la scoperta di australopithecus sediba

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LA SCOPERTA DI
AUSTRALOPITHECUS SEDIBA
Il lavoro dei paleontropologi si fa sempre più entusiasmante.
Ogni innovazione tecnologica consente scoperte di fossili
sempre più completi e una precisione nella datazione
prima impensabile. Ma ogni nuova acquisizione rischia
di mandare all’aria tutte le classificazioni precedenti,
come la scoperta di Australopithecus sediba, in Sudafrica.
Che sia lui il nostro progenitore?
LEE R. BERGER
Il contributo del Sudafrica allo studio
delle origini dell’umanità
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Il Sudafrica è la culla della paleoantropologia africana fin dalla
scoperta nel 1924 del Bambino di Taung, che l’anno successivo
fu descritto da Raymond Dart come appartenente a un nuovo
genere e a una nuova specie. Da allora e grazie al contributo di
moltissimi siti archeologici si è andata formando una delle documentazioni più complete delle origini dell’umanità nel continente. In particolare l’area dolomitica a nord e a ovest di Johannesburg, denominata la Culla dell’Umanità, è stata inserita
dall’Unesco fra i patrimoni mondiali dell’umanità. I reperti rinvenuti in grande quantità in questa zona, relativi agli ultimi due
milioni e mezzo di anni di evoluzione degli ominini, provengono in gran parte da grotte e da riempimenti carsici che contengono e preservano moltissimi fossili.
Fin dalla prima scoperta negli anni Trenta di fossili di ominini nel sito di Sterkfontein, in questa regione – ormai riconosciuta come una fonte ricchissima di fossili faunistici e di antichi ominini – sono emersi alcuni tra i siti più ricchi di tutta
l’Africa. Ne fanno parte siti come Sterkfontein stesso, Kromdraai, Swartkrans e Drimolen, dai quali è stata recuperata
una significativa percentuale di tutta la documentazione fossile africana relativa agli ominini databili da circa 2,5 milioni
di anni fa fino al presente. Queste località sono generalmente
note per la loro capacità di conservare resti relativamente
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frammentari, preservati in una durissima matrice calcarea
spesso detta «breccia». Nella maggior parte di questi siti si trovano ossa estremamente frammentate. Tale frammentazione è
dovuta a diversi processi legati alla fossilizzazione: l’attività
dei carnivori primari, degli animali necrofagi e di quelli che,
come gli istrici, utilizzano le ossa, a cui si sommano i danni
generici riportati durante i processi di seppellimento e di fossilizzazione. Si tratta di processi analoghi a quelli subiti dai
fossili reperiti negli ambienti lacustri dell’Africa orientale e
della Rift Valley: perciò la conservazione nelle due regioni è
generalmente paragonabile. Ma nel sistema delle grotte dolomitiche si possono trovare anche livelli di conservazione molto superiori: o perché i seppellimenti sono avvenuti in tempi
brevi, o perché gli esemplari sono stati preservati dalle acque
ricche di carbonato di calcio, o infine perché ossa e carcasse
sono state protette in un modo o nell’altro dalle azioni distruttive dei predatori primari o dei necrofagi secondari.
Tutti i siti delle grotte dolomitiche presentano esempi di
questi livelli superiori di conservazione, ma alcuni di essi, come Sterkfontein e Makapansgat, offrono con maggiore frequenza livelli di conservazione addirittura eccellenti. Ne sono un esempio l’occasionale scoperta di piste di impronte, lo
straordinario stato di conservazione della superficie ossea, i
rarissimi scheletri articolati o associati come quello di «Little
Foot» rinvenuto a Sterkfontein. I resti articolati in particolare permettono di osservare associazioni tra ossa e una qualità di conservazione che sarebbe del tutto impensabile riscontrare in siti esposti in superficie agli agenti atmosferici.
Grazie ai recenti progressi nella datazione assoluta dei siti
sudafricani, è stato possibile cominciare ad affrontare il problema principale incontrato di norma nei siti delle grotte dolomitiche e iniziare a correggere quello che è probabilmente
il maggiore ostacolo nell’uso estensivo dei reperti relativi ai
primi ominini e di quelli faunistici provenienti dall’Africa
meridionale (si veda per esempio Dirks et al., 2010 e Pickering et al., 2011). In particolare, il metodo di datazione basato
su uranio-piombo o sul disequilibrio di uranio è stato combinato con segnali paleomagnetici ben preservati, consentendo di stabilire la datazione assoluta geocronologica di al-
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cuni depositi nei sistemi di grotte dolomitiche. L’accuratezza
dei risultati è tale da rivaleggiare, spesso superandola, con
quella consentita dalla datazione radiometrica dei siti lacustri della Great Rift Valley (Pickering, 2011). Insieme alla
nuova e significativa importanza riconosciuta ai processi di
formazione delle grotte e ai progressi compiuti nella comprensione geologica degli eventi di deposizione che hanno
prodotto i processi di seppellimento e di fossilizzazione nel
contesto dell’Africa meridionale, le tecniche di datazione così perfezionate consentono per la prima volta di contestualizzare con precisione queste scoperte e di raffrontarle direttamente con i fossili provenienti dai depositi lacustri e fluviali
della Rift Valley. Le grotte dolomitiche sudafricane, con la loro capacità di rappresentare gli ambienti antichi come in
un’istantanea e di cogliere intervalli temporali brevissimi, ci
aprono ora una nuova, straordinaria finestra per comprendere l’evoluzione umana e faunistica nel continente africano.
In seguito alla scoperta di significativi depositi fossili di ominini al di fuori dei tradizionali siti di Etiopia, Kenia e Tanzania, sempre più spesso si ammette ora la possibilità che
l’evoluzione degli ominini sia ben più complessa di una semplice «East Side Story», cioè di un’evoluzione umana avvenuta esclusivamente a est della Rift Valley. Potrebbero esserci
stati numerosi altri luoghi e fattori di innovazione evolutiva –
in altre regioni dell’Africa e addirittura in Europa e in Asia –
capaci di influenzare i tempi e i modi dell’evoluzione degli
ominini. Le ultime scoperte sono un’ulteriore conferma del
fatto che, contrariamente all’opinione di alcuni, i grandi depositi fossili africani in cui reperire fossili di ominini possono trovarsi non soltanto nelle condizioni erosive tipiche della Rift Valley, ma anche in un’area assai più vasta e in situazioni geologiche diversissime.
I siti studiati in questi contesti inediti esemplificano chiaramente nuove situazioni paleo-ecologiche: le scoperte fatte in
tali aree spesso sfidano idee sull’evoluzione umana che hanno resistito nel tempo perché si basavano sulle conoscenze
limitate offerte dai siti su cui è stata profusa la grande maggioranza delle risorse destinate alla ricerca. Uno di questi siti in particolare ci induce a mettere in discussione non solo
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la nostra comprensione, che si riteneva completa, delle modalità e dei tempi dell’evoluzione degli ominini, ma anche
l’idea secondo cui sarebbe già stato scoperto il massimo di
ciò che la documentazione fossile in materia può offrire. Mi
riferisco al sito sudafricano di Malapa, a pochi chilometri
dall’area urbana di Johannesburg.
Il sito di Malapa e la scoperta
di Australopithecus sediba
Malapa fu individuato quando intrapresi un’esplorazione generale della regione nota come Culla dell’Umanità, alla ricerca di nuovi depositi ricchi di fossili. Grazie a nuove tecnologie come Google Earth e alla mappatura del territorio mediante esami fisici, scoprimmo nella prima metà del 2008 un
importante numero di nuove grotte e di siti di fossili. Il 1°
agosto 2008 scoprii il sito di Malapa, riconoscendolo come
un significativo deposito fossile all’interno di una grotta scoperchiata di almeno 25x20 metri, in un’area non esplorata in
precedenza dagli studiosi. Diversamente da tante altre grotte
della regione, a Malapa non ci sono state molte attività minerarie e di scavo: le cave sono state sfruttate, con ogni probabilità, solo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, e quasi
certamente tali attività si erano già concluse entro la metà
degli anni Trenta del secolo scorso, quando Robert Broom
iniziò a perlustrare la regione.
Il 15 agosto 2008 organizzammo la prima spedizione sul sito.
Fu mio figlio Matthew, che aveva allora nove anni, a trovare i
primi reperti di ominini. Nelle settimane e nei mesi che seguirono la ricchezza del sito apparve in tutta la sua evidenza: furono avvistati e riportati in superficie numerosi fossili di ominini. Il 4 settembre 2008 scoprii un secondo scheletro parziale di adulto, molto ben conservato, e due denti superiori associati (MH2). La scoperta di questo esemplare fu particolarmente importante perché fu rinvenuto in situ nei sedimenti di
detriti cementati e calcificati del pozzo di miniera, fornendo
così una collocazione precisa dei resti e portando alla scoperta della posizione in sito esatta del reperto originale.
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La rimozione del blocco contenente lo scheletro parziale avvenne alla fine del 2008 e la preparazione del reperto rivelò
un arto superiore parzialmente articolato comprendente
gran parte della scapola destra, la metà laterale della clavicola destra, parti del torace e alcuni elementi di un arto inferiore. Perlustrando il sito alla ricerca dei materiali dispersi dalla
limitata attività mineraria del passato fu rinvenuto, in un
blocco contenente anche la mascella, il resto della scapola e
della clavicola destra dell’adulto. All’inizio del 2009 era ormai palese che Malapa conservava, affioranti in superficie, almeno due scheletri parziali e forse altri individui rappresentati da materiale frammentario. Questi scheletri mostravano
danni minimi: una quantità moderata di fratture, imputabili
soprattutto all’attività mineraria, e un piccolo ammontare di
danni di fossilizzazione dovuti probabilmente a un importante movimento franoso verificatosi quando gli scheletri furono trasportati alla loro ultima dimora. Nel febbraio del
2009 scoprii un blocco contenente la parte prossimale dell’omero di MH1. Nel corso della preparazione di questo reperto trovammo anche il cranio parziale e ben conservato, oltre a parti significative dello scheletro. Grazie a questa scoperta ci fu possibile assemblare gran parte della testa e del
corpo di MH1, un esemplare giovane, mentre i lavori condotti successivamente sullo scheletro dell’adulto MH2 ci permisero di constatare come questo fosse praticamente intatto.
Durante la perlustrazione in superficie del deposito di detriti minerari a Malapa scoprimmo anche, in situ, parte del retro
del cranio di MH1: questo ci consentì di verificare con ragionevole sicurezza la posizione esatta in cui originariamente
erano situati gli esemplari nel sito, e anche di associare a essi
ulteriori elementi e addirittura altri individui.
Nel corso degli ultimi tre anni e mezzo abbiamo condotto numerose analisi di questo materiale: nel 2009 siamo giunti alla
conclusione che i resti fossili ominini rinvenuti a Malapa erano esemplari di una nuova specie di antico ominino mai prima d’ora riconosciuta o catalogata tra i fossili.Tale specie possedeva chiaramente molte caratteristiche, sia primitive sia derivate, che apparivano particolarmente sorprendenti rispetto
ai reperti fossili di ominini recuperati fino a quel momento.
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Questo ci ha portato nel 2010 a descrivere una nuova specie
di ominini primitivi: Australopithecus sediba (Berger et al.,
2010). Di recente è stato descritto altro materiale, compresi alcuni resti di ominini primitivi che sono tra i più completi finora scoperti tra i fossili africani e sono tutti riconducibili alla nuova specie, e abbiamo affinato la datazione fino a individuare un arco di tempo considerevolmente ristretto: tra 1,977
e 1,98 milioni di anni fa (Pickering et al., 2011).
La sorprendente anatomia
di Australopithecus sediba
Con la recente pubblicazione di un numero significativo di
nuovi elementi e con il procedere delle analisi dettagliate sui
fossili è ormai chiaro che Australopithecus sediba offre un contributo inatteso e sorprendente alla documentazione sui primi ominini. La morfologia cranio-dentale di questa specie
presenta un cervello piccolo ma con alcune novità, denti di ridotte dimensioni e naso sporgente: caratteristiche comuni sia
alle australopitecine più primitive, sia a forme di Homo successive. Inoltre possiede sicuramente numerose combinazioni di tratti mai osservate in forme precedenti (Berger et al.,
2010; Carlson et al., 2011). Anche a livello del resto dello scheletro Australopithecus sediba mostra un sorprendente mosaico
di caratteri anatomici: braccia più lunghe e scimmiesche, mani con pollice allungato e accorciamento delle altre dita (Kivell et al., 2011) e struttura pelvica più innovativa, analoga a
quella di Homo (Kibii et al., 2011). Le gambe sembrano più allungate, nel piede e nella caviglia presenta elementi sorprendentemente primitivi insieme ad altri sorprendentemente
nuovi, evidenziando sia caratteristiche comuni ad altri ominini, sia caratteri di strutture più primitive e scimmiesche, specie nel tallone (Zipfel et al., 2011). Infine, il livello di dimorfismo sessuale in Australopithecus sediba si direbbe piuttosto limitato. Entrambi gli individui hanno un’altezza stimata di 130
centimetri; MH1 sembra essere un maschio e MH2 una femmina (Berger et al. 2010). Lo scheletro di MH1 appartiene a
un esemplare non ancora adulto, ma la fusione delle lamine
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di crescita nella parte distale dell’omero mostra che era prossimo alla maturità. La dentizione di MH1, inoltre, è di poco
più grande di quella di MH2. In base a tali considerazioni si
può ipotizzare che, se fosse diventato adulto, questo probabile maschio sarebbe cresciuto solo del 10-14 per cento (Berger
et al., 2010): ciò suggerisce un livello di dimorfismo sessuale
adulto vicino, o solo di poco superiore, a quello osservato negli umani, e probabilmente inferiore a quello degli scimpanzé
pigmei. Un livello, comunque, quasi certamente inferiore a
quello osservato in tutti gli ominini attualmente attribuiti al
genere Australopithecus.
Questo sorprendente mosaico di caratteri colloca Australopithecus sediba al di fuori della gamma di variabilità osservata nel
complesso dei reperti di Australopithecus africanus, benché
provengano da quattro siti geograficamente diversissimi e
lontani come Taung, Sterkfontein, Gladysvale (Berger et al.,
1993) e Makapansgat. Per quanto sia chiaro che Australopithecus sediba è morfologicamente vicinissimo ad Australopithecus
africanus, l’aspetto inedito di alcune caratteristiche scheletriche evidenziato sopra impedisce di inserire Australopithecus
sediba nella specie Australopithecus africanus. L’osservazione
che Australopithecus sediba supera la variazione di Australopithecus africanus in quasi tutti gli aspetti della morfologia ossea
è di particolare importanza perché al complesso di reperti relativi ad Australopithecus africanus è già riconosciuto un altissimo livello di variabilità. Una variabilità talmente elevata da indurre alcuni studiosi ad avanzare l’ipotesi che i reperti in questione potrebbero addirittura essere riconducibili a più di una
specie (Clarke, 2008; Lockwood e Tobias, 2002). Poiché Australopithecus sediba supera la diversità morfologica totale a oggi
nota dell’insieme dei reperti di Australopithecus africanus, e
poiché comunque, dal punto di vista temporale e geografico, è
più vicino a quello di Sterkfontein da cui proviene il campione più grande e diversificato di Australopithecus africanus, io e
i miei colleghi consideriamo tutto questo una convincente
prova della sua condizione di specie unica e a sé stante.
Di conseguenza allo stato attuale la nostra interpretazione è
che, per quanto tra Australopithecus africanus e Australopithecus sediba vi siano elementi comuni, le differenze sono non-
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dimeno più che sufficienti per giustificare che li si distingua,
e anzi sono di fatto sufficienti per distinguere Australopithecus sediba da tutte le altre specie note di ominini primitivi.
Il posto di Australopithecus sediba
nell’evoluzione degli ominini
I resti fossili di ominini dall’Africa orientale e meridionale
sono in quantità sufficiente per permetterci di formulare
ipotesi in merito alla posizione di Australopithecus sediba nell’albero dell’evoluzione umana. Come osservato in precedenza, in base alle evidenze attualmente a nostra disposizione
sembra che Australopithecus sediba si sia evoluto da una specie molto simile ad Australopithecus africanus, o quanto meno
da qualcosa che assomiglia da vicino agli esemplari più gracili di tale specie. A sua volta Australopithecus sediba sembra
avere più tratti in comune con reperti ricondotti a fossili specifici attualmente associati ai primi rappresentanti del genere Homo, soprattutto con il primo Homo erectus, piuttosto che
con altre candidate australopitecine ancestrali, compresi Australopithecus afarensis, Australopithecus garhi, o Australopithecus africanus. Annunciando la scoperta di Australopithecus sediba (Berger et al., 2010), io e i miei colleghi avanzammo
quattro possibili ipotesi sulla sua collocazione evoluzionistica: 1) Australopithecus sediba è un progenitore di Homo habilis; 2) Australopithecus sediba è un progenitore di Homo rudolfensis; 3) Australopithecus sediba è un progenitore di Homo
erectus; infine, 4) Australopithecus sediba appartiene a un gruppo fratello dei progenitori di Homo.
Mentre noi stiamo proseguendo le analisi sulla situazione filogenetica di Australopithecus sediba, si è acceso il dibattito
sulla datazione di Australopithecus sediba intorno a 1,98 milioni di anni. Un’età così «giovane» sembrerebbe escludere, per
motivi cronologici, di poterlo annoverare tra i possibili antenati dei primi membri del genere Homo: è un’australopitecina troppo giovane, vissuta quando già esistevano forme di
Homo da diverso tempo. Molti studiosi del settore (Balter,
2010; Cherry, 2010; Spoor, 2011) sono infatti fortemente per-
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suasi che altri fossili, decisamente più antichi, sarebbero
candidati migliori a questo onore. Se così fosse, almeno secondo una visione relativamente semplicistica di evoluzione
unilineare e come sottolineato da alcuni commentatori (Spoor, 2011), i fossili di Australopithecus sediba provenienti da
Malapa non avrebbero potuto dare origine al genere Homo.
Una simile visione della potenziale posizione filogenetica di
Australopithecus sediba esclude, non senza una certa furbizia,
la possibilità che i fossili di Malapa rappresentino una popolazione superstite tardiva della specie destinata a dare origine al genere Homo. Allo stesso tempo, a questi fossili di presunta datazione anteriore che rappresenterebbero membri
del genere Homo si conferisce oggi un’importanza straordinaria, in quanto costituirebbero le più antiche origini del genere stesso: se dunque li si vuole contrapporre alle nuove testimonianze provenienti da Malapa, meritano di essere sottoposti a un’analisi scrupolosa dal punto di vista della morfologia e del contesto.
Tre sono le candidature principali, presentate di solito come
più antiche dei ritrovamenti di Malapa e che quindi si propongono come primi membri del genere Homo: Stw 53 da
Sterkfontein (Hughes e Tobias, 1977), A.L. 666 dall’Etiopia
(Kimbel et al., 1996; Kimbel e Rak, 1997) e U.R. 501 dal Malawi (Schrenk et al., 1993). Di ognuno di questi reperti si è detto, in varie occasioni, che risalirebbero a oltre 2 milioni di
anni fa. In particolare gli ultimi due esemplari risalirebbero a
un’epoca compresa tra 2,3 e 2,4 milioni di anni. Ma la pretesa di essere con certezza la più antica attestazione fossile del
genere Homo è davvero straordinaria e della massima importanza. E quando si avanzano pretese straordinarie, occorre
portare prove straordinarie. È quantomeno mia opinione che
nessuno di questi fossili risponda a tali criteri straordinari di
evidenza come primi rappresentanti del nostro genere.
Nello specifico, Stw 53 è tradizionalmente ritenuto più antico di 2 milioni di anni: gli studi più recenti tuttavia ipotizzano una datazione più recente, tra 1,78 e 1,43 milioni (Berger
et al., 2002; Herries et al., 2009; Pickering e Kramers, 2010).
Questo esemplare, un cranio frammentario, fu descritto a
tutta prima come appartenente con ogni probabilità a un an-
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tichissimo Homo (Hughes e Tobias, 1977), diagnosi che fu ben
presto largamente accettata (Cronin et al., 1981; Wood, 1987,
1992, Curnoe e Tobias, 2006). Ma proprio uno di questi autori (Curnoe, 2010) è arrivato recentemente a descrivere Stw 53
come esemplare tipo di una nuova specie, Homo gautengensis,
benché non vi siano molte ragioni per considerarlo un’unità
tassonomica valida (Pickering et al., 2011). Analogamente,
l’attribuzione al genere Homo di Stw 53 è stata energicamente contestata in base a considerazioni stratigrafiche e anche
anatomiche (Berger et al., 2010; Clarke, 2008; Kuman e Clarke, 2000; Pickering et al., 2011). Non ci sono dunque attualmente molte prove che consentano di considerare Stw 53 come candidato a essere il più antico reperto del genere Homo:
Stw 53 non sembra anteriore ad Australopithecus sediba per
età cronologica, e nemmeno appare morfologicamente compatibile con tale ipotesi. Se in realtà questo reperto fosse derubricato dal genere Homo e considerato semplicemente un
tardo esemplare di australopitecina, una tale riclassificazione
potrebbe ripercuotersi, con un effetto domino, su altri fossili
assegnati al genere Homo: per esempio sullo scheletro parziale di OH-62, che potrebbe a quel punto trovarsi in posizione
migliore come rappresentante del genere Australopithecus (si
veda, per una trattazione più approfondita di questo argomento, Berger et al., 2010 e Pickering et al., 2011).
Un analogo ragionamento riguarda A.L. 666, il fossile dell’età
presunta di 2,3 milioni di anni attribuito al genere Homo e ritrovato in Etiopia. Molti scienziati e studiosi di paleoantropologia lo considerano il miglior esemplare in assoluto della
presenza del genere in Africa prima di 2 milioni di anni fa
(Kimbel et al., 1996; Kimbel e Rak, 1997; Kimbel, 2009; Spoor, 2011). L’esemplare in questione è dato da una sola mascella frammentata su cui io stesso e miei colleghi abbiamo
recentemente e ampiamente discusso (Pickering et al., 2011).
Ma per ripetere quanto detto sopra, la pretesa di essere la
prima e definitiva attestazione fossile del genere Homo è di
tale straordinaria importanza che la mascella di A.L. 666
semplicemente non risponde, a parere di chi scrive, a quei
criteri di straordinaria evidenza. In sintesi, A.L. 666 è un reperto isolato di superficie (Kimbel et al., 1996; Kimbel e Rak,
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1997) e, come molti fossili provenienti dagli ambienti lacustri
dell’Africa orientale e dai sistemi della Rift Valley, i suoi
frammenti furono ritrovati su una superficie di pendio e gli
scavi non hanno prodotto altri fossili in situ. Questo è un
punto cruciale in quanto gli stessi autori della descrizione riferiscono la presenza di sedimenti di età più recente, da cui
avrebbe potuto provenire la mascella: questa ipotesi fu esclusa solo in base al recupero di pochi altri frammenti ossei, simili per colore e consistenza, appartenenti ad altri animali.
Un contesto tanto povero rende come minimo discutibile
l’età del reperto. Senza il recupero di fossili in situ direttamente associati alla mascella non è possibile accertarne con
sicurezza l’età presunta. Infine, la mascella di A.L. 666 fu in
seguito ricostruita a partire da questi numerosi frammenti –
cosa che di per sé lascia aperta a numerose interpretazioni la
morfologia così ricostruita. Dunque, anche se è stato collocato all’interno del contesto dell’orizzonte su cui poggiava, non
si può in realtà stabilire con certezza assoluta che provenga
davvero dall’orizzonte temporale di 2,3 milioni di anni fa. La
stessa natura frammentaria di A.L. 666 indica chiaramente
che il reperto ha subito diversi processi di fossilizzazione ed
erosivi che lo hanno spostato dalla collocazione originaria.
Si aggiunga che la completezza del materiale di Australopithecus sediba basta da sola a illustrare alcune importantissime
lezioni sulle questioni da affrontare quando ci si affida a dettagli anatomici in reperti fossili di ominini isolati e frammentati, come può essere una singola mascella. Se in quasi tutte
le zone anatomiche cruciali io e i miei colleghi avessimo cercato di utilizzare un singolo elemento o un complesso di caratteri per determinare il genere a cui appartiene Australopithecus sediba, avremmo potuto facilmente giungere a conclusioni molto diverse circa la condizione del genere o della
specie di riferimento. In effetti, molti colleghi hanno avanzato interpretazioni differenti da quelle esposte nei nostri studi: un numero significativo di scienziati sostiene che Australopithecus sediba dovrebbe essere in realtà collocato all’interno del genere Homo (Balter, 2010). Senza voler rielaborare
nel dettaglio le loro argomentazioni, resta il fatto che gli ominini di Malapa dimostrano come non si possano usare talune
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caratteristiche anatomiche isolate – come una mascella – per
dare risposte circa le attribuzioni dell’esemplare dato a un
determinato genere (a meno che la caratteristica anatomica
in esame non sia parte integrante della definizione del genere in questione). Alla luce di Australopithecus sediba, è ormai
chiaro che occorre adottare un approccio anatomico più sistemico per rispondere a tali domande, oltre che un approccio contestuale che riconosca con chiarezza i punti di forza e
di debolezza del contesto geologico di un reperto qualsiasi.
Australopithecus sediba dimostra chiaramente che le dentizioni, altre parti strutturali associate alla masticazione e molte
zone del resto dello scheletro non sono assolutamente adatte
a porre interrogativi di tale natura – almeno nella linea evolutiva di Australopithecus sediba. Non è dunque irragionevole
adottare un approccio altrettanto prudente nell’accostarsi a
qualsiasi specie di primi ominini, finché non avremo fossili
relativamente completi a dimostrare il contrario. Questo non
significa certo che non esistano questioni significative a cui
rispondere attraverso queste scoperte isolate e spesso frammentarie, ma solo che oggi riconosciamo come, in assenza di
un contesto straordinario, alcuni interrogativi non possano
trovare risposta in queste scoperte.
Un altro fossile candidato a proporsi come più antico reperto attribuito al genere Homo è la mandibola isolata di UR
501. Questo reperto soffre però di molte delle debolezze di
A.L. 666 se applicato al problema delle origini del genere
Homo. Anzi, per contesto e anatomia potrebbe essere considerato ancora più discutibile. Si tratta di una scoperta di superficie da un deposito lacustre e l’ipotesi di datazione, ottenuta solo per raffronto faunistico, parla di 2,4 milioni di anni
(Schrenk et al., 1993). L’uso di una mandibola isolata per attribuire un esemplare a un genere è stato messo chiaramente in discussione dalla costellazione di morfologie riscontrate in Australopithecus sediba; la natura derivata della morfologia dentaria e mandibolare e la fauna associata a UR 501 non
bastano ad attestare in modo indiscutibile una datazione tanto antica e potrebbero consentire di datare i fossili trovati
nelle vicinanze dell’ominide al Pleistocene iniziale anziché al
Pliocene terminale. Dunque neanche UR 501 risponde a
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quei criteri di evidenza straordinaria che occorre portare per
suffragare la pretesa di essere il più antico rappresentante
del genere Homo. Finché non saranno rinvenuti ominini fossili più completi e meglio contestualizzati, tali da consentire
una datazione assoluta, anche questo importante reperto nei
sedimenti del Malawi dovrebbe essere escluso dal dibattito.
Conclusioni
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Di primo acchito Australopithecus sediba sembra complicare le
nostre attuali conoscenze sulla comparsa dei primi esemplari
di Homo, aggiungendo ancora un’altra specie, stavolta con un
sorprendente mosaico di caratteri. Rimette in discussione ciò
che credevamo di sapere sul passaggio evolutivo dalle ultime
australopitecine ai primi riconoscibili membri del genere Homo intorno ai 2 milioni di anni fa. Ma se, dal dibattito sui candidati a proporsi come primi rappresentanti del genere Homo
o come antenati dei suoi primissimi esponenti, escludiamo i
fossili caratterizzati da dettagli anatomici isolati, ormai riconosciuti di insufficiente valore tassonomico, e anche i fossili
provenienti da situazioni scarsamente contestualizzate, non ci
resta molto altro da prendere in considerazione prima di 1,9
milioni di anni fa oltre ai fossili di Malapa.
In tale situazione, Australopithecus sediba potrebbe essere considerato semplicemente un progenitore di quelle forme successive con un cervello più grande attualmente attribuite a
due specie distinte ma scarsamente conosciute, Homo rudolfensis e Homo habilis. Ma è anche possibile che in questi due
taxa siano stati mischiati reperti di australopitecine e di appartenenti al genere Homo, creando una sorta di specie raccogliticcia. In un simile scenario, alcuni dei fossili attualmente
assegnati a queste specie potrebbero inserirsi meglio nel genere Australopithecus, mentre altre potrebbero restare nei generi e nelle specie attribuite in origine. È anche evidentissimo
che talune specie un tempo annoverate tra i potenziali antenati del genere Homo sono semplicemente di morfologia
troppo avanzata per poter essere oggi considerate ancestrali
della nostra linea evolutiva. In particolare per quanto riguar-
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da Australopithecus ghari, con la sua morfologia craniodentale
così particolare e così simile a una tarda australopitecina iperrobusta, questa specie appare oggi un candidato assai improbabile come progenitore del genere Homo, o dello stesso Australopithecus sediba. È più plausibile che si tratti semplicemente di una variante delle australopitecine iper-robuste diffuse all’incirca nella stessa epoca in tutta la Rift Valley. A
quanto pare, l’unica ragione per cui Australopithecus ghari fu
inizialmente considerato un potenziale candidato sarebbe
proprio la sua natura frammentaria e l’assenza, nella stessa
regione geografica, di altri fossili morfologicamente adatti a
essere considerati progenitori del genere Homo.
Da tutto quanto detto finora consegue, come minimo, che,
nella gara a rappresentare il più antico esemplare conosciuto
del genere Homo, Australopithecus sediba dovrebbe essere considerato un candidato altrettanto probabile delle altre specie
fossili – o dei singoli esemplari fossili – attualmente disponibili, e forse addirittura il miglior candidato in assoluto. E questo a prescindere dal fatto che Australopithecus sediba corrisponda o meno alle idee preconcette che abbiamo sull’aspetto che tale progenitore dovrebbe avere: tali preconcetti infatti
si basano in larga parte sulle attestazioni fossili, estremamente frammentarie, di cui abbiamo parlato in precedenza e su
un gran numero di fossili frammentati provenienti da contesti poveri dal punto di vista geologico e cronologico.
Malgrado i limiti, ormai riconosciuti, imposti da Australopithecus sediba nell’uso di taluni particolari anatomici frammentari dei fossili di ominini quando si affrontano gli interrogativi sull’attribuzione a un genere, e forse anche a una
specie, la paleoantropologia sta comunque vivendo una fase
esaltante della sua storia. Non si era mai assistito prima, nella pratica, alla scoperta di resti così associati, in un contesto
valido e in tempi così brevi. L’evoluzione dei metodi di datazione assoluta e delle tecniche di scavo ci permette di contestualizzare queste scoperte, soprattutto nella situazione sudafricana, come solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile. Alla ricchezza di queste scoperte più complete, tuttavia,
deve far seguito il riconoscimento del fatto che oggi capiamo
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la grande complessità dell’anatomia dei primi ominini: occorre perciò particolare prudenza quando ci interroghiamo
su alcuni aspetti di reperti spesso frammentari.
Gli eccezionali scheletri di Australopithecus sediba ritrovati a
Malapa dimostrano chiaramente che potremo continuare a
trovare nei primi ominini un sorprendente e spesso imprevedibile mosaico anatomico: questo deve indurci alla massima
cautela nelle nostre analisi e interpretazioni, le quali dovrebbero essere improntate a una sana prudenza, soprattutto
quando si tratta di interpretare reperti più frammentari. La
situazione è naturalmente destinata a migliorare poiché sempre più fossili – e sempre più completi – stanno venendo alla
luce per ogni specie fra i primi ominini, fossili risalenti ad archi temporali diversi e in differenti aree geografiche del
mondo. La situazione in cui ci troviamo oggi non è certo di
disperazione, ma è anzi un invito forte e chiaro a proseguire
nelle esplorazioni e negli scavi, verso la scoperta di fossili
sempre migliori, in sempre migliori contesti.
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(traduzione di Anna Tagliavini)
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