Nota dei curatori Sergio Di Petrillo e Vincenzo

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Nota dei curatori Sergio Di Petrillo e Vincenzo
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ISBN 978-88-8497-151-7
Editing
Anna Maria Cafiero Cosenza
Grafica
Costanzo Marciano
Referenze fotografiche
Tutte le immagini sono state fornite dallo studio Ferrater
in copertina:
Giardino Botanico di Barcellona e edificio per il CSIC, 1989-1999
in retrocopertina:
Centro di ricerca Impiva, Castellon de la Plana, 1993-1995
Nota dei curatori
Sergio Di Petrillo e Vincenzo Matarazzo
Nel panorama della cultura europea contemporanea, la figura di Carlos Ferrater ci è apparsa
da subito emblematica di un modo di progettare e intendere lo spazio a noi molto affine e in
qualche modo legato a quell’architettura razionalista italiana che ha profondamente inciso il
nostro percorso formativo. Carichi di entusiasmo, dopo un tour de force girovagando per le
strade di Barcellona, abbiamo incontrato l’architetto Ferrater nel suo elegante studio sulla “diagonale”. Nonostante la poca dimestichezza con
la lingua e un lieve imbarazzo iniziale l’intervista
si è rivelata più che una lezione tenuta da un
maestro, una sorta di dialogo con un vecchio
“compagno di viaggi” con cui condividere le
passioni e arricchirsi reciprocamente attraverso
l’esperienza del fare. Come dirà lo stesso Carlos, l’architettura è la sintesi tra un momento di
estrema solitudine e uno di lavoro collettivo,
inteso come un continuo confrontare se stessi
con gli altri e con le necessità del progetto.
Sergio Di Petrillo (1979) e Vincenzo Matarazzo (1980), architetti,
laureati nel 2007 presso la Facoltà di Architettura di Napoli, svolgono attività di ricerca e di progettazione architettonica.
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L’architetto è un “creatore di sogni”?
No! Credo che l’architetto compia una funzione
sociale; innanzitutto deve capire in che luogo
lavora osservando il paesaggio, capirne le tradizioni, la cultura, per poter organizzare un programma legato alle esigenze delle persone.
A partire da questo deve elaborare una proposta
il più ambiziosa, concettuale possibile.
Alla fine di tutto il processo il risultato può contenere un valore onirico, ma ciò non significa che
l’architetto crea dei sogni, perché il suo lavoro è
legato alla realtà dei dati, alla cartografia, ai numeri
e alle condizioni delle città. In molte occasioni l’architetto non conosce le persone, gli abitanti degli
spazi che progetta, né tantomeno i loro sogni.
Solo nel caso in cui operi in ambito familiare c’è
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un rapporto diretto senza intermediari e allora può
avere la possibilità di capire meglio le esigenze e
aiutare a costruire l’utente e i suoi sogni.
Ma esiste il sogno di uno spazio universale per
la gente? O di uno spazio ideale?
Credo di no, esiste uno stereotipo di spazio che
la gente vede sfogliando le riviste, ad esempio, il
sogno o l’ideale è un’altra cosa. L’architetto si
muove tra le possibilità di un luogo, di uno spazio e le necessità di un cliente, da qui parte per
elaborare le sue proposte, e nella costruzione di
queste talvolta può realizzare qualcosa di nuovo, di innovativo.
Città istantanea di strutture pneumatiche, Ibiza, 1971,
con F. Bendito e J.M. Prada
Ci parli della sua prima esperienza progettuale
e dei riferimenti che aveva allora.
Il mio primo progetto fu una struttura pneumatica temporanea, effimera, che durò appena due
settimane, o anche meno. Certo, avevo dei riferimenti in quel momento, come Woodstock, il
famoso festival di musica, che si tenne nel
1968. Io lavoravo nel 1971. Avevo riferimenti
legati al mondo utopista: Peter Cook, Archigram, Yona Friedman, anche Paolo Soleri, e il
suo concetto di Arcologia. In altri progetti successivi, ho dialogato con il luogo, le necessità,
ma nel mio primo lavoro non avevo niente a cui
riferirmi di concreto.
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54 abitazioni S. Just Desvern, Barcellona, 1974-1976
Le arti, dalla pittura alla poesia al cinema, con
il loro linguaggio, come possono incidere nella
formazione di un architetto e in quella di un
progetto?
Io credo che l’architettura si muova sempre tra
la letteratura, la poesia e il cinema. Sono discipline che corrono parallelamente alla nostra.
Lo spazio scenografico del cinema è influenzato
dall’architettura e la influenza straordinariamente, perché crea spazi su misura sia della trama
che dei suoi personaggi, che si muovono al suo
interno. L’architetto però costruisce i suoi luoghi
fisici in modo permanente, non delle macchine
movibili o temporanee.
Dicevo della letteratura e della poesia e del loro
parallelismo con la nostra disciplina e per quanto riguarda il linguaggio che ha due perni differenti attorno ai quali ruota. C’è una parte che
appartiene al vocabolario figurativo e una parte
del linguaggio più astratta che è quella sintattica. Talvolta lavoriamo meno con gli elementi
figurativi e succede che il progetto diventa maggiormente sintattico. Questa astrazione viene
rafforzata nei vari salti di scala del processo
costruttivo.
Troviamo di grande interesse e a volte appas10
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sionante la lettura delle biografie dei personaggi famosi; l’esperienza di vita e quella professionale si condizionano a vicenda?
Si, credo che nel nostro caso poi sia molto
importante il viaggiare (sia che vai verso il
profondo sud o nel profondo nord), ma non
solo, tutto è suscettibile di trasformarsi in architettura: ogni situazione che registra la memoria,
l’apprendistato con le persone con cui si lavora,
così come anche il cinema e la letteratura,
come detto in precedenza, sono tutte esperienze che hanno potenzialmente la capacità di trasformarsi in materiale utile per un architetto.
Edificio per abitazioni e uffici in c\ Bertrán,
Barcellona, 1982
In un suo libro, L’immortalità, Milan Kundera a
un certo punto della storia entra nel romanzo
dialogando con alcuni dei protagonisti. L’autore dialoga con i personaggi da lui creati,
cosicché il confine tra la realtà dell’opera e
quella dell’autore viene superato. La realtà
dell’opera architettonica invece deve sempre
distinguersi da quella del suo creatore, vale a
dire deve possedere una sua completa autonomia? E allora come entra in gioco la riconoscibilità di un architetto?
Si, certo che l’opera e l’autore hanno una loro
autonomia, ciò avviene in tutte le espressioni
artistiche, laddove c’è un’autonomia c’è anche
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una dipendenza, almeno all’inizio.
Casa Binisafua, Minorca, 1988-90
Come dice Purini l’architettura è un’arte che
vive in Purgatorio perché rispetto alle altre è
legata necessariamente alla funzione?
Credo di si, ultimamente l’architettura si è inserita all’interno dell’avanguardia artistica, soprattutto per la sua capacità mediatica, simbolica,
mentre le altre arti sono andate progressivamente in calo, al contrario di quanto accadeva
negli anni Venti, Trenta.
Oggi l’architettura assume una forma ludica e
questo ha i suoi lati positivi ma anche negativi.
L’architetto deve necessariamente distaccarsi
sempre dall’opera già prodotta, in quanto ogni
progetto possiede un suo processo lavorativo,
di sperimentazione, d’innovazione e che poi
diventa parte integrante della realtà quotidiana,
fisica, del paesaggio. Altrimenti sarebbe immerso sempre nella stessa opera, senza cambiare
registro, potendo pensare a una nuova esperienza e ripartendo da zero.
Per quanto riguarda la riconoscibilità, dipende,
direi che ci sono architetti riconoscibili e altri no.
Se la riconoscibilità è dovuta a un fattore occulto diventa positiva, se è dovuta invece allo stile,
credo diventi qualcosa di negativo, perché trasforma l’architettura in un puro esercizio di lin14
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guaggio, che si converte in un marchio stampato, di stile appunto.
Per me l’architettura muore con lo styling. Dunque, si può essere riconoscibili attraverso la
riflessione, attraverso la ricerca di una complessità alla base del nostro lavoro, attraverso le
possibilità offerte da un luogo o da una nuova
idea. In sostanza, se è qualcosa di celato e da
ricercare, la riconoscibiltà diventa positiva.
489 abitazioni nell’area olimpica
della Valle Hebrón,1989-1991,
con J.Mª Cartañá e R. Suso
A proposito di quanto detto, esiste un legame
indivisibile tra riconoscibiltà e linguaggio?
Per me il linguaggio è meno importante, anzi,
direi che non mi riguarda.
Credo di essere molto più interessato agli
aspetti essenziali dell’architettura che hanno a
che fare con le persone, con la luce, con la
costruzione, con il lavoro trasversale di tutti gli
operatori che intervengono nella realizzazione di
un’opera o di un progetto.
Oggi rispetto all’inizio della mia carriera mi interessa molto meno l’aspetto del linguaggio, perché un progetto è ogni volta un’avventura nuova e il risultato non è aprioristico, ma è legato a
un processo.
Grazie alle nuove tecnologie oggi ci sono consentite delle grandi libertà formali anche le più
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ardite. In questo panorama di arbitrarietà su
cui si fonda l’opera di alcuni esponenti anche
di livello internazionale, lei come si inserisce e
soprattutto ha ancora un senso la triade vitruviana?
Io credo che debba esistere una relazione logica tra progetto e costruzione, tra la concezione
dell’idea e la realtà costruita.
È certo che oggi attraverso la tecnologia che ci
permette di convertire tutte le idee funzionali, di
forma, in costruzione, possiamo rendere visibile
o meno la triade vitruviana a prima vista.
Infatti la tecnologia ci dà la possibilità di non
lasciar intendere come funziona strutturalmente
e costruttivamente una forma al primo impatto
visivo, dato che oggi disponiamo di tutti gli strumenti adatti per calcolare strutture complesse.
Ad esempio l’edificio che stiamo costruendo
sulla Diagonale (Torre MediPro), è formato da
una membrana strutturale che sale, scende, si
muove e dove non si intende facilmente come è
fatta. Ribadisco che debba esistere una logica
costruttiva profonda che segua sempre le regole vitruviane, una relazione diretta forma-funzione-costruzione. Può essere tecnologicamente
avanzata, può essere celata, ma deve esserci!
Altrimenti non c’è architettura, non c’è funzione
sociale o rapporto intenso con il luogo.
Hall dell’Hotel Rey Juan Carlos I, Barcellona, 1993-1996
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