Nota dei curatori Sergio Di Petrillo e Vincenzo
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Nota dei curatori Sergio Di Petrillo e Vincenzo
Copyright © 2010 CLEAN via Diodato Lioy 19, 80134 Napoli telefax 0815524419-5514309 www.cleanedizioni.it [email protected] Tutti i diritti riservati E’ vietata ogni riproduzione ISBN 978-88-8497-151-7 Editing Anna Maria Cafiero Cosenza Grafica Costanzo Marciano Referenze fotografiche Tutte le immagini sono state fornite dallo studio Ferrater in copertina: Giardino Botanico di Barcellona e edificio per il CSIC, 1989-1999 in retrocopertina: Centro di ricerca Impiva, Castellon de la Plana, 1993-1995 Nota dei curatori Sergio Di Petrillo e Vincenzo Matarazzo Nel panorama della cultura europea contemporanea, la figura di Carlos Ferrater ci è apparsa da subito emblematica di un modo di progettare e intendere lo spazio a noi molto affine e in qualche modo legato a quell’architettura razionalista italiana che ha profondamente inciso il nostro percorso formativo. Carichi di entusiasmo, dopo un tour de force girovagando per le strade di Barcellona, abbiamo incontrato l’architetto Ferrater nel suo elegante studio sulla “diagonale”. Nonostante la poca dimestichezza con la lingua e un lieve imbarazzo iniziale l’intervista si è rivelata più che una lezione tenuta da un maestro, una sorta di dialogo con un vecchio “compagno di viaggi” con cui condividere le passioni e arricchirsi reciprocamente attraverso l’esperienza del fare. Come dirà lo stesso Carlos, l’architettura è la sintesi tra un momento di estrema solitudine e uno di lavoro collettivo, inteso come un continuo confrontare se stessi con gli altri e con le necessità del progetto. Sergio Di Petrillo (1979) e Vincenzo Matarazzo (1980), architetti, laureati nel 2007 presso la Facoltà di Architettura di Napoli, svolgono attività di ricerca e di progettazione architettonica. 5 L’architetto è un “creatore di sogni”? No! Credo che l’architetto compia una funzione sociale; innanzitutto deve capire in che luogo lavora osservando il paesaggio, capirne le tradizioni, la cultura, per poter organizzare un programma legato alle esigenze delle persone. A partire da questo deve elaborare una proposta il più ambiziosa, concettuale possibile. Alla fine di tutto il processo il risultato può contenere un valore onirico, ma ciò non significa che l’architetto crea dei sogni, perché il suo lavoro è legato alla realtà dei dati, alla cartografia, ai numeri e alle condizioni delle città. In molte occasioni l’architetto non conosce le persone, gli abitanti degli spazi che progetta, né tantomeno i loro sogni. Solo nel caso in cui operi in ambito familiare c’è 7 un rapporto diretto senza intermediari e allora può avere la possibilità di capire meglio le esigenze e aiutare a costruire l’utente e i suoi sogni. Ma esiste il sogno di uno spazio universale per la gente? O di uno spazio ideale? Credo di no, esiste uno stereotipo di spazio che la gente vede sfogliando le riviste, ad esempio, il sogno o l’ideale è un’altra cosa. L’architetto si muove tra le possibilità di un luogo, di uno spazio e le necessità di un cliente, da qui parte per elaborare le sue proposte, e nella costruzione di queste talvolta può realizzare qualcosa di nuovo, di innovativo. Città istantanea di strutture pneumatiche, Ibiza, 1971, con F. Bendito e J.M. Prada Ci parli della sua prima esperienza progettuale e dei riferimenti che aveva allora. Il mio primo progetto fu una struttura pneumatica temporanea, effimera, che durò appena due settimane, o anche meno. Certo, avevo dei riferimenti in quel momento, come Woodstock, il famoso festival di musica, che si tenne nel 1968. Io lavoravo nel 1971. Avevo riferimenti legati al mondo utopista: Peter Cook, Archigram, Yona Friedman, anche Paolo Soleri, e il suo concetto di Arcologia. In altri progetti successivi, ho dialogato con il luogo, le necessità, ma nel mio primo lavoro non avevo niente a cui riferirmi di concreto. 8 9 54 abitazioni S. Just Desvern, Barcellona, 1974-1976 Le arti, dalla pittura alla poesia al cinema, con il loro linguaggio, come possono incidere nella formazione di un architetto e in quella di un progetto? Io credo che l’architettura si muova sempre tra la letteratura, la poesia e il cinema. Sono discipline che corrono parallelamente alla nostra. Lo spazio scenografico del cinema è influenzato dall’architettura e la influenza straordinariamente, perché crea spazi su misura sia della trama che dei suoi personaggi, che si muovono al suo interno. L’architetto però costruisce i suoi luoghi fisici in modo permanente, non delle macchine movibili o temporanee. Dicevo della letteratura e della poesia e del loro parallelismo con la nostra disciplina e per quanto riguarda il linguaggio che ha due perni differenti attorno ai quali ruota. C’è una parte che appartiene al vocabolario figurativo e una parte del linguaggio più astratta che è quella sintattica. Talvolta lavoriamo meno con gli elementi figurativi e succede che il progetto diventa maggiormente sintattico. Questa astrazione viene rafforzata nei vari salti di scala del processo costruttivo. Troviamo di grande interesse e a volte appas10 11 sionante la lettura delle biografie dei personaggi famosi; l’esperienza di vita e quella professionale si condizionano a vicenda? Si, credo che nel nostro caso poi sia molto importante il viaggiare (sia che vai verso il profondo sud o nel profondo nord), ma non solo, tutto è suscettibile di trasformarsi in architettura: ogni situazione che registra la memoria, l’apprendistato con le persone con cui si lavora, così come anche il cinema e la letteratura, come detto in precedenza, sono tutte esperienze che hanno potenzialmente la capacità di trasformarsi in materiale utile per un architetto. Edificio per abitazioni e uffici in c\ Bertrán, Barcellona, 1982 In un suo libro, L’immortalità, Milan Kundera a un certo punto della storia entra nel romanzo dialogando con alcuni dei protagonisti. L’autore dialoga con i personaggi da lui creati, cosicché il confine tra la realtà dell’opera e quella dell’autore viene superato. La realtà dell’opera architettonica invece deve sempre distinguersi da quella del suo creatore, vale a dire deve possedere una sua completa autonomia? E allora come entra in gioco la riconoscibilità di un architetto? Si, certo che l’opera e l’autore hanno una loro autonomia, ciò avviene in tutte le espressioni artistiche, laddove c’è un’autonomia c’è anche 12 13 una dipendenza, almeno all’inizio. Casa Binisafua, Minorca, 1988-90 Come dice Purini l’architettura è un’arte che vive in Purgatorio perché rispetto alle altre è legata necessariamente alla funzione? Credo di si, ultimamente l’architettura si è inserita all’interno dell’avanguardia artistica, soprattutto per la sua capacità mediatica, simbolica, mentre le altre arti sono andate progressivamente in calo, al contrario di quanto accadeva negli anni Venti, Trenta. Oggi l’architettura assume una forma ludica e questo ha i suoi lati positivi ma anche negativi. L’architetto deve necessariamente distaccarsi sempre dall’opera già prodotta, in quanto ogni progetto possiede un suo processo lavorativo, di sperimentazione, d’innovazione e che poi diventa parte integrante della realtà quotidiana, fisica, del paesaggio. Altrimenti sarebbe immerso sempre nella stessa opera, senza cambiare registro, potendo pensare a una nuova esperienza e ripartendo da zero. Per quanto riguarda la riconoscibilità, dipende, direi che ci sono architetti riconoscibili e altri no. Se la riconoscibilità è dovuta a un fattore occulto diventa positiva, se è dovuta invece allo stile, credo diventi qualcosa di negativo, perché trasforma l’architettura in un puro esercizio di lin14 15 guaggio, che si converte in un marchio stampato, di stile appunto. Per me l’architettura muore con lo styling. Dunque, si può essere riconoscibili attraverso la riflessione, attraverso la ricerca di una complessità alla base del nostro lavoro, attraverso le possibilità offerte da un luogo o da una nuova idea. In sostanza, se è qualcosa di celato e da ricercare, la riconoscibiltà diventa positiva. 489 abitazioni nell’area olimpica della Valle Hebrón,1989-1991, con J.Mª Cartañá e R. Suso A proposito di quanto detto, esiste un legame indivisibile tra riconoscibiltà e linguaggio? Per me il linguaggio è meno importante, anzi, direi che non mi riguarda. Credo di essere molto più interessato agli aspetti essenziali dell’architettura che hanno a che fare con le persone, con la luce, con la costruzione, con il lavoro trasversale di tutti gli operatori che intervengono nella realizzazione di un’opera o di un progetto. Oggi rispetto all’inizio della mia carriera mi interessa molto meno l’aspetto del linguaggio, perché un progetto è ogni volta un’avventura nuova e il risultato non è aprioristico, ma è legato a un processo. Grazie alle nuove tecnologie oggi ci sono consentite delle grandi libertà formali anche le più 16 17 ardite. In questo panorama di arbitrarietà su cui si fonda l’opera di alcuni esponenti anche di livello internazionale, lei come si inserisce e soprattutto ha ancora un senso la triade vitruviana? Io credo che debba esistere una relazione logica tra progetto e costruzione, tra la concezione dell’idea e la realtà costruita. È certo che oggi attraverso la tecnologia che ci permette di convertire tutte le idee funzionali, di forma, in costruzione, possiamo rendere visibile o meno la triade vitruviana a prima vista. Infatti la tecnologia ci dà la possibilità di non lasciar intendere come funziona strutturalmente e costruttivamente una forma al primo impatto visivo, dato che oggi disponiamo di tutti gli strumenti adatti per calcolare strutture complesse. Ad esempio l’edificio che stiamo costruendo sulla Diagonale (Torre MediPro), è formato da una membrana strutturale che sale, scende, si muove e dove non si intende facilmente come è fatta. Ribadisco che debba esistere una logica costruttiva profonda che segua sempre le regole vitruviane, una relazione diretta forma-funzione-costruzione. Può essere tecnologicamente avanzata, può essere celata, ma deve esserci! Altrimenti non c’è architettura, non c’è funzione sociale o rapporto intenso con il luogo. Hall dell’Hotel Rey Juan Carlos I, Barcellona, 1993-1996 18 19