparte riceve per il fatto di poter provvedere al pagamento in un momento successivo,
pur essendo già entrata in possesso della cosa oggetto del contratto.
Non potendo configurarsi la mora del debitore in caso di fallimento, gli interessi corrisposti
nella procedura possono essere qualificati o come corrispettivi o come compensativi12.
Il D.P.R. 633/1972 accoglie la distinzione civilistica, escludendo gli interessi moratori dal
tributo, ai sensi dell’art. 15 e qualificando quali esenti ex art. 10 gli interessi per dilazione
di pagamento13.
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Si veda il punto 1) che precede.
Sarebbe: 80,13 + 4% (3,20) = 83,33 + 20% (16,67) = 100,00.
10
Per gli interessi sui crediti privilegiati si era posta difficoltà di coordinamento tra i commi 1° e 3° dell’art.
54 ed il 1° comma dell’art. 55 L.F. (ante-riforma). Infatti, mentre il 1° comma menziona tali crediti (per
capitale, interessi e spese) a fianco di quelli pignoratizi ed ipotecari, il successivo comma 3° si limita a
richiamare gli artt. 2788 C.C. (pegno) e 2855 (ipoteca), omettendo il richiamo all’art. 2749 C.C. Inoltre l’art.
55, nella deroga al principio della sospensione degli interessi in corso di fallimento, dapprima ricomprende
anche i crediti privilegiati, ma poi fa salvo il richiamato 3° comma dell’art. 54. (Maffei Alberti, Commentario
Breve della Legge Fallimentare, 2000, 206).
11
V. Agnese Cavillo, Brevi riflessioni sulla natura degli interessi, in www.erasmi.it.
12
Cass. 27.3.1993, n. 3728 e Cass. 20.11.1987, n. 8556. Anche in Maffei Alberti, Commentario Breve della
Legge Fallimentare, 2000, 205 e 212.
13
Gianfranco Carro, Interessi esenti ed esclusi: l’Iva accoglie la distinzione civilistica, in Azienda & Fisco,
1992, 502.
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Osserva poi un altro autore che “se la prestazione accessoria non è di per sé imponibile,
segue la propria disciplina”14; dunque, seguendo questo orientamento dottrinale si deve
concludere che gli interessi, pur rappresentando un’obbligazione accessoria ad una
prestazione di servizi, rimarrebbero comunque esenti ex art. 10, n. 1, del D.P.R. 633/1972.
Quanto alle imposte dirette, con le modifiche portate all’art. 23, primo comma, del D.P.R.
600/197315, il fallimento è divenuto a tutti gli effetti sostituto di imposta. Ciò comporta
l’obbligo di eseguire la ritenuta sui compensi corrisposti, in particolare ai professionisti ed
agli agenti.
Dovendosi escludere che gli interessi fallimentari derivino da impiego di capitale
(sarebbero soggetti alla ritenuta in misura del 12,50%), si ritiene che essi siano soggetti alla
ritenuta d’acconto in misura del 20%, come il credito principale, in considerazione del fatto
che l’art. 6, comma 2, del Testo Unico afferma che gli interessi moratori e di dilazione di
pagamento costituiscono redditi della stessa categoria di quelli da cui derivano.
5) Il pronunciamento della Corte di Cassazione
Ci si occupa di un ricorso avverso un decreto del Tribunale di Modena che escludeva il
privilegio IVA su una parcella professionale, per prestazioni eseguite a favore di una
società, poi fallita.
La sentenza, n. 15690 del 5.3/12.6.2008, conferma l’impossibilità di ricondurre il tributo
nel novero delle spese e dei debiti contratti per l’amministrazione della procedura.
Chiarisce che il principio sancito dall’art. 6 del D.P.R. 633/72, secondo cui le prestazioni di
servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, non costituisce
regola generale rilevante in ogni campo del diritto. “Dal punto di vista civilistico la
prestazione professionale conclusasi prima della dichiarazione di fallimento rimane
l’evento generatore del credito di rivalsa IVA: autonomo rispetto all’obbligazione
principale remunerativa, ma ad essa soggettivamente e funzionalmente connesso”.
Il motivo per cui non viene riconosciuta la pre-deduzione è la circostanza che il credito per
il tributo è funzionalmente collegato ad una prestazione eseguita ante-procedura, “atteso
che, ai fini dell’individuazione dei debiti di massa, non è determinante il profilo temporale,
bensì quello funzionale”.
Alla lagnanza del professionista circa la sua impossibilità a beneficiare della possibilità di
emissione della nota di accredito ex art. 26, da cui deriverebbe un indebito arricchimento
della procedura, la Suprema Corte replica che “tale evenienza non è frutto di un’anomalia
distorsiva del sistema normativo concorsuale, bensì conseguenza ordinaria della puntuale
applicazione dei suoi stessi principi ispiratori.”
La sentenza respinge infine l’ultimo rilievo del professionista relativo all’illegittimità
costituzionale dell’art. 111 l.f., 2758 C.C. e 26 DPR 633/72, con riferimento agli artt. 3 e
53 della Costituzione. Lo fa richiamando una precedente decisione della Corte
Costituzionale in tema di credito di rivalsa IVA (Corte Costituzionale 15.2.1984, n. 25),
nella quale era sancito che “la concreta inefficacia del privilegio speciale mobiliare
riconosciuto al credito di rivalsa dell’IVA in caso di cessioni di beni consumabili e
prestazioni di servizi relativi ad essi, o comunque non riferibile a singoli beni come le
prestazioni professionali, non dà luogo a una disparità di trattamento relativamente a una
categoria di situazioni omogenee, ma discende da una scelta del legislatore che solo da
quest’ultimo può essere corretta.”
In altre parole, si potrebbe replicare polemicamente, il legislatore ha voluto creare
disparità.
14
15
R. Portale, Imposta sul Valore Aggiunto. Iva comunitaria. Tutte le novità del 2008, Milano, 2008, 409.
Art. 37, primo comma, D.L. 4 luglio 2006, convertito con modificazioni nella Legge 4 agosto 2006, n. 248.
7
Al di là delle polemiche e degli appunti, resta il fatto che la normativa attuale registra la
conferma dei principi di comportamento che vedono penalizzati i professionisti. E’ ben
vero, magra consolazione, che non siamo i soli e neppure i peggio trattati. Quando si
consideri, solo per fare uno dei tanti possibili esempi, che l’artigiano che beneficia del
privilegio, quando consegni beni manufatti, non ha neppure la facoltà di posticipare
l’emissione della fattura e rischia ugualmente che non vengano rinvenuti i beni (spesso
fungibili) sui quali insisterebbe il privilegio.
***
Un parziale risarcimento ai professionisti, se non alla più vasta categoria dei prestatori di
servizi, viene dalla riforma della legge fallimentare, in particolare dal secondo comma
dell’art. 111 l.f., grazie al quale vengono inclusi fra i crediti prededucibili “quelli sorti in
occasione o in funzione delle procedure concorsuali”.
Il passaggio è del tutto nuovo e contraddice la precedente Giurisprudenza che negava la
prededuzione al credito professionale sorto, ad esempio, per l’attività professionale prestata
per la presentazione della domanda di concordato16.
Sul tema è intervenuta, a favore del riconoscimento della prededuzione al compenso di un
legale per il credito derivante dall’attività professionale svolta per lo studio e l’istruttoria
relativi alla presentazione di una domanda di concordato, un recente provvedimento del
Tribunale di Treviso17.
Secondo i giudici veneti la nuova norma “abbraccia inequivocabilmente anche l’attività
professionale diretta alla presentazione della domanda di concordato (sia quella relativa
al ricorso giurisdizionale … sia quella ad esempio inerente alla redazione della relazione
sulla veridicità dei dati contabili e sulla fattibilità del piano di concordato)”. Anche se la
Giurisprudenza non se n’è ancora occupata dovrebbe essere ricompresa nella previsione
normativa anche l’attività del professionista che prepara e/o presenta l’istanza di fallimento
in proprio.
Per tutte le attività prededucibili non si pone dunque il problema di riconoscibilità del
privilegio IVA.
(a cura di Claudio Malagoli)
16
Sentenze della Corte di Cassazione del: 16.6.1994, n. 5821, 16.5.1983, n. 3369, 17.2.1981, n. 948.
Tribunale di Treviso, Sezione II, Decreto 16.6.2008, ne “Il Fallimento”, 10 2008, pagg. 1209 segg., con
commento del dott. Ernestino Bruschetta.
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