Storia della Filosofia

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Storia della Filosofia
NICOLA ABBAGNANO
STORIA DELLA FILOSOFIA
" Un'opera che, legando strettamente le dottrine alla personalità dei filosofi, e
quindi sottolineando il loro significato esistenziale, rappresentava una netta rottura
rispetto alla storiografia filosofica d'impianto idealistico, quella praticata da Gentile e
dalla scuola gentiliana fino a De Ruggiero" (….) "Essa rimane - a distanza di
quarant'anni, e son molti - la migliore esposizione complessiva dello sviluppo del
pensiero filosofico che sia disponibile nel nostro paese e una delle migliori, a detta di
Quine, nella letteratura internazionale".
Nicola Abbagnano (1901-1990), in "Rivista di filosofia", vol. LXXXI, n.3, 1990.
p.327.
Questa Storia della filosofia è intesa a mostrare l'essenziale umanità dei filosofi.
Perdura ancora oggi il pregiudizio che la filosofia si affatichi intorno a problemi che non
hanno il minimo rapporto con l'esistenza umana e rimanga chiusa in una sfera lontana e
inaccessibile dove non giungano le aspirazioni e i bisogni degli uomini. E accanto a
questo pregiudizio è l'altro, che la storia della filosofia sia il panorama sconcertante di
opinioni che si accavallano e si contrappongono, prive di un filo conduttore che serva di
orientamento per i problemi della vita. Questi pregiudizi sono indubbiamente rafforzati
da quegli indirizzi filosofici che, per amore di un malinteso tecnicismo, hanno preteso
ridurre la filosofia a una disciplina particolare accessibile a pochi e ne hanno
misconosciuto così il valore universalmente umano. Si tratta tuttavia di pregiudizi
ingiusti, fondati su false apparenze e sulla ignoranza di ciò che condannano. A
dimostrarli è diretta quest'opera. La quale muove dalla convinzione che nulla di ciò che
è umano è estraneo alla filosofia e che anzi questa è l'uomo stesso, che si fa problema a
se stesso e cerca le ragioni e il fondamento dell'essere che è suo. L'essenziale
connessione tra la filosofia e l'uomo è la prima base dell'indagine storiografica istituita
in questo libro. Su tale base, questa indagine prende a considerare che la ricerca che da
26 secoli gli uomini dell'occidente conducono intorno al proprio essere e al proprio
destino. Attraverso lotte e conquiste, dispersioni e ritorni, questa ricerca ha accumulato
un tesoro di esperienze vitali, che occorre riscoprire e far rivivere al di là della veste
dottrinale, che molto spesso le cela anziché rivelarle. Giacché la storia della filosofia è
profondamente diversa da quella della scienza. Le dottrine passate e abbandonate non
hanno più per la scienza significato vitale; e quelle ancora valide fanno parte del suo
corpo vivente e non c'è bisogno di rivolgersi alla storia per apprenderle e farle proprie.
In filosofia la considerazione storica è invece fondamentale; una filosofia del passato, se
è stata veramente filosofia, non è un errore abbandonato e morto, ma una fonte perenne
di insegnamento e di vita. In essa si è incarnata ed espressa la persona del filosofo, non
solo in ciò che aveva di più suo, nella singolarità della sua esperienza di pensiero e di
vita, ma nei suoi rapporti con gli altri e col mondo in cui egli visse. E alla persona
dobbiamo rivolgerci per scoprire il senso vitale di ogni dottrina. Dobbiamo fissare in
ogni dottrina il centro intorno al quale gravitarono gli interessi fondamentali del
filosofo, e che è insieme il centro della sua personalità di uomo e di pensatore.
Dobbiamo far rivivere davanti a noi il filosofo nella sua realtà di persona storica per
intendere chiaramente, attraverso l'oscurità dei secoli obliosi o le tradizioni deformanti,
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la sua parola autentica che ancora può servirci di orientamento e di guida. Non saranno
perciò presentati, in quest'opera, sistemi o problemi, quasi sostanziati e considerati
come realtà indipendenti; ma figure o persone vive, fatte emergere dalla logica della
ricerca in cui vollero esprimersi e considerate nei loro rapporti con altre figure e
persone. La storia della filosofia non è né il dominio di dottrine impersonali che si
seguano disordinatamente o si concatenino dialetticamente, né la sfera d'azione di
problemi eterni, di cui le singole dottrine siano manifestazioni contingenti. E' un tessuto
di rapporti umani, che si muovono sul piano si una comune disciplina di ricerca, e che
perciò trascendono gli aspetti contingenti o insignificanti, per fondarsi su quelli
essenziali o costitutivi. Essa rivela la solidarietà fondamentale degli sforzi che mirano a
rendere chiara per quanto è possibile la condizione e il destino dell'uomo; solidarietà
che si esprime nell'affinità delle dottrina come nella loro opposizione, nella loro
concordanza come nella loro polemica. La storia della filosofia riproduce nella tecnica
delle indagini rigorosamente disciplinate lo stesso tentativo che è la base e il movente di
ogni rapporto umano: comprendersi e comprendere. E lo riproduce nelle stesse vicende
di riuscite e di disinganni, di illusioni risorgenti e di chiarezze orientatrici, e di sempre
rinascenti speranze. La disparità e l'opposizione delle dottrine perdono così il loro
carattere sconcertante. L'uomo ha tentato e tenta tutte le vie per comprendere se stesso,
gli altri e il mondo. Vi è riuscito e vi riesce più o meno. Ma deve e dovrà rinnovare il
tentativo, dal quale dipende la sua dignità di uomo. E non può rinnovarlo se non
rivolgendosi al passato e attingendo dalla storia l'aiuto che gli altri possono dargli per
l'avvenire. Non si troveranno perciò in quest'opera critiche estrinseche, che pretendano
mettere in luce gli errori dei filosofi. La pretesa di impartire ai filosofi lezioni di
filosofia è ridicola, come quella di fare di una determinata filosofia il criterio e la norma
di giudizio delle altre. Ogni vero filosofo è un maestro o compagno di ricerca, la cui
voce ci giunge affievolita attraverso il tempo, ma può avere per noi, per i problemi che
ora ci occupano, un'importanza decisiva. Bisogna disporsi alla ricerca con sincerità e
umiltà. Noi non possiamo raggiungere, senza l'aiuto che ci viene dai filosofi del passato,
la soluzione dei problemi dai quali dipende la nostra esistenza singola ed associata. Noi
dobbiamo perciò proporre storicamente tali problemi; e nel tentativo di intendere la
parola genuina di Platone o di Aristotele, di Agostino o di Kant e di quanti altri, piccoli
o grandi, abbiano saputo esprimere un'esperienza umana fondamentale, dobbiamo
vedere il tentativo stesso di mettere in chiaro e portare alla soluzione i nostri problemi.
Il problema di ciò che noi siamo e dobbiamo essere è fondamentalmente identico col
problema di ciò che furono e vollero essere, nella loro sostanza umana, i filosofi del
passato. La separazione dei due problemi toglie al filosofare il suo nutrimento e alla
storia della filosofia la sua importanza vitale. L'unità dei due problemi garantisce
l'efficacia e la forza del filosofare e fonda il valore della storiografia filosofica. La storia
della filosofia salda insieme il passato e l'avvenire della filosofia. Questa saldatura è
l'essenziale storicità della filosofia. Ma appunto perciò la preoccupazione
dell'oggettività, la cautela critica, la ricerca paziente dei testi, l'aderenza alle intenzioni
espresse dai filosofi, non sono nella storiografia filosofica altrettanti sintomi di rinuncia
all'interesse teoretico, ma le prove più sicure della serietà dell'impegno teoretico.
Giacché chi si attende dalla ricerca storica un aiuto effettivo, chi vede nei filosofi del
passato maestri e compagni di ricerca, non ha interesse a travisarne l'aspetto, a
camuffarne la dottrina, a metterne in ombra tratti fondamentali. Ha invece tutto
l'interesse a riconoscerne il volto vero, così come chi intraprende un difficile viaggio ha
interesse a conoscere la vera natura di chi gli serve da guida. Ogni illusione o inganno è
in questo caso rovinoso. La serietà dell'indagine condiziona e rivela l'impegno teoretico.
E' evidente, da questo punto di vista, che non ci si può aspettare di trovare nella storia
della filosofia un continuo progresso, la formazione graduale di un unico e universale
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corpo di verità. Questo progresso quale si verifica nelle singole scienze, che una volta
impostate sulle loro basi si accrescono gradualmente per il sommarsi dei contributi
singoli, non può ritrovarsi in filosofia; giacché qui non ci sono verità oggettive e
impersonali che possano sommarsi e integrarsi in un corpo unico, ma persone che
dialogano intorno al loro destino; e le dottrine non sono che espressioni di questo
dialogare ininterrotto, domande e risposte che talora si richiamano e si corrispondono
attraverso i secoli. La più alta personalità filosofica di tutti i tempi, Platone, ha espresso
nella stessa forma letteraria delle sue opere - il dialogo - la natura vera del filosofare.
Nella storia della filosofia non c'è neppure, d'altra parte, una semplice successione
disordinata di opinioni che si accavallano e distruggano a vicenda. I problemi sui quali
verte l'incessante dialogare dei filosofi hanno una loro logica, che è la disciplina stessa
cui i filosofi liberamente sottopongono la loro ricerca: sicché certe direttive rimangono a
dominare un periodo o un'epoca storica, perché hanno gettato una luce più viva su un
problema fondamentale. Acquistano, allora, una impersonalità apparente, che fa di esse
il patrimonio comune di intere generazioni di filosofi (si pensi all'agostinismo o
all'aristotelismo nella scolastica); ma poi decadono e tramontano, e tuttavia la persona
vera del filosofo non tramonta mai e tutti possono e debbono interrogarlo per attingerne
lume La storia della filosofia presenta così uno strano paradosso. Non c'è, si può dire,
dottrina filosofica che non sia stata criticata, negata, impugnata e distrutta dalla critica
filosofica. Ma chi vorrebbe sostenere che l'obliterazione definitiva di uno solo dei
grandi filosofi antichi o moderni non sarebbe un impoverimento irrimediabile per tutti
gli uomini? E' che il valore di una filosofia non si misura alla stregua del quantum di
verità oggettiva che essa contiene, ma solo alla stregua della sua capacità di servire
come punto di riferimento (magari soltanto polemico) per ogni tentativo di intendere se
stessi e il mondo. Quando Kant riconosce a Hume il merito di averlo svegliato dal
"sonno dogmatico" e di averlo avviato al criticismo, formula nel modo più immediato
ed evidente il rapporto di libera interdipendenza che lega tutti insieme i filosofi nella
storia. Una filosofia non ha valore in quanto suscita l'accordo formale di un certo
numero di persone su determinate dottrine, ma solo in quanto suscita ed inspira negli
altri quella ricerca che li conduce a trovare ognuno la propria via, così come l'autore
trovò in essa la sua. Il grande esempio è ancora qui quello di Platone e di Socrate: per
tutta la vita Platone cercò di realizzare il significato della figura e dell'insegnamento di
Socrate procedendo, quando era necessario, al di là dell'involucro dottrinale in cui
apparivano chiusi; e così la più alta e bella filosofia è nata da un atto ripetuto di fedeltà
storica Tutto ciò esclude che nella storia della filosofia si possa vedere soltanto
disordine o sovrapposizione di opinioni; ma esclude pure che si possa vedere in essa un
ordine necessario dialetticamente concatenato, per il quale la successione cronologica
delle dottrine equivalga allo sviluppo razionale di momenti ideali costituenti una verità
unica che compaia nella sua pienezza alla fine del processo. La concezione hegeliana fa
della storia della filosofia il processo infallibile di formazione di una determinata
filosofia. E così toglie la libertà della ricerca filosofica, che è condizionata dalla realtà
storica della persona che cerca; nega la problematicità della storia stessa e ne fa un ciclo
concluso, senza avvenire. Gli elementi che costituiscono la vitalità della filosofia vanno
così tutti perduti. In verità la storia della filosofia è storia nel tempo, quindi
problematica; ed è fatta non da dottrine o da momenti ideali, ma da uomini solidalmente
legati alla comune ricerca. Non ogni dottrina successiva nel tempo è, perciò solo, più
vera delle precedenti. Incombe il rischio che insegnamenti vitali vadano perduti od
obliati, come spesso è accaduto ed accade; e quindi il dovere di ricercare
incessantemente il loro significato genuino A questo dovere obbedisce, nei limiti che mi
sono concessi, l'opera presente. In tale spirito, voglia intenderla e giudicarla ogni lettore.
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Nicola Abbagnano, Torino, 1946
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TALETE
I primi passi della filosofia sono stati compiuti nelle colonie della Ionia ,
come Mileto ed Efeso : viene spontaneo chiedersi perchè .
Probabilmente le città del continente , lontane dal contatto con altre
popolazioni , rimasero chiuse e vincolate all'orizzonte cosmico e religioso
tradizionale . Le città coloniali sono invece caratterizzate da un maggior
dinamismo . Il fatto stesso che fossero terre di confine (e quindi a
contatto con credenze e costumi diversi) contribuì a fare di queste aree
zone in cui era molto sentito il problema della propria identità e della
posizione del mondo . Un modo per risolvere questo problema può
essere rintracciato nella ricerca di ciò che rende il mondo , nonostante
la varietà dei suoi aspetti , una totalità unitaria . Aristotele ci presenta
proiettato in questa ricerca il presocratico Talete . Egli nacque e visse a
Mileto tra il settimo ed il sesto secolo a.c. e probabilmente non scrisse
alcuna opera . La figura di Talete sfumò ben presto nella leggenda : di
lui ce ne parlano in tanti . Platone , per esempio , afferma che Talete era
stato abilissimo nell'escogitare espedienti tecnici , mentre lo storico
Erodoto ci racconta che Talete progettò e realizzò un canale per deviare
un fiume dal suo corso e farlo rientrare più avanti nel suo alveo .
Sempre Erodoto gli attribuisce la predizione di un'eclissi solare , più
precisamente quella del 585 a.c. , ed una grande abilità come
consigliere politico . Altri autori (di epoche successive) fanno risalire a
Talete la dimostrazione di alcuni teoremi di geometria , ma pare difficile
che siano effettivamente suoi : tra questi ricordiamo la proposizione che
il cerchio è dimezzato dal diametro , che è dimostrabile tramite la
sovrapposizione delle due metà . Anche per quel che riguarda l'eclissi
solare , è davvero difficile che Talete l'abbia intuita tramite complessi
calcoli matematici , che all'epoca non erano in grado di effettuare
neppure gli astronomi babilonesi . Pare che Talete , durante la sua
permanenza egiziana , riuscì pure a misurare l'altezza delle piramidi
tramite le loro ombre .Nel "Teeteto" Platone racconta che Talete per
contemplare il cielo cadde in un pozzo e una donna lo derise per il fatto
che voleva guardare il cielo lui che non vedeva neppure cosa c'era per
terra . Aristotele invece nella "Politica" narra che Talete , grazie alle sue
conoscenze astronomiche e metereologiche , previde un abbondante
raccolto di olive , fece incetta dei frantoi e in questa situazione di
monopolio ricavò ingenti guadagni . Talete è il capostipite della ricerca
delle cause e del principio . Per lui tutto , in ultima istanza , è costituito
da acqua . Non sappiamo esattamente che cosa Talete intendesse con
questa affermazione , ma possiamo immaginarlo . Probabilmente aveva
in mente , per esempio , il ghiaccio , il vapore , l'umidità ... Egli osservò
poi che il cibo degli esseri viventi è in buona parte costituito da acqua ,
così come i semi degli esseri viventi sono umidi . E' anche possibile
ipotizzare perchè Talete scelse proprio l'acqua come principio : intanto ,
come abbiamo appena detto , essa si trova praticamente ovunque , ma
poi ha delle caratteristiche che la rendono ideale come principio della
realtà : è incolore , inodore , insapore ... In poche parole l'acqua non ha
caratteristiche e quindi può assumerle tutte . Per individuare un
principio generalmente si scelgono cose che abbiano il minor numero
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possibile di caratteristiche : l'acqua per Talete , l'aria per Anassimene .
Talete affermò che la Terra galleggiasse sull'acqua : secondo la
concezione dell'epoca vi era un immenso Oceano , una Terra tonda e
delle acque interne : su quest' Oceano infinito galleggiava , secondo le
credenze dell'epoca , la Terra . In Talete riscontriamo un forte influsso
orientale : l'idea che la Terra galleggiasse sull'Oceano era presente in
diversi miti dell'Oriente . Per di più , come detto , sappiamo che lui
stesso soggiornò in Egitto e probabilmente lì ebbe modo di assimilare
questi miti . Però Talete non si accontenta di accettare la tradizione
mitologica , ma da buon filosofo argomenta le sue tesi . Per lui l'acqua è
sia sostanza (ciò che sta sotto , in Greco
) sia essenza (ciò
che effettivamente è , in Greco
) : sotto il mutamento continuo
(ghiaccio , vapore , umidità...) la sostanza rimane sempre la stessa : è
sempre acqua . Con Talete cominciano a farsi sentire i primi cenni di
astrazione , ma è ancora molto legato al mondo concreto : è infatti
interessante notare che la parola
(la sostanza , ciò che sta
sotto) avrà sì voluto significare in senso astratto che l'acqua nel corso
dei suoi mutamenti rimane sempre acqua , ma era pregna di significati
concreti : concretamente , infatti , la terra , secondo Talete , galleggiava
sull'acqua e di conseguenza l'acqua sta sotto alla terra (il termine
viene preso alla lettera) . A noi risulta strana questa
mistura di concreto e astratto , ma all'epoca doveva essere
normalissima . Però verrebbe da chiedere a Talete : "Se la terra galleggia
sull'acqua , l'acqua su cosa galleggia ?" ; senz'altro Talete avrebbe
risposto : "Essa è il principio , perciò non vi è risposta !" . Di Talete ce
ne parla Aristotele e ad un certo punto dice a riguardo
dell'identificazione dell'acqua come principio :"Forse si è formato questa
opinione vedendo che il nutrimento di tutte le cose è umido e che
perfino il caldo deriva dall'umido e vive di esso ..." : pare interessante ,
oltre al termine "forse " che denota un'ipotesi personale di Aristotele , il
fatto che si parli di principio di "tutte le cose " . Si può avanzare
un'obiezione : l'acqua non è il principio di tutte le cose , ma solo degli
esseri viventi . Va subito precisato che concetti che per noi sono distinti
, ai tempi di Talete non lo erano : non avevano distinzione tra mondo
vivente e mondo non vivente : noi l'abbiamo perchè siamo avvantaggiati
da strumenti tecnici . In mancanza di strumenti scientifici , la prima
cosa che viene spontaneo fare per capire quali esseri sono viventi è
osservare il movimento , la capacità di muoversi ( Platone stesso
definirà la vita come qualcosa che si muove da sè) . Se cogliamo nel
movimento la distinzione tra vivo e non vivo (che è la distinzione più
logica che ci sia) , di conseguenza dovremmo attribuire a tutto il mondo
, sebbene non nella stessa misura , la vita . Spieghiamo perchè
servendoci di un esempio : anche una penna , se lanciata , si muove .
Dunque l'atteggiamento di Talete era di attribuire vita alla materia : si
parla di "ilozoismo" (dal greco
, materia +
, animali) . In realtà si
tende ad evitare questa parola perchè suggerisce che partendo dall'idea
di materia inerte Talete e gli altri materialisti le abbiano attribuito la
capacità di movimento e quindi la vita : per Talete , invece , la materia
si è sempre mossa . Una testimonianza ci dice che Talete , che fu il
primo ad occuparsi di elettricità , affermò che il magnete fosse vivo
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perchè in grado di far muovere le cose (infatti attrae il ferro) e che
avesse un'anima . Viene da chiedersi : " Ma perchè parla proprio del
magnete e non in generale della materia ?" . La risposta è che questi
filosofi presocratici per dimostrare partivano da situazioni chiare per
tutti ( come il fatto che il magnete sposti il ferro) per poi estenderle
all'intera realtà . Voleva dimostrare che la vita non c'è solo negli esseri
viventi , e per farlo si serve dell'esempio più chiaro e comprensibile per
tutti . Egli si serve della generalizzazione dell'esperienza : osserva
attentamente la realtà e ciò che ha osservato in determinati casi
particolari lo estende . Per Talete , così come l'animale fiuta il cibo e si
avvicina , così il magnete sente il ferro e si avvicina . Talete affermò pure
" tutto è pieno di dei " : sembra un'affermazione religiosa , il che per un
filosofo sarebbe strano. In realtà risulta evidente che il principio è la
trascrizione in termine filosofico della divinità, in quanto principio è ciò
da cui tutto deriva : dire che tutto è pieno di dei è lo stesso che dire
tutto è pieno di acqua . Anassimandro definirà "il divino principio" .
Come accennavamo, Talete, oltrechè filosofo, fu anche grande
matematico: calcolò l'altezza delle piramidi sfruttando l'ombra da esse
proiettata ed elaborò il celebre teorema che porta il suo nome. Il
teorema di Talete dice che un fascio di rette parallele determina su due
trasversali insiemi di segmenti proporzionali.
Nel contesto dei presocratici e dei Milesi si colloca insieme a Talete anche
Anassimandro , che nacque a Mileto nel 610 circa a.c. e morì intorno alla metà del sesto
secolo : la tradizione vuole Anassimandro discepolo di Talete ; dato che a quei tempi
non c'erano le scuole , si doveva trattare di un vero e proprio rapporto di disdcepolato .
Senz'altro Anassimandro ha preso qualcosa dal maestro : egli infatti si cimenta nella
ricerca di un solo principio e per di più che ha a che fare con l'acqua (sebbene non sia
proprio acqua pura) . Anassimandro scrisse un'opera in prosa ("Perì fuseos") : la poesia
cessa di essere l'unico veicolo o , comunque , il veicolo per eccellenza per trasmettere le
conoscenze sull'universo e sugli uomini . Di tutta la sua opera , però , possediamo un
solo frammento , peraltro difficile da contestualizzare . Se ci basassimo solo su questo
frammento , Anassimandro ci sembrerebbe interessato solamente di cosmogonia
(l'origine dell'universo) . Però tramite varie testimonianze ci è possibile comprendere
che in realtà Anassimandro si interessava di parecchie cose e la sua opera doveva
spaziare nei campi più vasti . A quei tempi il suo libro sarebbe senz'altro stato
catalogato come di "storia" (dove la parola storia assume un significato differente da
quello che comunemente le attribuiamo : tale parola è infatti riconducibile alla radice "
eid " , a sua volta riconducibile al verbo greco " orao " , vedere ) , ossia di descrizione
del mondo : l'opera iniziava con una cosmogonia (da cui è tratto il frammento che ci è
pervenuto) in cui Anassimandro cercava di dare una spiegazione all'origine
dell'universo e poi proseguiva con una cosmologia , dove egli spiegava la struttura
dell'universo . La sua opera non si limitava alla cosmologia e alla cosmogonia (che però
senz'altro dovevano essere le parti più filosofiche) , ma toccava anche altri argomenti .
Ad Anassimandro viene tra l'altro attribuita la prima cartina geografica del mondo allora
conosciuto e l'invenzione dell'orologio solare : in tal modo spazio e tempo diventano
entità descrivibili e misurabili ; l'universo e il tempo in cui si scandisce la sua vicenda
possono uscire dalla dispersione e essere ricompresi in una prospettiva unitaria .
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Anassimandro trovò il principio della realtà nell'infinito (in Greco " apeiron " , a +
peiron = senza limite) . In realtà la parola APEIRON è intraducibile a causa della sua
polisemia e si preferisce non tradurla : nella parola apeiron ci sono infatti troppi
sottintesi e significati per cui scegliendone uno (che può benissimo essere corretto) se
ne tagliano automaticamente fuori altri altrettanto corretti . I due significati principali
della parola apeiron sono INFINITO e INDEFINITO , il primo con valenza quantitativa
, il secondo con valenza qualitativa . Per Anassimandro , però , entrambe i significati
erano allo stesso modo contenuti nel termine apeiron . Ora dobbiamo spiegare perchè
Anassimandro abbia scelto come principio proprio l'apeiron : il principio è quel
qualcosa da cui deriva tutta la realtà , quel qualcosa dove tutta la realtà va a finire e quel
qualcosa in cui tutta la realtà permane . Se il principio è quindi ciò da cui deriva tutto il
resto , Anassimandro deve aver pensato che esso deve essere una fonte inesauribile di
tutto , senza fine . Già Talete a suo modo aveva effettuato un ragionamento del genere :
l'acqua era per lui il principio di tutto perchè non aveva caratteristiche e poteva di
conseguenza assumerle tutte . L' introduzione dell' apeiron rappresenta un grandissimo
passo verso l'astrazione : esso ancora più dell'acqua non ha caratteristiche ; però per
Anassimandro l'apeiron non è solo infinito , ma anche indeterminato (indefinito) : egli è
convinto che il principio non debba avere alcuna caratteristica e quale è la cosa che ha
meno caratteristiche dell'infinito ? Anassimandro quindi si distacca da Talete : l'acqua
non è più il principio , ma è parte integrante dell'apeiron . Riportiamo ora il celebre
frammento di Anassimandro : " da dove infatti gli esseri hanno l' origine , ivi hanno
anche la distruzione secondo necessità : poichè essi pagano l'uno all'altro la pena e
l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo " . Mentre per Talete era
implicito che la materia fosse dotata di movimento , per Anassimandro è esplicito : in
realtà a parlarci di Anassimandro e a riportare il suo frammento è un filosofo minore di
nome Simplicio : è difficile tradurre e capire che cosa egli intendesse dire . Sembra
quasi volerci dire che Anassimandro sia stato il primo ad introdurre il fattore
movimento , ma probabilmente Simplicio voleva soltanto dire che Anassimandro è stato
il primo ad usare la parola " arkè " in senso filosofico , con la valenza di principio .
Anassimandro ha aperto prospettive molto moderne : il concetto di infinito per esempio
ricorre spesso anche nella nostra società . Anassimandro arrivò a dire che il nostro
universo è un qualcosa di infinito : a noi pare ovvio , ma si è per lungo tempo pensato
che fosse finito : questa concezione di finitezza dell'universo si era radicato ai tempi dei
Pitagorici , che avevano attribuito al termine " infinito " una connotazione fortemente
negativa e confusionaria . Anassimandro diceva che il mondo era nato e che prima o poi
sarebbe morto : Aristotele invece diceva che il mondo esistesse da sempre e che sarebbe
sempre esistito . Per Anassimandro il nostro mondo non è il solo nell'universo : per lui
l'intera realtà universale è cosparsa di mondi come il nostro . Egli concepiva l'universo
come un oceano di apeiron con sparsi qua e là infiniti mondi come il nostro . Questi
mondi erano per lui realtà definite e tra l'uno e l'altro c'era l'apeiron . Ma che cosa è che
dà vita ai vari mondi , che fa sì che si stacchino dall'apeiron primordiale ? Per
Anassimandro è il movimento che consente la separazione dei mondi dall'apeiron .
Probabilmente mentre effettuava questi ragionamenti aveva in mente i mulinelli
dell'acqua : se sulla superficie ci sono corpi galleggianti (pagliuzze , rametti ...) a causa
della densità si separano gli uni dagli altri . Così anche nell'apeiron ci potevano essere
vortici in grado di separare i vari CONTRARI . Infatti l'apeiron è tale proprio perchè
tutto è mescolato e finisce per essere indistinto : infatti caldo-freddo , secco-umido etc.
se mescolati sono indefiniti . E' il movimento che riesce a separarli . Ma non è un
movimento qualunque : quello dell'apeiron infatti è un movimento capace di generare e
di separare . Infatti di per sè nell'apeiron i contrari non esistono ancora : vengono
successivamente generati dai vortici . Questa è la cosmogonia anassimandrea :
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esaminiamo ora la cosmologia , vale a dire l'assetto del mondo . Anassimandro non ci
parla ancora di caldo e di freddo in modo astratto , ma li identifica nell'acqua e nel
fuoco , ossia in sostanze concretamente esistenti . Egli ci fa notare che il rapporto tra i
contrari è conflittuale : per lui al centro del mondo c'è l'acqua fredda , in periferia il
fuoco caldo : essi tendono a scontrarsi costantemente . Il fuoco fa evaporare l'acqua
marina con una duplice conseguenza : la formazione di sale e di vapore acqueo . Il sale
sta a rappresentare la terra , il vapore acqueo l'aria . Va senz'altro notato che
Anassimandro era particolarmente attento e sensibile alle questioni di evaporazione
perchè a Mileto vi erano grandi paludi e doveva quindi essere un fenomeno molto
diffuso . Quindi per lui al centro c'era l'acqua , in periferia il fuoco ed in una periferia
ancora più periferica una corona in cui aria e fuoco si mescolavano . La luna ed il sole
non sono nient'altro che " buchi " in cui è possibile scorgere questa corona di periferia .
Senz'altro per la sua cosmologia Anassimandro deve aver preso spunto dal
funzionamento della pentola a pressione . Il fuoco attacca l'acqua causandone
l'evaporazione , ma essa si " vendica " attaccando la corona periferica e smantellandola .
Questa sua strana idea del fuoco che agisce a discapito dell'acqua deve essergli derivata
dal fatto che egli scorgeva spesso fossili marini a chilometri di distanza dal mare o
addirittura sui colli : significava quindi che vi era un'evaporazione costante e che il
fuoco " rosicchiava " sempre più terreno all'acqua facendola evaporare . Oltre a notare
l'interesse di Anassimandro per gli aspetti comuni della vita , gli va senz'altro
riconosciuto il merito di aver capito che cosa fossero i fossili ( cosa che non aveva
invece capito Aristotele ) . Quindi per lui il nostro mondo sarebbe finito quando il fuoco
sarebbe riuscito a far evaporare tutta l'acqua ( che , come aveva notato Talete , è
davvero fondmentale per la vita ) . Per Anassimandro un contrario non può vivere da
solo , quindi la scomparsa dell'acqua decreterebbe anche quella del fuoco e del mondo
intero . Il mondo , una volta finito , sarebbe ritornato nell'apeiron e lì ne sarebbe poi
nato uno nuovo . Sempre a riguardo della cosmologia anassimandrea , va ricordato che
egli non pensava che la terra fosse rotonda nè che fosse in movimento : la immaginava
come il tamburo di una colonna . Per lui la terra sarebbe ferma semplicemente per il
fatto che non avrebbe nessun motivo di muoversi : è al centro di tutto e quindi perchè
mai dovrebbe spostarsi ? Torniamo ora al frammento a noi giunto : l'espressione "
secondo l'ordine del tempo " non si è sicuri che sia effettivamente anassimandrea . E'
chiaro che quando dice " da dove hanno origine , hanno fine " allude all'apeiron : il
mondo una volta finito torna lì . Poi parla di " ingiustizia " : essa consiste sia nel
distacco dall'apeiron del mondo (che può essere visto come una sorta di peccato
originale ) sia (soprattutto) nel conflitto che oppone un contrario all'altro . A riguardo
dell'idea del peccato originale , dobbiamo riallacciarci alla religione orfica , che vedeva
la nascita dell'uomo come una colpa originaria : la vita sulla terra è sia l'effetto della
colpa sia la punizione . Anassimandro estende questa concezione all'intero mondo : il
distaccamento dall'apeiron è un peccato : i contrari stessi , opponendosi , commettono
una sorta di peccato nei confronti dell'apeiron . E' interessante l'espressione " secondo
necessità " : dà l'idea che le cose avvengano secondo un ordine preciso e non
casualmente . Comincia a subentrare un primo e rudimentale concetto di " legge
naturale " con il " secondo necessità " . Si può riscontrare nella visione del mondo di
Anassimandro un forte pessimismo legato alla tradizione orfica . Anassimandro nel Perì
fuseos , oltre a dedicarsi alla cosmologia e alla cosmogonia , si dedica anche alla
biologia e alle prime forme di vita : egli , così ci dice una testimonianza di Aezio ,
sostiene che i primi viventi furono generati dall'umido ( va senz'altro notato come
Anassimandro sia influenzato da Talete e alle sue dottrine che vedevano l'acqua
protagonista della realtà ) , avvolti in membrane spinose e che col passare del tempo
approdarono all'asciutto e , spezzatasi la membrana , mutarono in fretta il genere di vita
10
. Per lui dalla terra e dall'acqua riscaldate nacquero o dei pesci o comunque degli
animali molto simili ai pesci ; in questi concrebbero gli uomini ed i feti vi rimasero
rinchiusi fino alla pubertà . Quando questi si spezzarono , allora finalmente ne uscirono
uomini e donne che potevano già nutrirsi . Sembra quasi che in un certo senso anche per
Anassimandro il vero principio sia l'acqua .
ANASSIMENE
Generalmente Anassimene viene collocato nel contesto dei "milesi" , vale a dire i
filosofi della città di Mileto , nella Ionia Minore ( Talete e Anassimandro ) : egli visse
poco dopo il sesto secolo . Come i suoi due colleghi , anche Anassimene individua un
unico principio dal quale sarebbe derivato tutto il resto . Mentre Talete scelse l'acqua e
Anassimandro l'infinito , Anassimene affermò che tutto deriverebbe dall'aria . Si
possono avanzare ipotesi sul motivo di questa scelta : in fondo l'aria si identifica un pò
con il cielo che era la sede degli dei e quindi non pare una scelta insensata . Di per certo
sappiamo che Anassimene affermò che l'aria è il principio di tutto in quanto è principio
della vita : bisogna tenere in considerazione che il termine greco che indica la vita ,
l'anima è "psukè" che in origine significava proprio "soffio vitale" . Comunque
Anassimene viene solitamente trattato a piccoli cenni ed è sempre stato considerato
inferiore rispetto agli altri 2 milesi : Talete fu l'iniziatore della ricerca del principio ,
Anassimandro fece un grande passo avanti introducendo il concetto di astrazione (che
cosa è infatti più astratto dell'infinito ?) e Anassimene ? Egli , se ponderiamo
accuratamente la situazione , ha fatto un passo indietro e non ha introdoto nulla di
nuovo : è rimasto legato ad un elemento concreto quale l'aria . Tuttavia ultimamente è
stato rivalutato per diverse ragioni : tra le tante una merita di essere ricordata : in epoche
successive a quelle dei Milesi , un tale Diogene , uomo di estrema cultura , penserà di
riprendere la filosofia milesia e tra i tre autori scelse proprio di esaminare Anassimene .
Ci deve dunque essere un motivo se un uomo colto come Diogene , di cui fu allievo lo
stesso Socrate , scelse proprio Anassimene . La risposta è che evidentemente
Anassimene dei tre era il più coerente e classico per i successori . Anassimene non si
limitò a dire che l'aria era il principio di tutto , ma si sforzò e cercò di spiegare il
processo (a differenza di Talete ) : per lui il processo tramite il quale l'aria si trasforma
in tutte le altre cose è quello della rarefazione e della condensazione . Come Talete
aveva dimostrato la presenza della vita negli esseri non viventi mediante l'esempio del
magnete che attira il ferro e che quindi è vivo , così Anassimene partì da un esempio
particolare per poi estendere le sue tesi all'intera realtà . Egli si servì dell'esempio della
respirazione . Notò che a seconda dell'apertura della bocca l'aria usciva diversamente : a
bocca larga usciva calda , mentre a bocca stretta usciva fredda . Così estese il processo
all'intera realtà sostenendo che freddo e caldo fossero il risultato di un fatto quantitativo
. L'aria a seconda che sia più condensata o rarefatta implica il freddo e il caldo . Il caldo
e il freddo sono quindi il risultato di processi quantitativi : sono quindi qualità derivanti
da una quantità diversa d'aria . Al di là di un certo livello di condensazione si ha l'acqua
, e al di là di un certo livello di rarefazione si ha il fuoco . L'aria attraverso passaggi
quantitativi può quindi trasformarsi in tutto . Era il più coerente dei Milesi perchè Talete
non spiegava chiaramente come l'acqua potesse trasformarsi in tutto , mentre
Anassimandro nell'ambito delle ricerche naturali dei milesi era uscito un pò fuori tema
introducendo il concetto di infinito ; Anassimene sarà anche stato un pò monotono (non
solo nelle tematiche , ma pure nello stile ) , ma è comunque stato coerente e ha sempre
motivato coerentemente le sue affermazioni . Va poi detto che fu il primo ad ipotizzare
che la qualità derivasse dalla quantità , tematica poi ripresa dai Pitagorici .
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ERACLITO
Eraclito vive ad Efeso tra il sesto ed il quinto secolo a.c. ; egli era di famiglia
aristocratica (addirittura discendente da famiglia regale) e lo stile stesso in cui scrive
risente di questa influenza aristocratica (nella sua opera dirà : " Uno è per me diecimila ,
se è il migliore ") . Nel suo libro "Perì fuseos" traspare palesemente un atteggiamento di
disprezzo per la massa popolare (che definisce "cani" che gli abbaiano contro) ; va
subito detto , però , che l'aristocraticismo di Eraclito non è molto legato alla vita politica
, quanto piuttosto a quella intellettuale e culturale . Secondo la tradizione Eraclito
avrebbe depositato il suo libro (di cui ci sono pervenuti parecchi frammenti) nel tempio
di Artemide ad Efeso . Compie questo gesto senz'altro per il fatto che il tempio era il
luogo più sicuro per la custodia (all'epoca le biblioteche non c'erano) , ma anche perchè
era tipicamente aristocratico riallacciarsi al sapere della casta sacerdotale ed arcaica .
Eraclito ritiene che il tempio sia l'unico luogo idoneo a custodire il suo scritto : egli
infatti nutre sfiducia nella possibilità che il messaggio da lui consegnato allo scritto
possa essere compreso dalla maggior parte degli uomini . Ciò dipende dai contenuti di
esso , lontani dalle esperienze della vita comune , ma anche dal linguaggio e dalla forma
nei quali questi contenuti sono espressi . In effetti ancora oggi non si è riusciti a
comprendere la natura dell'opera di Eraclito , sebbene possediamo numerosi frammenti
(oltre 100) : essa era infatti costituita di aforismi , vale a dire paginette autonome e
singole . Il fatto che fosse un libro "aforistico" non significa che fossero idee campate in
aria o che Eraclito saltasse di palo in frasca , cambiando in continuo argomenti : ogni
frase , ogni pagina può in qualche modo essere collegata ad altre in modo argomentativo
. Va senz'altro notato che Eraclito fu probabilmente il primo a fare collegamenti formacontenuto : dal momento che i contenuti erano complessi , anche lo stile e la forma
dovevano essere complessi : è come se Eraclito volesse sottolineare la difficoltà del
contenuto tramite la difficoltà della forma (tant'è che veniva spesso denominato
"l'oscuro" o "il piangente") . Ma Eraclito era pienamente consapevole della difficoltà di
interpretazione del suo libro : da buon aristocratico diceva che non tutti gli uomini erano
in grado di capire cosa dicesse : solo i migliori ce l'avrebbero fatta . Aristotele stesso
riscontrò numerose difficoltà interpretative leggendo l'opera di Eraclito : perfino gli
accenti sono ambigui : il termine greco " bios " , ad esempio , letto " biòs " significa "
arco " , ma letto " bìos " significa " vita " (sono addirittura antitetici i significati : l'arco
è un qualcosa che provoca la morte , che è l'opposto della vita ) . E' interessante e
famoso il frammento in cui Eraclito dice " la natura ama nascondersi " : vuole
sottolineare che non è facile trovare la realtà . In Eraclito vi è una convinzione di fondo :
che l'intera realtà sia governata da un solo principio (come dicevano i Milesi ) , a cui
tutto è collegato . Dirà che questi legami che legano la natura sono dettati dal " LOGOS
" : nel mondo c'è una ragione che lo fa andare avanti e un discorso che lo lega . Sia
ragione sia discorso vengono proprio tradotti ambedue con "logos" , che ha una miriade
di significati . Logos è anche il discorso che Eraclito consegna al suo scritto , che in
questo senso si presenta come espressione adeguata del logos cosmico . Questo è
comune a tutti gli uomini , ma essi non sono in grado di comprenderlo perchè restano
rinchiusi nel loro orizzonte privato . Eraclito paragona questi uomini a coloro che
dormono e li chiama " dormienti " , in contrapposizione con coloro che son desti : quale
è la differenza tra le due categorie ? Quando siamo svegli siamo in grado di mettere in
comune le esperienze : non siamo soli , ma c'è un comune terreno d'intesa . Quando
invece dormiamo e sognamo ciascuno di noi vive in un mondo interamente suo . I
dormienti quindi , nel caso degli uomini che Eraclito così definisce , sono coloro che
rinunciano al logos cosmico , che ci consente di capire insieme la realtà . Certo suona
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strano che un aristocratico parli di logos comune-cosmico : in realtà la questione è che
quel "comune" "cosmico" si riferisce non a tutti gli uomini , ma a pochi : solo ai
migliori , e non ai dormienti . Ma cerchiamo di comprendere che cosa Eraclito intenda
con "logos comune , cosmico" : come accennato , la parola logos è polisemantica ed è
quindi bene non tradurla . Essa si riconnette al verbo greco "lego" , che in origine
significava "legare" ma che poi passò a significare "parlare" . Logos vuol dire , tra le
varie cose , anche discorso : c'è l'idea di più parole che vengono tra loro legate per
assumere un significato . Può anche significare "discorso interiore" in quanto prima di
parlare , si effettua un ragionamento , un dialogo interno a noi stessi . Quindi passò a
significare "ragionamento" e da qui "ragione" , ossia la facoltà di effettuare
ragionamenti . Per Eraclito però i significati della parola logos sono essenzialmente tre :
1) La ragione che governa l'universo 2) Il pensiero che compende questa ragione
universale 3) Il discorso che esprime questa conoscenza . Così come abbiamo un logos
dentro di noi (la ragione) , Eraclito dice che anche nella realtà ci deve essere un logos
cosmico , dove logos ha valenza di "ragione" : il logos è quel qualcosa che fa funzionare
l'universo . Eraclito afferma che il logos che abbiamo nella nostra mente non è diverso
da quello cosmico . Per arrivare a dire questo , probabilmente , Eraclito si deve essere
chiesto : " Come è che quello che noi pensiamo esiste anche nell realtà ? " Questo è
anche un modo per rispondere alla domanda : " come si ricollegano le leggi della natura
e del mondo ? " . Di fatto Eraclito nega l'esistenza di un dio , ma ammette quella di una
ragione universale : c'è un nesso tra la ragione che governa il mondo e quella che
governa la nostra mente : sono la stessa cosa ! Quindi la sua ambiguità espositiva
nell'opera "Perì fuseos" è dettata dal logos stesso , che fà sì che la natura ami
nascondersi . Certo è difficile comprendere questo logos universale , ma non è
impossibile : l'uomo ce la può fare usando quel frammento di logos a sua disposizione ,
insito dentro di lui : la ragione , che non è nient'altro che un pezzettino di logos
universale di cui tutti disponiamo . Quindi tutti partiamo dallo stesso livello , ma solo i
migliori riescono ad emergere e ad avvicinarsi al logos cosmico . I dormienti sono
coloro che non ci riescono nè ci provano : per raggiungere il logos universale bisogna
cooperare , non agire da soli e nel proprio interesse : Eraclito dice " bisogna seguire ciò
che è comune ; infatti ciò che è è comune di tutti . Ma pur essendo il logos di tutti , la
folla vive come se avesse un proprio ed esclusivo criterio per giudicare " . Eraclito era
del parere che una città per funzionare avesse bisogno delle leggi : come il logos
cosmico governa il mondo , così le leggi governano la città . Anche le leggi , come la
mente umana , rappresentano un frammento di logos universale . In Eraclito matura
l'idea che la legge umana derivi da quella naturale , della fusis (natura) . Tutte le leggi
umane , nella misura in cui sono giuste , attingono da un'unica legge cosmica . A quei
tempi vi era anche chi diceva che le leggi umane fossero puramente convenzionali e non
c'entrassero nulla con la natura . Sebbene Eraclito arrivi ad ammettere che il principio
sia il logos , un'entità assolutamente astratta , tuttavia egli sente il bisogno di incarnarlo
in qualcosa di materiale , e più precisamente nel fuoco . Eraclito dice che l'universo non
è il prodotto di dei o uomini , ma un ordine universale unico ed eterno . Egli lo
identifica con " il fuoco sempre vivente " . Con il riferimento al fuoco , Eraclito non
intende soltanto introdurre una variazione rispetto alla tesi , tradizionalmente attribuita
agli ionici a partire da Aristotele , dell'unicità del principio . Intende piuttosto insistere
sulla peculiarità di comportamento del fuoco : si accende e si spegne regolarmente
secondo una misura , come appare anche dal sole , che ora brilla e ora si spegne . La
vicenda cosmica in tutti i suoi aspetti e nelle sue incessanti trasformazioni è infatti
regolata da una misura . La mobilità del tutto non è un divenire casuale o disordinato ,
ma è regolata secondo ritmi precisi . Eraclito sostiene che non si tratti solo della
successione di un opposto all'altro , del giorno alla notte , della vita alla morte e così via
13
. La guerra assurge a simbolo e insieme regola di tutto ciò che avviene nell'universo .
Questo è caratterizzato da un'armonia superiore consistente nell'unità e identità degli
opposti in tensione tra loro . Quindi anche per Eraclito la ricerca dell'unità , al di sotto
dell'apparente molteplicità e dispersione di ciò che appare ai più , è l'obiettivo primario .
La guerra tra gli opposti non è espressione di ingiustizia , come ritengono i più e come
aveva detto Anassimandro : il divenire di tutte le cose è il risultato del perenne conflitto
che permea il tutto e si esprime nell'incessante tensione e trasformazione di un contrario
nell'altro . Il fuoco suggerisce bene l'idea di questo costante divenire , di dinamicità , di
trasformazione e di identità degli opposti : dove c'è il fuoco c'è la vita , ma il fuoco porta
anche la morte . Eraclito polemizzerà moltissimo con i Pitagorici (ed in particolare con
Pitagora che definirà "inventore di coltelli" , vale a dire dell'arte tagliente della retorica ,
che mira ad affascinare l'ascoltatore con dialoghi raffinati , ma privi di verità) , che
sostenevano la pace e l'armonia dei contrasti e che vedevano nella musica la struttura
numerica della realtà . Per lui la vera armonia è la tensione tra i contrasti : se prendiamo
un arco o una lira , notiamo che essi funzionano fin tanto che la struttura data dal
contrasto e dalla tensione degli opposti regge . Divenire significa proprio passare da un
opposto all'altro . Mentre nella nostra società si tende a dare un valore negativo alla
guerra , Eraclito dice che polemos (la guerra) è il padre di tutte le cose , è ciò che rende
liberi o schiavi gli uomini . Da notare che non si può conoscere pienamente una cosa se
non si conosce il suo opposto : non si può conoscere davvero la schiavitù se non si sa
che cosa sia la libertà . Per Eraclito la guerra è una grande cosa perchè determina quali
siano gli uomini più valevoli e quelli inferiori : anche nella guerra c'è un frammento di
logos universale . Per Eraclito c'è armonia solo quando i contrari sono in tensione : è
l'opposto di quanto dicono i Pitagorici . In un suo frammento Eraclito afferma che il
diametro del sole sia di un piede umano , il che è un'assurdità e lui lo sapeva bene : con
quest'affermazione sconcertante egli vuole dire così come è assurda la sua affermazione
, tutte quelle che dicono che le cose sono come sembrano sono assurde . In un altro
frammento dice di aver indagato se stesso : salta all'occhio questa affermazione perchè
sul tempio di Apollo a Delfi c'era scritto "gnoti sautòn" (conosci te stesso) : lui dice di
aver indagato se stesso ed emerge il legame di Eraclito con il mondo arcaico e sacro ,
tipicamente aristocratico . Probabilmente quest'affermazione va riferita ad un'importante
constatazione di Eraclito : voleva conoscere il logos dell'anima e dice di aver scoperto
che l'anima non ha dimensioni , non è definita . Dice poi che il suo logos è profondo ,
quasi con l'idea dello scavare in profondità alla ricerca dell'anima . Eraclito biasima
anche Esiodo , l'autore della "Teogonia" , che tra le varie coppie di contrari aveva
individuato il giorno e la notte , ma che non le aveva individuate come identità di
opposti . In un frammento dice "la via in su ed in giù è unica ed identica" : un qualsiasi
percorso in pendenza è sia salita sia discesa e ciò significa che le stesse cose possono
contemporaneamente essere opposte ed identiche ed in particolare traspare
l'identificazione degli opposti : la salita e la discesa sono tra loro opposti , ma si
identificano , sono la stessa cosa . Interessante è il frammento in cui dice : " il fulmine
governa tutte le cose " ; il fulmine è strettamente connesso al fuoco , che governa tutto
ed è l'attributo principale di Zeus , il padre degli dei . Gli stoici pensavano che vi
sarebbe stato un grande anno in cui vi sarebbe stato un incendio che avrebbe portato alla
conflagrazione del mondo e che dopo ciò ne sarebbe nato uno nuovo . Essi amavano
Eraclito perchè pensavano di leggere nei suoi frammenti idee simili , quali la
conflagrazione . In effetti c'è un frammento eracliteo in cui dice che il fuoco può
cambiarsi in tutte le cose e che tutte le cose si possono cambiare in fuoco , ma lui
intende semplicemente dire che una parte di cose viene di continuo cambiata in fuoco , e
una parte di fuoco viene di continuo cambiata in cose : c'è un equilibrio : Eraclito non
intendeva assolutamente parlare di conflagrazioni o robe del genere : si tratta di
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interpretazioni errate da parte degli stoici . Uno dei frammenti senz'altro più famosi di
Eraclito è quello che dice : " Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo , siamo e
non siamo " : si può interpretare che il fiume è sempre lo stesso e noi stessi manteniamo
la nostra identità , ma al tempo stesso sempre diverse sono le acque nel loro scorrere ,
come sempre diversi siamo noi in ogni istante del tempo : in noi stessi quindi si
manifesta incessantemente l'unità degli opposti , il nostro essere e non essere . Da
questo frammento prenderà il via la filosofia di Cratilo , un seguace di Eraclito che pare
essere stato maestro di Platone stesso : egli estremizzerà le posizioni di Eraclito e
diventerà il filosofo del "panta rei" (tutto scorre) :a suo avviso è impossibile dare i nomi
alle cose perchè cambiano di continuo:noi chiamiamo Pò un fiume ma non è
corretto:non esiste qualcosa che si chiami Pò perchè cambia in continuo (è un esempio
evidente perchè le acque si rinnovano in continuazione);si fissa artificialmente una cosa
che non è fissabile perchè in continua mutazione.Cratilo con il "panta rei" arriva a
dimostrazioni sofistiche:è impossibile conoscere qualcosa che cambia sempre.Quindi in
teoria ,dal momento che non si possono attribuire nomi,bisognerebbe solo indicare le
cose senza chiamarle per nome . Ritornando ad Eraclito e all'identità degli opposti , egli
dice che " il mare è l'acqua più pura e impura , per i pesci potabile e salutare , per gli
uomini imbevibile e letale " : in questo frammento si può anche scorgere il famoso
relativismo assoluto di Protagora : il vino ad esempio c'è chi lo sente dolce e chi lo sente
amaro , ma non si può effettivamente dire se esso sia amaro o dolce : dipende da come
ciascuno lo sente
PITAGORICI
Con i Pitagorici ci troviamo per la prima volta di fronte ad un'autentica scuola filosofica
, sebbene molto arcaica e rudimentale . Siamo in pieno VI secolo a.C. e la scuola
filosofica assume il carattere di scuola mistica : i contenuti si rispecchiano infatti
parzialmente nella setta degli Orfici , mentre le pratiche sono assolutamente uguali :
basti pensare che per entrare a far parte della scuola bisognava essere sottoposti ad un
rito di iniziazione . Tutti i pensatori che lavorarono in questa scuola vengono
generalmente chiamati Pitagorici , dal nome del loro maestro Pitagora , simbolo del
passaggio di secolo : finisce il sesto ed inizia il quinto . Oltre a segnare il passaggio di
secolo , Pitagora e la sua scuola segnano anche il passaggio della filosofia dalla Grecia e
dalle zone della Ionia alla Magna Grecia (che possiamo per lo più identificare con il Sud
dell' Italia) . Cerchiamo di analizzare le vicende di Pitagora : egli nacque a Samo e vi
restò finchè non salì al potere un tiranno , Policrate , sfavorevole all'aristocrazia , nella
quale Pitagora si identificava . Quello di Policrate non è un caso isolato : tutto il quinto
secolo in Grecia (e non solo) è infatti una fase di passaggio da aristocrazia a democrazia
(i tiranni infatti erano appoggiati dal popolo) ; il concetto di tiranno va depurato
parzialmente dalle connotazioni negative che gli attribuiamo oggi : i tiranni per lo più
erano personaggi di gran carisma che fecero perfino progredire le città . Così Pitagora si
vide costretto a fuggire esule a Crotone , nell'attuale Calabria . Ed è qui che fondò la
scuola , che incontrò ben presto successo presso i ceti aristocratici ed i Pitagorici
acquisirono un peso determinante nella vita politica di Crotone e delle località a lei
vicine : nella scuola l'insegnamento , originariamente , non era affidato allo scritto , ma
era impartito oralmente . Entrare nella scuola era molto difficile e quando si entrava non
vi era la libertà di agire a piacimento : per un pò di tempo si era Pitagorici " in prova " ,
acusmatici ossia ascoltatori di precetti che venivano impartiti senza che venisse
mostrato il perchè : gli acusmatici di loro non dicevano nulla , ma si limitavano ad
imparare i precetti dei Pitagorici già maturi . Interessante è il modo di definizione
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pitagorico : se ad esempio veniva loro chiesto che cosa fosse bello , rispondevano
dicendo la cosa più bella . Era come se leggessero la domanda " che cosa è bello ? " in
questo modo : " Quale è la cosa più bella ?" .E' interessante notare che Aristotele
quando ci parla degli autori lo fa singolarmente , ma nel caso dei Pitagorici descrive
collettivamente : la scuola stessa era caratterizzata da una vita collettiva ( con tanto di
comunione dei beni ) , religiosa e politica , in cui i legami interni erano fortissimi . A
Pitagora fu attribuita la valenza di profeta e la sua figura sfumò presto nella leggenda .
Le dottrine della scuola erano segrete e anche dopo la morte di Pitagora continuarono ad
essere a lui attribuite le variazioni e le evoluzioni , immaginando che parlasse tramite la
divinità : da qui nacque la famosa espressione " ipse dixit " (l'ha detto lui in persona) ,
con la quale si indicava che ogni elaborazione non era altro che uno sviluppo delle
dottrine del maestro Pitagora . Proprio per questo non sappiamo se il celebre teorema di
Pitagora sia effettivamente suo o di qualcun altro . La scuola ebbe anche grande influsso
sulle altre colonie greche . La scuola però ebbe fine quando nel 510 circa vi fu una
rivolta democratica a Crotone che portò alla distruzione della scuola , che era di
schieramento aristocratico . La tradizione narra che l' opposizione democratica
crotoniate , guidata da un certo Cilone , assalì i Pitagorici nella loro sede e ne fece
morire un gran numero nelle fiamme . Sembra poi che il Pitagorismo abbia perfino
influenzato le civiltà "barbare" e che il re Numa Pompilio sia stato un pitagorico , ma
molto probabilmente si tratta semplicemente di leggende . Si dice spesso che i Pitagorici
fossero anti-femministi , aspetto che per altro era caratteristico dell'intera società greca ,
ma probabilmente non è corretto : basti pensare che nella scuola le donne erano
accettate . Entriamo ora nell'ambito delle dottrine pitagoriche : due risultano essere le
più importanti . 1)Quella della TRASMIGRAZIONE DELLE ANIME , di forte
derivazione orfica : l'Orfismo trovò fertile terreno di sviluppo nell'Italia Meridionale e
senz'altro sostenne la dottrina della trasmigrazione delle anima prima dei Pitagorici .
Sembra quindi che Pitagorismo e Orfismo siano la stessa cosa , ma non è così . L'
Orfismo è di carattere maggiormente religioso , il Pitagorismo è più filosofico . Ma vi è
poi un'altra grande differenza , che consiste nei mezzi con cui si può raggiungere il fine
(la purificazione) : per gli Orfici occorreva compiere riti e vivere in modo giusto , per i
Pitagorici bisognava sì vivere in modo giusto e compiere riti , ma anche (e soprattutto)
conoscere i numeri , che stanno alla base della dottrina pitagorica 2) Quella dei
NUMERI , che è legata , come abbiamo visto , alla precedente . I Pitagorici furono i
primi ad occuparsi in maniera sistematica della matematica . Ritenevano che i principi
della matematica fossero anche i principi dell'intera realtà . Notarono che la matematica
aveva tutti i principi adatti per essere presa come principio dell'intera realtà . Essa non è
un'opinione (ancora oggi si dice che la matematica non è un'opinione) e Aristotele
stesso dirà che gli oggetti di studio della matematica sono permanenti ed immutabili . Se
ad esempio prendiamo la musica , gli accordi non sono nient'altro che rapporti
matematici . Proprio partendo da questo esempio , che è il più evidente , estesero le loro
dottrine all'intera realtà , così come aveva fatto Talete con il magnete . Così come Talete
aveva notato che tutte (o quasi) le cose sono caratterizzate dall'acqua , i Pitagorici
notarono che tutte le cose sono caratterizzate dalla misurabilità , vale a dire che si
possono misurare . Chiaramente questo segnò un grandissimo passo avanti verso
l'astrazione . Bisogna senz'altro riconoscere un merito ai Pitagorici : per loro infatti la
fisica è spiegabile tramite la matematica . Il loro rapporto con la matematica non è
puramente metodologico , come è per noi , ma anche ontologico : non si tratta per loro
di studiare solo i numeri , ma anche la realtà , sevendosi dei numeri . Nonostante i
Pitagorici abbiano avuto la grande intuizione di applicare la matematica per indagare la
realtà , non se ne sono serviti poi molto . Il motivo di questo loro limite è dovuto in gran
parte alla mancanza di strumenti concettuali e materiali . Non potendo fare della
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matematica un uso effettivo , finirono per provare a cogliere delle somiglianze tra le
caratteristiche dei numeri e quelle della realtà . Per esempio arrivarono a dire che il
numero due corrispondeva al genere femminile , il tre al maschile , il cinque al
matrimonio (3+2 = 5) . Il quattro ed il nove corrispondevano invece alla giustizia in
quanto erano i primi numeri quadrati e suggeriscono l'idea di ordine . Nel tempo stesso
va detto che la speculazione numerica pitagorica non può non essere stata influenzata
dall' osservazione dei fenomeni astronomici : dagli astri essi debbono aver tratto le loro
prime idee dei numeri aventi posizione , cioè fissati come punti nello spazio , degli
aggruppamenti numerici formanti figure geometriche definite e costanti , della
ricorrenza di alcuni numeri nei fenomeni celesti . In altre parole il numero viene elevato
a principio universale di interpretazione , via via che é esteso dall' ordine aritmetico a
quello geometrico e , finalmente , all' ordine fisico . Così , espressione spaziale dell' uno
é il punto ; della linea , limitata da due punti , il due ; della superficie il tre ; del solido il
quattro . E' Aristotele che attribuisce ai Pitagorici la dottrina secondo la quale i numeri
costituiscono l'essenza di tutte le cose . Per comprendere meglio il significato di essa è
necessario tenere conto del modo in cui erano abitualmente compiute le operazioni di
calcolo . I Greci si servivano dei psephoi , ossia di pietruzze mediante le quali i vari
numeri erano rappresentati visivamente . Con questi numeri figurati è possibile costruire
serie , per esempio quella dei numeri quadrati . Infatti partendo dal primo numero
quadrato , 4 (2x2) , essenza della giustizia , raffigurato con quattro punti
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applicando lo gnomone , ossia una specie di squadra , si può ottenere il numero
quadrato successivo 9 (3x3) , anch'esso essenza della giustizia , in questo modo
, ossia 16 , il quadrato di quattro e così via con i numeri successivi . Da notare che i
Pitagorici non conoscevano lo zero ed è anche facile capire il perchè : con le pietruzze è
impossibile rappresentarlo . Questo fatto contribuisce a conferire all'uno uno statuto
particolare : è un'entità indivisibile , rispetto alla quale nulla è antecedente . Più che un
numero come gli altri , l'uno è la sorgente da cui nascono tutti gli altri numeri .Questi a
loro volta si suddividono in pari e dispari , che i Pitagorici identificavano con l'illimitato
ed il limite . L'uno veniva chiamato parimpari , in quanto aggiunto ad un dispari genera
un pari ed aggiunto ad un pari genera un dispari : ciò significa che l'uno deve contenere
in sè sia il pari sia il dispari . Il dispari , a sua volta , diviso in due lascia sempre come
resto un'unità che permane come limite , mentre ciò non avviene nel caso del pari , che è
pertanto identificato con l'illimitato , l'infinito , che con i Pitagorici diventa un concetto
fortemente negativo e così sarà per tantissimo tempo . Mediante il calcolo con i
sassolini i Pitagorici dimostrano visivamente alcune proprietà relative a queste classi di
numeri : per esempio che pari + pari dia pari , che dispari + dispari dia pari e così via .
Di grande simpatia godeva anche il 10 , che rappresentava tutti gli altri insieme . Inoltre
esso era una sorta di compendio dell'intero universo ed è rappresentabile sotto la forma
chiamata tetraktys (letteralmente significa " gruppo di quattro") .
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Infatti all'uno corrisponde il punto , i due punti individuano una linea , tre punti la
superficie , quattro punti il solido . La tetraktys rappresenta quindi la successione delle
tre dimensioni che caratterizzano l'universo fisico , alla quale corrisponde appunto la
somma di 1+2+3+4 , ossia appunto 10 . Queste considerazioni mostrano come per i
Pitagorici ciascun numero è dotato di una propria individualità e pertanto non tutti i
numeri si equivalgono come importanza (sembra che l'aristocrazia dei Pitagorici
coinvolga addirittura i numeri) . I numeri costituiscono una gerarchia di valore e alcuni
numeri assurgono a simboli di altre entità , fisiche o concettuali : è il caso della giustizia
, rappresentata dal 4 e dal 9 . E visivamente il quadrato è rappresentato come la figura
avente i lati uguali . Questa trama di corrispondenze simboliche tra numeri e cose è
chiamata dai moderni " mistica del numero " . E' la conoscenza di questo complesso
universo di relazioni tra numeri e cose che costituiva per i Pitagorici il vertice
dell'apprendimento . Tra i numeri esistono " logoi " , ossia rapporti e tra i rapporti è
possibile rintracciare una proporzione (in greco " analoghia ") , ossia uguaglianze di
rapporti . Soprattutto Archita sembra essersi dedicato allo studio di esse . I rapporti e le
proporzioni si manifestano soprattutto nell'ambito musicale , dove è centrale la nozione
di armonia . Poichè anche i corpi celesti compiono con i loro movimenti percorsi
regolari , esprimibili numericamente , i Pitagorici giungono a sostenere l'esistenza di
un'armonia delle sfere celesti , non afferrabile dall' occhio umano . Il cosmo (la parola
greca " cosmos " significa ordine ) dei Pitagorici è costituito infatti da un fuoco centrale
, paragonato al focolare di una casa , intorno al quale ruotano la terra , la luna , il sole , i
cinque pianeti allora conosciuti , ed il cosiddetto cielo delle stelle fisse . Forse per
contemplare la serie fino a raggiungere il 10 i Pitagorici aggiungono anche l'antiterra ,
situata tra il fuoco centrale e la terra . L'aspetto più interessante della cosmologia
pitagorica è che la terra non viene vista come centro dell'universo . Ma numero e
proporzione dominano non solo su questa scala cosmica , ma anche all'interno del
mondo umano . Essi sono all'occhio dei Pitagorici lo strumento fondamentale per far
cessare la discordia tra gli uomini e instaurare l'armonia tra essi , nei loro rapporti
economici e politici , attribuendo a ciascuno secondo la proporzione geometrica ciò che
gli è dovuto in rapporto al suo valore e non a tutti lo stesso . Risalta anche qui
l'orientamento aristocratico dei Pitagorici , contro i quali tuonerà Eraclito : per lui infatti
il rapporto tra gli opposti non deve essere di armonia , ma di lotta , di tensione . Per i
Pitagorici invece per avere armonia ci deve essere annullamento tra gli opposti . Tra i
Pitagorici va senz'altro ricordato Filolao , che compose uno scritto in dialetto dorico
(che secondo la tradizione sarebbe stato comprato da Platone stesso) . Della sua opera ci
sono rimasti alcuni frammenti dove è annunciata in maniera assertoria la tesi che il
cosmo è composto di elementi illimitati e limitanti . Ritornando alle dottrine pitagoriche
, come i movimenti celesti sono eterni , perchè in essi , per la loro circolarità , il
principio e la fine si ricongiungono , così anche l' anima , a differenza del corpo , ha una
serie di ritorni periodici . Del ritorno periodico di tutte le cose , diceva il pitagorico
Eudemo che , data l' identità del moto e la costanza delle successioni , tutti gli eventi si
riprodurranno in un tempo prefisso : " così anch' io tornerò a parlare , tenendo questo
bastoncino in mano , a voi seduti come ora ; e tutto il resto si comporterà ugualmente " .
Parmenide fondò ad Elea , nell'attuale Campania , una vera e propria scuola filosofica e
diede inizio alla corrente di pensiero eleatica che vede in Zenone e Melisso due
discepoli e sostenitori . Parmenide fu attivo ad Elea verso il 500 a.c. , nacque da
famiglia aristocratica e avrebbe contribuito alla legislazione della città . Permangono
dubbi a proposito del suo possibile soggiorno ad Atene insieme al discepolo Zenone ,
dove avrebbe incontrato Socrate . Il tema della ricerca è molto sentito da Parmenide ,
19
ma è la divinità stessa ad indicare la via che occorre percorrere . Spesso la corrente di
pensiero fondata da Parmenide viene denominata "monismo eleatico" per il fatto che
essi , se vogliamo riallacciandosi ai Milesi e distaccandosi dai Pitagorici , sostenevano
che tutto fosse riconducibile ad un unico principio . In realtà la tradizione antica vuole
che il fondatore della scuola di Elea fosse Senofane , partendo da due presupposti ; in
primo luogo Senofane aveva girato mezzo mondo ed era pure passato ad Elea . In
secondo luogo , il tema centrale degli eleatici era l'unitarietà dell'essere , tema già
presente in Senofane . Però al giorno d'oggi sappiamo che questo è davvero improbabile
: è vero che Senofane predicava l'unitarietà , l'immutabilità , l'eternità e tutte le altre
cose che predicavano gli eleatici , ma egli le riferiva interamente alla divinità , mentre
gli eleatici le riferivano all'essere . Senofane era un teologo , Parmenide un ontologo : il
concetto dell'essere è molto più astratto di quello della divinità . Gli eleatici sostengono
l'immobilità della causa e così essa viene a mancare in quanto la sua funzione è quella
di spiegare a che cosa è dovuto il cambiamento , che per loro non esiste : l'essere è
immutabile . La parola essere (in greco "tò on" , ciò che è ) è proprio a partire da
Parmenide che entra nell'uso filosofico . Egli fece un ragionamento che comportò un
enorme passo avanti verso l'astrazione : notò infatti che tutti gli enti sono tra loro diversi
, ma che hanno in comune il fatto di essere , di esistere . Abbiamo detto che egli fu un
ontologo : ma cosa significa ? L'ontologo è colui che studia " l'essere in quanto essere "
(come dice Aristotele) , vale a dire le caratteristiche di tutto quel che esiste . Aristotele
ci parla di Parmenide e dice che studiava l'essere secondo definizione : si tratta quindi di
indagare secondo definizione : la differenza tra Parmenide e gli altri pensatori sta
proprio nel fatto che egli non iniziava la sua indagine partendo da constatazioni
empiriche per arrivare alle conclusioni ; lui partiva dalla definizione di cosa è l'essere e
tramite una serie di deduzioni arrivava alle conseguenze , spesso in netta
contrapposizione con le testimonianze dei sensi . Parmenide non accenna mai alla realtà
empirica . Arriva ad esplicitare due tautologie : a) l'essere è b) l'essere non è .
Parmenide scrisse un poema in esametri (proprio come Senofane ed Empedocle),
intitolato "Sulla natura" (
) , di cui ci rimangono frammenti . Mentre
Senofane si serviva dell'esametro per avere maggior successo sugli ascoltatori e perchè
la sua opera si divulgasse il più possibile , Parmenide scriveva in esametri perchè
descriveva argomenti divini e quindi il verso epico era il miglior verso per parlare di tali
argomenti . L'opera era strutturata in un proemio e due parti successive : proprio alla
fine del proemio la divinità spiega che ci sono 3 vie da seguire : 1) L'essere è 2) L'essere
non è 3) Si mescolano insieme l'essere ed il non essere . La seconda via verrà dichiarata
impraticabile e puramente teoretica : è infatti impossibile dire o pensare ciò che non è .
La terza via è quella che imboccano i comuni mortali , che mescolano l'essere con il non
essere : per esempio i mortali parlano di nascere e morire , il che implica una
mescolanza di essere e di non essere : nascere vuol dire essere , ma anche non essere
prima di essere e morire vuol dire non essere , ma anche essere prima di non essere .Il
criterio per giudicare scorretto il linguaggio degli uomini non è la sua corrispondenza a
quanto ci è testimoniato dai sensi : a questi infatti appaiono oggetti che nascono e che
muoiono . Ma il verdetto di Parmenide sul linguaggio e sulle opinioni degli uomini ,
collegate a quel tipo di linguaggio , non assume a criterio di giudizio le apparenze
fornite dai sensi , bensì il contenuto logico delle parole usate dagli uomini . Essi infatti
usano parole nelle quali si trova mescolato in modo contraddittorio ciò che è disgiunto
radicalmente , ossia essere e non essere . Con i termini " è " ed " essere " Parmenide
intende probabilmente una molteplicità di cose . Infatti dire che qualcosa è , può
significare che esso è presente o che esso esiste o che è qualcosa o che è vero . Tutti
questi significati sono presenti nell'essere di Parmenide . Solo ciò che è può essere
propriamente pensato e detto : questo comporta un necessario legame tra ESSERE ,
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PENSIERO e LINGUAGGIO . Partendo dalla disgiunzione assoluta tra " é " e "non è ",
Parmenide procede quindi ad individuare quali sono le proprietà di ciò di cui si può
propriamente pensare o dire che è . Egli introduce in tal modo una procedura che resterà
essenziale per il ragionamento non solo filosofico , ma anche matematico . Si tratta della
DEDUZIONE , vale a dire il ragionamento che partendo da proposizioni ammesse come
premesse ricava delle conclusioni : si parte da definizioni e verità generali per passare in
modo logico a nuove verità più particolareggiate . In particolare Parmenide mette in
opera una particolare forma di deduzione consistente nella cosiddetta
DIMOSTRAZIONE PER ASSURDO , della quale Zenone farà la base per la sua
filosofia . Essa assume come premesse il contrario di ciò che si vuole dimostrare e ne
deduce una serie di conseguenze contraddittorie o errate . E poichè queste conseguenze
sono errate , ne risulta che sono errate le premesse a partire dalle quali sono ricavate . Il
risultato è che saranno vere le premesse contrarie a quelle errate . E' proprio con la
dimostrazione per assurdo che Parmenide dimostra l'immutabilità , l'immobilità ,
l'indivisibilità e l'unicità dell'essere . Ammettiamo che l'essere muti : ne consegue che
esso è ciò che non era prima o non è ciò che era prima . Ma in tal modo si attribuisce a
una stessa cosa l'essere e il non essere , il che va contro quel carattere di disgiunzione
assoluta tra " é " e " non è " , assunto come necessario all'inizio . Per evitare tale
contraddizione , diventa allora necessario concludere esattamente l'opposto , ossia che
l'essere non muta . Lo stesso vale per dimostrare l'unicità : se l'essere fosse molteplice
occorrerebbe riconoscere che ciascuno di questi molteplici è se stesso e non è altri e
pertanto nuovamente sarebbe e non sarebbe . L'essere è immobile : ammettiamo che si
muova ; una cosa è mobile quando si muove da una cosa ad un'altra : l'essere quindi si
dovrebbe muovere verso qualcosa di diverso da se stesso . Ma il diverso dall'essere è il
non essere , che non esiste : quindi l'essere è immobile . Tra le proprietà dell'essere
Parmenide introduce anche il carattere finito di esso : infatti se fosse infinito sarebbe
incompiuto e quindi mancherebbe di qualcosa ; ma se manca di qualcosa vuol dire che
non è ciò di cui manca . Anche la nozione di infinito quindi comporta una mescolanza
contradditoria di essere e non essere . Per questo Parmenide paragona "ciò che è"
(
) ad una sfera compatta , la quale esprime nel miglior modo possibile il carattere
di compiutezza e totalità che caratterizza l'essere . La prima parte dell'opera si chiamava
"ALETHEIA" (
"verità" , dal verbo "
" : la verità è ciò che non si
nasconde) e rappresenta la prima via e la verità di primo livello . L' altra parte dell'opera
si chiamava "DOXA" (
"opinione") e rappresentava la seconda via e la verità di
secondo livello . Nell' Aletheia Parmenide fa considerazioni sull'essere mentre nella
Doxa presenta una sorta di mezza verità , dove cerca di rendere compatibile la
testimonianza dei sensi con la verità vera e propria : è come se cercasse
un'interpretazione del mondo fisico compatibile con i sensi , con il modo in cui lo
vediamo , e non in contrasto con l'Aletheia . Del proemio del "
"
possediamo molto , della Doxa invece abbiamo solo pochi frammenti e questo
testimonia che era ritenuta contraddittoria perchè dà l'impressione che Parmenide voglia
distaccarsi da quanto aveva affermato più volte in precedenza : ciò che capiamo con la
ragione va seguito anche se è in contrasto con ciò che ci dicono i sensi . Va riscontrato
che Aristotele mentre ci parla di Parmenide nella "Metafisica" prende un'enorme
cantonata : dice infatti che secondo Parmenide il caldo si identifica con l'essere ed il
freddo con il non essere . Ma passiamo ora ad esaminare il proemio dell'opera di
Parmenide : egli racconta di aver compiuto un viaggio verso la verità , voluto dal Cielo .
La metafora del viaggio resterà rimarrà una costante nella riflessione antica : dal
termine "hodòs" (
via , strada) si verrà formando già in Platone il termine "
methodos " (
, ciò che sta oltre al viaggio : il percorso che conduce alla
verità ) , ma il concetto di hodòs risulta centrale anche per tutta la prima parte del poema
21
. L'iniziativa del viaggio tuttavia e soprattutto la direzione che esso assume non dipende
da Parmenide , sebbene egli ne sia protagonista , bensì dalle dee che lo guidano , così
come varcata la porta che separa i due domini delle tenebre e della luce , sarà la dea a
comunicargli quale via di ricerca egli dovrà , in futuro , percorrere . Il racconto di
Parmenide riguarda dunque non una rivelazione già tutta compiuta ; questa infatti
fornisce solo i caratteri generali della via lungo la quale occorrerà proseguire la ricerca e
soprattutto formula i divieti relativi alle vie che non bisogna percorrere , cioè quelle
comunemente battute dagli uomini in preda alle opinioni . Parmenide non dice mai chi
siano esattamente le dee che lo guidano , ma sono collegate con il culto del Sole e
quindi con Apollo . Il percorso che deve affrontare Parmenide conduce dalle tenebre
(l'ignoranza) alla luce (la conoscenza) ; ad un certo punto , mentre il carro su cui è
Parmenide sta procedendo velocemente , le dee si tolgono i veli : questo gesto simbolico
rappresenta la rivelazione . La metafora tra l'altro spiega che ciò che viene disvelato e
ciò che disvela sono lo stesso : si tratta sempre delle dee ; è come se l'essere stesso
rivelasse la via da percorrere . Parmenide e le dee giungono alla porta che separa il
giorno dalla notte : descrivendo questo portale Parmenide non fa nient'altro che
descrivere l'assetto urbanistico della sua città , Elea , dove esisteva sul serio una porta :
essa divideva la parte alta e aristocratica della città (l'acropoli) da quella bassa e
popolare . Per aprire la porta è necessario l'intervento della Giustizia (
: le dee
stesse la convincono con discorsi suasori ad aprirla . L'oggetto della rivelazione è quindi
l'essere , ma attenzione : non è che sia la divinità a darcelo : l'essere , la divinità , il
principio ... sono la stessa cosa : è un'autorivelazione dell'essere e va intesa come
spiegazione di quali siano le vie da seguire ; la ricerca è l'uomo stesso a farla . Ma non è
un percorso che possono fare tutti gli uomini : quello di Parmenide è un percorso solo
suo , che nessun altro uomo può fare . La verità stessa impone determinate vie da
seguire . Le dee dicono a Parmenide di imparare a conoscere due cose : A) il cuore non
scosso ed immobile della Verità , la quale è ben rotonda (come una sfera compatta) B)
le opinioni instabili e campate per aria dei mortali : la conoscenza infatti si perfeziona
quando oltre a conoscere le cose perfette si conoscono le imperfezioni . Le dee dicono
che non si deve fondare il sapere sull'esperienza perchè essa è dettata dai sensi nè sulla
lingua , che attribuisce i nomi alle cose , ma si deve ponderare con la ragione . La
rivelazione divina non implica che l'uomo non debba cercare di conoscere con il
raziocinio . Vengono a Parmenide presentate le vie PENSABILI : il termine greco per
pensabili è "
" che può voler dire sia " pensabili " sia " per pensare " : entrambe
le traduzioni sono quindi accettabili . Una via dice che l'essere è e non può non essere ,
l'altra che l'essere non è e che può non essere . La prima via è quindi effettivamente
percorribile ed è caratterizzata dalla verità e dalla persuasione : la Verità è infatti in
grado di persuadere . L'altra strada è contraddittoria ed impercorribile . Il testo in
questione presenta diverse difficoltà di interpretazione , la più valida delle quali è che
solo l'essere è pensabile e dicibile , mentre il non essere è impensabile ed indicibile : la
prima via risulta quindi percorribile in quanto pensabile , l'altra no : è qui che emerge
maggiormente l'identità parmenidea tra essere e pensare . Ma tutto questo si presta a più
interpretazioni : per esempio potrebbe voler dire che se l'unica cosa che è è l'essere ,
allora il pensiero , dato che è , fa parte dell'essere come tutti gli altri enti . Ma potrebbe
anche voler dire che tutto ciò che diciamo e pensiamo è : anche se pensiamo ad un
qualcosa che materialmente non esiste ed è solo frutto della nostra immaginazione in
qualche misura esiste : anche un drago per il fatto che viene pensato in qualche misura
esiste . Man mano che prosegue il viaggio , salta fuori che in realtà le vie non sono 2 ,
ma 3 : la terza è quella che seguono quasi tutti i mortali , dove si mescolano l'essere ed
il non essere : Parmenide li chiama " uomini dalla doppia testa " perchè affermano
simultaneamente che l'essere è e non è : si tratta di gente stolta ed indecisa , dice
22
Parmenide . Egli muove poi un'aspra critica ad Eraclito ed alla sua concezione del
divenire , piena di mescolanza di essere e non essere (ricordiamoci che Parmenide
negava che l'essere potesse muoversi e mutare), e a quella di molteplicità . Parmenide
dice che questa terza via va assolutamente purificata e resa scevra di errori , affinchè
risulti almeno parzialmente compatibile con la Verità della prima via . La seconda
invece va assolutamente scartata . Parmenide dà poi una raffinata ed elegante
definizione di eternità : l'essere non era nè sarà , perchè è ora tutt'insieme : una cosa è
davvero eterna quando è fuori dal tempo . Ma Parmenide non si limita ad affermare , ma
dimostra anche : l'essere infatti non può nè nascere nè morire (come dicono i comuni
mortali) . Ipotizziamo che l'essere nasca : da sè non può nascere e quindi deve nascere
da qualcosa che non sia lui stesso : deve essere quindi un qualcosa che non sia essere :
ma ciò che non è essere è non essere : ma il non essere non è , di conseguenza l'essere
non nasce nè muore . Parmenide dice poi per dissipare definitivamente ogni dubbio sul
fatto che l'essere nè nasca nè muoia : che motivo avrebbe mai avuto per nascere ad un
certo momento ? Tuttavia anche un astratto come Parmenide ha avuto bisogno di
ricorrere all'incarnazione dell'astratto (l'essere) in qualcosa di concreto (la sfera tonda e
compatta) : però va detto che quello della sfera potrebbe essere un semplice paragone e
non un'effettiva incarnazione . Dunque Parmenide prova a correggere gli errori dei
mortali : il loro primo errore consiste nell'individuazione di due principi della realtà tra
loro antitetici : la luce e le tenebre . Il loro è una sorta di pitagorismo esposto in termini
fisici . La luce è un principio più attivo , corrispondente al fuoco , le tenebre sono più
passive e corrispondono alla terra . Ma accanto a questo errore Parmenide ne individua
un altro più grossolano : hanno contrapposto tra loro questi due principi . Ammettiamo
di poter interpretare la realtà in termini di luce e tenebre , evitando però di contrapporle
e considerarle l'una l'essere e l'altra il non essere . In fondo quello degli esseri mortali
comuni non è un errore poi così grave : è vero che hanno mescolato l'essere con il non
essere , però se andiamo a vedere nè con la luce nè con le tenebre c'è il nulla , il non
essere . I mortali sono stati " bravi " a non incappare nella seconda via . Sempre a
proposito dell'opera di Parmenide possiamo concludere dicendo che mentre nell'
Aletheia troviamo un Parmenide brillante e convinto di ciò che sta dicendo , nella Doxa
egli appare più restio e meno convinto . E' come se Parmenide , dopo aver sostenuto che
bisogna fidarsi solo di ciò che ci dice la ragione , avesse avuto paura di quanto detto
perchè portava troppo fuori dalle testimonianze dei sensi e volesse come se scusarsi
nella Doxa . Va poi detto che nessuno leggendo il testo di Parmenide si fa convincere a
riguardo di quanto egli dice : seguendo il ragionamento logico ci si accorge che
Parmenide ha ragione , ma le conclusioni paradossali impediscono al lettore di credere a
quanto egli dice . Platone dirà di aver commesso il "parricidio di Parmenide" : si
accorgerà infatti che Parmenide aveva commesso un errore a riguardo dei significati
dell'essere : Aristotele individua tre modi di intendere l'essere : 1) univoco (l'essere ha
un solo significato) 2) biunivoco (l'essere ha equivocità , può essere inteso in più modi)
3)analogico (il verbo essere ha diversi significati ma tutti connessi tra loro) . Aristotele
lo intendeva in modo analogico , Parmenide in modo univoco : per lui essere significa
solo esistere . Dunque Platone farà notare che dire ad esempio " questo libro non è " non
vuol dire predicare il non essere : infatti si può dire " questo libro non è una penna " : è
l'essere diversamente , dove l'essere assume il valore di copula .
ANASSAGORA
Anassagora si colloca nel contesto dei pluralisti , coloro cioè che pur conservando
alcuni presupposti degli Eleatici (quale l'immutabilità dell’essere ) , si allontanano dalla
concezione tipicamente eleatica dell'immobilità dell'essere: immutabile non è l’essere
23
nel suo insieme, ma i princìpi ultimi che lo costituiscono, i quali sono – secondo
Anassagora, e pure secondo Democrito - un’infinita pluralità (da qui il nome
"pluralisti"). La filosofia pluralista parte proprio dalla confutazione , o meglio , dal
ribaltamento delle tesi di un Eleatico , Melisso : egli aveva detto che se l'essere fosse
molteplice , il molteplice dovrebbe avere alcune caratteristiche dell'essere , quali
l'eternità , l'immobilità , ed altre : ma dato che non le ha , l'essere non è molteplice . I
pluralisti ribaltano completamente le tesi di Melisso e dicono : dato che il molteplice c'è
(e lo vediamo tutti) , bisogna ammettere per forza che questi esseri molteplici abbiano
caratteristiche dell'essere . Per i pluralisti vi è dunque una molteplicità di elementi in
movimento , ciascuno dei quali è immutabile : si rendono infatti conto che è
contraddittorio parlare di nascita e di morte (da dove si nasce? Dove si finisce una volta
morti? Nel non essere! Il che è assurdo) e perciò chiamano morte e nascita i processi di
aggregazione e disgregazione . Sono proprio i concetti di aggregazione e disgregazione
che implicano la pluralità ed il movimento degli elementi : per aggregarsi e disgregarsi,
infatti, devono essere diversi ed in movimento . Anassagora nacque a Clazomene , nella
Ionia , e sappiamo che nel 462 a.c. abbandonò la sua città per stabilirsi in Atene . Qui
visse per circa 30 anni , stringendo amicizia con il famoso Pericle . Ma nel 438 un
indovino di nome Diopite fa approvare un decreto in base al quale sono perseguibili
dalla legge tutti coloro che insegnano e divulgano cose empie a riguardo dei fenomeni
celesti : Anassagora viene processato per aver sostenuto che il sole è una pietra
incandescente e la luna un corpo terroso . Possiamo cogliere in questo processo non
tanto un processo contro ciò che effettivamente affermava Anassagora , quanto piuttosto
una condanna a carattere politico - sociale rivolta a tutti i conoscenti di Pericle . Tuttavia
le dottrine fisiche di Anassagora erano un esplicito attacco a credenze e pratiche
religiose . Se infatti si accettavano le sue tesi , i fenomeni celesti non potevano più
essere considerati segni inviati dalle divinità agli uomini . Va poi detto che il libro in cui
Anassagora esponeva le sue dottrine fisiche ("Perì fuseos",
) si era sparso
a macchia d'olio per via del suo basso costo nella città di Atene , che si stava
progressivamente alfabetizzando . Così Anassagora fu sottoposto ad un processo e
dovette abbandonare Atene per rifugiarsi a Lampsaco , nella Ionia , dove morì nel 428
a.c. Anassagora , come molti altri filosofi , affronta il problema di come si sia costituito
il mondo nel quale viviamo . Egli ravvisa la matrice originaria del mondo in una totalità
indistinta di tutti i materiali da cui risultano costituite le cose . Questi materiali sono da
lui chiamati SEMI ed egli afferma , seguendo la scia degli Eleati , che non nascono nè
periscono , ma permangono costanti: al di là del mutamento degli enti fenomenici,
questi semi restano come sono, eterni. Egli riprende il concetto di mescolanza introdotto
da Parmenide e sfruttato contemporaneamente da Empedocle : dice che ogni cosa è una
mescolanza di questi semi , che però non sono visibili ad occhio nudo : prendiamo ad
esempio un libro blu : noi lo vediamo blu perchè i semi di colore blu sono in netta
prevalenza su quelli degli altri colori , che tuttavia sono tutti presenti . Probabilmente
Anassagora era arrivato a trarre queste conclusioni a riguardo dei semi partendo
dall'osservazione del processo di crescita degli esseri viventi mediante la nutrizione .
Egli si deve essere posto questa domanda : "Come è possibile che il pane che noi
mangiamo diventi sangue , muscoli , ossa...? " . La risposta che egli dà a questa
domanda è che "tutto sta in tutto" : nel pane ci sono semi di tutte le cose , di sangue , di
ossa , di carne , di muscoli... Quindi quando mangiamo il pane i semi di muscoli vanno
ad alimentare i muscoli , quelli di ossa vanno ad alimentare le ossa , e così via . Ma
come mai noi vediamo solo il pane e non tutti gli altri semi ? Così come nel caso del
quaderno noi vediamo il verde perchè c'è una prevalenza di semi verdi , così nel caso
del pane noi vediamo il pane perchè i semi di pane sono in maggioranza . Partendo dal
visibile (il pane), arriviamo a capire l’esistenza dell’invisibile (i semi): ecco spiegato il
24
celebre motto anassagoreo, "
" (le cose che appaiono sono
uno sguardo su quelle che non appaiono"), con il quale è messa in luce la possibilità di
un’inferenza dal visibile all’invisibile. Va specificato che nel mondo in cui viviamo non
esistono propriamente parlando semi , ossia particelle allo stato puro dal momento che
in ogni cosa continuano a sussistere particelle di tutte le altre cose : noi vedremo il verde
non perchè una sostanza sia effettivamente verde , ma perchè il verde prevale su tutti gli
altri semi , che tuttavia sono presenti , anche se noi non riusciamo a vederli . In questo
senso Anassagora ammette la divisibilità all'infinito , senza che sia mai possibile
raggiungere un minimo . Aristotele riprenderà questi concetti e chiamerà i semi di
Anassagora col nome di "omeomerie" , vale a dire entità le cui parti sono simili al tutto .
Tale è per esempio il caso della carne : se prendiamo una qualsiasi parte di carne sempre
carne è , ma se prendiamo una faccia e la dividiamo non avremo tanta facce , ma parti
differenti dalla faccia iniziale . Ma propriamente per Anassagora il rapporto di
mescolanza tra i semi è diverso secondo i casi e nel mondo che ci circonda non c'è
nessuna entità omogenea , ossia tale che tutte le sue parti siano simili al tutto di cui
fanno parte . Anassagora è convinto che dalla totalità indistinta di tutti i semi non si è
formato soltanto il nostro mondo : per lui si sarebbero formati anche altri mondi ,
anch'essi abitati da uomini e da esseri viventi . Quindi per Anassagora il nostro mondo
non è il centro del tutto così come coloro che lo abitano . Resta però da spiegare come
avvenne la transizione dalla totalità originaria alla pluralità dei mondi nelle loro
differenziazioni . Chiaramente questa transizione richiede un movimento , ma da che
cosa dipende tale movimento ? Qui subentra quella che già a Platone e ad Aristotele era
sembrata la maggiore innovazione di Anassagora , anche se ai loro occhi non
sufficientemente sfruttata . Anassagora infatti introduce un intelletto cosmico , il "
NOUS " (
) , come agente dell'impulso originario di questo movimento . Aristotele
ci parla di questo "nous" nella "Fisica" : ciò che più emerge è il fatto che questo
intelletto cosmico è un potere assoluto , separato da tutto (
) e per questo
non impacciato o condizionato da nulla e quindi capace di sottoporre tutto al suo
dominio . E' proprio questo potere che consente al " nous " di dare origine alla
formazione e alla progressiva differenziazione delle cose , pur nella persistenza in tutte
dei semi di ogni tipo . L'intelletto cosmico ha quindi un'intelligenza totalmente
differente rispetto a quella umana : il nous ha un potere incomparabile e questo è per
Anassagora dovuto al fatto che esso sia l'unica realtà data non da una mescolanza di
semi . Se fosse mescolato con qualcosa sarebbe infatti impedito nella sua azione e non
potrebbe pertanto imprimere il movimento iniziale alla massa originaria .Ciò non
comporta che per Anassagora il nous sia una sostanza spirituale nè che esso si
identifichi con la divinità . Pur chiamando questo motore originario "intelletto" ,
Anassagora non gli attribuì la funzione di progettare secondo un fine e precisamente in
vista del meglio . La principale differenza rispetto ad Empedocle è che non ci sono le
due forze che aggregano e disgregano ; va poi detto che non è una visione ciclica e
pendolare (come era quella di Empedocle ) , ma è unidirezionale : non si tornerà più alla
situazione di partenza . Dunque per Anassagora si parte da questa totale mescolanza dei
semi (lui la chiama "MIGMA" - , dal verbo "
" , mescolo = mescolanza
totale) ; poi interviene il nous che smuove il tutto . Da notare che la forza del nous non
può essere nè totalmente aggregatrice nè totalmente disgregatrice . Abbiamo detto che
Platone e soprattutto Aristotele lo accusavano di usare poco la causa finale che aveva
abilmente introdotto (il nous) : molto probabilmente però Aristotele (Metafisica) e
Platone (Fedone) hanno preso una cantonata perchè hanno tradotto la parola " nous "
con " intelletto " ; ma il Greco di Anassagora era differente rispetto al loro : ai suoi
tempi infatti la parola " nous " veniva spesso usata con il significato di " anima " , "
vita" . Probabilmente Anassagora non voleva parlare di un'intelligenza divina e di una
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causa finale , ma voleva semplicemente dire che dove c'è movimento c'è vita . Tuttavia
se l'intelligenza umana è inferiore rispetto a quella del nous , essa è superiore (come già
aveva detto Alcmeone ) a quella degli animali . Essa richiede l'impiego della procedura
che inferisce ciò che non è visibile a partire da ciò che lo è . Questa procedura sorregge
buona parte della stessa costruzione teorica di Anassagora , come si è visto . Il sapere
umano per lui è acquisito gradualmente e non è un possesso istantaneo . Anassagora
traccia una sequenza cronologica delle acquisizioni : 1)ESPERIENZA 2) SOPHIA
(
sapienza) 3) TECHNE (
tecnica) . La sensazione avviene per contrari ,
in quanto il caldo può essere avvertito mediante il freddo e viceversa : se mettiamo una
mano in un secchio pieno di acqua fredda e ne aggiungiamo di calda , la sentiamo
benissimo quella calda . Se però ne aggiungiamo di fredda non percepiamo quella
fredda aggiunta . Dalla sensazione e dall'osservazione ripetuta si passa alla
conservazione di questa nella memoria . Su questa base diventa possibile il costruirsi di
un sapere . E' interessante che come ultimo momento Anassagora indichi la tecnica : è
essa che propriamente permette agli uomini di servirsi degli stessi animali e quindi di
collocarsi al di sopra di essi. La superiorità dell’uomo sugli altri animali riposa sul fatto
che solo l’uomo sa costruire oggetti a lui utili, ossia sa sfruttare al meglio il proprio
sapere. Del resto, Anassagora vive in quell’Atene del V secolo, brulicante di cantieri e
di lavori splendidi. In questo contesto si comprende forse meglio il significato della
celebre tesi secondo la quale l'uomo è più intelligente degli altri animali perchè ha la
mano che gli consente di stabilire un diverso rapporto con la realtà . Il possesso della
mano si collega strettamente all'esercizio di attività tecniche , che appaiono indice
decisivo di umanità . Aristotele invece avanzerà un'ipotesi antitetica rispetto a quella di
Anassagora : dal momento che l'uomo è il più intelligente degli animali la natura gli ha
dato la mano . Tra l'altro l'affermazione di Anassagora ci consente di capire quanto poco
il finalismo rientri nelle sue teorie e di conseguenza se ne evince che la traduzione di
Aristotele di nous con intelligenza è erronea . Sempre Aristotele (Metafisica, libro I)
ribalta la tesi anassagorea della superiorità della
sulla
arrivando a mettere
al vertice del sapere il "sapere per il sapere", ossia il sapere disinteressato, privo di
risvolti pratici.
EMPEDOCLE
Empedocle svolse la sua attività di filosofo nel v secolo a.c. in Sicilia e fu influenzato
dal pitagorismo e dall' orfismo , ma anche dall'eleatismo : tuttavia Empedocle si colloca
nell'ambito dei pluralisti . Nacque ad Agrigento intorno al 490 a.c. e pur essendo di
nobile famiglia , partecipò attivamente alle lotte politiche della sua città schierandosi
con i democratici e per questo morì forse in esilio nel 425 . Tuttavia la sua figura sfumò
presto nella leggenda (che tra l'altro vuole che egli morisse precipitando nel cratere
dell'Etna) . Egli , come Parmenide , si servì per scrivere della poesia , che aveva grande
presa sugli ascoltatori . Compose in esametri un'opera che si intitolava "Sulla natura" ,
ma che talvolta gli antichi chiamarono "Purificazioni" : vi è anche chi sostiene che si
tratterebbe di due opere distinte . Proprio il veicolo della poesia consente ad Empedocle
di presentarsi come annunciatore di verità : invoca le Muse e si dipinge come un dio
immortale , circondato dalle folle e dal successo . L'oggetto principale delle
osservazioni e delle riflessioni di Empedocle torna ad essere il mondo , ma tenendo
conto di alcuni dei divieti logici imposti da Parmenide . Infatti anche per Empedocle gli
uomini sbagliano quando parlano di perire e di nascere delle cose : Parmenide aveva già
detto che l'essere è sempre stato e sempre sarà . Empedocle introduce quindi i due
concetti di AGGREGAZIONE e di DISGREGAZIONE : in realtà dietro alle vicende di
trasformazioni incessanti permangono costanti ed indistruttibili quelli che Empedocle
26
chiama "rizomata" (radici) e che poi saranno chiamati elementi : terra , acqua , aria e
fuoco . Questa è una grande innovazione e rappresenta un notevole allontanamento
dagli Eleati : il dominio di ciò che è , è molteplice . Gli oggetti che cadono sotto i nostri
sensi non sono altro che mescolanze delle quattro radici secondo diverse proporzioni .
Empedocle si allontana dall'eleatismo anche per il fatto che le radici siano suscettibili di
movimento e per il fatto che esistano forze capaci di creare le aggregazioni a partire
dalle 4 radici e le disgregazioni degli oggetti così costituiti . Il nascere ed il morire a
rigore non esistono : sono solo aggregazioni e disgregazioni : sono prerogative degli
oggetti risultanti dalla mescolanza delle 4 radici ; essi sono dovuti all'azione di due
forze che Empedocle , attingendo al linguaggio dei racconti mitici , chiama AMORE e
ODIO . Queste due forze operano non solo sull'universo nella sua totalità , ma anche su
ciascuna delle cose che popolano l'universo . Un aspetto fondamentale della loro azione
è che essa avviene nel tempo e secondo gradi diversi . Quando l'azione dell'Amore
prevale su quella dell'Odio si ha una situazione di pace , che Empedocle , sulla scia di
Parmenide , concepisce come una sfera compatta e priva di scissioni al suo interno : è il
celebre SFERO . Empedocle ci fornisce quindi una sua cosmogonia , una spiegazione
sull'origine del mondo . Lo sfero è la situazione primordiale in cui tutte e 4 le radici
sono mescolate e vi sono pure l'Amore e l'Odio : è una totale situazione di aggregazione
in cui prevale l'Amore sull'Odio . Ma pian piano l'Odio prevarrà e le 4 radici si
separeranno ; col tempo però tornerà a prevalere l'Amore e torneremo alla situazione
primordiale di totale aggregazione . Ma poi si verificherà nuovamente il prevalere
dell'Odio e le 4 radici si separeranno pian piano per poi passare alla totale disgregazione
e poi nuovamente all'aggregazione . Il nostro mondo si trova proprio nella posizione di
separazione dall'Amore , ma non ha ancora raggiunto l'Odio : è a metà strada ; quando
raggiungerà l'Odio si distruggerà per poi "rinascer" nuovamente . E' una visione ciclica
del mondo : per Empedocle durerà fin quando dal punto di partenza (l'Amore) non
arriverà all'opposto (l'Odio) . Ma questo processo di aggregazione e disgregazione non
vale solo per il mondo , ma per l'intera realtà : anche gli uomini si vengono a formare in
questo modo e quando prevarrà l'Odio si distruggeranno . Ma Empedocle dice che
l'aggregazione che porta alla creazione di un uomo (o di qualunque altra realtà) non è
immediata e complessiva : non è che l'uomo si formi tutt'insieme in un preciso istante :
è come se gli organi nascessero da sè e poi a loro volta si aggregassero per dar vita
all'uomo . Empedocle dice poi che possono nascere dall'aggregazione esseri mostruosi
come il Minotauro ed il motivo per cui non si vedono in giro è reperibile nel fatto che
non riescano a sopravvivere : in natura , infatti , dice Empedocle , riescono a
sopravvivere solo i più idonei e i migliori . La tradizione ci presenta Empedocle come
medico : pare che egli nutrisse interessi per la comprensione dei fenomeni del vivente ,
come la generazione o la respirazione : Empedocle affermava che il sangue ed il respiro
si muovessero entro gli stessi vasi corporei , che sarebbero riempiti da sangue che
fluendo esce da essi e lascia spazio all'aria che entra e , viceversa , l'aria che esce lascerà
spazio al sangue . Per Empedocle la respirazione avviene tramite i pori della pelle : per
spiegare questo processo lui immagina una situazione in cui si immerge in acqua una
clessidra : la clessidra è un vaso con un collo stretto e un'ampia base con piccoli buchi .
Se essa viene immersa in acqua con l'orifizio superiore tappato , l'acqua non penetra
attraverso i buchi perchè l'aria interna vi si oppone con la sua pressione ; ma se si libera
l'orifizio superiore , l'aria esce e l'acqua può entrare . Viceversa , se l'orifizio è tappato
quando la clessidra è piena d'acqua , l'acqua non può fuoriuscire dai piccoli buchi sul
fondo . I due momenti della respirazione , cioè l'inspirazione e la espirazione ,
corrispondono ai momenti in cui la clessidra , rispettivamente riempita d'acqua e d'aria ,
viene aperta nell'orifizio superiore consentendo l'ingresso di aria in un caso , di acqua
nell'altro . All'acqua della clessidra corrisponde il respiro e all'aria della clessidra il
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sangue . Non si tratta in realtà di un vero esperimento , quanto piuttosto di un'analogia
tra ciò che è osservabile e ciò che non è direttamente osservabile . Va sottolineato il
fatto che l'aria sia uno dei 4 elementi ; il sangue invece , come ogni realtà , è una
mescolanza di essi . Quanto migliore (quindi più proporzionata )è tale mescolanza ,
tanto migliore per Empedocle risulta essere la qualità del pensiero , che Empedocle fa
proprio risiedere nel sangue intorno al cuore . L'attività del pensiero è quindi legata alla
struttura anatomica e alla fisiologia corporea , e poichè il corpo umano è costituito dalle
stesse radici di cui sono cosituite tutte le cose , sarà possibile istituire una
corrispondenza biunivoca tra i costituenti del corpo e quelli delle cose : in ciò consiste
per Empedocle la conoscenza , che sarà garantita proprio dalla sussistenza
proporzionata di tutte e 4 le radici nel sangue . Il processo della conoscenza risulta
quindi fondato nella omogeneità tra l'uomo ed il mondo . Gli interpreti antichi
classificheranno questa concezione della conoscenza come "conoscenza del simile
tramite il simile" . Anche le capacità dei singoli individui (per esempio nel parlare o
nello svolgere attività) sono riconducibili alle diverse proporzioni in cui avviene la
mescolanza di questi costituenti di tutte le cose . Il tempo svolge una funzione centrale
nella cosmogonia di Empedocle : egli vuole rintracciare ciò che permane costante al di
sotto della vicenda ciclica delle aggregazioni e delle disgregazioni . Ciò si integra
perfettamente , ai suoi occhi , con la credenza propria della tradizione orfica a riguardo
della trasmigrazione delle anime . L'anima , che in origine è un demone o un dio , spinta
dall'Odio commette colpe ed è costretta a compiere un lungo viaggio . Esso dura
millenni e porta l'anima a trasmigrare attraverso vari tipi di corpi viventi . (Da notare
che Empedocle parli di trasmigrazioni non solo in corpi animali , ma anche vegetali) .
Questa concezione conduce al vegetarianesimo e al rifiuto radicale dei sacrifici .
Uccidere animali è infatti per Empedocle una forma di cannibalismo , dal momento che
in ogni essere vivente è presente un'anima umana , che sta compiendo il suo ciclo di
reincarnazioni . Se nel corso di questo ciclo l'anima si è comportata bene , al termine
potrà tornare nella sua condizione divina . Su questo sfondo Empedocle può proiettare
la sua predicazione di salvezza agli uomini , indicando le vie della guarigione e della
purificazione . In un mondo che gli appariva in un certo modo sopraffatto dall'Odio ,
egli additava ai suoi ascoltatori nelle città della Sicilia , con i suoi versi , ma anche con
la sua azione di guaritore e mago (si raccontava che avesse ridestato a vita una donna in
un caso di morte apparente) , capace di influenzare le forze della natura , le linee di una
condotta che si opponesse all'azione disgregatrice dell'Odio . Empedocle rappresenta il
culmine di una tradizione di sapienti che si presentano dotati di un sapere eccezionale .
Ma nel v secolo a.c. queste figure tendono progressivamente a venir meno , lasciando
spazio a nuovi tipi di pensatori . Ma le sue teorie furono riprese in seguito da Aristotele
(che individuò 4 elementi , parti ultime della realtà) e da Dante Alighieri (che nel canto
12 dell'Inferno fa un chiaro riferimento alla teoria della disgregazione e
dell'aggregazione dicendo : "... da tutte parti l'alta valle feda tremò sì , ch'io pensai che
l'universo sentisse amor..." ; con questi versi il poeta fiorentino intende chiaramente dire
di aver sentito un rumore e un tremolio così forte da pensare che il mondo si stesse
disgregando perchè arrivato al fondo del suo processo ciclico ) .
DEMOCRITO
Democrito nacque intorno il 460 a.c. ad Abdera , dove era nato anche Protagora . Egli fu
atomista , seguì cioè quelle dottrine che per un verso presuppongono l'indagine naturale
dei primi pensatori e la riflessione degli eleati , ma per l'altro anche i dibattiti sui
rapporti tra natura e "nomos" (legge convenzionale) e lo sviluppo delle discipline
speciali . Democrito , a differenza degli altri pensatori e a somiglianza dei suoi
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contemporanei sofisti , scrisse parecchie opere : tramite un catalogo stilato da Trasillo
nel primo secolo d.c. sappiamo che dovevano aggirarsi intorno a cinquanta . Purtroppo
ci sono pervenuti solo pochi frammenti ; anche Democrito dovette recarsi una volta ad
Atene , ma per il resto del tempo pare che abbia vissuto nella sua città natale , dove
sarebbe morto tra il 400 e il 380 a.c. Le indagini degli atomisti , come detto ,
presuppongono da un lato l'interesse per i problemi posti dall'osservazione dei fenomeni
naturali e , dall'altro , la riflessione degli eleati , ma al tempo stesso anche l'attenzione
per la pluralità dei mondi e delle culture . Le opere di Democrito trattavano argomenti di
vario genere , si passava dalla matematica alla riflessione morale , dallo studio del
linguaggio e dei poeti alla medicina e allo studio degli animali , ma alla base di tutta la
sua ricerca lui poneva l'obiettivo di trovare una spiegazione causale unitaria di questa
molteplicità di manifestazioni e aspetti del mondo fisico e umano . Per Democrito nulla
avviene a caso , tutto avviene secondo una ragione . Questa osservazione può essere
scoperta ; a questo scopo non basta accontentarsi dell'osservazione della molteplicità dei
fenomeni : occorre risalire mediante un procedimento intellettuale alla conoscenza di
ciò che non è visibile . Gli oggetti che noi percepiamo ci appaiono caldi o freddi , amari
o dolci , ma queste qualità appartengono alla sfera di quello che la cultura del v secolo
a.c. raggruppava sotto la categoria del "nomos" , ossia di ciò che è variabile ,
convenzionale , instabile , contrapposto al piano stabile e immutevole della natura . La
vera conoscenza è quella che consente di accedere al piano nascosto che sfugge ai sensi
. Qui essa trova i costituenti di tutte le cose : gli ATOMI e il VUOTO . La parola atomo
deriva dal Greco e significa indivisibile (a+temno = che non si può tagliare) . Gli atomi
sono quindi particelle indivisibili talmente piccole che non possono essere
singolarmente percepite da alcun organo di senso . Gli atomisti ritengono , seguendo le
idee di Parmenide , che siano ingenerati ed indistruttibili . Sono dunque i costituenti
ultimi della realtà . Nonostante con i pluralisti nasca la causa efficiente (ciò che mette in
movimento la materia : per Empedocle la disgregazione , per Anassagora il vous ) ,
Democrito non la accetta : secondo lui vi è un grande vuoto con atomi sparsi qua e là
dotati di movimenti pulviscolari ( per capire che cosa intendesse Democrito , si può
guardare la polvere contro luce ) : essi vagano casualmente finchè non si urtano gli uni
contro gli altri : quando si scontrano avviene un qualcosa di simile al biliardo : gli atomi
(nel biliardo le palle) si scontrano e assumono nuovi movimenti . E' una concezione
materialistica , deterministica (dato un fatto A se ne verifica uno B ) e meccanicistica (vi
è l'idea che il mondo sia un macchinario dove tutto avviene per contatto : viene così
confutata la tesi dei fenomeni che avvengono a distanza , come il magnete di Talete ) .
Tutto avviene secondo una necessità . Gli atomi si distinguono tra di loro non perchè
alcuni sono caldi e altri freddi o perchè alcuni sono amari e altri dolci : in poche parole
non si distinguono per caratteristiche qualitative , ma quantitative . Le loro differenze
sono simili a quelle che intercorrono tra le lettere dell'alfabeto , che venivano designate
con il nome "stoikeia" : questo termine passerà a designare gli elementi dai quali tutte le
cose sono costituite . La prima differenza che intercorre tra gli atomi è di carattere
formale : per esempio A differisce da N . La seconda distinzione è di posizione : per
esempio N è differente da Z , ma se si ruota N di 90 gradi si ottiene appunto Z . La terza
differenza è di ordine : per esempio AN è diverso da NA . L'insieme di queste
differenze è dunque il tipo geometrico , riguarda la forma e la disposizione nello spazio
. Ma bisogna ricordare che la quantità di forme atomiche è innumerevole , non è ristretta
al solo tipo delle grandezze geometriche regolari . Com'è possibile che da queste
particelle invisibili ed indivisibili si formino gli oggetti che si possono percepire con gli
organi di senso ? Come abbiamo detto prerogativa degli atomi è il loro continuo
movimento "pulviscolare" che non avviene in una direzione privilegiata ed unica . In
questi movimento possono incontrarsi , come le palle del biliardo : se sono
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incompatibili si respingono , ma se non lo sono si aggregano . Un criterio fondamentale
di aggregazione è dato dal principio che il simile si si aggrega con il simile . Ma non vi
è un agente esterno (una causa efficiente) che fa avvenire le aggregazioni ,come era
invece per Anassagora e Empedocle . Fondamentale per il movimento è il vuoto (che fa
le veci della tavola da biliardo) : gli atomisti possono dire che il vuoto è non essere , in
quanto esso non è dotato di forma individuale , di limitazione e di movimento , come
invece è per gli atomi , che possono quindi identificarsi con l'essere . Nel vuoto infinito
si formano e si distruggono infiniti mondi , anche diversi da quello in cui viviamo .
Mediante le nozioni di atomo e di vuoto diventa possibile spiegare non solo la
costituzione dei mondi e degli oggetti che ciascuno di essi contiene , bensì anche
fenomeni biologici come la riproduzione o la respirazione . L'anima è per Democrito
una prerogativa degli esseri viventi . La vita , tra l'altro , è contrassegnata dal calore . A
spiegare questo fatto interviene la forma propria degli atomi costitutivi dell'anima : essi
sono di forma sferica , la quale è suscettibile della massima mobilità . E la massima
mobilità genera il calore . In questa prospettiva la respirazione è interpretata come una
funzione vitale essenziale perchè consente la continua reintegrazione degli atomi di
anima che incessantemente si perdono anche per la loro costante mobilità . Quando
questa reintegrazione cessa arriva la morte , caratterizzata appunto dall'immobilità e
dalla freddezza . Allo stesso modo la riproduzione umana , a sua volta , è determinata
dal seme costituito da atomi provenienti da tutte le parti del corpo . Ciò permette di
spiegare la trasmissione di somiglianze dai genitori ai figli . Gli stessi processi percettivi
possono essere chiariti mediante il modello di spiegazione atomistica . Ogni soggetto ,
anche se a noi sembra immobile , è costituito di atomi intervallati dal vuoto , i quali si
muovono incessantemente . Da ciascun oggetto si staccano in continuazione quelli che
gli atomisti chiamano " eidolà " (immagini) : si tratta di emissioni atomiche che
conservano la figurazione degli oggetti dai quali provengono . Se il medio che queste
emissioni attraversano , ossia l'aria , non è disturbato ed esse pervengono ai pori , vale a
dire i condotti vuoti , presenti sulla superficie del nostro corpo , e attraverso di essi ai
nostri organi di senso , si hanno le varie sensazioni della vista , dell'udito e così via .
Ogni sensazione è quindi ricondotta a una forma di contatto degli eidolà con il nostro
corpo . Prendiamo ad esempio l'olfatto : arrivano al nostro naso atomi di un fiore : noi lo
sentiamo profumato non per il fatto che gli atomi abbiano già di per sè quell'odore , ma
perchè con la loro forma mi stimolano il naso in modo tale da fiutare quell'odore . Gli
odori , i sapori , i colori , esistono in me che li provo , ma non nella realtà . Ogni
sensazione ci fornisce quindi informazioni sulla configurazione e sui caratteri
dell'oggetto corrispondente . Pure i sogni possono avere un contenuto informativo e
trasmettere addirittura pensieri e sentimenti propri dell'individuo dal quale proviene il
flusso di eidolà . Restano comunque inaccessibili ai sensi , sia nello stato di veglia , sia
durante il sonno , i principi costitutivi del tutto , ossia gli atomi , nella loro singolarità ,
ed il vuoto . Alla conoscenza di essi si può pervenire soltanto andando oltre alla
sensazione , ossia cercando la verità nel profondo , come dice Democrito , mediante
l'intelletto . Solo questa è la conoscenza genuina . Dante nella Divina Commedia lo
definisce " colui che il mondo a caso pone " perchè la pensa come Aristotele : per loro
la causa più importante era quella finale , il fine delle cose : Democrito sembra invece
che non individui alcuna causa , è come se per lui le cose andassero a caso , senza uno
scopo . Democrito affronta anche il problema della formazione delle società umane e
dei tratti che le caratterizzano . Alla base di questa formazione è quello stesso principio
di aggregazione del simile con il simile , che valeva per gli atomi . Un elemento di
distinzione tra animali e uomo , un pò come i sofisti , Democrito lo ravvisa nel processo
delle tecniche . Ma Democrito fa leva ancora una volta sul principio della somiglianza
per spiegare la genesi delle stesse tecniche : esse si costituiscono infatti a partire
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dall'imitazione delle attività animali . Per questo aspetto esiste dunque una certa
continuità tra il piano della natura e quello della cultura e delle istituzioni umane .
L'imposizione dei nomi alle cose è un'imposizione copnvenzionale . Così la religione
sembra essere un'invenzione umana , ma in questo caso dovuta all'iniziativa di pochi
uomini sapienti . Non è difficile scorgere la parentela tra queste affermazioni e quelle
sofistiche , anch'esse incentrate sul binomio nomos-fusis . E' difficile a causa dei pochi
suoi frammenti pervenutici comprendere profondamente la sua indagine etico-politica .
Per un verso egli continua la tradizione dell'antica saggezza , compendiata in massime
che devono dirigere il proprio comportamento verso se stessi e verso gli altri . Queste
massime vertono anche sui mali e sui pericoli che affliggono la società , la discordia e la
stasis , il conflitto civile . La legge secondo Democrito dovrebbe salvaguardare da
questi mali . Egli mostra una decisa preferenza per la forma di governo democratica ,
contrapposta alla tirannide , come la libertà lo è alla schiavitù . Ma per un altro verso
l'obiettivo della vita è riposto nella tranquillità dell'animo (l' "euthymìa") , immune da
passioni eccessive ; il che comporta la necessità di non farsi coinvolgere troppo non
solo nelle questioni private , ma neppure in quelle pubbliche . L'esercizio della virtù non
è più legato in maniera determinante alla dimensione della politica : l'etica di Democrito
sembra premiare lo studioso , colui che vive al di fuori della politica (un pò come era
per Aristotele ) . Per Democrito non vi è un luogo privilegiato in cui si debba svolgere
l'attività di studioso .
SOCRATE
Socrate nacque nel 470 / 469 a.c. da Sofronisco , scultore , e Fenarete ,
levatrice . Dapprima esercitò forse il mestiere del padre , ma
successivamente l'abbandonò per dedicarsi esclusivamente all'indagine
filosofica . Non di rado dovette quindi ricorrere all'aiuto economico di amici
. Sposò Santippe , che una certa tradizione tende a presentare come donna
bisbetica e insopportabile : si è arrivati a pensare che Socrate stesse
sempre in piazza non tanto per filosofare quanto piuttosto per stare
lontano da Santippe e dalle sue ramanzine continue : pare che Socrate sia
riuscito a far ragionare tutti tranne Santippe . Da lei ebbe tre figli .
Socrate non lasciò mai Atene se non per brevi spedizioni militari : partecipò
infatti nel 432 alla spedizione contro Potidea , traendo in salvo Alcibiade
ferito , e nel 424 combattè a Delio a fianco di Lachete durante la ritirata
degli Ateniesi di fronte ai Beoti . Successivamente nel 421 combattè ad
Anfipoli . Nel 406 in conformità al principio della rotazione delle cariche ,
fece parte dei pritani , ossia del gruppo del Consiglio al quale spettava
decidere quali problemi sottoporre all'Assemblea e si oppose alla proposta
illegale di processare tutti insieme i generali vincitori nello scontro navale
avvenuto al largo Arginuse , perchè non avevano raccolto i naufraghi . Con
questa presa di posizione egli si poneva in contrasto con i democratici , ma
nel 404 , passato il potere in mano all'oligarchia capeggiata dai Trenta ,
rifiutò di obbedire all'ordine di arrestare un loro avversario , Leone di
Salamina . Nel 403 la democrazia restaurata , pur concedendo un'amnistia ,
continuò a ravvisare in Socrate una figura ostile al nuovo ordine , anche per
31
i rapporti da lui intrattenuti in passato con figure come Alcibiade e Crizia .
Nel 399 fu presentato da Meleto un atto di accusa contro Socrate , ma tra
i suoi accusatori erano anche Licone e soprattutto Anito , uno dei
personaggi più influenti della democrazia restaurata . L'atto di accusa è il
seguente : " Socrate è colpevole di essersi rifiutato di riconoscere gli dei
riconosciuti dalla città e di avere introdotto altre nuove divinità . Inoltre è
colpevole di avere corrotto i giovani . Si richiede la pena di morte " . Gli
accusatori contavano probabilmente in un esilio volontario da parte di
Socrate , com'era avvenuto in passato per Protagora o Anassagora , ma egli
non abbandonò la città e si sottopose al processo . A maggioranza i giudici
votarono per la condanna a morte la quale fu eseguita in carcere mediante la
somministrazione di cicuta . Possiamo inserire Socrate nell'era sofistica
(sebbene lui si schierò contro i sofisti) perchè come i sofisti si interessò di
problemi etici ed antropologici , mettendo da parte la ricerca del principio e
della cosmogonia . Socrate non scrisse mai nulla e così per ricostruire il suo
pensiero dobbiamo ricorrere ad altri autori . Le fonti principali sulla vita di
Socrate sono quattro 1) Platone 2)Senofonte 3)Aristotele 4)Aristofane . 1)
Platone è senz'altro la fonte più attendibile : egli fu discepolo diretto di
Socrate e con lui condivise sempre l'idea della filosofia come ricerca
continua . Platone fa di Socrate il protagonista dei suoi dialoghi e quando il
suo maestro verrà condannato a morte egli resterà molto turbato e si
allontanerà dalla vita politica . 2) Senofonte è la fonte più banale e meno
interessante : il Socrate degli scritti di Senofonte è un cittadino ligio alla
tradizione , il vero interprete dei valori correnti , il saggio che mira al bene
dei suoi concittadini ed è ossequioso verso la città e le sue divinità . Va
subito precisato che Senofonte era un grande generale , coraggioso e
valoroso , ma non era certo un'aquila : i suoi scritti stessi non sono certo
esempi eclatanti della letteratura greca : sono ridondanti e ripetitivi .
Senofonte fece anche campagne militari con Socrate e nei suoi scritti ne
esalta il valore dicendo che non stava mai fermo , era sempre in azione , non
soffriva niente (camminava addirittura a piedi nud sul ghiaccio) . A
Senofonte della filosofia non gliene importava nulla e con Socrate , di cui
era grande amico , non trattava mai argomenti filosofici , ma solo militari :
questo ci consente di capire che Socrate modulava il discorso a seconda del
personaggio che aveva di fronte : con un filosofo parlava di filosofia , con un
generale di guerra . 3) La testimonianza di Aristotele è stata a lungo
ritenuta la più attendibile perchè Socrate non viene caricato di significati
simbolici : Aristotele ce ne parla in modo oggettivo . Tuttavia la
testimonianza aristotelica ha dei limiti : in primis , è la meno " artistica "
delle 4 ed è l'unica di un non-contemporaneo . Va poi detto che in Aristotele
Socrate ci viene presentato quasi come un " robot " : la filosofia socratica
viene presentata come un susseguirsi di ragionamenti e non viene dato
32
spazio al filosofare in pubblico , al dialogo aperto . 4) Aristofane è il
personaggio più vicino a Socrate come età : ci presenta un Socrate
relativamente giovane (circa 40 anni) . Va ricordato che Aristofane era un
commediografo e ne risulta che l'immagine che lui ci dà di Socrate è
fortemente impregnata di tratti sarcastici . Ne " Le nuvole " ce lo presenta
come un sofista studioso della natura (il contrario di ciò che era in realtà) ,
con la testa fra le nuvole . Insomma Aristofane è l'unico a darci di Socrate
un'immagine fortemente negativa (non a caso Aristofane era stato uno dei
primi accusatori di Socrate) . In realtà non dobbiamo pensare che
Aristofane volesse gettar discredito su Socrate o lo prendesse in giro per
cattiveria : in fondo lui faceva solo il suo lavoro di commediografo , che
consisteva nel far ridere . In realtà con la figura di Socrate vuole prendere
in giro non Socrate , ma l'intera categoria dei filosofi . La testimonianza di
Platone resta la migliore e le altre tre vanno sfruttate come appoggio .
Platone lo conosceva davvero bene ed era lui stesso un gran filosofo : il
grosso limite è che trattandosi di un filosofo , Platone avrebbe potuto
rimaneggiare i discorsi di Socrate , ed è proprio quel che fa man mano che
invecchia . " L'apologia " , per fortuna , resta un dialogo giovanile nel quale
Platone descrive il processo che decretò la condanna a morte di Socrate . E'
proprio in questo dialogo che emerge fortemente la differenza tra Socrate
ed i sofisti : i sofisti pronunciavano discorsi raffinati ed eleganti , ma
totalmente privi di verità : per loro l'importante era parlar bene , avere un
buon effetto sulle orecchie degli ascoltatori . Per Socrate invece quel che
più conta è la verità : lui si proclama incapace di controbattere a discorsi
così eleganti e ben formulati (ma falsi) . Socrate , pur non tenendo
un'orazione raffinata , dice il vero : la critica ai sofisti verrà poi ripresa da
Platone stesso . I sofisti puntavano a stupire l'ascoltatore , dal momento
che erano convinti che la verità non esistesse (soprattutto Gorgia . Socrate
per difendersi in tribunale non pronuncia un discorso (come i sofisti) , ma
imposta un dialogo botta e risposta : è proprio dal discorso che viene a galla
la verità (Platone dirà che il discorso tra due o più individui è come lo
scontro tra due pietre dal quale nasce la fiamma della conoscenza) . Lo stile
oratorio di Socrate è scarno , secco e quasi familiare , modulato a seconda
dell'interlocutore . Il punto di partenza del discorso socratico è la
cosiddetta " ironia socratica " , ossia la totale autodiminuzione , " io non so ,
tu sai " . Così inizia anche " L'apologia" : si pone la domanda "che cosa è x ?"
e l'interlocutore cade nel tranello e risponde , sentendosi superiore a
Socrate . Socrate , come abbiamo detto parlando di Senofonte , parla di
argomenti noti all'interlocutore : se ad esempio parla con un generale gli
chiederà " che cosa è il coraggio ? " . Quello risponderà , per esempio ,
dicendo che il coraggio è il non indietreggiare mai . Allora Socrate
interverrà dicendo che quello non è coraggio , bensì pazzia . La critica
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diventa stimolo per l'interlocutore a fornire una seconda risposta meglio
articolata : il gioco può andare avanti a lungo e spesso rimane aperto .
Questo metodo viene detto " maieutico " : Socrate diceva di fare lo stesso
lavoro della madre , la quale era ostetrica : lei faceva partorire le donne , lui
le anime . Come le ostetriche valutano se il neonato è " buono " , così
Socrate valuta se le idee , le definizioni sono buone . Non tutti gli
interlocutori erano intelligenti e riconoscevano i propri errori : spesso
preferivano evitare Socrate . Da un interlocutore Socrate fu anche
denominato " torpedine " in quanto l'incontro con Socrate risulta scioccante
perchè ribalta le concezioni di chi era convinto di sapere e dimostrava che
in realtà non sapeva . Socrate stesso si paragonava ad un moscone che
stimola il cavallo : lui stimolava gli uomini a ragionare . Socrate con il
processo dell'autodiminuzione afferma di non sapere nulla , mentre sostiene
che i sofisti sappiano tutto : dice che forse l'educazione che impartisce lui
è inutile rispetto a quella sofistica , ma senz'altro è più importante . Le
calunnie nei confronti di Socrate hanno avuto inizio quando lui si definiva
sapiente in quanto l'oracolo di Delfi gli aveva detto che era il più sapiente
tra gli uomini . Lui era rimasto sconvolto da tale affermazione e non riusciva
a crederci : allora cominciò a girare per Atene per vedere se trovava
persone effettivamente più sapienti di lui . Dunque si recò da coloro che si
ritenevano sapienti : politici , poeti , artigiani . Socrate si accorse che tutte
e tre le categorie erano convinte di sapere , ma in realtà non sapevano
niente : i politici erano i peggiori di tutti non in quanto politici (Socrate
stesso , se vogliamo , era un politico perchè svolgeva la sua attività in
pubblico) ma in quanto non capaci di insegnare il loro sapere : un vero
sapiente deve spiegare ciò che sa : anche i politici migliori (Pericle) non
sanno trasmettere il loro sapere . Lo stesso era per i poeti , che a partire
da Omero erano considerati sapienti ed educatori : Socrate li biasima sia
perchè dicono assurdità , sia perchè il loro non è un sapere , ma una forma
di " follia ispirata " : era la divinità che parlava per bocca loro . I meno
peggio risultarono essere gli artigiani , che almeno sapevano fare diverse
cose di utilità pubblica : la loro è una " tecnè " , ossia una sapienza pratica .
Però anche gli artigiani avevano i loro difetti : erano sì competenti nel loro
settore , ma peccavano di presunzione perchè erano convinti che la loro
conoscenza fosse universale ed illimitata , anzichè limitata . Inoltre essi
agivano senza pensare e ponderare . Socrate arrivò alla conclusione che
l'oracolo di Delfi aveva ragione : lui stesso è il più sapiente , pur sapendo di
non sapere . Il suo non va interpretato come atteggiamento di rinuncia alla
ricerca della verità , ma come segno di modestia intellettuale : è proprio il
fatto di essere consapevoli della propria conoscenza che spinge l'uomo a
sforzarsi di raggiungere la conoscenza ; se si è convinti di sapere già tutto
non ci si sforzerà di migliorare . Tra le varie accuse che vengono mosse a
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Socrate c'è anche quella di corrompere i giovani nella piazza rendendoli
peggiori : lui ribatte a questa accusa dicendo che non avrebbe motivo di
fare ciò . Infatti se corrompesse i giovani finirebbe per vivere in una città
di giovani corrotti , il che si ritorcerebbe contro lui stesso . Va senz'altro
ricordato il cosiddetto " intellettualismo etico " di Socrate : secondo lui
nessuno può compiere il male sapendo effettivamente di compierlo : nessuno
potrebbe mai fare del male volontariamente . Un rapinatore rapina non
pensando di fare del male , ma di fare del bene : è un errore intellettuale
ritenere bene ciò che è male . E' un atteggiamento tipicamente cristianocattolico che si possa scegliere tra bene e male indistintamente . Dunque
Socrate introducendo l'intellettualismo etico dimostra di aver agito per il
bene della sua città . E' Socrate che ha scoperto il concetto moderno di
anima (
) : in precedenza significava " soffio vitale " , ciò che fa vivere
le cose ; il termine
assunse poi il significato di " immagine nell'Ade " ,
un'esistenza depotenziata . Per gli Orfici significava " demone " . A partire
da Socrate fino al giorno d'oggi l'anima è diventata il nostro io : ci
identifichiamo con l'anima . Secondo Socrate possiamo dividere i beni ed i
mali in tre categorie a) dell'anima b) del corpo c) dell'esterno . Il corpo è lo
strumento nonchè la prigione dell'anima . Il denaro , per esempio , è un bene
esterno . In alcuni frangenti sembra che Socrate (e anche Platone ) rifiuti i
beni materiali e del corpo , scegliendo quelli dell'anima ; in altre occasioni
pare che possano essere accettati entrambe . Socrate , per esempio , pare
che non disprezzasse il vino . Quest'ambiguità tra beni del corpo e beni
dell'anima può essere spiegata affermando che i beni son tutti beni finchè
non entrano in conflitto con altri : la ricerca del piacere fisico diventa un
male quando la si antepone alla ricerca di quello intellettuale . Questo non
vale solo per i beni , ma anche per il rapporto tra anima e corpo : il corpo per
Socrate e Platone non va disprezzato , anzi va apprezzato perchè serve
all'anima . Per il Cristianesimo la ricchezza è un male , per Socrate e Platone
è un bene finchè non entra in conflitto con gli altri beni . Interessante è il
concetto socratico di ingiustizia : essa non danneggia chi la subisce , ma chi
la commette . La giustizia infatti dà un senso di piacere interiore e chi è
ingiusto perde questo piacere , mentre chi subisce l'ingiustizia continua a
provarlo . Questo vale anche per Platone . Tra le cose che Socrate dice di
non sapere vi è la conoscenza dell'aldilà , di cosa c'è dopo la morte ( Platone
dirà di essere in grado di dimostrare l'esistenza di un aldilà) . Per lui non è
che se si vive una vita giusta si sarà premiati : si è già appagati dal vivere
giustamente , la felicità che si prova perchè si è giusti è già una sorta di
premio : Socrate dice che magari potrebbe esserci una vita ultraterrena ,
ma lui non lo sa . Tra le varie accuse rivolte c'era anche quella di ateismo e
di empietà : Socrate infatti credeva nei demoni , che lui proclamava " figli
delle divinità " . Lui dimostra che è un'accusa sbagliata dicendo che se
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crede nei demoni che sono figli delle divinità , è ovvio che creda anche nelle
divinità : perchè ci sia il figlio (demone) , ci devono anche essere il padre e
la madre (le altre divinità) . Ma che cosa era questo demone ? Abbiamo due
testimonianze divergenti : per Platone era una sorta di angelo custode coscienza personale che interveniva ogni qual volta Socrate stesse per
sbagliare : si tratterebbe di una sorta di " aiuto privilegiato " che non tutti
hanno : solo le persone per bene . E' un dono divino per i buoni . E' come se
la divinità partecipasse alla vita umana . Per Senofonte invece il demone è
un'entità che lo spinge ad agire in determinati modi : Senofonte intende
ancorare fortemente Socrate alla credenza in un ordine divino e in un
intervento divino nella vita umana . Per Socrate l'importante non è vivere ,
ma vivere bene : quando la nostra anima è sana , giusta , allora anche noi
stiamo bene . Sempre Senofonte nei " Detti memorabili " riassume la prova
dell'esistenza di Dio formulata da Socrate in questi termini : ciò che non è
opera del caso postula una causa intelligente , con particolare riguardo al
corpo umano che ha una struttura organizzata non casuale . Per questa sua
origine l'uomo è ritenuto superiore a tutti gli altri animali ed è oggetto
dell'interesse di Dio , come si deduce anche dalla possibilità di conoscere i
suoi progetti sull'uomo ricorrendo all'arte della divinazione . Va notato che
il Dio socratico ( inteso come intelligenza finalizzatrice ) è una sorta di
elevazione a entità assoluta della psychè umana . Molti hanno notato che gli
accusatori non volevano in realtà condannarlo a morte , ma semplicemente
zittirlo . Ma Socrate non può accettare di essere zittito : il suo destino è
andare in giro a colloquiare con la gente . Vivere bene per Socrate significa
svolgere quest'attività e non rifiutare di essere colpevole significava non
far perdere significato alla sua vita . Dal momento che era già vecchio e gli
restavano pochi anni di vita , tanto valeva farla finita lì , ma non rinunciare
ai suoi ideali . Mentre la ricerca di Platone si spingerà in un'altra dimensione
, quella di Socrate rimane saldamente ancorata al mondo terreno : la sua
mIssione è far capire ai cittadini ciò che fanno . In Socrate vi è poi un
rifiuto della politica (che peraltro troveremo anche in Platone ) : fa infatti
notare che lui stesso aveva avuto parecchi problemi con la politica : prima
contro di lui si erano scagliati gli oligarchici , ed ora i democratici
(nell'accusa ai danni di Socrate si possono scorgere istanze politiche : lui
era un aristocratico e i democratici volevano punirlo ) . Pur avendo problemi
con la politica , Socrate non dice che vada abolita . Prima dell'esecuzione
della pena capitale , a Socrate era stata presentata la possibilità di evadere
dal carcere , ma lui si era rifiutato : in lui infatti vi era il massimo rispetto
per la legge , che non si deve infrangere in nessun caso . La legge può essee
criticata , ma non infranta : di fronte ad una legge ingiusta non bisogna
infrangerla , ma bisogna battersi per farla cambiare . Socrate afferma che
sarebbe stato suo dovere far cambiare la legge e che non essendoci riuscito
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è giusto che lui muoia . Gli Ateniesi son convinti di essersi liberati di
Socrate avendolo eliminato fisicamente , ma in realtà per liberarsene
completamente avrebbero dovuto " ucciderlo filosoficamente " , batterlo a
parole . In realtà volevano farlo tacere , ma han sortito l'effetto opposto :
Platone infatti , che era intenzionato a dedicarsi alla vita politica , resterà
sconvolto per condanna del maestro e si dedicherà alla filosofia . In Socrate
vi è una vaga idea di provvidenza divina , ma non collettiva , bensì individuale
: la divinità aiuta solo i migliori . Celeberrima è la conclusione dell' Apologia ,
in cui Socrate si rivolge ai suoi discepoli prima di essere giustiziato : " Ma
ormai è ora di partire : io verso la morte , voi verso la vita . Chi di noi
cammini a una meta superiore è oscuro a chiunque : non al mio dio ." Nel "
Simposio " di PlatonePlatone Alcibiade afferma che Socrate non assomiglia a
nessuno degli uomini del passato e del presente : è una figura nuova . Non si
interessa di politica , ma non la disprezza , non rifiuta i festini , ma non vi si
identifica ( nel " Simposio " tutti i convitati si addormentano , Socrate no ) .
Soffermiamoci ora maggiormente sulla tecnica discorsiva di Socrate : la
confutazione è la tecnica che dimostra l'inconsistenza del sapere dei propri
interlocutori . Ma per arrivare a questo risultato bisogna partire dal metodo
delle domande e delle risposte . " Che cosa è la giustizia ? " può essere il
punto di partenza per il dibattito : porre questa o qualsiasi altra domanda
del genere significa richiedere la definizione delle cose in questione , che
però deve essere valida per tutti i casi particolari . In questo senso la
ricerca di Socrate è stata interpretata da Aristotele come ricerca
dell'universale , nell'ambito dei concetti e dei problemi morali . Gli
interlocutori di Socrate si dimostrano incapaci di rispondere correttamente
alla domanda sia perchè sottovalutano Socrate (che dice di essere
inferiore) sia perchè rispondono citando casi particolari , anzichè la
definizione universale . Abbiamo già citato il caso della domanda " Che cosa
è il coraggio ? " : rispondere " non inditreggiare mai " è sbagliato , così come
dire " assalire il nemico " : si può essere coraggiosi anche nell'affrontare
una malattia o un'interrogazione : una definizione corretta deve coprire
tutti i casi possibili . Nella sua funzione negativa il metodo delle domande e
risposte si caratterizza come confutazione , ossia dimostrazione della
falsità o contradditorietà delle risposte date dall'interlocutore . Gli effetti
prodotti dall'esercizio di questo metodo sono paragonati a quelli della
torpedine marina , che intorpidisce coloro che tocca . Di fronte alla
confutazione si può reagire rifiutandola , come fanno vari interlocutori di
Socrate . Ma , se la si accetta , essa può liberare dalle false opinioni che si
hanno sui vari argomenti e agire dunque come una forma di purificazione . La
situazione , che risulta dalla confutazione , è detta
, ossia
letteralmente situazione senza vie di uscita . Essa consiste nel rendersi
conto che i tentativi sin qui percorsi di rispondere a un determinato
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problema , hanno condotto a un vicolo cieco . Ma in questa nuova situazione ,
liberi dal falso sapere e soprattutto dalla presunzione di sapere , ci si può
accingere alla ricerca del vero sapere , tentando nuove stade che possano
condurre ad esso . In questo nuovo orientamento il metodo delle domande e
risposte può assolvere una funzione positiva . Essa è paragonata alla
funzione svolta dalla maieutica , capace di far partorire ad ognuno ,
mediante domande opportunamente indirizzate , la verità , di cui ciascuno è
gravido . Socrate si ostina incessantemente a far convergere i propri
interlocutori nell'ammissione di un punto fondamentale : per saper agire
bene , cioè virtuosamente , in un determinato ambito , occorre possedere il
sapere che renda capaci di ciò . A questo risultato egli perviene mediante
l'analogia con le tecniche : il buon artigiano che sa svolgere bene la propria
attività possiede un sapere capace di guidarlo a questo risultato . La stessa
cosa deve valere in ambito etico-politico : questo è il nocciolo della famosa
tesi secondo cui la virtù è scienza . Questa tesi conduce ad alcune
conseguenze . In primo luogo , chi conosce che cosa è bene e quindi anche
che cosa è buono per lui non può non farlo . Il bene è dotato di un potere
incontrastabile di attrazione . Ciò non significa che Socrate disconosca
l'importanza delle passioni e delle emozioni nella vita umana , ma soltanto
che in ogni ambito della vita umana l'unico strumento capace di orientare
verso il comportamento corretto è ravvisato nel sapere . La posizione etica
di Socrate non va confusa con forme di rigorismo ascetico . Essa è invece
definibile come una forma di eudemonismo , perchè pone come obiettivo
fondamentale il perseguimento della felicità (in Greco
) . E' il
sapere che è in grado di effettuare un corretto calcolo degli stessi piaceri ,
misurando le conseguenze piacevoli o dolorose che essi possono arrecare .
Questo è il sapere , di cui Socrate dichiara di non essere in possesso , ma
proprio per questo è il sapere che egli persegue . Non ha senso allora
distinguere le varie virtù nettamente le une dalle altre : la virtù è una ,
come uno solo è il sapere in cui esse si compendiano : sapere che cosa è bene
e che cosa è male .
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Platone
Primo periodo: la difesa di Socrate e la polemica contro i Sofisti.
L'Apologia di Socrate e i primi dialoghi.
I due primi periodi dell'attività filosofica di Platone sono dedicati
all'illustrazione e alla difesa dell'insegnamento di Socrate e alla
polemica contro i Sofisti. L'Apologia e il Critone chiariscono
l'atteggiamento di Socrate di fronte all'accusa, al processo e alla
condanna e il suo rifiuto di sottrarsi alla condanna. L'Apologia è
sostanzialmente un'esaltazione del compito che Socrate si è assunto di
fronte a se stesso e di fronte agli altri, e perciò l'esaltazione della vita
consacrata alla ricerca filosofica. Si può dire che l'intero significato dello
scritto è nella frase: "Una vita senza ricerca non è degna di essere
vissuta dall'uomo". Già nella presentazione che Platone fa di Socrate
nell'Apologia è evidente che egli vede incarnata nella figura del maestro
quella filosofia come ricerca alla quale egli stesso doveva dedicare
l'intera esistenza. Il Critone ci presenta Socrate di fronte al dilemma: o
accettare la morte per il rispetto che l'uomo giusto deve alle leggi del
sito paese o fuggire dal carcere, secondo la proposta degli amici, e così
smentire la sostanza del suo insegnamento. L'accettazione serena che
Socrate fa del destino cui è condannato è l'ultima prova della serietà del
suo insegnamento. Un numeroso gruppo di dialoghi illustra invece i
capisaldi dell'insegnamento socratico, che per Platone sono
fondamentalmente tre:
1) la virtù è una sola e si identifica con la scienza;
2) solo come scienza, la virtù è insegnabile;
3) nella virtù come scienza consiste la felicità dell'uomo.
Queste tesi sono esplicitamente presentate e difese nei dialoghi più
maturi e più ricchi di questa fase dei pensiero platonico: nel Protagora e
nel Gorgia. Il metodo seguito da Platone in questi dialoghi minori è
quello dialettico: si ammette, cioè, in via d'ipotesi, la tesi opposta a
quella di Socrate e si fa vedere che essa non conduce a nulla o conduce
a conseguenze assurde, rimanendo così confutata. La tesi fondamentale
di Socrate che la virtù sia scienza suppone evidentemente che la virtù
sia una sola (la scienza); che non ci siano (cioè) tante virtù, l'una
diversa dall'altra, ognuna delle quali sia definibile isolatamente. Alcuni
dialoghi fanno appunto vedere l'impossibilità che esistano virtù diverse
indipendenti l'una dall'altra, mostrando come non si riesca in realtà a
definire isolatamente tali virtù. Se, per esempio, la santità, il coraggio,
la saggezza, fossero virtù diverse tra loro e diverse dalla scienza,
dovrebbe essere possibile definire ognuna di queste virtù per suo conto,
senza rapporto con le altre. Ma tre dialoghi appartenenti al gruppo
citato (Eutifrone, Lachete e Carmide) fanno vedere come né la santitá,
né il coraggio, né la saggezza siano definibili in questo modo; e che, se ci
si ostina a considerare ognuna di queste virtù per suo conto,
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isolatamente dalla scienza, nulla si può dire intorno alla loro natura.
Tali dialoghi quindi suggeriscono che la virtù non è molteplice ma una,
e si riduce alla scienza.
Inoltre, se la virtù è una sola, uno solo dev'essere l'ideale o, come meglio
si direbbe, il valore, che essa tende a realizzare. Se invece le virtù
fossero diverse, ognuna di esse tenderebbe a realizzare un ideale o
valore diverso: per esempio una tenderebbe a realizzare il bene, l'altra
l'utile, l'altra il santo, ecc. Un altro gruppo di dialoghi fa vedere appunto
come il bello, l'utile, il conveniente, ecc., non possono essere definiti
ognuno per suo conto e quindi, in ultima analisi, non esistono come
valori indipendenti e diversi. Socrate suggerisce qui che l'unico valore
che comprende e assomma in sé tutti gli altri è il bene: unico come
è unica la virtù, cioè l'attività umana che deve realizzarlo. In altri
dialoghi dello stesso periodo, si insiste sull'esigenza di riconoscere la
propria ignoranza, come primo passo per intraprendere la ricerca che
deve condurre alla scienza. dell'ispirazione divina. E l'Ippia minore fa
vedere negativamente l'identità tra virtù e scienza, mostrando che, se
così non fosse, l'uomo che fa il male volendolo sarebbe superiore
all'uomo che fa il male senza volerlo. Il primo infatti, per volere il male,
deve conoscerlo, e per conoscerlo deve saperlo distinguere dal bene;
deve perciò conoscere il bene, e questo stabilisce la sua superiorità
rispetto a chi fa il male senza volerlo, cioè senza essere capace di
distinguerlo dal bene. Ora questo è assurdo: perciò il dialogo tende a
suggerire che un uomo che conosca il bene e fa il male non c'è e non ci
sarà mai: il male è sempre ignoranza, come la virtù è scienza.
Protagora, Eutidemo e Gorgia.
La tesi che il precedente gruppo di dialoghi suggerisce l'unità della virtù
e la sua riduzione al sapere, è positivamente posta e dimostrata nel
Protagora in polemica con l'atteggiamento dei Sofisti. A Protagora, che si
dice maestro di virtù, Socrate oppone che la virtù di cui parla Protagora
non è scienza, ma un semplice insieme di abilità acquisite
accidentalmente per esperienza; ed è perciò un patrimonio privato, che
non può essere trasmesso agli altri. Non può affermare l'insegnabilità
della virtù Protagora per il quale le virtù sono molte e la scienza una
sola di esse; perché la scienza soltanto si può insegnare e quindi la virtù
si può trasmettere e comunicare solo in quanto è scienza. Si è visto a
proposito di Socrate che qui la scienza è intesa come calcolo dei piaceri
e il suo concetto rimane quindi ancorato alla lettera dell'insegnamento
socratico. Ma già questo dialogo mostra che Platone non si limita ormai
all'illustrazione dei concetti che Socrate ha posti a base della vita
morale; ma contrapponendo l'insegnainento di Socrate a quello dei
Sofisti, proietta sulla figura del maestro la luce più viva che scaturisce
dalla polemica. Il Protagora ha negato all'insegnamento sofistico ogni
valore educativo e formativo e alla sofistica stessa ogni contenuto
umano. Di fronte al crollo della sofistica, l'insegnamento di Socrate è
apparso in tutto il suo valore. Ma rimanevano altri aspetti della
sofistica; e contro di essi Platone rivolge tre dialoghi che col Protagora
fornirano un gruppo compatto. Questi aspetti sono l'eristica contro la
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quale è diretto l'Eutidemo e la retorica contro la quale è diretto il
Gorgia. L'Eutidemo è innanzi tutto una rappresentazione vivacissima e
caricaturale del metodo eristico dei Sofisti. L'eristica è l'arte di
battagliare a parole e di "confutare tutto quello che via via si dice, falso
o vero che sia". Gli interlocutori del dialogo, i due fratelli Eutidemo e
Dionisodoro, si divertono a dimostrare, per esempio, che solo l'ignorante
può apprendere e, subito dopo, che invece apprende solo il sapiente;
che si apprende solo ciò che non si sa e poi che si apprende solo ciò che
si sa, ecc. Il fondamento di simili esercizi è la dottrina (difesa oltre che
dai Sofisti, dai Megarici e dai Cinici) che non è possibile l'errore e che
qualsiasi cosa si dica, si dice cosa che è, quindi vera. Al che Socrate
oppone che in questo caso non ci sarebbe nulla da insegnare e nulla da
apprendere e la stessa eristica sarebbe inutile. Ed in realtà nulla si può
insegnare se non la sapienza; e la sapienza non si può insegnarla né
apprenderla, se non amandola cioè filosofando. E a questo punto il
dialogo si trasforma da critica del procedimento sofistico in esortazione
alla filosofia; e come discorso introduttivo o protrettico divenne famoso
nell'antichità e fu numerose volte imitato. Ma questa parte è importante
soprattutto perché contiene l'illustrazione del compito proprio della
filosofia: compito che Platone definisce come l'uso del sapere a
vantaggio dell'uomo. La filosofia è l'unica scienza in cui il fare coincide
col sapersi servire di ciò che si fa: cioè l'unica scienza che non solo
produce conoscenze ma insegna a utilizzare per il vantaggio e la felicità
dell'uomo le conoscenze stesse. Nel Gorgia infine Platone attacca l'arte
che era la principale creazione dei sofisti e la base del loro
insegnamento, la retorica. La retorica voleva essere una tecnica della
persuasione alla quale riuscisse completamente indifferente la tesi da
difendere o l'argomento trattato. Al concetto di quest'arte Platone
oppone che ogni arte o scienza riesce veramente persuasiva solo intorno
all'oggetto che le è proprio. La retorica non ha un oggetto proprio:
consente di parlare di tutto, ma non riesce a persuadere se non quelli
che hanno una conoscenza inadeguata e sommaria delle cose di cui
tratta e cioè gli ignoranti. Essa non è dunque un'arte ma soltanto
unapratica adulatoria che dà l'apparenza della giustizia e sta rispetto
alla politica, che è arte della giustizia, nello stesso rapporto in cui la
culinaria sta alla medicina: retorica e culinaria solleticano il gusto, una
dell'anima l'altra del corpo; politica e medicina curano veramente anima
e corpo. La retorica può essere utile a difendere con discorsi la propria
ingiustizia e ad evitare di subire la pena dell'ingiustizia commessa; ma
questo non è un vantaggio. Il male per l'uomo non è il subire
l'ingiustizia, ma il commetterla, perché essa macchia e corrompe
l'anima; e il sottrarsi alla pena dell'ingiustizia commessa è un male
ancora peggiore perché toglie all'anima la possibilità di liberarsi della
colpa espiandola. In realtà la retorica, per la sua indifferenza verso la
giustizia della tesi da difendere, implica la convinzione (esposta nel
dialogo da Callicle) che la giustizia è solo una convenzione umana, che è
da sciocchi rispettare; e che la legge di natura è la legge del più forte. Il
più forte segue soltanto il proprio piacere e non si cura della giustizia;
tende alla preminenza sugli altri e ha come unica regola il proprio
talento. Ma contro questo crudo immoralismo, Platone osserva che
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l'intemperante, come non è l'uomo migliore, così non è il più felice,
giacché passa da un piacere all'altro insaziabilmente ed è simile ad una
botte bucata che non arriva mai a riempirsi. il piacere è la
soddisfazione di un bisogno; e il bisogno è sempre mancanza, cioè
dolore: piacere e dolore si condizionano l'un l'altro e non c'è l'uno
senza l'altro. Ma il bene e il male invece non sono congiunti ma
separati e così non possono identificarsi con piacere e dolore. Il bene
non può conseguirsi se non con la virtù; e la virtù è l'ordine e la
regolarità della vita umana. L'anima buona è l'anima ordinata; che è
saggia, temperante e giusta ad un tempo.
Secondo periodo: la dottrina delle idee.
La dottrina delle idee e sua importanza.
Nei dialoghi del primo periodo, Platone ha per lo più illustrato e difeso
teorie che erano proprie di Socrate, sia pure di un Socrate già
platonicamente interpretato. Nell'ambito della battaglia antisofistica che
coinvolge parte della cultura che aveva caratterizzato l'Atene del V
secolo - Platone giunge a formulare la cosiddetta "teoria delle idee", che
dà l'avvio alla seconda fase della sua speculazione, in cui il filosofo,
procedendo per suo conto, va esplicitamente al di là delle dottrine che
Socrate aveva insegnato, elaborando un proprio pensiero originale. Nei
Dialoghi questa dottrina delle idee non è mai esposta in modo organico
(essa costituiva forse l'oggetto di quelle "dottrine non scritte" di cui parla
Platone stesso e alle quali accenna Aristotele in più luoghi; dottrine che
dovevano costituire il patrimonio dell'Accademia). La dottrina delle
idee rappresenta il cuore stesso del platonismo.
Grenesi della teoria delle idee.
La genesi immediata della teoria delle idee è da ricercarsi
nell'approfondimento platonico del concetto di scienza. In antitesi ai
Sofisti, ma procedendo oltre lo stesso Socrate, Platone ritiene che la
scienza abbia i caratteri della stabilità e dell'immutabilità, e quindi della
perfezione. Ed essendo convinto che il pensiero rifletta l'essere, ossia
che la mente sia uno specchio o una riproduzione di ciò che esiste (=
realismo gnoseologico), Platone si chiede quale sia l'oggetto proprio
della scienza. In altre parole, se il concetto socratico fonda una scienza
stabilie ed assoluta, quale sarà l'oggetto del concetto? Quale la realtà
fotografata dalla scienza? Infatti, a meno di ridurre la scienza a fantasia
o vaneggiamento della mente, si dovrà per forza ammettere l'esistenza di
un suo contenuto specifico. Ovviamente, non possono costituire oggetto
della scienza le cose del mondo, apprese dai sensi, che sono mutevoli ed
imperfette, e quindi dominio di quella corrispondente forma di
conoscenza mutevole ed imperfetta che Platone chiama opinione (doxa).
Oggetto proprio della scienza, secondo Platone, non possono essere che
le Idee. Per noi il termine idea denota una rappresentazione o un
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pensiero del nostro intelletto. Per Platone l'idea indica invece una entità
immutabile e perfetta, che esiste per suo conto, indipendentemente da
noi, e che costituisce, con altre idee, una zona d'essere diversa dalla
nostra, chiamata poeticamente e metaforicamente "iperuranio" (che in
greco significa "al di là del cielo"). Il fatto che le idee presentino
caratteristiche strutturali diverse dalle cose non esclude un loro stretto
rapporto con gli oggetti, che Platone configura nei termini di copiamodello. Per il filosofo le cose sono infatti copie o imitazioni imperfette
delle idee. Ad esempio, nel nostro mondo esiste una pluralità di cose
più o meno belle o giuste, ma nel mondo delle idee esiste la Bellezza e la
Giustizia. L'idea platonica è dunque il modello unico e perfetto della
molteplicità delle cose imperfette di questo mondo. Facendo un primo
inventario di quanto abbiamo sinora appreso, possiamo dire che in
Platone esistono due gradi fondamentali di conoscenza, che sono
l'opinione e la scienza (= dualismo gnoseologico), cui fanno riscontro
due tipi d'essere distinti, che sono le cose e le idee (= dualismo
ontologico). Da quanto si è detto, emerge pure come la filosofia
platonica rappresenti una sorta di sintesi fra eraclitismo ed
eleatismo. Da Eraclito Platone accetta la teoria secondo cui il nostro
mondo è il regno della mutevolezza, mentre da Parmenide trae il
concetto secondo cui l'Essere autentico è immutabile. L'idea platonica
presenta infatti taluni caratteri essenziali dell'Essere parmenideo: nel
Fedro si dice ad esempio che essa è "semplice e imperitura", nel Convito
che "mai incomincia, né mai passa, né aumenta né diminuisce". In altre
parole, analogamente all'Essere di Parmenide, l'idea di Platone è
immutabile, eterna e perfetta, anche se, diversamente da esso, l'Essere
platonico risulta multiplo, in quanto formato da una pluralità di idee.
Dall'eleatismo Platone deriva anche il dualismo gnoseologico fra
sensibilità e ragione e il dualismo ontologico fra le cose e l'Essere.
Tuttavia, mentre per Parmenide il mondo sensibile non ha connessioni
con quello pensato dalla ragione, per Platone fra le due sfere di realtà
esiste un indissolubile rapporto, la cui precisa definizione costituisce
uno dei problemi più impegnativi e tormentosi del platonismo. Inoltre,
mentre per l'eleatismo il nostro mondo è apparenza illusoria e
irrazionale, per Platone esso possiede una sua specifica, anche se
imperfetta, realtà e conoscibilità.
Quali sono le idee.
Per adesso abbiamo spiegato che cosa sono le idee. Ora dobbiamo
vedere quali sono.
Nella fase della maturità del pensiero platonico compaiono due tipi
fondamentali di idee:
1) le idee-valori, corrispondenti ai supremi princìpi etici, estetici e
politici. Tali sono, per esempio, il Bene, la Bellezza, la Giustizia ecc., che
formano appunto ciò che denominiamo ideali o valori;
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2) le idee-matematiche, corrispondenti alle entità dell'aritmetica e della
geometria. Infatti, secondo Platone, vi sono idee anche dei princìpi del
pensiero matematico (ad esempio l'uguaglianza, le classi dei numeri, il
quadrato, il circolo ecc.), poiché nella realtà non troviamo mai
l'uguaglianza perfetta o il quadrato perfetto di cui parla il matematico,
ma solo copie approssimative ed imperfette di essi. Accanto a queste
due famiglie di idee, Platone parla talora di idee di cose naturali (ad
esempio " l'Umanità ") o di cose artificiali (ad esempio " il letto ").
Tuttavia, su questo tipo di idee il Platone della maturità appare
abbastanza incerto. Solo nei grandi dialoghi della vecchiaia (Sofista,
Timeo) Platone tenderà a generalizzare il concetto di idea, sostenendo
esplicitamente come di ogni realtà vi sia una corrispondente idea. In tal
modo, l'idea platonica finirà per configurarsi come la forma unica e
perfetta di qualsiasi gruppo o classe di cose che vengono designate con
un medesimo nome e che possono esserefatte oggetto di scienza.
Pur essendo molteplici, le idee non costituiscono affatto una pluralità
disorganizzata. Esse formano un ordine gerarchico e piramidale, con le
idee-valori in cima e l'idea del Bene al vertice. Difatti, come le cose
partecipano delle idee, le idee partecipano a loro volta del Bene, che è
l'idea delle idee, il supremo Valore e la Perfezione massima di cui le altre
idee sono imitazione o riflesso. Nell'ambito della tradizione cristiana tale
idea è stata talora assimilata a Dio. Questa lettura non trova
un'esplicita verifica nei testi, dove risulta tra l'altro assente l'idea di un
Dio creatore. Infatti, pur essendo "al di là dell'essere", cioè delle idee, e
pur superandole tutte per "valore e potenza", il Bene non crea le idee,
che sono tutte eterne, ma si limita a comunicare loro perfezione. In
linea generale, possiamo dire sin d'ora che in Platone non esiste un
Dio personale, ma solamente il "divino". Platone usa infatti il termine
impersonale "divino" per designare una molteplicità di cose diverse:
divine sono le idee, divina è l'idea del Bene, divina è l'anima, divine sono
le stelle e gli astri ecc. Caratteri personali, come vedremo, possiede
invece il Demiurgo, che però è un'entità inferiore alle idee, che si
limita ad ordinare una materia preesistente. Tutto ciò, che rivela tra
l'altro il rapporto di Platone con il politeismo tradizionale, non esclude
che questa sorta di filosofo religioso senza un vero e proprio Diopersona abbia offerto notevoli strumenti concettuali per pensare la
realtà di Dio. In questo senso, ed entro questi limiti, si può continuare a
vedere in Platone "il creatore della teologia occidentale".
Rapporti idee-cose.
Come si è già detto, se da un lato Platone afferma la distinzione ideecose, dall'altro lato egli ne sostiene pure lo stretto legame.
Le idee sono infatti:
44
1) criteri di giudizio delle cose, in quanto noi, per giudicare circa gli
oggetti non possiamo fare a meno di riferirci ad esse. Ad esempio,
diciamo che due cose sono uguali sulla base dell'idea di Uguaglianza,
oppure diciamo che due azioni sono giuste sulla base dell'idea di
Giustizia e così via. In questo senso, possiamo dire che le idee sono la
condizione della pensabilità degli oggetti;
2) le idee sono anche causa delle cose, poiché gli individui sono,
esistono
in
quanto
imitano
o
partecipano,
sia
pure
imperfettamente delle idee. Ad esempio, le realtà che diciamo belle
sono tali in quanto imitano o partecipano della Bellezza, che
rappresenta dunque la causa per cui esse sono e vengono ritenute belle.
E così pure diciamo che due individui sono uomini sulla base dell'idea
di Umanità, che è la causa che li fa tali. In questo senso, possiamo dire
che le idee sono la condizione dell'esistenza degli oggetti.
Tuttavia, il rapporto idee-cose non è stato ben definito dal Platone della
maturità, in quanto egli, pur parlando di mimesi (=le cose imitano le
idee), di metessi (= le cose partecipano delle idee), di parusìa (=presenza
delle idee alle cose) ecc. è rimasto sulla questione piuttosto incerto ed
oscillante. Nella sua vecchiaia Platone continuerà a cimentarsi daccapo
su questo problema, tentando di risolverlo in modo più soddisfacente,
senza tuttavia pervenire, neppure allora, ad un esito definitivo.
"Come" o "dove" esistono le idee.
Finora abbiamo sempre detto che le idee esistono in modo "superiore"
alle cose. Ma come esistono o dove esistono le idee? Esse, per usare
un termine di origine latina, sono senz'altro "trascendenti", in quanto
esistono oltre la mente ed oltre le cose. Ma questo "oltre" allude forse ad
un vero e proprio mondo dell'al di là? Così ha pensato la tradizione, che
prendendo alla lettera l'espressione platonica di "iperuranio" ha
considerato il mondo platonico delle idee come qualcosa di analogo
all'Empireo dantesco o al Paradiso cristiano. A questa lettura si è
contrapposta quella di alcuni studiosi neo-kantiani del nostro secolo,
che hanno considerato le idee platoniche non come delle cose,
bensì come dei modelli di classificazione delle cose, ossia come dei
criteri mentali attraverso cui pensiamo gli oggetti. In genere, oggi si
tende a rifiutare quest'ultimo tipo di lettura, ritenendola un'eccessiva
modernizzazíone di Platone ed un manifesto travisamento del suo
pensiero, per il quale, come si è visto, le idee non sono unicamente
schemi della nostra mente, ma sostanze reali. Per cui, il dibattito
odierno non verte tanto sul carattere mentale o reale delle idee, quanto
sul modo di intendere tale realtà. Parecchi studiosi hanno considerato e
considerano la prima interpretazione come troppo legata al mito oppure
come risultato di una sovrapposizione dell'idea cristiana dell'al di là al
genuino pensiero platonico. Di conseguenza, essi affermano che il
mondo platonico delle idee, pur esistendo indipendentemente dalla
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nostra mente e pur possedendo una realtà oggettiva a sé stante, non
deve essere interpretato come un universo di "super-cose" esistenti in
qualcosa come "l'al di là", ma soltanto come un ordine eterno di forme o
valori ideali, che, come tali, non esistono in alcun " luogo" o "Empireo".
Secondo questa interpretazione, un esempio di come esistano le idee ci
è offerto dagli enti matematici. Infatti, le idee di Triangolo, Uguaglianza,
Numero ecc., pur esistendo di per sé, al di fuori dello spazio e del tempo
e indipendentemente dagli intelletti umani, non per questo si trovano in
un ipotetico mondo dell'al di là, cristianamente inteso. Stabilire con
sicurezza quale di queste due interpretazioni - quella tradizionale o
l'ultima citata - sia la vera non è forse possibile, poiché entrambe
trovano appigli nel discorso platonico e nello stesso tempo presentano
punti di debolezza (alla prima si può, ad esempio, rivolgere l'obiezione di
concedere troppo al mito e alla seconda di non tener conto degli aspetti
religiosi del platonismo e di essere, in fondo, un rimaneggiamento
moderno di Platone). In conclusione, stando ai Dialoghi, ciò che si può
affermare con un buon margine di sicurezza è che le idee, comunque
intese, costituiscono una zona d'essere diversa dalle cose. Su
"come" precisamente esistano le idee, i pareri sono invece contrastanti,
sebbene, spesso, si continui per lo più a dare per scontata una
interpretazione senza accennare alle altre possibili o almeno
all'esistenza di un problema critico in proposito.
La conoscenza delle idee.
Sinora ci siamo soffermati sulle idee e sulle loro caratteristiche. Resta
da esaminare in qual modo l'uomo possa accedere ad esse. Come si è
già visto, secondo Platone le idee non possono derivare dai sensi, poiché
questi ci testimoniano solo un mondo di cose materiali ed imperfette. Le
idee sono esclusivamente "l'oggetto di una visione intellettuale" ossia il
risultato di uno sguardo della mente. Ma da dove proviene questa
visione intellettuale? Come si spiega che noi, pur vivendo in un mondo
caratterizzato dal divenire e dall'imperfezione, abbiamo la nozione delle
forme ideali? Per risolvere tale problema Platone ricorre alla dottrinamito della reminiscenza (= ricordo), affermando, sulla base della
credenza orfico-pitagorica della metempsicosi o trasmigrazione delle
anime, che la nostra anima, prima di calarsi nel presente corpo è
vissuta, disincarnata, nel mondo delle idee, dove, fra una vita e l'altra,
ha potuto contemplare gli esemplari perfetti delle cose. Una volta
discesa nel nostro mondo, l'anima conserva un ricordo sopito di ciò che
ha veduto. Grazie all'esperienza delle cose, che fungono da occasione o
pungolo per la memoria, l'anima ricorda ciò che ha visto nell'Iperuranio.
In questo senso, dice Platone, "conoscere è ricordare", in quanto le
idee, sia pur sfocate, le portiamo dentro di noi e basta uno sforzo per
tirarle fuori, tanto più che esse, come le cose, sono legate fra loro da
una sorta di "parentela", per cui basta rammentarcene una per farci
tornare alla mente tutte le altre. La gnoseologi a di Platone rappresenta
dunque una forma di innatismo, in quanto ritiene che la conoscenza
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non derivi dall'esperienza sensibile (che funge soltanto da meccanismo
sollecitatore del ricordo) bensì da metri di giudizi preesistenti e
connaturati con il nostro intelletto. Una prova di questa teoria risiede
nel fatto che anche un ignorante, opportunamente interrogato, può
rispondere con esattezza intorno a cose di cui non ha mai inteso
discorrere. Celebre l'esempio del Menone, in cui troviamo il caso dello
schiavo, che, pur essendo a digiuno di geometria, viene aiutato da
Socrate a "ricordare" gli elementi di fondo di essa, riuscendo così a
dimostrare il teorema di Pitagora. In tal modo, la maieutica, che in
Socrate alludeva soltanto al fatto che la verità è una conquista nostra,
che il filosofo non ci offre già confezionata dall'esterno, ma stimola
dialogicamente dall'interno, in Platone subisce una evidente
radicalizzazionemetafisica, venendo a coincidere con la teoria stessa
della reminiscenza, cioè con la tesi secondo cui portiamo dentro di noi
una verità prenatale, che è il frutto di una precedente contemplazione
delle idee.
L'immortalità dell'anima.
La reminiscenza postula di per sé l'immortalità dell'anima, che infatti
diviene oggetto di uno dei dialoghi più ricchi di pathos umano e
religioso: il Fedone. A parte l'argomento appena esaminato della
reminiscenza, in quest'opera Platone elenca altre prove dell'immortalità
dell'anima.
1. Una prima, detta dei contrari, afferma che come in natura ogni cosa
si genera dal suo contrario (il freddo dal caldo, il sonno dalla veglia,
ecc.), così la morte si genera dalla vita e la vita si genera dalla morte,
nel senso che l'anima rivive dopo la morte del corpo.
2. Una seconda, detta della somiglianza, sostiene che l'anima, essendo
simile alle idee, che sono eterne, sarà anch'essa tale. Infatti, solo ciò che
è composto può distruggersi, risolvendosi nei suoi elementi semplici,
mentre ciò che è semplice, come le idee e le anime, non può venire né
creato né distrutto.
3. Una terza, detta della vitalità, argomenta che l'anima, in quanto
soffio vitale, è vita e partecipa dell'idea di vita, onde non può accogliere
in sé l'opposta idea, l'idea della morte.
Nell'ambito di questi discorsi, nel Fedone troviamo la nota dottrina
platonica della filosofia come "preparazione alla morte". Infatti, se
filosofare significa morire ai sensi e al corpo, per poter cogliere meglio le
idee, la vita del filosofo risulta tutta una preparazione alla morte, cioè al
momento in cui l'anima, finalmente libera dai ceppi del corpo, potrà
unirsi direttamente alle idee, beandosi della loro totale contemplazione.
Il Fedone mostra in modo inequivocabile come nella complessa anima
del platonismo vi sia un momento fortemente religioso, che tuttavia non
esclude, ma si integra, con il momento mondano-politico, delineando
non già un Platone "bifronte", ma un'unica ricca personalità, in cui
coesistono interessi e spinte diverse e per la quale l'attaccamento alle
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cose immanenti non esclude l'apertura a quelle trascendenti e
viceversa.
La dottrina delle idee come " salvezza " dal relativismo sofistico.
Se la teoria delle idee costituisce il cuore della filosofia platonica,
l'opposizione al relativismo sofistico costituisce il cuore della dottrina
delle idee. Come si è già accennato, Platone non può venir filosoficamente
compreso in modo adeguato se non in antitesi ai sofisti. Noi sappiamo
come il relativismo sofistico costituisca qualcosa di complesso ed
articolato. Ad esempio, fra Protagora, che pur mettendo in crisi le
certezze assolute, vuol insegnare agli uomini a saper vivere senza di
esse, fornendoli nel contempo di un criterio esistenziale sulla cui base
intendersi (= la comune utilità), e Gorgia, che nega qualsiasi principio
conoscitivo e pratico, vi è una notevole differenza. Nella
schematizzazione platonica il relativismo sofistico tende invece, difatto,
a divenire un tutto indistinto e ad identificarsi con una filosofia
negatrice di ogni stabile punto di vista sulle cose e di ogni certezza
teorica e pratica. In altre parole, dire Sofistica, per Platone, equivale a
dire filosofia che negando ogni verità oggettiva sospende tutto all'arbitrio
individuale. Di fronte ad un relativismo del genere, per Platone non vi è
altra via di scampo se non la restaurazione dell'assolutismo. Platone
appare infatti lontanissimo, per interessi e costituzione mentale, da
quella sorta dì "terza via" fra assolutismo tradizionale e relativismo
estremo, che era stata imboccata da pensatori come Protagora e
Socrate, i quali, dopo la "crisi di certezze" dell'antica religione e della
precedente filosofia cosmologica, erano giunti in fondo, sia pure da
angoli visuali diversi, a porsi implicitamente il medesimo problema:
quello di riuscire a trovare dei criteri o dei punti di accordo che, pur
avendo la capacità di unire gli uomini (per esempio "l'utilità comune" di
Protagora o la "virtù come scienza" di Socrate) non pretendessero però
di fondarsi su qualche realtà extra-umana o su qualche verità eterna
già data. Ma poiché per Platone l'unica via percorribile dopo il
relativismo è l'assolutismo (che si accompagna, in parte, ad un recupero
della religione) la dottrina delle idee diviene, dal suo punto di vista, lo
strumento più prezioso e decisivo della filosofia. Infatti, grazie ad essa,
Platone può asserire la presenza di strutture o perfezioni ideali che,
esistendo per proprio conto e indipendentemente dall'arbìtrio degli
individui, hanno una validità oggettiva ed universale. In tal modo,
l'umanismo sofistico e socratico, che poneva nell'uomo e non fuori
dell'uomo la fonte dei giudizi e il criterio del conoscere e dell'agire,
risulta messo da parte e sostituito da una concezione per cui è di nuovo
qualcosa di extraumano - in questo caso le "idee" e non più gli dèi - a
"regolare" l'uomo. Infatti, nel platonismo non è più l'uomo a misurare la
verità, come voleva Protagora, ma è la verità (= le Idee) a " misurare "
l'uomo e a fornirgli le regole del pensare e del vivere. Analogamente,
posta l'idea come superiore punto di accordo fra le menti, il retativismo
conoscitivo e morale dei sofisti crolla totalmente. Per cui la conoscenza
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torna ad avere un valore assoluto e cessa di essere relativa all'uomo e al
soggetto giudicante. Esempio tipico di ciò è, per Platone, la matematica,
che in virtù delle idee-matematiche parla un linguaggio che vale per
tutti e tutte le circostanze, imponendosi perentoriamente alla mente di
qualsiasi individuo, sia esso greco, caldeo o egiziano. Anche la morale
torna ad avere una validità assoluta, in quanto Platone, come già
sappiamo, ritiene che esistano idee-valori, quali il Bene, la Giustizia,
ecc., che essendo indipendenti dalle opinioni personali e dai costumi dei
vari popoli permettono al filosofo di delineare un discorso etico-politico
universale. Lo stesso linguaggio, che i Sofisti ritenevano convenzionale
e incapace di riprodurre le strutture ultime del reale (vedi Gorgia), torna
a caricarsi, se ben usato, di un valore assoluto, in quanto esso,
fondandosi sulle idee, che ne formano il perno extra-linguistico, risulta
capace di rivelarci l'essere e la verità.
La finalità politica della teoria delle idee.
Il superamento platonico del relativismo conoscitivo e morale e la
connessa battaglia antisofistica rivela il suo pieno significato in sede
politica. Come si è già accennato all'inizio, Platone ritiene infatti che il
relativismo, dando libero corso alla disparità e all'urto delle opinioni,
non possa che produrre disordine e violenza, o, al limite, la teorizzazione
della legge del più forte. Di conseguenza, con la dottrina delle idee - e
questo è certamente il suo significato esistenziale più profondo Platone
volle offrire agli uomini uno strumento che consentisse loro di uscire
dal caos delle opinioni e dei costumi e che li traesse fuori dalle lotte e
dalle violenze in cui la molteplicità dei punti di vista li avevafatti
inevitabilmente cadere. L'assolutismo della teoria delle idee
rappresenta, dunque, in Platone, il principale strumento di battaglia
contro il relativismo politico e l'anarchia sociale. Da ciò i termini
essenziali della sua equazione risolutiva della crisi: conoscenza delle
idee = fondazione di una scienza politica universale = pace e
giustizialfra gli uomini. Ma tutto ciò implica, come ultimo risultato,
quell'idea dellafilosofia al potere che rappresenta il punto di arrivo di
tutta la meditazione platonica. Su tale concetto insiste soprattutto la
Repubblica.
"Se i filosofi son quelli capaci di attingere ciò che è sempre uguale a se
stesso e se invece quelli che non sono capaci di questo e vanno vagando
nel molteplice e nel mutevole non sono filosofi, quali bisogna che siano i
governanti dello stato? Cosa bisognerà dire, domandò, per rispondere
giustamente? Quelli che si rivelano capaci di custodire le leggi e
conservare lo stato dovranno essere posti come custodi. Giusto, disse.
Non è forse chiaro, ripresi, chi bisogna scegliere tra un cieco ed uno dalla
vista acuta per farne il custode di una cosa qualsiasi? È certamente
chiaro, rispose. Ma pare che differiscano in qualche cosa i ciechi e quelli
che sono realmente privi della conoscenza dell'essere, che non hanno
nell'anima alcun modello evidente e non sono capaci di guardare, come
pittori, alla verità suprema né di rapportarsi continuamente ad essa né di
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vederla il più chiaramente possibile in modo da poter stabilire quaggiù, se
ancora sono da stabilire, i criteri del bello, del giusto e del buono e di
conservarli custodendoli? No, per Zeus, disse, non c'è grande differenza.
Noi porremo dunque come guardiani questi ciechi o piuttosto quelli che
conoscono l'essere di ciascuna cosa e che inoltre non la cedono loro in
esperienza, né sono loro inferiori in alcuna altra parte della virtù?
Sarebbe certo assurdo, disse, scegliere altri, se non sono inferiori ad
alcuno neppure nelle altre cose: giacché hanno sugli altri il vantaggio di
questa conoscenza che è ciò che più conta".
Secondo periodo: la dottrina dell'amore e dell'anima.
Il Convito.
Il sapere stabilisce tra l'uomo e le idee, e tra gli uomini associati nella
comune ricerca, un rapporto che non è puramente intellettuale, perché
impegna la totalità dell'uomo e quindi anche la volontà. Questo rapporto
è definito da Platone come amore (eros). Alla teoria dell'amore sono
dedicati due dei dialoghi più artisticamente perfetti, il Convito ed il
Fedro. Di questi, il secondo è certamente posteriore al primo. Il Convito
considera prevalentemente l'oggetto dell'amore, cioè la bellezza, e mira a
determinare di essa i gradi gerarchici. Il Fedro considera invece
prevalentemente l'amore nella sua soggettività, come aspirazione verso
la bellezza ed elevazione progressiva dell'anima al mondo delle idee, al
quale la bellezza appartiene. Socrate: l'amore desidera qualche cosa che
non ha, ma di cui ha bisogno, ed è quindi mancanza. Il mito infatti lo
dice figlio di Povertà (Penìa) e di Acquisto (Poros); come tale esso non è
un dio, ma un dèmone; perciò non ha la bellezza ma la desidera, non ha
la sapienza, ma aspira a possederla ed è quindifilosofo, mentre gli dèi
sono sapienti. L'amore è dunque desiderio di bellezza; e la bellezza si
desidera perché è il bene che rende felice. L'uomo che è mortale tende a
generare nella bellezza e quindi a perpetuarsi attraverso la generazione,
lasciando dopo di sé un essere che gli somiglia. La bellezza è il fine,
l'oggetto dell'amore. Ma la bellezza ha gradi diversi ai quali l'uomo può
sollevarsi solo successivamente attraverso un lento cammino. In primo
luogo, è la bellezza di un bel corpo quella che attrae ed avvince l'uomo.
Poi egli si accorge che la bellezza è uguale in tutti i corpi e così passa a
desiderare e ad amare tutta la bellezza corporea. Ma al disopra di essa
c'è la bellezza dell'anima; al disopra ancora, la bellezza delle istituzioni e
delle leggi e poi la bellezza delle scienze e infine, al disopra di tutto, la
bellezza in sé, che è eterna, superiore al divenire e alla morte, perfetta,
sempre uguale a se stessa, fonte di ogni altra bellezza e oggetto della
filosofia.
50
Il Fedro.
Come l'anima umana può percorrere i gradi di questa gerarchia, fino a
giungere alla bellezza suprema? È questo il problema del Fedro; il quale
parte perciò dalla considerazione dell'anima. La natura di essa si può
esprimere "per via umana e più breve" con un mito. È simile ad una
coppia di cavalli alati, guidati da un auriga: l'uno dei cavalli è eccellente,
l'altro è pessimo, sicché l'opera dell'auriga è difficile e penosa. L'auriga
cerca di indirizzare nel cielo i cavalli al sèguito degli dèi, verso la regione
sopraceleste (iperuranio) che è la sede dell'essere. In questa regione sta
la "vera sostanza", priva di colore e di forma, impalpabile, che può
essere contemplata solo da quella guida dell'anima che è la ragione, la
sostanza che è l'oggetto della vera scienza. Questa sostanza è la totalità
delle idee (giustizia in sé, temperanza in sé, ecc.). Ma essa può essere
contemplata solo per poco dall'anima che è tirata in basso dal cavallo
balzano. Ogni anima perciò contempla la sostanza dell'essere più o
meno; e quando per oblio o per colpa s'appesantisce, perde le ali e
s'incarna, va a vivificare il corpo di un uomo che sarà tale quale essa lo
rende. L'anima che ha visto di più va nel corpo di un uomo che si
consacra al culto della sapienza o dell'amore; quelle che hanno visto di
meno s'incarnano in uomini che sono via via più alieni dalla ricerca
della verità e della bellezza. Ora nell'anima che è caduta e si è
incarnata, il ricordo delle sostanze ideali è risvegliato proprio dalla
bellezza. L'uomo difatti riconosce subito, appena la vede, la bellezza per
la sua luminosità. La vista, il più acuto dei sensi corporei, non vede
nessuna delle altre sostanze; può vedere però la bellezza. "Alla sola
bellezza toccò il privilegio d'essere la più evidente e la più amabile".
Essa fa da mediatrice fra l'uomo caduto e il mondo delle idee; e
all'appello di essa l'uomo risponde con l'amore. È vero che l'amore può
anche rimanere attaccato alla bellezza corporea e pretendere di godere
solo di questa; ma quando l'amore venga sentito e realizzato nella sua
vera natura, allora si fa guida dell'anima verso il mondo dell'essere. In
questo caso non è più soltanto desiderio, impulso, delirio; i suoi
caratteri passionali non vengono meno, ma sono subordinati e fusi nella
ricerca rigorosa e lucida dell'essere in sé, dell'idea. L'eros diventa allora
procedimento razionale, dialettica. La dialettica è nello stesso tempo
ricerca dell'essere in sé e unione amorosa delle anime nell'apprendere e
nell'insegnare. È quindi psicagogia, guida dell'amma, con la mediazione
della bellezza, verso il suo vero destino. Ed è anche la vera arte della
persitasione, la vera retorica; che non è, come sostengono i Sofisti, una
tecnica alla quale sia indifferente la verità del suo oggetto e la natura
dell'anima che si vuole persuadere; ma scienza dell'idea e, nello stesso
tempo, scienza dell'anima. Questo concetto della dialettica, che è il
punto culminante del Fedro e lo sbocco della teoria platonica
dell'amore, doveva essere il centro della speculazione platonica negli
ultimi dialoghi.
51
Secondo periodo: lo Stato e il compito del filosofo.
Lo Stato ideale.
Tutti i temi speculativi e i risultati fondamentali dei dialoghi precedenti
si trovano riassunti nella massima opera di Platone, la Repubblica, che
li ordina e li connette intorno al motivo centrale di una comunità
perfetta, nella quale il singolo trovi la sua perfetta formazione. Il
progetto di una tale comunità è fondato sul principio che costituisce la
direttiva di tutta la filosofia platonica. "Se i filosofi non governano le
città o se quelli che ora chiamiamo re o governanti non coltiveranno
davvero e seriamente la filosofia, se il potere politico e la filosofia non
coincideranno nelle stesse persone e se la moltitudine di quelli che ora
si applicano esclusivamente all'una o all'altra non sarà col massimo
rigore impedita dal farlo, è impossibile che cessino i mali delle città e
anche quelli del genere umano" (Repubblica, V, 473 d). Ma a questo
punto dello sviluppo dell'indagine, la costituzione di una comunità
politica governata da filosofi presenta a Platone due problemi
fondamentali: qual è lo scopo e il fondamento di tale comunità? chi
sono propriamente i filosofi?
La giustizia.
Alla prima domanda Platone risponde: la giustizia. E difatti la
Repubblica è esplicitamente diretta alla determinazione della natura
della giustizia. Nessuna comunità umana può sussistere senza la
giustizia. All'istanza sofistica che vorrebbe ridurla al diritto del più forte,
Platone oppone che neppure una banda di briganti o di ladri potrebbe
venire a capo di nulla, se i suoi componenti violassero le norme della
giustizia l'uno a danno degli altri. La giustizia è condizione
fondamentale della nascita e della vita dello stato. Lo stato deve essere
costituito da tre classi: quella dei governanti, quella dei custodi o
guerrieri e quella dei cittadini, che esercitano un'altra qualsiasi attività
(agricoltori, artigiani, commercianti, ecc.). La saggezza appartiene alla
prima di queste classi, perché basta che i governanti siano saggi perché
tutto lo stato sia saggio. Il coraggio appartiene alla classe dei guerrieri.
La temperanza, come accordo tra governanti e governati su chi deve
comandare lo stato, è virtù comune a tutte le classi. Ma la giustizia
comprende tutt'e tre queste virtù: essa si realizza quando ciascun
cittadino attende al suo còmpito proprio ed ha ciò che gli spetta. Difatti,
i còmpiti in uno stato sono tanti e tutti necessari alla vita della
comunità: ognuno deve scegliere quello per cui è adatto e dedicarsi ad
esso. Solo così ogni uomo sarà uno e non già molteplice; e lo stato
stesso sarà uno. La giustizia garantisce l'unità e con essa la forza dello
stato. Ma essa garantisce altresì l'unità e l'efficienza dell'individuo.
Nell'anima individuale Platone distingue, come nello stato, tre parti: la
parte razionale, che è quella per cui l'anima ragiona e domina gli
impulsi; la parte concupiscibile, che è il principio di tutti gli impulsi
corporei; e la parte irascibile, che è l'ausiliario del principio razionale e
si sdegna e lotta per ciò che la ragione ritiene giusto. Del principio
52
razionale sarà propria la saggezza, del principio irascibile, il coraggio;
mentre l'accordo di tutt'e tre le parti nel lasciare il comando all'anima
razionale sarà la temperanza. Anche nell'uomo singolo la giustizia si
avrà quando ogni parte dell'anima farà soltanto la propria funzione.
Evidentemente la realizzazione della giustizia nell'individuo e nello stato
non può procedere parallelamente. Lo stato è giusto quando ogni
individuo attende solo al còmpito che gli è proprio; ma l'individuo che
attende solo al còmpito proprio è esso stesso giusto. La giustizia non è
solo l'unità dello stato in se stesso e dell'individuo in se stesso; è, nello
stesso tempo, l'unità dell'individuo e dello stato e quindi l'accordo
dell'individuo con la comunità.
Caratteri e motivazioni delle classi sociali in Platone.
Appurato che la giustizia è l'adempimento del proprio compito da parte
di ogni individuo e di ogni classe sociale, la sensibilità odierna ci porta
immediatamente a chiederci: 1) da dove deriva, per Platone, la
distinzione degli uomini in classi? e 2) che cosa fa sì che un individuo
appartenga ad una certa classe anziché ad un'altra? Per quanto
riguarda la prima questione, il filosofo risponde che lo Stato deve per
forza essere diviso in classi poiché in uno Stato vi sono compiti diversi
che devono essere esercitati da individui diversi. Anzi, a voler essere
precisi, per Platone "Lo Stato non è costituito di classi, esso è uno in un
articolarsi di funzioni diverse, in vista dell'unico fine che è il bene
comune". Per quanto riguarda il secondo punto, Platone, rifacendosi
alla tripartizione psicologica dell'anima, afferma che la diversità fra gli
individui e la loro differente destinazione sociale dipende dalla
preponderanza di una parte dell'anima sulle altre. Abbiamo così gli
individui prevalentemente razionali (portati quindi alla sapienza e al
governo), gli individui prevalentemente impulsivi (portati ad essere
guerrieri) e gli individui prevalentemente soggetti al corpo ed ai suoi
desideri (portati al lavoro manuale). Per Platone la divisione degli
individui in classi-funzioni non dipende quindi da un fatto ereditario,
cioè dall'essere nati in una certa classe, ma da un fatto antropologico,
ossia da come si è come uomini. Tutto ciò viene espresso anche dal
celebre "mito delle stirpi", secondo cui alcuni nascono con una natura
"aurea", altri con una natura "argentea", altri con una natura "ferrea o
bronzea ". In sintesi, nell'ideale città di Platone (non si dimentichi, per
non cadere in equivoci interpretativi, che il filosofo sta parlando di una
comunità ipotetica e non di uno Stato reale), gli uomini si distinguono
fra di loro non per diritti di nascita ma per differenti attitudini naturali.
Tutto ciò esclude che si possa interpretare la comunità platonica, come
pure è avvenuto, alla stregua di un sistema di "caste" chiuse, alla
maniera orientale. Infatti, mentre nel sistema indiano delle caste o negli
Stati aristocratici non si ammette la mobilità sociale, ossia il passaggio
dal basso verso l'alto (anche se risulta talora prevista la degradazione
dall'alto verso il basso), nell'immaginaria società platonica si dice
esplicitamente che un bimbo "ferreo" nato tra gli uomini "aurei" dovrà
essere retrocesso di classe e viceversa che un bimbo
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"aureo" nato da uomini "ferrei" dovrà essere innalzato fra gli uomini
"aurei". Tant'è vero che "Platone sa con questo di avanzare una proposta
paradossale relativamente al modo in cui sono costituiti gli Stati del suo
tempo... Egli in realtà sottolinea che tutti gli uomini sono uguali, sono
tutti fratelli e che le distinzioni non sono dovute né a privilegi di nascita
né al fatto d'essere figli di governanti o di operai". Sostenere che nella
Repubblica platonica l'appartenenza ad una certa classe non sia dovuta
alla nascita o ai propri genitori, ma soltanto ai propri talenti naturali,
non equivale certo a dire che lo Stato di Platone sia "democratico", in
quanto, in esso, la maggioranza delle persone "ferree" resta
inequivocabilmente esclusa dal potere e ridotta ad una condizione di
passiva obbedienza agli "aurei". Contro l'Atene periclea e contro
Protagora, il quale, come si è visto, si era fatto sostenitore di un
ordinamento politico democratico, basato sulla tesi di una universale
assegnazione della virtù politica a tutti gli uomini, Platone sostiene il
carattere elitario del potere. Lo schema anti-democratico dello Stato
platonico esclude però, secondo quanto abbiamo detto, che esso possa
venir confuso con quello aristocratico-tradizionale. Infatti, lo Stato
platonico è sì "aristocratico", in quanto in esso governano i "migliori",
ma questi ultimi sono tali non per casato, forza o ricchezza, ma per il
possesso del sapere. La ragione al potere e i filosofi al governo: ecco la
vera novità dell'aristocraticismo platonico, che ha spinto qualcuno a
parlare, con più esattezza, di "Stato sofocratico" (= comunità basata sul
governo dei sapienti). Il carattere innovatore del pensiero politico
platonico risulta evidente, al di là delle pur rilevabili suggestioni
spartane, anche dal discorso platonico sulla proprietà, la famiglia e la
donna, che ha sempre costituito, attraverso i secoli, la parte un po'
"scandalistica" della Repubblica, attenuata solo dal suo carattere
"utopistico".
Il "comunismo" platonico.
Affinché lo Stato funzioni bene e la giustizia sia realizzata, Platone
suggerisce l'eliminazione della proprietà privata e la comunanza dei beni
per le classi superiori, affinché essi, al di là dei propri interessi,
attendano più efficacemente alla gestione della cosa pubblica. I custodi
dovranno avere case piccole e cibo semplice, vivendo come in un
accampamento e mangiando insieme; non avranno alcun compenso, se
non i mezzi per vivere. L'oro e l'argento saranno proibiti, in quanto lo
scopo della città è il bene di tutti, non la felicità di una classe: "Il nostro
scopo nel fondare lo Stato, scrive Platone, non è di rendere felice un
unico tipo di cittadini, ma che sia felice quanto più è possibile lo Stato
nella sua totalità... Non dobbiamo distinguere nello Stato una parte di
pochi cittadini da rendere felici, ma vogliamo la felicità di tutti". Sia la
ricchezza sia la povertà sono nocive, per cui nella città ideale non dovrà
esistere nessuna delle due. Tutto questo discorso non implica tuttavia
un'organízzazione comunistica dell'intera società, in quanto la terza
54
classe non viene esclusa dalla proprietà privata dei mezzi di produzione.
Analogamente, la classe al potere non avrà famiglia. Estendendo il
comunismo economico a quello sessuale, Platone ritiene che i
governanti debbano avere in comune donne e bambini. "Le donne
saranno, senza eccezione, mogli comuni degli uomini e nessuno avrà
una moglie propria". Ciò non implica certo la prostituzione della donna
o la sua subordinazione e riduzione- a oggetto-del-maschio. Al
contrario, le donne dovranno godere di una completa uguaglianza con
gli uomini e parteciperanno alla vita dello Stato su di un piano di totale
parità: "La stessa educazione che rende un uomo un buon custode,
renderà una donna una buona custode; perché la loro natura originaria
è la stessa". Le unioni tra uomo e donna verranno stabilite dallo Stato
in vista dei criteri eugenetici della procreazione di figli sani. Tutti i
bambini saranno tolti fin dalla nascita ai loro genitori, e si avrà cura
che i genitori non sappiano quali sono i loro figli, e i bambini ignorino
quali siano i loro parenti. In tal modo si vivrà come in una grande e
solidale famiglia.
Le degenerazioni dello Stato.
Platone è ben consapevole che uno Stato del genere non esiste "in alcun
luogo sulla terra". Tuttavia è anche persuaso che esso rappresenti il
modello ideale sulla cui base migliorare gli Stati esistenti e giudicarne le
alterazioni possibili. Tre sono le degenerazioni dello Stato e tre le
corrispondenti degenerazioni del singolo. La prima è la timocrazia,
governo fondato sull'onore, che nasce quando i governanti si
appropriano di terre e di case; ad esso corrisponde l'uomo timocratico,
ambizioso e amante del comando e degli onori, ma diffidente verso i
sapienti. La seconda forma è l'oligarchia, governo fondato sul censo, in
cui comandano i ricchi; ad esso corrisponde l'uomo avido di ricchezze,
parsimonioso e laborioso. La terza forma è la democrazia, nella quale i
cittadini sono liberi e ad ognuno è lecito di fare quello che vuole; ad
essa corrisponde l'uomo democratico che non è parsimonioso come
l'oligarchico, ma tende ad abbandonarsi a desideri smodati. Infine la più
bassa di tutte le forme di governo è la tirannide, che spesso nasce
dall'eccessiva libertà della democrazia. È la forma più spregevole perché
il tiranno, per guardarsi dall'odio dei cittadini, deve circondarsi degli
individui peggiori. L'uomo tirannico è schiavo delle sue passioni alle
quali si abbandona disordinatamente ed è il più infelice degli uomini.
I gradi della conoscenza e l'educazione del filosofo.
La parte centrale della Repubblica è dedicata alla delineazione del
compito proprio del filosofo. Filosofo è colui che ama la conoscenza nella
sua totalità. Ma che cos'è la conoscenza? Platone, esplicitando il proprio
55
concetto della scienza come fotografia dell'oggetto, afferma che "ciò che
assolutamente è, è assolutamente conoscibile, ciò che in nessun modo
è, in nessun modo è conoscibile". Perciò all'essere, e quindi alle idee,
corrisponde la scienza, che è la conoscenza vera; al non-essere,
l'ignoranza; e al divenire, che sta in mezzo tra l'essere ed il non essere,
corrisponde l'opinione, che è a metà strada tra la conoscenza e
l'ignoranza. In particolare, Platone paragona la conoscenza ad una linea
che viene divisa in due segmenti (conoscenza sensibile e conoscenza
razionale), i quali vengono a loro volta divisi in altri due segmenti
(immaginazione e credenza da un lato, ragione scientifica ed intelligenza
filosofica dall'altro). Abbiamo così quattro gradi del sapere cui
corrispondono quattro gradi della realtà. La conoscenza sensibile
rispecchia il nostro mondo e consta, da una parte, di immaginazione,
che ha per oggetto i dati immediati della sensazione e le immagini
superficiali ed isolate delle cose, e, dall'altra parte, della credenza, che
ha per oggetto le cose sensibili percepite nei loro rapporti scambievoli.
La conoscenza razionale rispecchia il mondo delle idee e consta, da un
lato, della ragione scientifica, che ha per oggetto le idee matematiche, e
dall'altro lato dell'intelligenza filosofica che ha per oggetto l'intuizione
delle idee-valori. Platone ritiene la filosofia superiore alla ragione
scientifica. Nonostante esalti la matematica al punto da far scrivere
sulla porta dell'Accademia "non entri chi non è matematico", egli pensa
che le discipline scientifico- matematiche da un lato trovino ancora
consistenti appigli nel mondo sensibile, in quanto le loro nozioni
primitive sono attinte od intravviste proprio attraverso le cose sensibili
(punto, linea ecc.), e, dall'altro, partano da ipotesi indimostrate: "Quelli
che si occupano di geometria, di aritmetica e di altre discipline dello
stesso genere, scrive Platone, suppongono il dispari e il pari, le varie
figure, le tre specie di angoli e altre cose simili secondo l'oggetto della
loro ricerca; le trattano da cose ben note, le pongono come ipotesi e
credono di non essere obbligati a darne ragione, quasi fossero evidenti a
tutti. Essi muovono da tali presupposti per procedere, nei loro
ragionamenti, da una proposizione all'altra e così giungono alla
dimostrazione a cui miravano". La filosofia, invece, in quanto scienza
suprema, pur muovendo da ipotesi le considera realmente come tali,
cioè come semplici punti di partenza, per risalire ai princìpi supremi (le
idee) e da queste al principio di tutto (il Bene). La superiorità della
filosofia non consiste solo nel suo rifiuto di fermarsi ad ipotesi
indimostrate, volendo essere, come diciamo ancor oggi, problematica dei
fondamenti, ma anche nel suo occuparsi dei problemi dell'uomo e della
città. Infatti, mentre il matematico e lo scienziato si astraggono dalle
questioni etico-politiche, il filosofo sente costantemente il dovere di
cimentarsi in esse. Ciò non esclude che nel sistema di Platone la
matematica investa una grande importanza. Infatti l'educazione
scientifica dell'uomo (di cui Platone parla distesamente nella
Repubblica) ha il suo punto critico nel passaggio dalla conoscenza
sensibile alla conoscenza razionale matematica. Questo passaggio si fa,
secondo Platone, mediante l'uso dei metodi di misura. Se l'uomo non
vuole rimanere ingannato dalle apparenze sensibili, che sono varie,
mutevoli e spesso contraddittorie fra di loro, non può far altro che
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ricorrere alla misura che introduce in tali apparenze ordine e
oggettività. Per esempio: la cosa x che ci sta davanti, è grande o piccola?
vicina o lontana? pesante o leggera? Le impressioni possono essere
diverse per i vari uomini e anche per lo stesso uomo in momenti diversi.
Ma se misuriamo la distanza, il volume della cosa, il suo peso,
raggiungiamo conoscenze che non sono più mutevoli e soggettive, ma
oggettive e stabili. Quando ci affidiamo alla misura per saggiare la
validità del mondo sensibile, l'oggetto della nostra ricerca muta: ciò che
noi troviamo, come effetto della misura, non è più una cosa ma un
numero, una figura geometrica, una determinazione o un ente
matematico. Siamo cioè passati dal dominio della credenza, che ha per
oggetto il sensibile, al dominio della scienza matematica. Platone
enumera nella Repubblica cinque discipline matematiche fondamentali:
l'aritmetica cioè l'arte del calcolo; la geometria come scienza degli enti
immutabili; l'astronomia come scienza del movimento più ordinato e
perfetto, quello dei cieli; la musica come scienza dell'armonia. Queste
discipline matematiche costituiscono la propedeutica della filosofia: esse
preparano il filosofo alla scienza suprema, che è la dialettica, la scienza
delle idee. Platone descrive in modo molto minuzioso l'educazione dei
giovani tant'è vero che Rousseau, il celebre pedagogista moderno, ha
visto nella Repubblica il più grande trattato di educazione dell'antichità.
Dapprima i futuri filosofi-reggitori studieranno musica e ginnastica, poi
le discipline propedeutiche. Tra i trenta e trentacinque anni i migliori si
cimenteranno con la filosofia o dialettica. Fra i trentacinque ed i
cinquanta coloro che saranno stati in grado di seguire bene il corso di
filosofia dovranno fare il tirocinio pratico nelle cariche militari e civili.
Solo a cinquant'anni, superato con esito favorevole tutte queste prove,
"gli ottimi" potranno assurgere al governo dello Stato.
Il mito della caverna.
La
teoria
della
conoscenza
che
abbiamo
esposto
trova
un'esemplificazione allegorica nel racconto della caverna, che
rappresenta uno dei miti più noti della Repubblica e del platonismo in
generale.
Immaginiamo vi siano schiavi incatenati in una caverna sotterranea e
costretti a guardare solo davanti a sé. Sul fondo della caverna si
riflettono immagini di statuette, che sporgono al di sopra di un
muricciolo alle spalle dei prigionieri e raffigurano tutti i generi di cose.
Dietro il muro si muovono, senza essere visti, i portatori delle statuette,
e più in là brilla un fuoco che rende possibile il proiettarsi delle
immagini sul fondo. I prigionieri scambiano quelle ombre per la sola
realtà esistente. Ma se uno di essi riuscisse a liberarsi dalle catene,
voltandosi si accorgerebbe delle statuette e capirebbe che esse, e non le
ombre, sono la realtà. Se egli riuscisse in seguito a risalire all'apertura
della caverna scoprirebbe, con ulteriore stupore, che la vera realtà non
sono nemmeno le statuette, poiché queste ultime sono a loro volta
57
imitazione di cose reali, nutrite e rese visibili dall'astro solare.
Dapprima, abbagliato da tanta luce, non riuscirà a distinguere bene gli
oggetti e cercherà di guardarli riflessi nelle acque. Solo in un secondo
tempo li scruterà direttamente. Ma ancora incapace di volgere gli occhi
verso il sole, guarderà le costellazioni e il firmamento durante la notte.
Dopo un po' sarà finalmente in grado di fissare il sole di giorno e di
ammirare lo spettacolo scintillante delle cose reali. Ovviamente, lo
schiavo vorrebbe rimanersene sempre là, a godere, rapito, di quel
mondo di superiore bellezza, tanto che "preferirebbe soffrire tutto
piuttosto che tornare alla vita precedente". Ma se egli, per far partecipi i
suoi antichi compagni di schiavitù di ciò che ha visto, tornasse nella
caverna, i suoi occhi sarebbero offuscati dall'oscurità e non saprebbero
più discernere le ombre: perciò sarebbe deriso e spregiato dai compagni,
che accusandolo di avere gli occhi "guasti", continuerebbero ad
attribuire i massimi onori a coloro che sanno più acutamente vedere le
ombre della caverna. E alla fine, infastiditi dal suo tentativo di scioglierli
e di portarli fuori della caverna, lo ucciderebbero.
Il significato del mito.
La simbologia filosofica di questo mito è ricchissima. Senza pretendere
di esaurirla tutta (del resto la versione razionale completa di ogni mito è
un controsenso) cerchiamo di tradurne gli elementi essenziali mediante
una catena sintetica di identificazioni possibili: la caverna oscura = il
nostro mondo; gli schiavi incatenati = gli uomini; le catene = l'ignoranza
e le passioni che ci inchiodano a questa vita; le ombre delle statuette =
l'immagine superficiale delle cose, corrispondente al grado gnoscologico
dell'immaginazione; le statuette = le cose del mondo sensibile
corrispondenti al grado della credenza; il fuoco = il principio fisico con
cui i primi filosofi spiegarono le cose; la liberazione dello schiavo =
l'azione della conoscenza e della filosofia; il mondo fuori della caverna =
le idee; le immagini delle cose riflesse nell'acqua = le idee matematiche
che preparano alla filosofia; il sole = l'idea del Bene che tutto rende
possibile e conoscibile; la contemplazione assorta delle cose e del sole =
la filosofia ai suoi massimi livelli; lo schiavo che vorrebbe starsene
"sempre là" = la tentazione del filosofo di chiudersi in una torre d'avorio;
lo schiavo che ritorna nella caverna = il dovere del filosofo di far
partecipi gli altri delle proprie conoscenze; l'ex schiavo che non riesce
più a vedere le ombre = il filosofo che per essersi troppo concentrato
sulle idee si è disabituato alle cose; lo schiavo deriso = la sorte
dell'uomo di pensiero di venir scambiato per "pazzo" da coloro che sono
attaccati ai pregiudizi e ai modi di vita volgari; i grandi onori attribuiti a
coloro che sanno vedere le ombre = il premio offerto dalla società ai falsi
sapienti; l'uccisione del filosofo = la sorte toccata a Socrate. Come si è
accennato all'inizio e si può verificare adesso, in questo mito si trova
gran parte di Platone e del senso umano e filosofico del platonismo. In
esso c'è innanzitutto il dualismo gnoseologico od ontologico sotteso alla
teoria delle idee; c'è poi l'affiato religioso che spinge Platone a riguardare
il nostro mondo come ad un regno delle tenebre contrapposto al regno
58
della luce rappresentato dalle idee. Ma soprattutto c'è il concetto della
finafità politica della filosofia, ossia l'idea di un'utilizzazione di tutte le
conoscenze che il filosofo ha potuto acquistare per la fondazione di una
comunità giusta e felice. Secondo Platone, infatti, fa parte
dell'educazione del filosofo il ritorno alla caverna, che consiste nella
riconsiderazione e nella rivalutazione del mondo umano alla luce di ciò
che si è visto al di fuori di questo mondo. Ritornare nella caverna
significa, per l'uomo, porre ciò che ha visto a disposizione della
comunità, rendersi conto egli stesso di quel mondo, che, per quanto
inferiore, è il mondo umano, quindi il suo mondo, e obbedire al vincolo
di giustizia che lo lega all'umanità nella propria persona e in quella degli
altri. Dovrà dunque riabituarsi all'oscurità della caverna; e allora vedrà
meglio dei compagni che vi sono rimasti e riconoscerà la natura e i
caratteri di ciascuna immagine per averne visto il vero esemplare: la
bellezza, la giustizia ed il bene. Così lo stato potrà essere costituito e
governato da gente sveglia e non già, come accade ora, da gente che
sogna e che si combatte tra loro per delle ombre e si contende il potere
come se fosse un gran bene. Soltanto col ritorno nella caverna, soltanto
cimentandosi nel mondo umano, l'uomo avrà compiuto la sua
educazione e sarà veramente filosofo.
La condanna dell'arte imitativa.
Fra le molte branche della filosofia, fra le più vitali oggigiorno, vi è
l'estetica, che studia i problemi della bellezza e dell'arte. La Repubblica
è importante anche per la storia di questa disciplina, poiché in essa si
trova la celebre digressione platonica sull'arte, che si conclude con la
sua messa al bando dall'educazione dei filosofi. I motivi per cui Platone
condanna l'arte, e la esclude dal curriculum dei futuri reggitori dello
Stato, sono fondamentalmente due: uno di tipo metafisico-gnoseologico
e l'altro di tipo pedagogico-politico. Per quanto riguarda il primo punto,
Platone ritiene che l'arte sia sosta nzialmente "imitazione di una
imitazione", "di tre gradi lontana dalla Verità", in quanto essa si limita a
riprodurre l'immagine di cose e di eventi naturali, che sono a loro volta,
come sappiamo, riproduzione delle idee. Anziché pungolare l'anima
verso le idee, l'arte tende quindi a rinserrarla in questo mondo, che dal
punto di vista della visione platonica dell'essere si configura, secondo
quanto si è visto, alla stregua di una buia caverna, cioè come una realtà
inferiore da cui l'uomo deve cercare di uscire. Dal punto di vista
gnoseologico, l'arte, nutrendosi di immagini, possiede il valore
conoscitivo più basso e risulta totalmente aliena dalla misurazione
matematica, che rappresenta il primo gradino attraverso cui l'uomo può
uscire dal "dedalo" delle percezioni soggettive e accedere ad una verità
comune (questo discorso non vale per certa musica, soprattutto quella
dorica, che in virtù dei suoi aspetti matematici e moralmente severi,
viene prevista nel programma di studio dei governanti). Per quanto
riguarda il secondo punto, Platone ritiene che l'arte in generale, e la
commedia in particolare, sia psicologicamente e pedagogicamente
59
negativa per il suo potere corruttore sugli animi. Infatti i futuri refilosofi dovrebbero essere distaccati dalle emozioni e dovrebbero avere
sempre presente un tipo superiore di uomo. Invece l'arte incatena
l'animo alle passioni rappresentate e raffigura persone che si
abbandonano senza ritegno a bassi istinti, vili lamentele e indecorose
buffonerie. Inoltre, nella tragedia, l'arte raffigura un mondo dominato
dal Fato, riducendo l'individuo a passivo esecutore-spettatore di una
realtà immodificabile, escludente ogni umana iniziativa e ogni libero
agire (secondo una prospettiva opposta a tutto il discorso etico-politico
della Repubblica che affida all'uomo importanti compiti e gravose
responsabilità). Oltre a questi due motivi, per meglio comprendere la
polemica platonica, può essere utile tener presente un terzo fattore, di
tipo storico-culturale. Infatti dietro la battaglia platonica contro l'arte vi
è anche il desiderio di sbarazzarsi di una forma di cultura che in Grecia,
prima della nascita della filosofia, e in alternativa alla stessa filosofia,
aveva fatto e continuava a fare la parte del leone nell'educazione
giovanile, risultando in aperto contrasto con la dottrina platonica dei
filosofi-reggitori, che al tradizionale primato dei poeti sostituiva, di fatto,
un nuovo primato dei filosofi. Ovviamente questa condanna dell'arte che in Platone, come si tramanda, fu così rigida da spingerlo persino a
bruciare poesie che aveva scritto da giovane - non riguarda l'uso dei
miti. Questi ultimi, infatti, anziché essere riproduzione imitativa del
mondo sensibile, si configurano come "nobili" tentativi di rappresentare
alla mente cose che vanno al di là di ciò che è materiale e terreno: i
destini dell'anima e le idee. Ciò dimostra che per Platone l'arte può
esistere solo se assoggettata alla filosofia, ossia come momento
ausiliario di espressione della verità. Abbandonata a sé è invece falsa.
Tale dottrina, pur risultando ben comprensibile all'interno del pensiero
platonico, appare completamente chiusa e prevenuta nei confronti del
fatto artistico (e la cosa può risultare paradossale, se si pensa che
Platone, oltre che un eccelso filosofo, è un grande poeta). In particolare,
ad essa risulta estraneo un concetto che, soprattutto per noi moderni,
risulta essenziale: l'autonornia e la libertà dell'arte. Ciò spiega perché gli
studiosi antichi e moderni, pur sforzandosi di comprenderla nelle sue
intime motivazioni, si siano unanimemente trovati d'accordo nel
condannare la condanna platonica dell'arte.
Il mito di Er.
La giustizia, fondamento della vita singola e della vita associata, esige
che ciascuno adempia al compito che gli è proprio. Ma chi sceglie e
assegna a ciascuno il compito che gli è proprio? È questo il problema
del destino che Platone affronta nel mito di Er, col quale si chiude
degnamente la Repubblica, il grande dialogo sulla giustizia. Er, morto in
battaglia e risuscitato dopo dodici giorni, ha potuto raccontare agli
uomini la sorte che li attende dopo la morte. La parte centrale del suo
racconto è quella che riguarda la scelta del destino alla quale le anime
sono invitate nel momento della loro reincarnazione. La parca Làchesi,
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che bandisce la scelta, ne afferma la libertà: "La virtù è libera a tutti;
ognuno ne parteciperà più o meno a seconda che la stima o la spregia.
Ognuno è responsabile del proprio destino, la divinità non ne è
responsabile". Ogni anima quindi sceglie il modello di vita che incarnerà
prossimamente: tutto sta a compiere una scelta giudiziosa e a non
lasciarsi abbagliare dall'apparenza brillante di certe vite che celano il
peccato e l'infelicità. Ma la scelta è guidata il più delle volte dalle
esperienze che l'anima ha raccolto nella sua vita anteriore. Ulisse, che i
lunghi travagli hanno spogliato di ogni ambizione, sceglie la vita più
modesta ed oscura, che era stata trascurata da tutte le altre anime.
Così, in quel momento decisivo, l'uomo sceglie il suo destino sulla base
di quello che ha voluto essere ed è stato in vita. La scelta dunque è
libera perché si riporta alla condotta tenuta in vita dall'uomo. E proprio
da questa vita, ammonisce Platone, bisogna prepararsi a quella scelta.
"Ciascuno di noi, trascurando tutte le altre occupazioni, deve cercare di
attendere soltanto a questo: scoprire e riconoscere l'uomo che lo
metterà in grado di discernere il genere di vita migliore e di saperlo
scegliere". Così la vita dell'uomo è la preparazione alla scelta del suo
destino ed in realtà è già questa scelta. A misura che l'uomo avanza
nella vita e si decide per la virtù o per il peccato, per il bene o per il
male, per la verità o per l'apparenza, il suo destino si determina e si
definisce. Il racconto di Er esprime miticamente la libertà del destino
umano: vivere sionifica per l'uomo decidere e scegliere il proprio
destino.
Il dibattito interpretativo sulla Repubblica.
L'utopia e la tesi dei filosofi al potere.
La Repubblica costituisce uno dei testi-chiave della filosofia politica
occidentale ed uno dei dialoghi platonici più letti. Ciò rende
comprensibile la molteplicità delle interpretazioni e la disparità dei
giudizi critici sul suo conto, che testimoniano il secolare interesse per
questo libro. Vediamo alcune prese di posizione-tipo, che essendo
diametralmente opposte fra di loro servono a stimolare meglio la
discussione. Taluni, vedendo nella Repubblica un celebre esempio di
quelle teorie politiche che in seguito (a partire dal titolo dell'opera di
Tommaso Moro, del 1516) saranno chiamate utopie, cioè disegni o
progetti di città ideali inesistenti, hanno considerato l'opera platonica
come il prodotto di un filosofo "sognatore" e l'hanno quindi fortemente
svalutata ("molti - scriverà ad esempio Machiavelli in tono dispregiativo
- si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti
né conosciuti essere in vero ... "). Altri, soprattutto ai giorni nostri,
hanno esaltato Platone proprio per il suo utopismo, vedendo nell'utopia
la vera filosofia e l'autentica politica, in quanto mettendo
continuamente di fronte agli occhi degli uomini un modello ideale, li
pungola a correggere le imperfezioni e gli svantaggi delle società storiche
reali, e li stimola a edificarne di nuove e migliori. Certuni hanno
61
considerato la tesi platonica dei filosofi al potere come una innocua, e
un po' ridicola, affermazione di un intellettuale astratto dalla realtà
effettiva. Altri l'hanno invece presa molto sul serio. Tra questi ultimi vi è
tuttavia chi l'ha rifiutata ("non c'è da attendersi che i re filosofeggino o i
filosofi diventino re - scrive ad esempio Kant - e neppure da desiderarlo,
perché il possesso della forza corrompe inevitabilmente il libero giudizio
della ragione") oppure c'è chi l'ha esaltata ("essa s'impone - scrive ad
esempio lo storico della filosofia Guido De Ruggiero - a chi consideri che
ogni
organizzazione
pratica
è,
nel
suo
motivo
creatore,
un'organizzazione mentale, e che coloro che posseggono ed esercitano
questa virtù e disciplina organizzatrice, cioè i filosofi, sono i più atti a
reggere la cosa pubblica. Soltanto, bisogna liberare il concetto del
filosofo dalle ristrettezze dottrinali ed accademiche a cui l'hanno
condannato, nell'opinione comune, le innumerevoli pleiadi dei filosofanti
antichi e moderni, e guardare in lui, non la figura tradizionale del
professore di filosofia, ma quella del possessore o del ricercatore di un
sapere appropriato al compito pratico da adempiere"). Da parte di
qualcun altro si è aggiunto che l'ideale platonico risulta valido
soprattutto per gli uomini d'oggi, i quali, vivendo nell'era scientifica e
tecnologica, hanno un'enorme quantità di strumenti a disposizione, che
se intelligentemente usati possono migliorare radicalmente l'esistenza
collettiva e se male adoperati possono peggiorarla o, al limite,
distruggerla.
"Comunismo" e "Statalismo".
Qualcuno ha cercato di leggere la Repubblica da "sinistra",
sottolineando particolarmente la proposta platonica della comunanza
dei beni e delle donne, vedendo in essa il primo abbozzo, sia pure in
chiave utopistica e limitato alle classi superiori, di quell'ideale
socialistico che il marxismo estenderà a tutta la società. Viceversa, altri
studiosi di sinistra hanno visto nel pensiero platonico nient'altro che
un'ideologia tesa a giustificare un tipo di società aristocratica e
classista, fondata su di una rigida divisione del lavoro. In genere, i
critici marxisti odierni tendono a guardare con simpatia la Repubblica
per i suoi aspetti comunitari ed anti-individualistici, ossia per il
concetto di una preminenza del bene collettivo su quello personale. Altri
hanno letto la Repubblica da "destra", vedendo in essa il modello di un
totalitarismo politico fondato su dottrine analoghe a quelle del nazismo:
ad esempio lo statalismo, la struttura gerarchica della società, il culto
dei capi, la purezza del sangue e della razza ecc. Il fatto che molti
ufficiali nazisti portassero la Repubblica nello zaino, risulta, a questo
proposito, estremamente significativo e manifesta il successo del
tentativo nazista di "recuperare" propagandisticamente Platone alle
proprie idee. Gli stessi motivi che hanno portato i nazisti a esaltare la
Repubblica ha condotto taluni filosofi inglesi ed americani a vedere in
essa lo schema di ogni società totalitaria ed assolutistica. Il noto filosofo
della scienza Karl Popper, nell'opera La società aperta e i suoi nemici
62
(1945), ha considerato Platone come il primo e maggiore teorico di una
società "chiusa" opposta ad una società "aperta" di tipo liberaldemocratico, scorgendo nella Repubblica (e poi nelle Leggi) il paradigma
di un regime autoritario e dispotico, fondato sulla premessa di una
verità assoluta che viene imposta con la forza anche a coloro che non
intendono riconoscerla: ossia una forma di assolutismo politico che
discende logicamente dall'assolutismo dottrinale del filosofo delle "idee".
Muovendosi in prospettiva analoga, Bertrand Russell, in uno dei Saggi
impopolari (1950), è giunto a considerare come un autentico "scandalo"
l'ammirazione intellettuale che l'opera di Platone ha sempre riscosso. A
questo filone interpretativo - giudicato interessante per la denuncía dei
pericoli insiti nell'assolutismo e nello statalismo platonico, ma troppo
estremistico e prevenuto - la critica più recente ha contrapposto
l'esigenza di una considerazione più obbiettiva e più attenta ai possibili
aspetti positivi del capolavoro platonico. Questo intrecciarsi di
interpretazioni e la presenza di un dibattito tuttora "aperto" mostra
chiaramente come la Repubblica, pur essendo storicamente "datata" - e
ciò non bisognerebbe mai dimenticarlo, per evitare arbitrarie esaltazioni
o denigrazioni di parte - contenga in sé spunti di riflessione e di dialogo
per la filosofia politica di tutti i tempi e per ogni individuo che torni ad
interrogarsi sui massimi problemi dello Stato e di
una "giusta" comunità
Terzo periodo: revisione e approfondimento del sistema.
Il rapporto fra le idee e la ridefinizione dell'essere.
I problemi dell'ultimo Platone.
Nei grandi dialoghi della vecchiaia, che nel loro insieme costituiscono la
terza fase del pensiero platonico, abbiamo un ulteriore approfondimento
delle teorie del filosofo, che rivedendo le proprie dottrine perviene ad
esiti in parte nuovi (questa capacità di mettersi continuamente in
discussione e di ritornare sempre sui propri passi - che in quest'ultimo
periodo appare ancor più accentuato rispetto ai precedenti rappresenta, come già sappiamo, la più tipica eredità socratica del
platonismo).
I problemi cruciali che si impongono al vecchio Platone, e che nascono
in parte dall'esigenza di mitigare il rigido dualismo fra il mondo
immutabile delle idee ed il mondo mutevole delle cose, sono
fondamentalmente due:
1) come dev'essere adeguatamente pensato il mondo delle idee?
63
2) Come va convenientemente concepito il rapporto fra le idee e le realtà
naturali? Alla prima questione risponde soprattutto il Sofista, alla
seconda, come vedremo, soprattutto il Timeo.
Il confronto con Parmenide.
La tematica del Sofista è, sotto certi aspetti, preparata dal Parmenide e
dal Teeteto. Nel Parmenide (che è forse il dialogo più difficile di Platone)
il filosofo si interroga autocriticamente sulla consistenza della teoria
delle idee, rivolgendo ad essa, per bocca di Parmenide, alcune difficoltà.
Posto che l'uno è l'idea e i molti gli oggetti di cui l'idea è l'unità, non si
capisce ad esempio come l'idea possa essere partecipata da più oggetti o
diffusa in essi senza che risulti con ciò moltiplicata e quindi distrutta
nella sua unità. Inoltre, dalla stessa nozione di idea sembra scaturire la
moltiplicazione all'infinito delle idee stesse: giacché se si ha un'idea ogni
qual volta si considera nella sua unità una molteplicità di oggetti, si
avrà un'idea anche quando si considererà la totalità di questi oggetti più
la loro idea. Questa sarà una terza idea che, se considerata a sua volta
assieme agli oggetti e alla precedente idea, darà luogo ad una quarta
idea; e così via all'infinito. È questo l'argomento cosiddetto del "terzo
uomo", di cui si attribuiva l'invenzione al megarico Polisseno e a cui
accenna varie volte Aristotele. Ma il problemajondamentale che
comincia ad emergere dal Parmenide e che nel Sofista trova il suo
schema di soluzione è il confronto-scontro con la logica parmenidea.
Come già sappiamo, la tesi fondamentale dell'eleatismo, che costituiva
pure il suo punto di forza concettuale, è il principio per cui "solo l'essere
è, mentre il non-essere non è". Pur riconoscendo in Parmenide un
"maestro terribile e venerando", Platone si rende conto che questa
affermazione, presa alla lettera, rappresenterebbe un vero suicidio della
teoria delle idee. Infatti, l'inesistenza assoluta di ogni forma di nonessere pregiudicherebbe inevitabilmente la molteplicità delle idee e i loro
rapporti reciproci, poiché ogni idea, non essendo l'altra implicherebbe,
dal punto di vista parmenideo, l'illogica ammissione del non-essere.
Tant'è vero che Parmenide, com'è noto, aveva concluso che l'Essere è
unico. Nonostante tutti questi ostacoli, Platone, nel Parmenide,
manifesta di non voler rinunciare alla teoria delle "forme ideali", in
quanto ribadisce che senza le idee, ossia senza un punto fermo nella
molteplicità delle cose, non si potrebbe neppure pensare e filosofare.
Difatti nel Teeteto, in cui Platone si sposta sul terreno della conoscenza,
soffermandosi criticamente sul relativismo gnoseologico dei Sofisti, si
dimostra indirettamente come sia impossibile raggiungere una
definizione adeguata della scienza rimanendo nel dominio della
soggettività umana e delle mutevoli opinioni dell'individuo, senza rifarsi
quindi alle idee. Ma se non è possibile rinunciare alle idee non rimane
che rinunciare al principio eleatico. Ed è quanto Platone fa nel Sofista,
in cui avviene appunto quello scontro decisivo con l'antico maestro, che
si conclude con un vero e proprio "parmenicidio".
64
I "generi" dell'essere.
Per spiegare come possano esistere più idee e come esse possano
comunicare fra di loro, Platone elabora la cosiddetta teoria dei "generi
sommi", cioè degli attributi fondamentali delle idee, che per il filosofo
sono cinque: l'essere, l'identico, il diverso, la quiete e il movimento.
Innanzitutto ogni idea è o esiste, e quindi rientra nel genere dell'essere.
In secondo luogo, ogni idea è identica a se stessa e quindi rientra nel
genere dell'identico. Essere ed essere identico sono dunque due generi
differenti e non coincidenti fra loro. Infatti tutte le idee, pur esistendo,
non per questo sono identiche, altrimenti si avrebbe la fusione di tutte
quante le idee in un'unica idea. Se ogni idea è identica a sé, ma distinta
dalle altre, significa che essa è diversa da loro, per cui ogni idea rientra
anche nel genere del diverso. Qui siamo al momento culminante della
critica a Parmenide. L'errore di fondo del filosofo di Elea, secondo
Platone, è stato quello di confondere il diverso con il nulla. Infatti,
quando discorriamo della molteplicità delle cose ed usiamo la paroletta
"non", sostenendo ad esempio che A non è B, non intendiamo alludere
al niente assoluto, che per l'appunto non esiste, ma soltanto a ciò che è
diverso dall'essere ossia al niente relativo. In altre parole, l'unico modo
in cui può esistere il non-essere è il diverso, che però, in quanto tale,
non è il nulla assoluto, "partecipando" anch'esso dell'essere. In tal
modo, attribuendo una qualche forma di essere al non-essere, Platone
si è definitivamente sbarazzato del "fantasma" del nulla, infrangendo il
divieto parmenideo di parlare del non-essere e quindi della molteplicità.
Con questa sottile dottrina (che trova consenzienti anche logici e filosofi
della scienza odierni) il filosofo può anche superare il problema
dell'errore. Gli eristi, cercando di "sofisticare" anche tale questione,
avevano affermato che l'errore non può esistere, in quanto esso
implicherebbe un dire "il nulla", che per l'appunto, come insegna
Parmenide, non è. Platone ribatte che l'errore non consiste nel
pronunciare il nulla, ma semplicemente nel dire le cose in modo diverso
da come esse effettivamente stanno (lo sbaglio di chi sostiene ad
esempio che un libro di filosofia è un libro di matematica risiede
appunto nel fatto che il primo testo è diverso dall'altro). Giustificata in
tal modo la pluralità delle idee, ai tre generi sommi già considerati l'essere, l'identico e il diverso - Platone aggiunge i due generi della
quiete del moto. Infatti ogni idea può starsene in sé (= quiete) oppure
entrare in. un rapporto di comunicazione con le altre (= movimento).
La nozione generale di "essere".
Questa determinazione delle cinque forme (o generi) dell'essere si
accompagna al tentativo platonico di giungere ad una ridefinizione del
65
concetto di essere. Che cos'è l'essere? Taluni, i materialisti, lo riducono
a corporeità, altri (= Platone stesso nella seconda fase del suo pensiero)
lo identificano con le idee. In realtà, secondo il Platone del Sofista,
materialità ed immaterialità non possono entrare nella definizione
dell'essere, poiché "sono" sia le cose corporee sia le entità incorporee (ad
esempio la virtù). Di conseguenza, Platone ricerca una definizione ancor
più generale ed universale dell'essere, pervenendo alla tesi secondo cui
l'essere è possibilità: "è qualunque cosa si trovi in possesso di una
qualsiasi possibilità o di agire o di subire, da parte di qualche altra cosa,
anche insignificante, un'azione anche minima e anche solo per una sola
volta" (Sofista, 247 c).
Per capire questa affermazione, che a tutta prima può sembrare un
po'ostica, bisogna rendersi conto che Platone sottintende qui il concetto
di relazione: la sua formula significa che esiste tutto ciò che è capace di
entrare in un campo di relazione qualsiasi, cioè in una rete di
connessioni possibili. La controprova di ciò risiede nel fatto che il nulla,
il quale non può entrare in rapporto con qualcosa, risulta inesistente
per definizione. Questa dottrina dell'essere in termini di possibilitàrelazione, che Platone, nella sua vecchiaia, ha ritenuto la più precisa e
meglio fondata di tutte le definizioni possibili dell'essere, si applica,
come i cinque generi sommi, non soltanto alle idee di cui parlava il
Platone della maturità, ma anche alle cose naturali e all'uomo: sicché si
può dire che quest'ultima fase della filosofia platonica costituisca una
generalizzazione rispetto alla prima e costituisca il vero antecedente
dell'ontologia aristotelica, che, come vedremo, indagherà i caratteri
formali comuni ad ogni tipo di essere.
La dialettica.
Se l'essere e il mondo delle idee costituiscono un tessuto di rapporti
possibili, la suprema scienza delle idee, che Platone chiama "dialettica",
consisterà nello stabilire la mappa di queste relazioni, cioè nel
determinare quali idee si connettono e quali no, precisando i vari modi
che possono unire un'idea ad un'altra. Nella Repubblica la dialettica
viene genericamente definita come la scienza delle idee-valori. Nel Fedro
essa viene presentata come la tecnica stessa del discorso filosofico (il
termine dialettica allude appunto all'arte del dialogo) il quale si svolge
attraverso due momenti:
1) determinazione e definizione di una certa idea;
2) divisione dell'idea nelle sue varie articolazioni interne.
Ma è solo nel Sofista (e nel Politico) che abbiamo l'organica messa a
punto del procedimento dialettico nelle sue caratteristiche salienti.
L'arte dialettica parte dal presupposto della possibile comunicazione fra
le idee. Infatti se tutte le idee comunicassero tra di loro (come volevano
gli eristi) ogni discorso sarebbe vero e non avrebbe più senso la fatica
della dialettica, volta a fissare quali idee comunichino e quali no, e
quindi quali discorsi siano veri e quali falsi. Se nessuna idea
comunicasse con le altre (come volevano i Cinici) non sarebbe' possibile
66
alcun discorso, se non quello tautologico del tipo "l'uomo è uomo".
Scartate le tesi universali "tutte le idee sono combinabili con tutte le
idee" e "tutte le idee non sono combinabili con tutte le idee", resta
soltanto la tesi intermedia particolare "alcune idee sono combinabili fra
di loro ed altre non lo sono". Su quest'ultima tesi si radica la dialettica.
Infatti, pensare dialetticamente non può voler dire che unificare e
distinguere determinate idee rispetto ad altre determinate idee. In
sintesi, la tecnica dialettica consisterà nel definire un'idea mediante
successive identificazioni e diversificazioni, attraverso un processo di
tipo "dicotomico", che avanza dividendo per due un'idea, sino a giungere
ad un'idea indivisibile. Un esempio servirà a chiarire meglio tale
concetto. Supponiamo si voglia definire la nozione di filosofia. Come
primo passo, si potrà scegliere di identificare la filosofia con un'attività.
Ma le attività, possono essere intellettuali o manuali. Come secondo
passo, identificheremo quindi la filosofia con un'attività intellettuale e la
diversificheremo da un'attività manuale. Ma le attività intellettuali
possono avere per oggetto le idee o le cose fisiche. Come terzo passo,
identificheremo la filosofia con un'attività intellettuale avente come
oggetto le idee, diversificandola da un'attività intellettuale avente come
oggetto le cose fisiche. Ma le idee possono essere idee-valori o ideematematiche. Come quarto passo, identificheremo la filosofia con
un'attività intellettuale avente come oggetto le idee-valori e la
diversificheremo da un'attività intellettuale avente come oggetto le ideematematiche. Sommando tutte le identificazioni e scartando tutte le
diversificazioni avremo quindi ottenuto la definizione globale dell'idea
considerata, capace di "stringere" davvero il concetto di filosofia. Il
processo dicotomico ci ha quindi portati, attraverso successive divisioni,
ad un'idea "indivisibile" che ci fornisce la definizione "specifica" di ciò
che cercavamo. Ovviamente la definizione proposta non è l'unica
possibile, perché scegliendo altre identificazioni iniziali potremmo
costruire altre mappe dicotomiche (ad es. identificando la filosofia con
un esercizio, potremo distinguere fra esercizi fisici ed esercizi dell'anima
ecc., seguendo una diversa ramificazione dicotomica). Sommando le
varie definizioni ottenute avremo quindi raggiunto una miglior
comprensione dell'idea studiata. Nella dialettica platonica si è visto
talora un'anticipazione grezza della tecnica definitoria proposta da
Aristotele nella sua Logica. In realtà, la dialettica di Platone presenta
caratteri specifici che la distinguono nettamente dal procedimento
dimostrativo di Aristotele perché 1) si costituisce su base ipotetica in
quanto sceglie una definizione di partenza e poi la mette a prova
vedendo se essa è veramente capace di stringere ciò di cui si parla; 2)
perché tende a strutturarsi come una ricerca inesauribile e sempre
aperta a nuove acquisizioni.
Il bene per l'uomo: il Filebo.
Nella Repubblica Platone aveva concepito il bene come l'oggetto
supremo del pensiero. L'aveva posto al sommo della gerarchia delle idee
e l'aveva paragonato al Sole in quanto fa sussistere e rende conoscibili
67
le idee al modo in cui il Sole fa sussistere e rende visibili le cose
naturali. Ma questa natura puramente oggettiva del bene non può
essere mantenuta ora che Platone ha riconosciuto che lo stesso mondo
dell'essere include la soggettività. Platone deve riproporsi il problema del
bene; e se lo propone infatti nel Filebo delimitandolo chiaramente: qui
egli intende stabilire che cosa è il bene per l'uomo. Evidentemente il
bene per l'uomo è una forma di vita, anzi la forma di vita propriamente
umana. Ma una vita propriamente umana non è né una vita animale né
una vita divina. Una vita puramente animale sarebbe quella fondata
esclusivamente sul piacere. La vita umana come tale sarà una vita
mista, di piacere e di intelligenza; e tutto sta a rendersi conto della
misura, cioè della giusta proporzione, in cui il piacere e l'intelligenza
devono mescolarsi insieme per costituire la vita propriamente umana.
L'indagine morale di Platone si trasforma così in una indagine
metafisica a sfondo matematico, giacché deve risolvere un problema di
misura. Platone ricorre ai concetti pitagorici del limite e dell'illimitato. Il
piacere è un illimitato (può essere infatti aumentato o diminuito
indefinitamente). Bisogna imporre un ordine, una misura al piacere e
questa è la funzione del limite. L'illimitato che mediante il limite
acquista un ordine o una misura diventa qualcosa di armonico, di
proporzionato, un numero. Ma chi impone il limite è l'intelligenza la
quale trasforma ciò che è illimitato in un ordine e in una proporzione
numerica. Della vita dell'uomo deve dunque far parte l'intelligenza, che
sarà la causa dell'ordine e della misura; ma anche il piacere che dovrà
essere disciplinato e proporzionato con un limite. Platone ritiene che
tutta la vita dell'intelligenza, tutte le forme di conoscenza, da quella più
alta a quella più bassa, devono entrare a far parte della vita umana. Per
questo non basta la scienza dell'essere in sé; occorre che questa scienza
sia fatta servire per le necessità dell'uomo e bisogna quindi ricorrere
anche all'opinione. Quanto ai piaceri, devono entrare a far parte della
vita umana solo i piaceri puri, quelli che non dipendono
dall'appagamento di un bisogno, ma sono dovuti alla contemplazione
delle belle forme, dei bei colori, ecc. La gerarchia dei valori viene allora
ad essere stabilita da Platone nel modo seguente. Al primo posto c'è
l'ordine, la misura, il giusto mezzo. Al secondo posto, ciò che è
proporzionato, bello e compiuto. Al terzo posto, l'intelligenza come
causa della proporzione e della bellezza. Al quarto posto, la scienza e
l'opinione. Al quinto, i piaceri puri. Tale è per l'uomo la tavola dei valori.
Il tentativo iniziato da Socrate di fare della virtù una scienza, si
conclude in Platone con questa riduzione della virtù a una scienza della
misura. Un aneddoto racconta che gli ascoltatori di Platone, negli ultimi
tempi rimanevano delusi quando, avendo egli annunziato di parlare del
bene, lo ascoltavano dissertare intorno al numero e alla misura. Ma
questo era l'ultimo risultato della riduzione socratica della virtù al
sapere, giacché solo sulla via della misura e del numero sì poteva,
secondo Platone, ridurre la condotta dell'uomo al rigore della scienza.
68
Il Timeo e la dottrina delle idee-numeri.
a) Il mito del Demiurgo.
Come abbiamo visto, in quest'ultimo periodo del filosofare platonico
troviamo il tentativo di sciogliere il rigido dualismo fra il mondo delle
idee ed il mondo delle cose alla luce di una considerazione più unitaria
della realtà. Il risultato di questo processo è il Timeo, in cui viene
approfondito il problema cosmologico dell'origine e della formazione
dell'Universo. Certamente, il mondo naturale, anche per l'ultimo
Platone, non ha la saldezza e la stabilità delle idee e non può dunque
essere oggetto di scienza nel senso rigoroso del termine. Tuttavia su di
esso, ossia "su quello che nasce e che muore e si apprende con
opinione", si può almeno formulare, anche con l'aiuto del mito, un
discorso verosimile e probabile. Sforzandosi di capire meglio il rapporto
fra le idee e le cose, Platone introduce innanzitutto un terzo termine
mediatore: il Demiurgo. Figura-limite fra il mito e la filosofia, il
Demiurgo viene presentato da Platone come una sorta di "divino
Artefice", dotato di intelligenza e di volontà, che si trova in una
posizione intermedia fra le idee e le cose. All'inizio, il mondo era solo un
caos informe o una materia spaziale priva di vita, che Platone chiama
chora o Necessità. Il Demiurgo, essendo buono ed amante del Bene, ha
voluto ordinare le cose del mondo ad "immagine e somiglianza" delle
idee, comunicando loro una parte di perfezione dei modelli iperuranici
(come si può notare, il Demiurgo non è un creatore della realtà dal
nulla, ma il semplice "plasmatore" di una materia preesistente, coeterna
alle idee). In vista dei suoi "nobili scopi", il Demiurgo ha fornito le cose
di un'Anima del mondo, che vivifica ed ordina la materia, dando forma
all'informe e trasformando l'universo in un immenso organismo vivente,
in cui si riflette l'armonia- delle idee. Per rendere questo mondo ancora
più simile al suo modello ideale, che è eterno, il Demiurgo ha generato il
tempo, che Platone definisce suggestivamente "immagine mobile
dell'eternità", intendendo dire, con tale espressione, che il tempo, con il
suo succedersi ordinato di giorni, notti, mesi ed anni, riproduce, nella
forma del mutamento, l'ordine immutabile dell'eternità. Il tempo è
misurato dal movimento degli astri, attraverso i quali si incarna la
volontà del Demiurgo, che si serve di essi per formare e governare la
scala gerarchica degli enti (da ciò la grande importanza che l'astronomia
comincia ad acquistare agli occhi di Platone). L'opera del Demiurgo,
nonostante la sua buona volontà, è limitata dalla resistenza "ribelle"
della materia, cui Platone tende ad attribuire le imperfezioni e i mali del
nostro mondo. Infatti, per il Timeo, tutto ciò che esiste di positivo e di
armonico è dovuto al Demiurgo, all'Intelligenza e alle idee, mentre tutto
ciò che esiste di negativo e di disarmonico è dovuto alla materia e alla
necessità (come si vede, troviamo qui un primo abbozzo di soluzione del
problema metafisico del male nel mondo, su cui tornerà ad affaticarsi
soprattutto la filosofia cristiana).
69
b) La visione matematica delle cose.
La novità più rilevante del Timeo consiste nell'avvicinamento al
pitagorismo. Infatti, la struttura del cosmo formato dal Demiurgo risulta
esplicitamente di tipo matematico: le cose sono ridotte ai quattro
elementi empedoclei (terra, acqua, aria e fuoco), che vengono ridotti a
loro volta a poche figure geometriche essenziali, che sono a loro volta
ridotte a numeri. Di conseguenza, il platonismo del Timeo giunge ad
interpretare i numeri come schemi strutturali delle cose e a fare della
matematica la "sintassi del mondo", cioè il codice di interpretazione di
tutto ciò che esiste. Come vedremo nel paragrafo di fine capitolo,
dedicato all'Antica Accademia, questa tendenziale risoluzione del
platonismo nel pitagorismo, o meglio questa rielaborazione platonica del
pitagorismo, appare ulteriormente accentuata negli ultimi anni della
vita del filosofo. Secondo un'esplicita testimonianza di Aristotele,
sembra infatti che Platone, alla fine dei suoi giorni, nelle cosiddette
"dottrine non scritte" abbia finito per interpretare il mondo delle idee
come un mondo di numeri (distinti da quelli della matematica),
cercando di spiegare tutto alla luce di quella triade pitagorizzante "limite", "illimitato", "medietà" - cui abbiamo già accennato parlando del
Filebo. L'accostamento platonico al mondo naturale attuato dal Timeo
non implica, come si può vedere, un suo avvicinamento alle ricerche dei
naturalisti greci precedenti. Anzi, questi ultimi, e Democrito in
particolare, vengono combattuti proprio in ciò che per noi moderni
hanno di più scientifico, cioè per il loro spiegare tutto in termini
naturalistici e meccanicistici. Pur non negando le cause meccaniche,
Platone le subordina totalmente alle cause finali, elaborando un suo
modello di spiegazione della natura basato sulle nozioni di "scopo" e di
"Bene", ben lontano dallo sforzo atomistico di "disantropomorfizzare" la
scienza fisica.
c) La concezione della storia.
Per quanto riguarda l'interpretazione della storia (di cui si parla nel
dialogo successivo, il Crizia) Platone torna a recuperare una concezione
della storia come regresso da una mitica età primordiale, affermando
che la felicità risiede prima della fondazione della civiltà e non dopo di
essa - ritornando in tal modo a quell'immagine mitìca del passato da cui
i Sofisti e Dernocrito avevano faticosamente cercato di liberarsi.
d) Il Timeo nella storia del pensiero filosofico e scientifico.
Il destino del Timeo è veramente singolare. Presentato da Platone come
frutto di conoscenza verosimile e probabile è divenuto, per una serie di
circostanze, l'opera platonica che ha influito maggiormente sulla
filosofia e sulla scienza posteriore. Fra i pochissimi dialoghi platonici
noti nel Medioevo - senz'altro il più letto e studiato dell'epoca - esso ha
70
improntato di sé una tradizione plurisecolare. Sul piano filosofico e
metafisico la rilevanza del Timeo consiste nell'aver diffuso il concetto di
una Mente intelligente ed ordinatrice del mondo, che rappresenterà lo
schema di fondo con cui molti filosofi successivi e l'intero Cristianesimo
spiegheranno la realtà. Tant'è vero che il Demiurgo sarà una delle
"figure" più celebri della filosofia platonica e verrà sostanzialmente
assimilata al Dio creatore della Bibbia. In tal modo, Platone ha finito per
incarnare la più decisiva antitesi ad ogni forma di naturalismo e di
materialismo e per radicare nelle menti una visione finalistico-religiosa
che è penetrata nell'inconscio collettivo e nella mentalità comune. La
stessa idea-chiave, tipica della tradizione occidentale, secondo cui
l'essere è qualcosa di buono e di razionale, con il conseguente ottimismo
metafisico, è una eredità del Timeo. Sul piano della storia del pensiero
scientifico il Timeo è importante perché esso, in virtù della gran massa
di notizie fisiche, astronomiche, matematiche, fisiologiche, mediche ecc.,
è stato, per molti secoli un'autentica miniera di informazioni sulle
conoscenze scientifiche deIl'antichità, rappresentando uno dei principali
punti di riferimento della scienza medioevale. Ma la rilevanza della
cosmologia matematizzante del Timeo sta soprattutto nell'aver
mantenuto viva, attraverso i tempi, l'idea pitagorica secondo cui la
matematica costituisce la chiave interpretativa della natura. Come
vedremo, tale nozione starà alla base della nascita della scienza
moderna e Copernico, Keplero, Galileo ne saranno gli eredi. Ciò ha
portato taluni studiosi ad ingrandire l'importanza di Platone per la
scienza occidentale. I)n realtà, per essere obbiettivi e storicamente
veritieri è bene tener presenti le seguenti considerazioni:
1) fermo restando che Platone ha il merito, per la storia della scienza, di
aver difeso l'idea pitagorica dello studio aritmetico-geometrico della
realtà,
la
sua
matematica
a
sfondo
metafisico
risulta
ìnequivocabilmente lontana dalla matematica scientifica di Galileo;
2) il tentativo platonico di spiegare finalisticamente la realtà mediante le
nozioni di scopo, anima e valori morali, mettendo a tacere per sempre il
meccanicismo democriteo, ha contribuito a ritardare nel tempo la
nascita della scienza: "da questo punto di vista l'antagonismo
PlatoneDemocrito (e in seguito Platone-Epicuro) assume il carattere di
un vero dramma del pensiero umano. Su di esso si innesterà, come
vedremo, la fisica aristotelica, con schemi diversi da quella platonica,
ma animata dal medesimo odio contro ogni spiegazione puramente
meccanicistica. Occorreranno tutte le lotte del XVI e XVII secolo... per
dare la definitiva vittoria alla mentalità democrìtea". Ciò significa che la
scienza moderna, se per certi versi nascerà da eredità platoniche, per
altri versi nascerà e si svilupperà da presupposti anti-platonici.
Il problema politico come problema delle leggi.
71
a) Le leggi.
L'ultima attività di Platone è ancora dedicata al problema politico. Nel
Politico, Platone ricerca quale deve essere l'arte propria del reggitore dei
popoli. E la conclusione è che questa arte deve essere quella della
misura: in ogni cosa difatti bisogna evitare l'eccesso o il difetto e trovare
il giusto mezzo. Tutta la scienza dell'uomo politico consisterà
essenzialmente nel cercare il giusto mezzo, ciò che è in ogni caso
opportuno o doveroso nelle azioni umane. L'azione politica deve "tessere
insieme" nell'interesse dello stato le due indoli opposte degli uomini
coraggiosi e dei prudenti, in modo che vengano contemperate in giusta
misura nello stato la prontezza d'azione e la saggezza di giudizio. La
cosa migliore sarebbe che l'uomo politico non ponesse leggi giacché la
legge, essendo generale, non può prescrivere con precisione ciò che è
bene per ognuno. Le leggi sono tuttavia necessarie per l'impossibilità di
dare prescrizioni precise ad ogni singolo individuo; ed esse si limitano
quindi ad indicare ciò che genericamente è il meglio per tutti. Tuttavia
una volta che siano stabilite nel modo migliore, vanno conservate e
rispettate e la loro rovina implica la rovina dello stato. Delle tre forme di
governo storicamente esistenti, monarchia, aristocrazia e democrazia,
ciascuna si distingue dalla corrispondente forma deteriore proprio per
l'osservanza delle leggi. Così il governo di uno solo è monarchia se è
retto dalle leggi; è tirannide se è senza leggi. Il governo dei pochi è
aristocrazia quando è governato da leggi, oligarchia quando è senza
leggi e la democrazia può essere retta da leggi o governata contro le
leggi. Il miglior governo, prescindendo da quello perfetto delineato nella
Repubblica, è quello monarchico, il peggiore è quello tirannico. Tra i
governi disordinati (cioè privi di leggi) il migliore è la democrazia. In tal
modo il problema politico, che nella Repubblica era stato considerato
come il problema di una comunità umana perfetta, quindi nel suo
aspetto morale, acquista un carattere più determinato e specifico
nell'ultima fase della speculazione platonica; e diventa il problema delle
leggi che devono governare gli uomini e indirizzarli gradualmente a
diventare cittadini di quella comunità ideale. Al problema delle leggi è
infatti dedicata l'ultima opera platonica, che è anche la più estesa di
tutte,
il dialogo in 12 libri intitolato Le Leggi, pubblicato da Filippo di Opunte
dopo la morte del maestro. Platone è ormai più vivamente consapevole
della "debolezza della natura umana" e perciò ritiene indispensabile che
anche in uno stato bene ordinato vi siano leggi e sanzioni penali. Ma la
legge deve conservare la sua funzione educativa; non deve solo
comandare, ma anche convincere e persuadere della propria bontà e
necessità: ogni legge deve quindi avere un preludio insegnativo, simile a
quello che si premette alla musica e al canto. Quanto alla punizione,
poiché nessuno accoglie volentieri nell'anima l'ingiustizia che è il
peggiore di tutti i mali, essa non deve essere una vendetta, ma solo
correggere il colpevole spingendolo a liberarsi dell'ingiustila e ad amare
la giustizia. Da ciò risulta che il fine delle leggi è quello di promuovere
nei cittadini la virtù che, come già Socrate insegnava, si identifica con la
felicità. Ed esse non devono promuovere una sola virtù, per esempio, il
72
coraggio guerriero, ma tutte, perché tutte sono necessarie alla vita dello
stato; e perciò devono tendere all'educazione dei cittadini, intendendo
per educazione "l'indirizzare l'uomo sin dai teneri anni alla virtù,
rendendolo amante e desideroso di divenire cittadino perfetto che sa
comandare e ubbidire secondo giustizia". Ma questa educazione ha
come suo fondamento la religione.
b) La religione e la teologia astrale.
Platone considera la religione come un incentivo al rispetto della virtù e
delle leggi e quindi solido fondamento di coesione sociale e di stabilità
politica. Di conseguenza, in questo dialogo, la religione trova un vistoso
riconoscimento e tende ad assumere un posto-chiave nella vita e nel
pensiero dell'uomo. Tant'è vero che Platone ritenendo l'ateismo cancro
di ogni comunità politica, propone l'esilio e la pena di morte per chi non
riconosca la Divinità. La Religione di Stato delle Leggi, tuttavia, è ben
diversa dalla religione tradizionale (che viene combattuta), poiché
costituisce una sorta di religione a sfondo cosmico, che, sulla scia del
Timeo, vede la Divinità concretizzata nell'ordine e negli astri dei cieli. Da
ciò l'accresciuta importanza dell'astronomia, che diviene sforzo di
comprensione degli scopi divini attraverso lo studio dei moti astrali, da
cui tutto dipende (teologia astrale). Contro i fisici e contro Democrito,
che facendosi portatori di una nuova razionalità scientifica avevano
riconosciuto la sostanziale omogeneità del mondo terrestre e di quello
celeste, Platone torna in tal modo a recuperare l'antico pensiero mitico,
che vedeva negli astri delle divinità: "noi ora dobbiamo accusare le opere
dei nostri moderni sapienti, in quanto sono causa di mali. L questo
dunque ciò che fanno i discorsi di uomini come costoro: quando tu ed io
portiamo le prove dell'esistenza degli dèi, e proponiamo proprio cose
come queste, il sole, la luna, le stelle, la terra come dèi e cose divine
esistenti, allora coloro che si sono lasciati convincere da questi uomini
sapienti direbbero che tutte queste cose non sono altro che terra e
pietra, incapaci di pensare nessuna delle cose umane ... " (Leggi, 886 dc). Come si può notare dal finale di questo passo, la regressione
platonica verso il mito la si può adeguatamente comprendere solo in
relazione al suo tentativo di dare una fondazione cosmica all'etica, e alla
politica. Infatti, se la realtà è solo materia e caso, appare impossibile,
dal punto di vista di Platone, derivarvi una solida proposta politica.
Invece, se si interpreta il mondo come un organismo razionale e retto da
leggi divine, lo stato degli uomini potrà agevolmente essere concepito
come riflesso e impegno di realizzazione di tale ordine. Tant'è vero che la
teologia astrale, cioè la sapienza religioso-filosofica sull'ordine divino e
provvidenziale del mondo, che prende corpo nei moti astrali, tende a
sostituirsi alla dialettica e a tradursi in una nuova filosofia politica
incentrata sul pensiero-programma di portare, nella tormentata e
violenta città degli uomini, la misura e l'armonia dei cieli.
c) Differenze e analogiefra la Repubblica e le Leggi.
73
Nei confronti della struttura statale della Repubblica, nelle Leggi
abbiamo talune novità, che discendono, in parte, dalla consapevolezza
che il precedente stato ideale forse è possibile "solo a dèi o discendenti
di dèi". Ad esempio non esiste più la rigorosa tripartizione delle classi; i
filosofi non sono più reggitori; i guerrieri sono sostituiti dalla vecchia
milizia cittadina; il governo proposto è una forma mista di aristocrazia e
democrazia; viene di nuovo ammessa la famiglia e il matrimonio viene
incoraggiato (al punto da prevedere una multa per i celibi di étà
superiore ai 35 anni); viene reintrodotta, sia pure in misura ristretta e
sotto controllo statale, la proprietà privata. La comunità platonica
continua dunque ad essere, come già nella Repubblica, una forma di
statalismo che non lascia spazio consistente all'iniziativa del singolo o
delle famiglie, per cui la distanza fra la Repubblica e le Leggi, sotto
questo aspetto, risulta meno grande di quanto si sia tradizionalmente
affermato. Una delle parti più interessanti del dialogo è quella
riguardante l'educazione, che viene totalmente gestita e sorvegliata dallo
Stato. Ma l'istituzione più caratteristica delle Leggi è forse il "Consiglio
notturno", che sostituisce i filosofi-re e assume il compito di supervisore
generale della vita collettiva e di severo garante dell'osservanza delle
leggi, della religione e dei costumi. Su quest'opera la critica attuale
appare divisa: mentre qualcuno vede in essa l'estrema fedeltà di Platone
all'idea di uno Stato portatore di interessi sovra-individuali, e quindi
considera le Leggi come un coerente testamento filosofico, altri vi
scorgono una marcata involuzione in senso autoritario e conservatore.
Tant'è vero che taluno è giunto a parlare di "lugubre Stato teocratico e
repressivo" o di "una società in cui Socrate non sarebbe stato felice di
vivere".
Platone nella storia
Platone è certamente uno dei filosofi più conosciuti ed amati
dell'Occidente e uno dei pensatori che hanno maggiormente influito
sulla nostra cultura. Tant'è vero che il filosofo esistenzialista
novecentesco Karl Jaspers, orecchiando analoghi giudizi, è giunto a
sostenere che la storia della filosofia l'ha scritta Platone, mentre quelli
che sono venuti dopo di lui hanno aggiunto solo qualche postilla.
Questa tesi è certamente eccessiva, ma il fatto che-sia stata proclamata
è rivelativa dell'innegabile peso storico di questo filosofo. Di
conseguenza, determinare le varie influenze, o specificare i vari modi
con cui Platone è stato letto, risulta impresa ardua, e, in questa sede,
impossibile. Del resto ad alcune delle principali influenze - filosofiche,
politiche o scientifiche abbiamo già accennato. Altre verranno rilevate
ed approfondite proseguendo nell'esposizione della materia. Qui ci
limitiamo ad una sintetica storia della "presenza" di Platone nei secoli,
mettendo in luce, a grandi linee, l'atteggiamento generale che le varie
epoche hanno assunto nei suoi confronti. Nel mondo greco, Platone è
stato il filosofo con cui si sono misurati i pensatori più noti. Aristotele
riterrà di averlo superato ed inverato al tempo stesso, mentre Plotino, il
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fondatore del neoplatonismo del ni secolo, rifacendosi esplicitamente a
Platone, interpreterà il suo pensiero in chiave fortemente religiosa,
fornendone un modello di lettura che durerà secoli e che agli occhi degli
studiosi contribuirà a fare di Platone e del neoplatonismo quasi una
stessa cosa. L'interpretazione di Plotino preparerà la piena utilizzazione
cristiana di Platone. Infatti, quando il Cristianesimo si sforzerà di darsi
una filosofia, ricorrerà proprio al filosofo delle idee, riconoscendolo, per
bocca dei Padri della Chiesa, come il pensatore che più di ogni altro si è
avvicinato al messaggio cristiano (S. Agostino), rappresentando una
sorta di "Mosè attico" illuminato inconsapevolmente dalla grazia
(Clemente Alessandrino). Di conseguenza la filosofia cristianomedioevale, la cosiddetta "Scolastica", scorgerà in Platone il pensatore
religioso per eccellenza, che ha distinto fra il mondo dell'al di là e il
mondo dell'al di qua, contrapponendo l'immutabile e l'eterno al
mutevole e al perituro. Con la "scoperta" di Aristotele, nel XIII secolo,
Platone vedrà diminuire la sua fortuna a favore del grande discepolo,
anche se quest'ultimo sarà ancora letto in chiave platoniconeoplatonica. Verso la fine del XIV secolo, con l'Umanesimo italiano, che
esalterà Platone in funzione antiaristotelica, celebrandone il filosofare
aperto e problematico, si assisterà ad una rinnovata fortuna del
platonismo. Se fino alla metà del Quattrocento dominerà il Platone
politico e morale, in seguito prevarrà soprattutto il Platone metafisico e
religioso, sostenitore della presenza del divino nel mondo e nell'uomo. A
Platone come filosofo della interpretazione matematica della natura si
rifaranno pure, come già sappiamo, i protagonisti della rivoluzione
scientifica moderna, da Copernico a Galileo. Nel secolo XVIIi si avrà la
cosiddetta "Scuola di Cambridge", che sosterrà l'innatismo a proposito
delle verità matematiche e dei principi morali. La grande frattura della
tradizione platonica si avrà invece, fra il XVII e XVIII secolo, con
l'affermazione dell'empirismo e dell'Illuminismo, cioè di correnti di
pensiero che privilegiando l'esperienza e la razionalità critica,
risulteranno tendenzialmente avverse al discorso metafisico e religioso
del filosofo delle "idee". Dopo l'Illuminismo, che segnerà un certo "oblio"
di Platone, il filosofo tornerà a godere di maggior considerazione. Da un
lato - a partire da Schleiermacher, che all'inizio dell'Ottocento tradurrà
tutti i dialoghi platonici - si darà inizio ad una lettura più filologica e
scientifica della sua opera, la quale sarà definitivamente liberata dalle
secolari incrostazioni interpretative che l'avevano sempre confusa con il
neoplatonismo. D'altro lato, pur essendo sparito il "platonismo" come
corrente filosofica specifica, Platone, divenuto ormai un "classico" del
pensiero, continuerà ad ispirare filosofi e correnti disparate. Elementi
decisamente platonici si trovano ad esempio nel neokantismo e nella
fenomenologia del Novecento. Significativa è pure la corrente del
cosiddetto "platonismo matematico" che raggruppa quei matematici e
filosofi, da Cantor a Gödel, che sostengono la realtà oggettiva ed
extramentale degli enti matematici.
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L'antica Accademia.
Subito dopo la morte di Platone, il suo maggiore discepolo Aristotele si
staccò dalla scuola e fece parte per se stesso. A capo dell'Accademia fu
eletto allora SPEUSIPPO, nipote di Platone, che la tenne per otto anni
(347-339). Speusippo accentuò l'indirizzo pitagorico iniziato da Platone
nell'ultima fase della sua speculazione. Al posto delle idee, egli
ammetteva, come modelli delle cose naturali, i numeri matematici che
distingueva da quelli sensibili. Egli ebbe una visione evolutiva della
realtà naturale. Il bene che Platone metteva all'inizio del processo
cosmico, quale principio di tutto, fu messo da lui al termine dello stesso
processo per la considerazione chie tutti gli esseri tendono a passare
dall'imperfezione alla perfezione e che perciò il bene si trova al termine
del divenire, non all'inizio. Concepì inoltre la divinità come l'anima
reggitrice del mondo, secondo la dottrina del Timeo e delle Leggi. Alla
morte di Speusippo fu eletto a capo dell'Accademia SENOCRATE, che vi
rimase 25 anni (339-314).
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