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Stefano Micelli, Marco Simoni, Irene Tinagli
Giovani, al lavoro!
Le proposte di Italia Futura
per l’occupazione giovanile
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Stefano Micelli, Marco Simoni, Irene Tinagli
Giovani, al lavoro!
Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
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RINGRAZIAMENTI
Gli autori ringraziano Alessio Liquori e Raoul Minetti per il contributo fondamentale
alla stesura delle tre proposte.
Ringraziano altresì sentitamente Fabrizio Baroni, Innocenzo Cipolletta, Giuseppe De Rita,
Maurizio Ferrera e Nicola Rossi per gli utilissimi commenti su una stesura preliminare.
Grazie a Marco Palillo per il prezioso aiuto nelle attività di ricerca e di benchmark internazionale.
Un ringraziamento particolare a Stefania Multari di Confartigianato
e Enrico Amadei della Confederazione Nazionale della Piccola e Media Impresa.
L’appendice statistica è stata realizzata da Sergio de Ferra,
dottorando della London School of Economics.
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Indice
1.
INTRODUZIONE.
Giovani e lavoro: la vera emergenza nazionale
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2.
C A PITOLO 1.
Il mondo fuori: analisi e confronto internazionale
di Irene Tinagli
8
3.
C A PITOLO 2.
Tre proposte per ripartire dai giovani
di Marco Simoni
39
4.
CAPITOLO 3.
Il caso dell’artigiano: un’occasione per crescere
di Stefano Micelli
53
5.
APPENDICE STATISTICA.
I numeri del quindicennio perso (1994 – 2009)
di Sergio de Ferra
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
INTRODUZIONE
Giovani e lavoro:
la vera emergenza nazionale
L’Italia deve ricominciare ad investire sul proprio futuro. Da troppo tempo lo sguardo
della politica ha smesso di puntare avanti, schiacciando il nostro paese sul presente e sul passato, togliendogli slancio e prospettiva. È urgente invertire questa tendenza, occuparsi del presente pensando al tempo prossimo e a dove vogliamo che l’Italia sia tra cinque, dieci anni.
Mossi da questa convinzione abbiamo elaborato la campagna che presentiamo in queste pagine, una campagna corredata da una serie ampia di proposte che offriamo al dibattito
pubblico e politico.
Abbiamo scelto di concentrarci sulla disoccupazione giovanile e sulle politiche per contrastarla, perché il tema dei giovani non è un dettaglio ma il cuore di un grande paese. Pensiamo che l’allarmante, a volte tragica, situazione economica vissuta dalla maggioranza dei
giovani del nostro paese sia la vera urgenza nazionale e il frutto più chiaro del fallimento della
politica degli ultimi quindici anni. Concentrarsi sul tema dei giovani significa, dunque, occuparsi di molte cose: della parte più fresca e creativa del paese, del futuro di tutti noi e di una
politica che torni a mettere al centro della discussione il bene comune.
Il bene comune non è una ricetta preconfezionata ma frutto dell’elaborazione, dell’approfondimento e della discussione pubblica. Eppure, nei mesi durante i quali i bollettini dell’ISTAT diramavano dati sempre più allarmanti sulla condizione delle giovani generazioni,
abbiamo sentito poche idee e poche proposte arrivare da chi dovrebbe occuparsi non solo
di amministrare il presente ma di costruire il futuro.
La disoccupazione giovanile in Italia è molto più alta della media dei paesi dell’Europa
occidentale, nel nostro paese è più facile essere disoccupati se si è giovani rispetto a qualsiasi
altra classe di età. Non c’è da stupirsi, dunque, se siamo il paese in cui i giovani adulti fanno
più fatica ad uscire dalla casa dei propri genitori o se la natalità è più bassa di quanto si registri in Germania, Francia o Inghilterra.
Negli ultimi dieci anni il reddito pro capite in Italia è calato, mentre aumentava, sia pur
di poco, nei paesi a noi vicini. Le conseguenze della stagnazione economica italiana sono avvertite soprattutto dai giovani. E questo significa che – a meno di un intervento tempestivo –
la prospettiva è ancora più difficile della situazione di oggi, perché la stagnazione economica sta
indebolendo socialmente ed economicamente la spina dorsale dell’Italia del futuro prossimo.
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In altre parole, quello dei giovani non è uno tra i tantissimi problemi che affliggono il
nostro paese ma la questione centrale sulla quale concentrarsi per tornare a investire sul futuro, invertire la spirale del declino e tornare a trovare le ragioni dell’orgoglio nazionale anche
per quello che facciamo, oltre che per quello che siamo.
Le statistiche e le analisi economiche sono importanti per comprendere le dimensioni
e la gravità del problema che abbiamo davanti e, soprattutto, per elaborare risposte efficaci.
Ma per riconoscere l’urgenza di mettere in moto buone politiche è sufficiente ascoltare i racconti, le storie, la vita vissuta dai giovani italiani. Migliaia di risposte sono arrivate sul nostro
sito web, in cui chiedevamo una testimonianza sul mondo del lavoro. Una parte, largamente
maggioritaria, racconta storie difficilissime. La storia di chi non riesce a trovare lavoro e vede
mortificate le proprie capacità: è anche la storia di una società che rinuncia a quelle competenze e quell’entusiasmo. Sono meno drammatici i racconti di chi, scoraggiato da troppe barriere, ha deciso di trovare fortuna altrove, generalmente con buoni risultati. C’è da essere
orgogliosi della capacità dei giovani italiani di mietere successo in giro per il mondo, ma c’è
da preoccuparsi per la nostra incapacità di attrarre talenti o mantenere i nostri. Gli inglesi lo
chiamano brain drain, la bilancia commerciale delle intelligenze, che ci vede posizionati sempre
peggio rispetto agli altri paesi europei. Le altre storie difficili si concentrano sul lavoro precario, che estende le sue caratteristiche alla vita delle persone; la mancanza di trasparenza, e a
volte la corruzione; il senso di impotenza davanti a politiche miopi e corporative: tratti distintivi di un paese che non cura il futuro.
Eppure, in un contesto difficile, con risorse economiche sempre più ridotte, con opportunità negate, nonostante grandi ostacoli, i giovani italiani sono protagonisti di grandi sforzi
e di un lavoro silenzioso ma fondamentale che ha aiutato l’Italia a non declinare ulteriormente,
a non trasformare le enormi difficoltà in una resa. E, sempre senza negare i contesti difficili,
sono tante anche le storie di orgoglio che abbiamo ricevuto. Di giovani ricercatori che portano avanti le nostre università. Di chi, tra mille ostacoli burocratici porta avanti l’azienda familiare, o cerca di iniziare una piccola attività artigiana, preservando e innovando con grande
entusiasmo le nostre tradizioni. Abbiamo ricevuto le tante storie di giovani lavoratori e professionisti senza i quali la nostra economia non potrebbe funzionare. Persone spesso con un
contratto flessibile che sanno di essere indispensabili per l’azienda, la pubblica amministrazione, la scuola o l’ospedale nei quali lavorano.
Noi siamo convinti che l’Italia di oggi sia una combinazione di declino e potenzialità. Di
opportunità negate, di rendite prepotenti che convivono accanto ad una straordinaria capacità di lavoro, di dedizione, di impegno. Dipende, dunque, dalla politica e dai decisori pubblici
la scelta di quale strada prevarrà: se quella del declino inevitabile, di una nazione che tra le tante
spaccature dovrà annoverare anche quella del ritorno dell’emigrazione di massa e della disoccupazione crescente, con punte estreme nel meridione, oppure quella della ripresa eco-
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nomica fondata sul lavoro, che offre opportunità soprattutto ai giovani di mettere le loro
energie nelle istituzioni, nelle aziende, nei luoghi di lavoro in cui si trovano, sicuri che il loro
impegno sarà riconosciuto fino in fondo.
Noi crediamo che la differenza tra la prima e la seconda possibilità, tra declino e futuro,
passi anche dall’impegno. Ed è con senso di partecipazione civica che Italia Futura ha preparato questa campagna, coinvolgendo studiosi, professionisti, esperti, appassionati e volontari.
Il lavoro di queste pagine comprende tre parti. La prima è quella dell’analisi, per capire
nel dettaglio quanto è rilevante il problema della disoccupazione giovanile e cosa si fa nel
resto del mondo. Irene Tinagli traccia un quadro molto difficile, sottolineando quanto nel nostro paese la crisi abbia colpito soprattutto i giovani, mentre la politica ha deciso di sottovalutare il problema. Allo stesso tempo, lo sguardo sui nostri vicini europei ci mostra
un’amplissima varietà di interventi possibili per invertire la rotta. La seconda parte è quella
delle proposte. Marco Simoni ne individua tre, che riguardano il fisco e l’evasione fiscale, l’imprenditoria giovanile e la formazione del capitale umano. Sono proposte che non esauriscono
la necessità di interventi ampi di politica economica per rilanciare la crescita. Ma sono proposte che, se attuate, potrebbero attivare circoli virtuosi di conoscenza, produttività e crescita,
mentre riannodano il tessuto del patto fiscale logorato.
La terza parte suggerisce un focus importante che proponiamo alla discussione: quello
sull’artigianato. Stefano Micelli spiega come l’artigianato sia uno degli anelli di congiunzione più
forte tra l’economia globalizzata e la nostra cultura, uno dei modi con i quali l’Italia può girare
la globalizzazione a suo vantaggio e crescere grazie all’apertura dei mercati anziché temerla
e averne paura: a patto di compiere alcune precise scelte politiche.
L’appendice a questi capitoli offre al lettore un ampio compendio di dati comparati, utili
alla lettura ma, soprattutto, a fotografare la situazione di estrema difficoltà della nostra economia e della nostra società.
Il nostro punto di partenza è netto: il tema dell’occupazione giovanile è la vera emergenza nazionale e, come ogni questione complessa, va affrontata con strumenti adeguati e
multiformi, parte dei quali è individuata nelle pagine che seguono. Come sempre, offriamo le
nostre competenze e le nostre analisi al dibattito, lanciando una campagna di discussione che
coinvolgerà migliaia di italiani di tutte le età, convinti che sia ora di voltare pagina.
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C A P I TO L O 1
IL MONDO FUORI: ANALISI E CONFRONTO
INTERNAZIONALE
di Irene Tinagli
1.
Disoccupazione giovanile: agire ora per cambiare il futuro
2.
Il fenomeno: dati e confronto internazionale
11
3.
Analisi: possibili cause e fattori collegati
15
3.1
Istruzione e abbandono scolastico
15
3.2
Formazione, apprendistato e collegamento con il mondo del lavoro 18
3.3
Precarietà e qualità del lavoro
4.
9
21
Quali politiche?
25
4.1
Politiche per l’istruzione
25
4.2
Formazione professionale
27
4.3
Ammortizzatori sociali
30
4.4
Incentivi fiscali per l’assunzione di giovani
34
4.5
Misure normative relative al mercato del lavoro: il contratto unico
35
4.6
Promozione e supporto della cultura imprenditoriale
36
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1. Disoccupazione giovanile:
agire ora per cambiare il futuro
La crisi economica globale ha colpito in modo particolarmente grave le generazioni più
giovani, sia in Europa che negli Stati Uniti. L’Italia, che grazie alla cassa integrazione è riuscita
ad attutire, in parte, gli effetti sull’occupazione “adulta”, ha tuttavia ceduto in maniera preoccupante sul fronte di quella giovanile. Stando agli ultimi dati disponibili, oggi in Italia circa il 27%
dei giovani tra i 15 e i 24 anni è disoccupato. Sono giovani che non studiano più, che magari
hanno conseguito il diploma o la laurea, che cercano lavoro, ma che non trovano niente. A questi andrebbero poi aggiunti quelli che non cercano nemmeno più.
A che serve gloriarsi della relativa tenuta dell’occupazione “adulta”, quando abbiamo
oltre due milioni di giovani in uno stato di totale smarrimento e abbandono? È come se gli effetti peggiori della crisi fossero stati scaricati su di loro. Ma scaricare il peso di questa crisi sui
giovani significa buttare dalla finestra quello che ben presto busserà alla porta come un
dramma di portata ancora maggiore.
La disoccupazione giovanile ha pericolosi effetti di lungo periodo. Numerose ricerche
hanno dimostrato che essere disoccupati da giovani influenza pesantemente gli sviluppi di carriera e, in modo particolare, i livelli retributivi futuri. Questo ha effetti non solo sulla vita dei giovani in questione ma sull’economia del Paese, che si ritroverà con una forza lavoro più debole,
che verserà meno contributi e tasse nelle casse dello stato e avrà una capacità di consumo più
bassa. Come se non bastasse la disoccupazione ha un effetto significativo sulla salute psicologica
e fisica dei giovani. Ormai da anni studi scientifici dimostrano come il trovarsi disoccupati aumenti
la probabilità per i giovani di essere vittime di criminalità, alcolismo, droga, incidenti e suicidi1.
Nonostante la gravità della situazione e delle sue ricadute future, in Italia molti politici tendono a minimizzare il fenomeno. D’altronde un giovane tipicamente non ha una famiglia da mantenere e può spesso contare sulla famiglia di origine come ammortizzatore per
le sue difficoltà economiche, quindi gli effetti sociali del fenomeno non si vedono subito. Ma
questo non può tranquillizzarci e giustificare l’inazione alla quale stiamo assistendo. Il Piano
di azione per l’occupazione dei giovani, “Italia 2010”, lanciato dal Governo nel Settembre
2009, presenta considerazioni giuste ed interessanti riguardanti il fenomeno e le sue cause,
Per approfondimenti si rimanda agli studi condotti da Anne Hammarström presso il Dipartimento di Medicina Sociale dell’Istituto Karolinska a Luleå, in Svezia.
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ma purtroppo non indica né quali siano in concreto le misure al vaglio del governo né tantomeno quando saranno implementate.
L’Italia non può più permettersi di lasciare in sospeso le centinaia di migliaia di giovani
che sono, oggi, senza lavoro e senza prospettive. Lavorare per aiutare questi giovani significa
lavorare per ricostruire un paese non solo più competitivo, ma più forte, più ottimista e felice. E occorre farlo oggi, non domani.
L’analisi proposta nel presente documento si pone un duplice obiettivo. Da un lato,
quello di capire le dimensioni reali del fenomeno anche in relazione agli altri paesi europei. Dall’altro, quello di identificare, attraverso un lavoro di confronto internazionale, le dimensioni più
critiche sulle quali intervenire per arginare il fenomeno e alcune misure di policy rivelatesi utili
in altri paesi.
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2. Il fenomeno:
dati e confronto internazionale
Dall’analisi comparata dei dati italiani con quelli di un campione selezionato di paesi,
emergono alcuni spunti interessanti di riflessione che aiutano ad inquadrare la questione dell’occupazione giovanile in Italia.
>
Innanzitutto, il primo elemento che emerge dai dati è come il tasso di disoccupazione
giovanile in Italia sia uno dei più elevati tra i paesi europei. Gli ultimi dati disponibili, relativi a Settembre 2010, indicano un tasso del 26,4% (dato destagionalizzato). Si tratta
di un dato inferiore solo ai tre paesi che più di ogni altro hanno sofferto della crisi: Spagna, Grecia e Irlanda (vedi Figura 1).
D I S O C C U PA Z I O N E T R A I G I OVA N I ( 1 5 - 2 4 )
Spagna
42,5
32,1
Grecia
Irlanda
29,1
Italia
26,4
Svezia
25
Francia
24,4
Belgio
24,4
EU27
20,3
EA16
20
19,8
Portogallo
Regno Unito
19,2
Stati Uniti
Danimarca
17,9
12,2
8,9
Austria
Paesi Bassi
8,6
Germania
8,5
0
5
10
15
20
25
30
35
40
45
Figura 1. Disoccupazione tra i giovani 15-24, ultimo mese disponibile (Settembre 2010)
Fonte: Eurostat
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>
In secondo luogo, un’analisi più approfondita delle serie storiche e di altre caratteristiche del fenomeno mostra come la disoccupazione giovanile in Italia non sia legata
solo alle dinamiche della disoccupazione complessiva, ma abbia sue caratteristiche peculiari e strutturali, che vanno oltre gli effetti della crisi e del sistema occupazionale
nel suo complesso. Questo lo si vede da due dati chiave: innanzitutto dal fatto che,
mentre per paesi come la Spagna o l’Irlanda, la disoccupazione giovanile è esplosa con
la crisi, ma era ampiamente sotto controllo negli anni precedenti, la situazione italiana
nel 2006 era già molto preoccupante rispetto ad altri paesi. Precisamente l’Italia aveva
il secondo tasso più elevato d’Europa dopo la Grecia (vedi Tabella 1). Un altro elemento che mette in luce la specificità del fenomeno della disoccupazione giovanile in
Italia è il fatto che essa ha un rapporto altissimo rispetto a quella degli adulti. La disoccupazione tra i giovani registra sempre, anche negli altri paesi, tassi più alti di quella
rilevata tra gli adulti, ma normalmente si tratta di un rapporto che va da 2:1 (se si con-
D I S O C C U PA Z I O N E – E T À 1 5 - 2 4
2009
2008
2007
Spagna
Irlanda
Grecia
Italia
Svezia
Francia
Belgio
Finlandia
Portogallo
Regno Unito
Stati Uniti
Canada
Australia
Danimarca
Germania
Austria
Norvegia
Giappone
Svizzera
Paesi Bassi
Media OCSE
37.9
25.9
25.8
25.4
25
22.4
21.9
21.6
20
18.9
17.6
15.3
11.6
11.2
11
10
9.2
9.1
8.2
7.3
16.4
24.6
12.5
22.1
21.3
19.4
18.1
18
15.7
16.4
14.1
12.8
11.6
8.9
7.6
10.4
8.1
7.5
7.2
7
5.6
12.7
18.2
10
22.9
20.3
18.9
18.7
18.8
15.7
16.6
14.4
10.5
11.2
9.4
7.9
11.7
8.7
7.3
7.7
7.1
6.3
12
2006
17.9
9.8
25.2
21.6
21.3
21.3
20.5
17.6
16.2
13.9
10.5
11.6
10
7.7
13.6
9.1
8.6
8
7.7
6.9
12.5
Tabella 1. Dati annuali: la disoccupazione giovanile prima e dopo la crisi
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fronta con la fascia 25-54) a 3:1 (se si confronta con quella 55-64). Vale a dire che la
disoccupazione giovanile è generalmente due o tre volte superiore a quella adulta (a
seconda della fascia di età alla quale si rapporta).
In Italia, invece, la disoccupazione giovanile è di quasi quattro volte superiore a quella
degli adulti in fascia di età 25-54 e addirittura più di sette volte superiore a quella degli adulti
in età 55-64. Un dato che, come mostra la Tabella 2, non ha confronti con nessun paese Ocse
considerato (a parte la Norvegia dove la proporzione tra disoccupazione giovanile e adulta è
altissima semplicemente perché quest’ultima è quasi inesistente, circa all’1%). Persino la Spagna, che ha un tasso di disoccupazione giovanile alle stelle, non rileva uno squilibrio così alto
tra disoccupazione giovanile e adulta, a dimostrazione del fatto che la questione “giovani” in
Spagna è molto legata alla crisi e all’andamento generale dell’occupazione. Da noi invece, non
sembra essere così, la disoccupazione tra i giovani, infatti, sembra avere una componente peculiare e strutturale che va oltre il problema generale della crisi e della disoccupazione totale.
R A P P O RTO T R A D I S O C C U PA Z I O N E G I OVA N I (15-24) E A D U LT I
Adulti in età 55-64
Adulti in età 25-54
Norvegia
Italia
Grecia
Svezia
Irlanda
Belgio
Austria
Regno Unito
Francia
Finlandia
Australia
Spagna
Svizzera
Stati Uniti
Portogallo
Danimarca
Canada
Paesi Bassi
Germania
Media OCSE
8.36
7.47
5.61
4.81
4.32
4.29
4.17
4.11
3.56
3.43
3.41
3.13
2.93
2.67
2.60
2.38
2.19
1.92
1.38
2.88
3.68
3.63
2.90
4.03
2.40
3.22
2.38
3.10
2.91
3.27
2.58
2.30
2.22
2.12
2.15
2.15
2.15
2.35
1.51
2.25
Tabella 2. Il rapporto tra disoccupazione giovanile e adulta
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Infine un’altra caratteristica preoccupante dell’occupazione/disoccupazione giovanile in
Italia è l’elevata diseguaglianza territoriale.Vi sono regioni italiane in cui il tasso di disoccupazione giovanile si avvicina al 40%. Secondo un rapporto di Confartigianato pubblicato
a Maggio 2010, nel 2009, in sei Regioni il tasso di disoccupazione dei giovani tra 15 e 24
anni era superiore al 30%: in Sicilia al 38,5%, in Basilicata al 38,3%, in Campania al 38,1%,
in Puglia al 32,6%, in Calabria al 31,8% e nel Lazio al 30,6%. In Sardegna addirittura risultava del 44,7%. Al contrario vi sono regioni in cui è di dieci o anche quindici punti percentuali inferiori alla media nazionale, come in Toscana (17,8%), in Valle d’Aosta (17,5%),
in Veneto (14,4%) e in Trentino-Alto Adige (10,1%). La situazione del lavoro giovanile al sud
sconta inevitabilmente questioni legate non solo ai giovani, ma più in generale allo sviluppo
e alla crescita complessiva della zona, argomenti che vanno oltre gli scopi del presente lavoro. Ad ogni modo, molte delle considerazioni e analisi condotte in questa sede, come
quelle riguardanti il ruolo dell’istruzione e della lotta all’abbandono scolastico, hanno un
ruolo chiave in tutte le regioni italiane, a partire proprio da alcune aree del sud in cui abbandono scolastico e formazione dei giovani sono problematiche molto rilevanti.
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
3. Analisi: possibili cause e fattori collegati
Il fenomeno della disoccupazione giovanile è chiaramente legato a numerosi fattori.
Nell’analisi ne abbiamo identificati tre ritenuti particolarmente critici, soprattutto in relazione
alla situazione italiana: 1) istruzione e abbandono scolastico, 2) formazione, apprendistato e collegamento con il mondo del lavoro, 3) qualità del lavoro e precarietà.
3.1 Istruzione e abbandono scolastico
Nonostante ci sia una naturale preoccupazione per i giovani più istruiti che faticano a
trovare lavoro, di fatto la disoccupazione giovanile è assai più pronunciata tra le persone che
non terminano gli studi che tra i laureati e, in modo particolare, tra coloro che non riescono
a terminare le scuole superiori. Secondo gli ultimi dati resi disponibili dall’Ocse, il tasso di disoccupazione tra coloro che non hanno terminato le scuole superiori è, in media, tre volte
più alto del tasso di disoccupazione tra coloro che hanno un titolo universitario e quasi il
doppio rispetto a coloro che hanno ottenuto un diploma superiore. In Italia, pur essendo tra
i paesi in cui il titolo di studio garantisce di meno contro la disoccupazione, questo gap è comunque rilevante: il tasso di disoccupazione tra chi non finisce le superiori è quasi il doppio
di quello rilevato tra chi ottiene il diploma.
TA S S O D I D I S O C C U PA Z I O N E P E R T I TO L O D I S T U D I O
Senza
Con diploma
Con
diploma superiore
superiore
laurea
Germania
Spagna
Belgio
Stati Uniti
Francia
Canada
Irlanda
16.5
13.2
10.8
10.1
9.8
9.1
8.2
7.2
9.3
5.7
5.3
5.6
5.5
4.8
3.3
5.8
3.2
2.4
4.0
4.1
3.0
segue
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
continua dalla pagina precedente
Finlandia
Portogallo
Italia
Svezia
Grecia
Austria
Regno Unito
Norvegia
Danimarca
Paesi Bassi
Media OCSE
Media EU 19
8.1
7.6
7.4
7.1
6.8
6.3
6.2
3.8
3.5
3.4
8.7
10.6
5.4
6.6
4.6
4.1
7.2
2.9
3.7
1.3
2.2
2.1
4.9
5.3
3.3
5.8
4.3
3.3
5.7
1.7
2.0
1.3
2.3
1.6
3.2
3.2
Tabella 3. Tasso percentuale di disoccupazione (25-64) per titolo di studio
Fonte: Oecd, Education at a lance 2010, i dati si riferiscono al 2008
Questi differenziali si riscontrano anche nella probabilità di un giovane tra i 20 e i 29
anni di essere “neet”, ovvero non inserito né in un percorso di studio né in alcuna forma di
attività lavorativa. Le percentuali di giovani in condizione di “neet” sono in media circa il doppio tra quelli che non hanno terminato le superiori rispetto a chi, invece, ha ottenuto il diploma. Un gap che tende ad attenuarsi con l’età ma che è particolarmente accentuato tra i
giovani nella fascia di età tra i 20 e i 24 anni.
ETÀ 20-24
Senza
Con
diploma
diploma
superiore superiore
Austria
Danimarca
Paesi Bassi
Francia
Irlanda
Belgio
Regno Unito
13.4
5.8
2.6
21.5
15.8
17.8
16.5
2.8
1.5
0.7
6.2
4.6
5.2
5.2
ETÀ 25-29
Con
laurea
n.d.
n.d.
n.d.
4.1
3.9
6.2
4.4
Senza
Con
Con
diploma
diploma
superiore superiore
10.7
4.2
2.4
15.2
9.4
14.8
7.1
2.3
n.d.
1.0
8.9
4.9
7.1
4.6
laurea
n.d.
2.3
0.6
4.4
2.7
3.9
1.9
segue
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
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Spagna
Finlandia
Portogallo
Stati Uniti
Canada
Germania
Svezia
Grecia
Italia
Media OCSE
Media EU 19
16.8
10.8
10.4
13.7
10.5
11.1
13.6
14.1
11.9
13.2
14.2
6.1
4.5
4.3
5.9
5.2
5.6
7.0
7.5
7.2
4.9
5.0
6.6
n.d.
17.3
4.5
4.0
4.1
n.d.
20.0
6.6
7.3
7.7
12.7
n.d.
8.3
9.6
10.5
16.2
9.8
9.8
9.1
10.8
11.7
7.6
4.8
6.8
6.9
6.0
6.1
4.4
10.6
6.2
5.5
5.8
6.2
3.0
10.8
2.4
3.4
3.3
2.9
12.9
7.3
4.5
4.6
Tabella 4. Giovani non occupati né in programmi di formazione (%) per età e titolo di studio
Fonte: Ocse
Non solo ma, sempre secondo i dati dell’Ocse, nella maggioranza dei paesi sviluppati le
persone con un titolo di istruzione universitaria (equivalente alla nostra laurea specialistica)
guadagnano almeno il 50 % in più di quelle con il diploma di scuola superiore. Così come i differenziali di salario tra chi possiede un diploma di scuole superiori e chi ha solo una licenza
di scuola media vanno dal 15 al 30%. Differenziali salariali che sono analoghi a quelli riscontati anche in Italia, pur con qualche particolarità (in Italia per esempio, tali differenziali sembrano diminuire per le fasce d’età più giovani, e il titolo di laurea, pur avendo un effetto positivo
sui redditi di lungo periodo di chi trova lavoro, non sembra aumentare però in modo sostanziale la probabilità di trovare lavoro tra i più giovani, così come mostrato anche in tabella).
È evidente quindi che l’istruzione e l’abbandono scolastico durante le scuole superiori
(“dispersione scolastica”) sono una dimensione chiave della lotta alla disoccupazione giovanile. Si tratta di quel fenomeno che in ambito internazionale è chiamato “early school leavers”
e che determina una grave carenza delle competenze di base necessarie per una partecipazione attiva al mercato del lavoro. Proprio per la sua importanza per la crescita e la competitività di un paese, questo indicatore era stato incluso tra gli obiettivi della conferenza di
Lisbona, che aveva fissato come obiettivo per il 2010 la riduzione della quota media degli early
school leavers al 10%.
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
Su questo fronte l’Italia si trova in una situazione molto difficile perché, nonostante alcuni miglioramenti registrati negli ultimi anni, ha ancora uno dei tassi di abbandono scolastico
più elevati d’Europa, pari a circa il 20%. Un dato che, stando alle fonti Ocse, è dieci punti sopra
l’obiettivo di Lisbona, e molto superiore a quello di altri paesi europei come Francia, Germania, Danimarca e Belgio che sono tra l’11% e il 12%. Fa peggio di noi solo la Spagna, che, non
a caso, ha una disoccupazione giovanile che sfiora il 42%.
In sintesi, oggi in Italia un ragazzo su cinque non consegue né diploma né qualifica professionale e 19.000 studenti sembrano letteralmente “scomparire” dopo
essersi iscritti al primo anno della scuola secondaria superiore. In alcune regioni
come Sardegna e Sicilia, il 30% di ragazzi è fornito unicamente della licenza media. Questo fenomeno rappresenta un ostacolo enorme per lo sviluppo sia di questi giovani che di molte
nostre regioni e del paese nel complesso. Tanto più che, proprio nelle regioni del meridione,
l’impatto dell’istruzione su occupazione e salari futuri è particolarmente accentuato e, intervenendo sulla riduzione della dispersione scolastica in queste aree, si potrebbero ottenere
grandi progressi nella lotta alla disoccupazione giovanile.
Secondo uno studio condotto dalla Banca d’Italia, i vantaggi della maggiore istruzione si
accentuano nelle aree più deboli del paese e per i gruppi più svantaggiati. Nel Mezzogiorno, nel
2007 erano nelle forze di lavoro il 74% dei laureati, il 63% dei diplomati e solo il 51% delle persone con un diploma di scuola media. Un congruo investimento da parte dello Stato in istruzione
verrebbe più che compensato dalle entrate fiscali, a parità di prelievo, e dai minori costi derivanti
dall’aumento del tasso di occupazione. Lo studio mostra quindi che, nel lungo periodo, la maggior
spesa pubblica necessaria a finanziare un dato aumento del livello di istruzione, sarebbe più che
compensata, specie nelle regioni meridionali, dall’aumento delle entrate fiscali, a parità di struttura
di prelievo, e dai minori costi derivanti dall’aumento del tasso di occupazione. In media, il rendimento fiscale sarebbe infatti compreso tra il 3,9% e il 4,8% nel caso di co-finanziamento e sarebbe
solo lievemente inferiore nel caso in cui la spesa gravasse interamente sul bilancio pubblico.
3.2 Formazione, apprendistato e collegamento con il mondo del lavoro
Le analisi condotte tra i paesi europei mostrano il ruolo fondamentale della formazione
professionale e dell’apprendistato come modi per facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del
lavoro, con particolare riferimento a coloro che non perseguono percorsi di studio universitari.
Non è un caso se i paesi con i più bassi tassi di disoccupazione giovanile sono proprio
quelli che hanno un sistema di formazione professionale più sviluppato e funzionante come
Germania, Austria, e Danimarca. La chiave di successo della formazione in questi paesi sembra essere soprattutto il collegamento molto forte tra formazione e percorsi di apprendistato. In Germania, per esempio, i due strumenti fanno parte dello stesso percorso di
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preparazione al mondo del lavoro, per questo il sistema di formazione professionale tedesco
si chiama “sistema duale” di alternanza scuola-lavoro, che viene organizzato in due luoghi di
formazione: la scuola, Berufsschule, e l’azienda. In Italia, invece, la formazione tecnica e professionale è una cosa separata e ben diversa dai percorsi di apprendistato, ed entrambi gli strumenti non risultano ancora sufficientemente sviluppati e funzionanti.
La formazione tecnica e professionale in Italia non ha quell’immagine positiva e
“professionalizzante” che ha in altri paesi e forse questa percezione della scuola professionale
come una scuola “di ripiego” la rende una scelta poco perseguita dai nostri giovani. Mentre in
Germania oltre il 50% dei giovani sceglie un percorso di studi tecnico-professionale, una percentuale che sale al 60% nei Paesi Bassi e addirittura all’80% in Austria (dati Eurostat), in Italia
queste scuole hanno un peso minoritario nelle scelte dei giovani. Né sembra, almeno dai primi
segnali, che la riforma della scuola superiore operativa da Settembre 2010 sia sufficiente a modificare significativamente la situazione. Secondo i dati del MIUR l’istruzione professionale in Italia ha registrato nel 2010 un calo delle iscrizioni del 2% fermandosi al 20%, contro il 49,3% dei
Licei e il 31% degli istituti tecnici. E, questo, nonostante prima della crisi economica tra i diplomati tecnici e professionali, a tre anni dal titolo, lavorassero il 75,5% (81% per gli istituti ad
indirizzo industriale) dei giovani contro il 26,8% dei liceali (23% per i licei classici).
Sul fronte dell’apprendistato la situazione è ancora più complessa e preoccupante.
Negli ultimi 10-15 anni si sono succeduti vari interventi legislativi in materia (dalla L.196/97,
alla 276/03 fino all’art. 23 della L.112/08).Tuttavia questa attenzione normativa non è stata, fino
ad ora, in grado di risolvere i nodi più critici dell’apprendistato e di renderlo un valido strumento per la formazione dei giovani e la loro occupabilità. Al contrario, i continui mutamenti
dello scenario normativo di riferimento sembrano aver generato ulteriori confusioni e rallentato in molti casi il processo di diffusione di questo strumento e la sua efficacia.
Nel complesso, le varie forme di apprendistato2 coprivano nel 2008 il 17% dell’occupazione tra i 15 e i 29 anni. Un dato in diminuzione nell’ultimo anno: mentre
nel 2008 gli apprendisti sono stati 646 mila, nel 2009 il numero è sceso a 567 mila, un calo del
In Italia esistono tre tipologie di apprendistato (L.276/2003):
a) contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione: possono essere assunti in tutti i settori di
attività i giovani e gli adolescenti che abbiano compiuto i 15 anni. Ha durata non superiore a tre anni ed è finalizzato al conseguimento di
una qualifica professionale. La durata del contratto è determinata in considerazione della qualifica da conseguire, del titolo di studio, dei
crediti professionali e formativi acquisiti, nonché del bilancio di competenze realizzato dai servizi pubblici per l’impiego, o dai soggetti privati accreditati mediante l’accertamento dei crediti formativi secondo quanto stabilito dalla legge n. 53 del 28 marzo 2003. La registrazione
della qualifica conseguita va effettuata nel libretto formativo;
b) contratto di apprendistato professionalizzante: possono essere assunti in tutti i settori di attività i soggetti di età compresa tra i 18 e i 29
anni. Tale contratto è finalizzato al raggiungimento di una qualificazione professionale attraverso una formazione sul lavoro e l’acquisizione
di competenze di base, trasversali e tecnico-professionali. Il riconoscimento dei risultati raggiunti viene certificato nel libretto formativo;
c) contratto di apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione: tramite tale tipologia possono essere
assunti, in tutti i settori di attività, i soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni per il conseguimento di titoli di studio di livello secondario, universitari, dell’alta formazione e la specializzazione tecnica superiore.
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12%. Ma al di là della diminuzione quantitativa dell’apprendistato la notizia più preoccupante è
che solo il 20% dei giovani in apprendistato riceve qualsiasi tipo di formazione. E in
molti casi i giovani che sono inseriti in attività di formazione non completano il percorso. In Italia, in media, solo il 64% termina il percorso formativo previsto (dati Isfol). Non solo, i rapporti
di monitoraggio dell’Isfol riportano come spesso gli stessi programmi di formazione non coprono tutte le ore previste per legge.
In sintesi l’apprendistato, che in molti altri paesi rappresenta un perno fondamentale
nella lotta alla disoccupazione giovanile, è uno strumento che in Italia non riesce ancora a decollare, vittima di enormi ritardi nell’applicazione delle normative e dell’accavallarsi di riforme
che intervengono quando le precedenti non sono ancora completate (come nel caso della riforma introdotta dall’art. 23 della L.112/2008). E, soprattutto, vittima di una frammentazione regionale altissima che va ben oltre il bisogno di andare incontro alle specificità del mercato del
lavoro e che impedisce di dare ai giovani una base minima di competenze standard necessarie
per un’adeguata crescita professionale. Basta pensare che la legge attualmente in vigore non fissa
nemmeno gli standard minimi di formazione per l’apprendistato dei minori. Questa confusione
normativa è forse una delle cause che ne ha determinato la scarsa diffusione dello strumento
tra i giovanissimi, un vero peccato visto che potrebbe rappresentare uno strumento chiave per
recuperare e tenere comunque all’interno di percorsi formativi quei ragazzi che non riescono
a terminare gli studi. Secondo l’ultimo rapporto di monitoraggio Isfol disponibile, “nel 2006
sono stati 36.905 i minori assunti con contratto di apprendistato: il 20,1% in meno rispetto all’anno precedente. Per il 2007 si conferma la tendenza ad occupare sempre meno i minori, che
rappresentano ormai solo il 6,5% degli apprendisti occupati. Nonostante sia istituito il dirittodovere all’istruzione e formazione per i ragazzi fino a 18 anni, nel 2006 hanno partecipato
alle attività di formazione esterna poco più di 8.800 apprendisti minori, scesi nel
2007 a 6.500 circa. La formazione esterna, quindi, raggiunge una quota modesta di adolescenti che espletano il diritto-dovere di istruzione e formazione in apprendistato, anche considerando che talora le attività formative organizzate coprono solo una parte del percorso
obbligatorio di 240 ore.”
Anche sulle altre forme di apprendistato i progressi sembrano lenti e modesti, anche se,
per quanto riguarda l’apprendistato professionalizzante, è intervenuta una nuova riforma volta
a semplificarne l’utilizzo e aumentarne la diffusione.Tuttavia, anche questa riforma (introdotta dall’art. 23 della L.112/2008) presenta luci ed ombre. Motivata dal tentativo di semplificare le procedure e sbloccare lo stallo attuativo, la legge ha eliminato, tra le altre cose, sia il limite inferiore
di due anni per la stipulazione di contratti sia la regolamentazione pubblica dei profili formativi.
Questi ultimi, infatti, non sono più affidati a regioni e province autonome, ma alla contrattazione
collettiva, ovvero ad aziende e sindacati. Il positivo intento semplificatore è controbilanciato da
alcuni rischi importanti. Infatti, accorciando la possibile permanenza in azienda, si diminuisce ulteriormente l’incentivo ad investire nella formazione del giovane, un rischio reso più concreto
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dall’estromissione dell’ente pubblico che avrebbe dovuto garantire quell’elemento di formazione esterna necessaria per una preparazione di base più completa, solida e flessibile nonché a
garantire un’uniformità degli standard qualitativi. Una scelta che, in un certo senso, ci allontana
dai modelli come quello tedesco, imperniato su una forte compenetrazione tra formazione
aziendale e formazione scolastica e un’alta collaborazione tra pubblico e privato.
3.3 Precarietà e qualità del lavoro
Nel corso degli anni Novanta, in risposta ad un periodo di espansione economica che
non generava posti di lavoro, molti paesi europei hanno avviato politiche volte a flessibilizzare
il mercato del lavoro. In alcuni casi, come in Italia, queste iniziative più che modificare la regolamentazione delle forme di lavoro tradizionali , hanno introdotto nuove forme contrattuali
a tempo determinato meno costose e più flessibili. Queste riforme hanno portato benefici per
un certo periodo, dando impulso ad un calo sostanziale della disoccupazione in molti paesi,
tra i quali spicca in modo particolare la Spagna, dove il tasso di disoccupazione è passato dal
22% all’8% nel 2007. Tuttavia gli iniziali entusiasmi non avevano tenuto conto di alcuni aspetti
fondamentali. Innanzitutto, non modificando in modo sostanziale la flessibilità di chi era già stabilmente inserito nel mercato del lavoro, le riforme non hanno introdotto un vero dinamismo
e ricambio nelle persone, competenze e modi di lavorare; né hanno indotto le imprese ad investire di più in formazione e ammodernamento della loro forza lavoro. In secondo luogo, e
proprio a causa di quanto appena descritto, tali riforme non hanno contribuito a migliorare
né la qualità del lavoro generato né la produttività del sistema nel lungo periodo (che ha visto
uno stallo negli ultimi anni in paesi come la Spagna e addirittura un calo in Italia).
Numerosi economisti a livello internazionale hanno analizzato questo fenomeno, mostrando che la diffusione del lavoro temporaneo è una misura che facilita sia la creazione che
la distruzione di lavoro. Gli studi evidenziano inoltre che gli effetti di “distruzione” sono particolarmente pronunciati in quei sistemi, come la Spagna e l’Italia, in cui il divario tra flessibilità
del lavoro temporaneo e rigidità di quello a tempo indeterminato è più pronunciato3. Altri
hanno dimostrato come questa dualità del mercato del lavoro aumenti la sua volatilità e danneggi la produttività e la crescita del paese4. Altri addirittura sostengono che questa situazione,
nel lungo periodo, possa avere effetti perversi e portare ad un aumento della disoccupazione5.
In Bentolila S., P. Cahuc, J. J. Dolado, and T. Le Barbanchon (2010), “Unemployment and Temporary Jobs in the Crisis: Comparing France
and Spain”, FEDEA, Madrid.
4 Boeri T. and P. Garibaldi (2007), "Two Tier Reforms of Employment Protection Legislation. A Honeymoon Effect?" Economic Journal,:
F357-F385
5 Blanchard, O. J. and A. Landier (2002), “The Perverse Effects of Partial Labor Market Reform: Fixed Duration Contracts in France”,
Economic Journal 112, 214-244.; Cahuc, P. and F. Postel-Vinay (2002), “Temporary Jobs, Employment Protection and Labor Market Performance”, Labor Economics 9, 63-91.
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Un elemento ancora più preoccupante è legato al fatto che, visto che la flessibilizzazione non ha toccato le posizioni lavorative già stabili, le nuove forme contrattuali sono
state utilizzate per lo più per le nuove entrate nel mercato del lavoro, ovvero i giovani. Questo significa che intere nuove generazioni di lavoratori hanno avuto maggiore flessibilità nell’entrare nel mercato del lavoro, ma non altrettante nel costruirvi una carriera, poiché si
sono scontrate con il muro della rigidità di chi è entrato prima di loro. Questo implica, per
molti giovani, la permanenza per periodi più o meno lunghi in posizioni lavorative più deboli, meno gratificanti e peggio retribuite, con conseguenze negative non solo sulla loro
vita privata, ma su tutta la capacità di crescita del paese (questa maggiore fragilità della forza
lavoro si tradurrà infatti in minori consumi, minore contribuzione fiscale, minore produttività e minore crescita).
In Italia sono precari il 10,7% dei lavoratori tra i 25 e i 54 anni (il 14,6% delle donne),
una percentuale che sale al 44,4% tra i giovani con lavoro dipendente (15-24) con un incremento di 2 punti rispetto ai livelli pre-crisi. Altri paesi con elevati tassi di lavoro temporaneo
tra i giovani sono Francia e Spagna (51,2% e 55,9%), che sono anche, probabilmente non a
caso, paesi ad elevato tasso di disoccupazione giovanile. Al contrario, l’Austria si ferma al
35,6%, la Danimarca al 23,6 % e l’Inghilterra all’11, 9% (la media Ocse è del 24,5%). Sembra
quindi emergere una correlazione positiva tra diffusione dei contratti temporanei e disoccupazione giovanile.
In realtà vi sono anche paesi, come la Germania e l’Olanda, in cui tale correlazione appare invertita e dove si hanno elevati tassi di lavoro temporaneo tra i giovani ma bassi livelli
di disoccupazione giovanile.
Come si spiega questo fenomeno? Nel caso della Germania è dovuto al fatto che il lavoro temporaneo in quel paese è associato alla grande diffusione dell’apprendistato e del particolare sistema di alternanza scuola-lavoro. Un sistema che, se da un lato incrementa
statisticamente i numeri del lavoro temporaneo, dall’altro, però, rappresenta una forma di lavoro temporaneo altamente formativo che aiuta i giovani ad inserirsi nel mondo del lavoro.
Nel caso dell’Olanda, invece, il binomio “alto ricorso ai contratti temporanei e bassa disoccupazione giovanile” è legato al particolare sistema di ammortizzatori sociali e di agenzie ed
enti intermedi di collegamento tra giovani e mondo del lavoro, che stimolano i giovani ad essere attivi e agevolano la transizione da un lavoro all’altro (vedi Box 3).
In sostanza, gli unici casi in cui la diffusione di lavoro temporaneo tra i giovani è associata ad una maggiore probabilità di occupazione sono quelli in cui il lavoro temporaneo è legato all’esistenza di istituzioni terze, ben funzionanti, che aumentano la formazione e
l’occupabilità dei giovani e a meccanismi di ammortizzatori sociali che supportano tali percorsi.
In paesi come l’Italia e la Spagna, in cui gli istituti preposti a fare formazione professionale e a
garantire i collegamenti tra formazione e lavoro sono debolissimi, il lavoro temporaneo non
ha aiutato l’occupabilità dei giovani.
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L AVO R ATO R I T E M P O R A N E I – E T À 1 5 - 2 4
1994
2006
2007
2008
Germania
Spagna
Portgallo
Svezia
Francia
Paesi Bassi
Italia
Finlandia
Austria
Belgio
Norvegia
Grecia
Irlanda
Danimarca
Regno Unito
Media OCSE
38
74,4
24,2
40,7
26,5
16,7
18
22
17,9
31,1
11,8
20,7
57,6
66,1
49,3
58,4
50,8
43,6
40,9
44,2
35,2
30
28,7
25
10,9
22,4
12,8
25,1
57,5
62,8
52,6
57,3
52,5
45,1
42,3
42,4
34,9
31,6
27,3
27
19,2
22,2
13,3
25,2
56,6
59,4
54,2
53,8
51,5
45,2
43,3
39,7
34,9
29,5
25,5
29,2
22
23,5
12
24,7
2009
57,2
55,9
53,5
53,4
51,2
46,5
44,4
39
35,6
33,2
32,4
28,4
25
23,6
11,9
24,5
Tabella 5. Giovani occupati con contratti temporanei come % degli occupati in età 15-24
Fonte: Ocse
Germania e Olanda rappresentano però, casi abbastanza isolati. In generale, la diffusione del lavoro temporaneo tra i giovani, in Europa, non sembra aver migliorato in modo sostanziale l’occupazione nel lungo periodo. Se andiamo a vedere i dati della diffusione del lavoro
temporaneo, tra i giovani in età 15-24 negli anni Novanta e l’andamento della disoccupazione
15 anni dopo nella fascia di età successiva (25-55), vediamo che, la correlazione tra le due variabili è positiva, vale a dire: a maggiori tassi di lavoro temporaneo, tra i giovani a metà degli
anni ‘90, corrispondono maggiori tassi di disoccupazione tra gli adulti in età 25-55 nel 2008 e
2009. Un effetto che, come mostra la Figura 2 (alla pagina seguente), si nota sia prima dell’esplosione della crisi in Europa (confrontando il dato con la disoccupazione del 2008) sia, in
modo più accentuato, nel periodo più caldo della crisi (disoccupazione del 2009).
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2
4
6
8
% lavoratori disoccupati 25-54 (2008)
10
20
0
% lavoratori
temporanei
15/24
(1994)
0
% lavoratori
temporanei
15/24
(1994)
20
40
40
60
50
80
60
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2
5
10
15
20
% lavoratori disoccupati 25-54 (2009)
Figura 2. Correlazione tra lavoro giovanile temporaneo e disoccupazione prima e durante la crisi
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4. Quali politiche?
Gli strumenti disponibili al legislatore per promuovere e supportare l’occupazione giovanile intervenendo sulle tre dimensioni chiave descritte in precedenza (istruzione, formazione, lavoro), sono di vario genere e spaziano dalle politiche per l’istruzione agli incentivi
fiscali per l’assunzione, dagli ammortizzatori sociali all’imprenditorialità. In questa sezione viene
condotta una review dei principali strumenti di policy che, nel corso degli anni, sono stati
adottati in vari paesi o indicati dagli esperti come misure utili, portando esempi specifici e, dove
possibile, alcune riflessioni sull’efficacia delle politiche prese in esame.
4.1 Politiche per l’istruzione
Come discusso anche nelle sezioni precedenti del rapporto, l’istruzione ha un ruolo
molto importante per l’occupabilità dei giovani: maggiore è il livello d’istruzione ottenuto, minore la probabilità di essere disoccupati. Le politiche legate all’istruzione sono, quindi, un’arma
fondamentale per la lotta alla disoccupazione, in particolare quelle politiche che mirano ad affrontare due questioni chiave: da un lato, misure volte a combattere l’abbandono scolastico
prima che siano terminati i percorsi di scuola superiore; dall’altro, misure volte a flessibilizzare
i percorsi educativi e formativi sulle capacità e attitudini del giovane in modo da motivarli e
aiutarli a sviluppare al meglio il proprio potenziale.
Un esempio in tal senso è rappresentato dal sistema educativo danese (vedi Box 1), indicato da molte analisi ed enti internazionali come il migliore in Europa. Un sistema incentrato
su una forte personalizzazione dei percorsi formativi dei ragazzi, in modo da tener conto delle
preferenze, dei bisogni e delle capacità di apprendimento degli studenti per massimizzare la
motivazione e le possibilità di successo. Un sistema che è, inoltre, rinforzato da borse di studio e supporti finanziari che incoraggiano i ragazzi a proseguire gli studi e a raggiungere presto una propria autonomia. Un insieme di misure che, come descritto nel Box 1, ha dato fino
ad oggi buoni risultati.
Investire in politiche per l’istruzione, come quelle danesi, rappresenta chiaramente uno
strumento ampio e di lungo respiro e con un impatto importante di spesa (la Danimarca spende
circa il 6,7% del suo PIL per l'istruzione). Tuttavia le politiche per l’istruzione possono essere
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
declinate anche in modi più specifici e tradursi in alcune misure immediatamente implementabili e a costo zero. Per esempio, una misura che sarebbe particolarmente efficace, soprattutto
in Italia, è quella di far coincidere il termine dell’obbligo scolastico con il conseguimento di un
titolo di studio. In questo modo, si potrebbe combattere in modo assai più efficace, l’abbandono
scolastico (oggi molti ragazzi, di fatto, considerano terminato l’obbligo scolastico alla terza
media, iscrivendosi ai primi due anni delle superiori ma senza frequentare nemmeno). Invece,
anche l’ultima riforma della scuola, ha perso questa preziosa occasione. Anzi, con l’ulteriore
abbassamento dell’obbligo scolastico a 15 anni, varato nel 2010, il rischio che molti giovani considerino concluso il percorso di studi alla fine della terza media è ancora più elevato. Un provvedimento che va in controtendenza con gli orientamenti di molti paesi europei, dove si cerca
progressivamente di aumentare l’obbligo scolastico verso i 18 anni. In paesi come Germania,
Austria, Belgio e Ungheria, l’obbligo è già a 18 anni, mentre in altri, come i Paesi Bassi, numerosi benefici ed ammortizzatori sociali sono legati al proseguimento degli studi fino a 18 anni.
Box 1. Le politiche per l’istruzione in Danimarca
Il sistema educativo danese viene ormai indicato da molte analisi ed enti internazionali come il
migliore in Europa. Un sistema la cui parola chiave è flessibilità e supporto. Esso si basa, infatti, sullo
sviluppo di percorsi formativi fortemente personalizzati che tengano conto delle preferenze, dei bisogni e delle capacità di apprendimento degli studenti, al fine di massimizzare le loro possibilità di successo. Per motivare e supportare l’istruzione dei giovani, lo Stato danese concede aiuti, prestiti e
sovvenzioni agli studenti che frequentano istituti e programmi approvati dal Ministero della Pubblica
Istruzione. L’agenzia danese per il sostegno all’educazione (Danish Educational Support Agency) eroga
inoltre borse di studio per sostenere il costo della vita degli studenti e favorire gli scambi con l’estero.
Borse che prevedono assegni di 340 euro per coloro che vivono insieme ai genitori e 690 euro per
coloro che vivono da soli. Le borse di studio e i prestiti sono versati sotto forma di rate mensili in
un conto corrente bancario personale dello studente (NemKonto), che le autorità pubbliche usano
quando devono erogare denaro. Al termine dei loro studi, gli studenti iniziano a pagare parte dei prestiti di Stato. Il rimborso deve iniziare un anno dopo la fine di quello in cui hanno completato i loro
studi. La durata del periodo di rimborso non deve essere superiore a 15 anni. Circa la metà di tutti
gli studenti fa uso di prestiti statali.
Esistono poi 45 centri di orientamento giovanile comunale che forniscono servizi di orientamento
per i giovani fino all'età di 25 anni, offrendo una guida alla difficile transizione tra scuola dell’obbligo,
istruzione superiore e mercato del lavoro attraverso lo scambio di esperienze, conoscenze e buone pratiche. Anche grazie a questo sistema di orientamento e stimolo verso il mondo del lavoro, moltissimi
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giovani danesi, nonostante i consistenti aiuti ricevuti durante gli studi, hanno il loro primo contatto con
il mercato del lavoro quando sono ancora studenti. Nel 2008, il 48% dei giovani (16 anni) ha ottenuto
un lavoro per studenti (Student job). Mentre per quelli di età compresa fra i 23-24 anni, la quota è salita al 70%, che è appena inferiore al tasso del 71 dell’Olanda, noto per essere uno dei più alti d'Europa.
Questo insieme di misure, unite ad un estensivo sistema di ammortizzatori sociali per i giovani, fa
sì che la Danimarca registri un tasso di abbandono scolastico tra i più bassi dei paesi Ocse (11,5%, quasi
la metà di quello italiano), un tasso di disoccupazione giovanile molto contenuto, nonché uno dei tassi
di “emancipazione” dei giovani più alti d’Europa, vale a dire un’altissima percentuale di giovani che lasciano la famiglia di origine già al compimento dei 18 anni. L’assenza di “bamboccioni”, in Danimarca, affonda le proprie radici non solo in questioni culturali ma anche in politiche ben mirate e coordinate.
4.2 Formazione Professionale
Gli strumenti legati alla formazione professionale e ai percorsi di apprendistato sono
considerati tra gli strumenti più efficaci per aiutare l’inserimento nel mondo del lavoro e combattere la disoccupazione giovanile. Tra i sistemi considerati d’eccellenza vi sono quello tedesco, con una forte focalizzazione sull’alternanza scuola-lavoro, ma anche sistemi formativi
professionali ben strutturati come il Vocational Education and Training programme (VET) danese o il sistema dei post-diplomi professionalizzanti introdotti in Francia. Anziché passare
in rassegna le caratteristiche specifiche di ciascuno, è importante individuare quali siano i criteri, le principali chiavi di successo, di un sistema di formazione professionale davvero efficace. Dall’analisi dei casi più positivi sono emersi 4 elementi fondamentali:
1.
Forte coinvolgimento delle imprese. In Germania, per esempio, la parte del contratto di
formazione svolta in azienda (un’altra parte viene svolta a scuola) viene stipulato direttamente tra studente e azienda. Anche i programmi dei corsi di formazione regionale
vengono discussi e approvati da un consiglio con forte rappresentanza delle imprese.
2.
Forte collegamento con le istituzioni scolastiche e con la formazione “esterna” all’azienda.
Una formazione coordinata e finanziata dagli enti locali secondo standard di qualità che
rispondono a criteri regionali e nazionali, per bilanciare la necessità di andare incontro
alle specificità del mercato locale con una certa uniformità qualitativa in tutto il paese.
3.
Percorsi altamente personalizzati: l’obiettivo non è tanto insegnare un mestiere ma formare il giovane e renderlo pronto per il mercato del lavoro professionale in tutti i suoi
aspetti, in un modo che sappia coltivare e valorizzare al meglio i suoi interessi e le sue
attitudini. Questo è quanto avviene, in particolare, nei Paesi Bassi, in Danimarca e quanto
cerca di fare l’Inghilterra con il programma NDYP (vedi Box 3).
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4.
Forte enfasi sui percorsi di apprendistato o di stage qualificanti (e retribuiti). Molti
paesi come l’Inghilterra, la Danimarca e la Germania, per esempio, hanno puntato
molto sulla creazione di posti di apprendistato. Di particolare successo l’accordo triennale firmato dal Governo tedesco nel 2004 con le associazioni imprenditoriali, in cui
le aziende tedesche si impegnavano a creare 30.000 nuovi posti per apprendisti e
25.000 percorsi di formazione per giovani in cerca di lavoro (Patto Nazionale per la
Formazione Professionale). In Germania l’industria, tradizionalmente, investe molto
nella formazione e nell’assunzione dei giovani. I dati dicono che, ogni anno, le aziende
tedesche investono 28 miliardi di euro e formano un milione e seicentomila giovani
attraverso apprendistati. L’accordo firmato nel 2004 non ha fatto che rafforzare questa sensibilità ed è stato considerato così positivamente da essere rinnovato nel 2007
per il triennio successivo.
La questione della retribuzione sta, inoltre, emergendo come tema chiave per l’occupazione giovanile. La diffusione di stage non retribuiti in molti paesi europei ha fatto scattare
un campanello d’allarme. Non solo la mancanza di retribuzione è un problema per il giovane,
ma rischia di sminuire il lavoro, togliendo incentivi sia per l’impresa a valorizzare e formare il
giovane, sia per il giovane ad impegnarsi al massimo, togliendo ogni vera efficacia allo strumento
stage. In risposta a questo problema il governo francese nel 2006 ha siglato un accordo con
imprenditori, sindacati, enti di formazione e associazioni studentesche, trasformato poi in legge
e, nel 2008, in un decreto attuativo. La legge ha stabilito che, a partire dal quarto mese di tirocinio, scatta il dovere di erogare una retribuzione mensile pari ad almeno un terzo del salario minimo garantito (lo SMIC, più o meno 1300 euro al mese). Nel 2009, Sarkozy ha
annunciato di voler anticipare quest'obbligo a partire dal terzo mese di tirocinio,
estendendolo anche al settore pubblico, e di voler introdurre un bonus di 3mila
euro a favore di ogni azienda che assuma uno stagista.
È ancora presto per valutare l’efficacia delle misure francesi ma è necessario evidenziare
alcuni suoi possibili effetti perversi. L’aumento dei costi dello stage inevitabilmente porta ad
una riduzione dell’offerta; tuttavia, se la domanda di stage continua ad eccedere l’offerta, come
nel caso dell’Italia (dove molti ragazzi si lamentano di non trovare uno stage nemmeno gratis), il rischio è che gli stage non retribuiti continuino ad esistere (per di più fuori dal sistema
legale). Infine, occorre ricordare che gli stage gratuiti (e molte altre forme di lavoro temporaneo sotto retribuito) sono molto più diffusi nel settore pubblico che in quello privato: aumentare i loro costi solo per quest’ultimo difficilmente può risolvere il problema.
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Box 2. Il sistema di formazione duale in Germania
In Germania la formazione professionale è regolamentata dalla legge del 14 agosto 1969, riformata nel 2005 ed entrata in vigore il 1 aprile dello stesso anno (la Berufsbildungsgesetz - BBiG). La
BBiG ha l’obiettivo di assicurare ai giovani opportunità di formazione sempre migliori e di offrire una
formazione professionale di qualità per tutti. In particolare, la legge riformata prevede una maggiore
autonomia d’azione e maggiori responsabilità per gli attori della formazione professionale a livello nazionale e locale (Länder). In questa legge – sia nella versione attuale che in quella precedente – lo Stato
ha dichiarato che la formazione professionale extrascolastica è responsabilità del settore pubblico,
anche se poi la gestione effettiva viene condotta congiuntamente tra imprese, Camere del lavoro (datori di lavoro), sindacati (lavoratori), Länder e Stato federale.
Nel cosidetto sistema duale di formazione tedesco, gli studenti passano tre o quattro giorni alla
settimana sul posto di lavoro e due giorni presso la Berufsschule. La formazione si svolge in base a un
contratto di lavoro fra l'azienda, che provvede alla formazione, e lo studente interessato. Il contratto
di formazione professionale definisce gli obiettivi della formazione (a seconda della professione prescelta), la durata, il numero di ore dedicate ogni giorno alla formazione, le modalità di pagamento e
la remunerazione dello studente. Mentre, nelle esperienze danese e francese, pur prevedendo l’ipotesi di vera alternanza lavorativa, si richiede che, nel rapporto tra studente e impresa, si inserisca
anche l’istituto nel quale deve essere svolta la formazione in aula, il sistema duale tedesco prevede
che il contratto di lavoro venga stipulato direttamente fra studente e impresa.Tuttavia, anche
in Germania, come negli altri paesi, l’organizzazione di questo tipo di formazione non è comunque
mai lasciata completamente alla libertà delle parti, in quanto sono sempre indicati i requisiti minimi di
accesso, di durata e di ripartizione del carico di ore fra formazione in aula e sul luogo di lavoro. La
responsabilità della pianificazione, della gestione e del percorso di formazione, ma anche del reclutamento dei formatori è del Consiglio dei rappresentanti degli imprenditori (Betriebsrat). Le attività di
formazione sul luogo di lavoro vengono finanziate dalle aziende, mentre il percorso scolastico nell’ambito della Berufsschule viene sovvenzionato dai Länder. Così, accanto ai programmi quadro nazionali, i Länder tedeschi intervengono nella definizione del curriculum accanto agli operatori dei vari
settori economici, per assicurare un’aderenza maggiore alle caratteristiche del mercato locale, fino
ad arrivare ai curricula personalizzati elaborati coinvolgendo lo studente, l’istituto che fornisce la formazione teorica e l’impresa che ha stipulato il contratto con lo studente stesso. Gli studenti che
hanno completato la formazione professionale nell’ambito del sistema duale sono pronti per intraprendere una professione; infatti, la formazione sul luogo di lavoro li ha abituati a ogni aspetto
del mondo del lavoro. Nella maggior parte dei casi, al completamento della formazione, in alternanza,
gli studenti trovano lavoro nelle stesse aziende dove hanno svolto la formazione pratica.
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4.3
Ammortizzatori sociali
In Italia quando si parla di ammortizzatori sociali si fa riferimento per lo più al sistema
di cassa integrazione, un sistema rivolto ai lavoratori stabilmente inseriti nel mercato del lavoro. Tuttavia in molti paesi europei - come per esempio nei Paesi Bassi e in Danimarca - esistono sistemi di ammortizzatori sociali che supportano l’inserimento dei giovani nel mercato
del lavoro. Non si tratta di sussidi di disoccupazione, ma di misure che aiutino il giovane nelle
fasi di ricerca del lavoro o di transizione da un lavoro all’altro, misure vincolate ad alcune condizioni di “attività”, ad un effettivo impegno in attività di formazione e di guida personalizzata.
È chiaro che questi ammortizzatori devono essere inquadrati in un sistema più ampio
di Welfare che sappia utilizzarli come strumenti d’attivazione per stimolare l’intraprendenza
e le potenzialità dei giovani inoccupati e non come meri sussidi per casi estremi di disoccupazione ed inattività. Uno dei casi analizzati, quello dei Paesi Bassi, è sintetizzato nel Box 4, ed
evidenzia proprio l’importanza di un’azione coordinata su vari fronti e continuativa nel tempo.
Ma quali sono le caratteristiche essenziali dei sistemi di maggior successo? Dall’analisi emergono quattro punti chiave:
1.
Sono sistemi fortemente legati alla formazione, quindi, tendono a ricollocare rapidamente il giovane disoccupato dentro percorsi formativi che gli permettano di acquistare
le competenze necessarie a restare competitivi nel mercato del lavoro.
2.
Si fondano su un forte coordinamento tra enti locali e autorità centrali, in una
prospettiva decentrata, che permetta vicinanza al cittadino, ma inserita in un quadro di
regolamentazione e coordinamento centrale molto efficace che assicuri certi standard
qualitativi in tutto il paese.
3.
Nascono, come nel caso olandese, da iniziative che vedono il coinvolgimento di tutte
le parti interessate, dai sindacati al mondo delle imprese passando per le autorità
pubbliche.
4.
Sono sistemi legati all’impegno, all’attivazione, e, dato non irrilevante, ai risultati, come nel caso del “New Deal for Young People”, l’ambizioso programma attuato
dal governo inglese e sintetizzato nel Box 3, in cui, non solo i giovani perdono i benefici se abbandonano i percorsi di formazione previsti per il loro inserimento nel mondo
del lavoro, ma anche le agenzie che gestiscono i programmi ricevono parte dei fondi
sulla base dei risultati ottenuti.
Chiaramente non si tratta di sistemi a impatto zero sul bilancio dello Stato, anche se i
costi variano molto a seconda dei programmi messi in piedi (si va da misure molto specifiche
e controllate come il programma inglese NDYP, con basso impatto sulle casse dello Stato, a
programmi molto costosi come quello danese). Tuttavia, i costi vanno confrontati con i risultati: nel caso della Danimarca, per esempio, è vero che questo paese registra la più alta spesa
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in politiche del lavoro di tutti i paesi Ocse, ma è altrettanto vero che esso ha uno dei tassi di
disoccupazione (giovanile ed adulta) più bassi dei paesi occidentali, con tutto ciò che questo
comporta in termini di riduzione del disagio sociale e della povertà, formazione della forza lavoro, contribuzione fiscale e così via.
Per quanto riguarda l’Italia, il sistema di ammortizzatori sociali è prevalentemente ancorato al sistema della cassa integrazione e alle indennità ordinarie di disoccupazione, entrambe misure che tendono ad escludere i giovani6 e, soprattutto, misure che supportano le
condizioni più estreme di inattività ma che non stimolano la riqualificazione, la formazione, l’attività e l’occupabilità. Aprire un dibattito serio e concreto sulla possibilità di modificare ed integrare l’attuale sistema di ammortizzatori sociali, in modo da supportare la formazione e
l’occupabilità dei giovani, potrebbe rappresentare un importante passo per affrontare la questione dell’occupazione giovanile in Italia.
Box 3. Il “Nuovo Patto per i Giovani” del Regno Unito
Il “New Deal for Young People” (NDYP) è stato introdotto in Gran Bretagna nel 1998 come
una delle misure fondamentali di welfare per contrastare la disoccupazione giovanile. Possono partecipare i giovani che rientrano nella fascia d’età 18-24 e che cercano un’occupazione da almeno sei
mesi. Il programma prevede un piccolo stipendio che però è vincolato alla partecipazione al programma di formazione/inserimento. L’obiettivo del programma è aumentare il livello di occupazione
dei giovani fornendo nuove competenze ed esperienze di lavoro.
Come funziona
Il giovane in cerca di lavoro firma un accordo (Jobseeker Agreement) che viene visualizzato da
un Personal Adviser, il quale traccia un piano d’azione fortemente individualizzato.Viene svolta quindi una
valutazione rapida delle sue competenze e viene stimata la sua distanza dal mercato del lavoro attraverso strumenti di valutazione standardizzati. Dopo questo approccio iniziale, la prima fase di NDYP
- chiamata Gateway - prevede consulenza e aiuto intensivo nella ricerca di un lavoro per circa quattro mesi. Il Personal Adviser incontra ogni due settimane il ragazzo, lo aiuta a compilare un CV, discute
sulle sue prospettive di carriera e sui lavori che può ottenere con le competenze già acquisite. I giovani che non hanno trovato lavoro entro la fine del periodo di “Gateway” sono obbligati a scegliere
fra una delle seguenti quattro opzioni: formazione a tempo pieno o apprendistato, lavoro nel settore
Un giovane agli inizi della carriera lavorativa spesso non rientra dentro questo sistema di garanzie, perché occorrono 12 mesi di contributi versati; per non parlare dei giovani che lavorano con uno status di collaboratori, partite iva o altre forme del genere, molto diffuse ma con scarse protezioni sociali.
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del volontariato, il lavoro in una task force ambientale o occupazione sovvenzionata. È il Personal Adviser, previo accordo con l’interessato, che decide quale delle opzioni è più adatta. Durante questa seconda fase, che dura dai sei agli otto mesi, il giovane non viene più considerato disoccupato. Se il
ragazzo rimane comunque disoccupato a termine di questo secondo periodo, il Personal Adviser continuerà a svolgere il suo ruolo di counseling per altre 26 settimane. Il NDYP è un programma fortemente individualizzato che mira a costruire un percorso specifico per il giovane in cerca di lavoro che
lo conduca ad ottenere un’occupazione e nuove competenze. Il Personal Adviser svolge un ruolo guida
fondamentale: da un lato, pianifica scientificamente una strategia d’azione che vada incontro alle esigenze del ragazzo, dall’altro, svolge una funzione esterna di controllo e di motivazione.
Il programma è sottoposto a valutazioni rigorose, i fornitori privati, per esempio, vengono pagati
in base ai risultati raggiunti. Inoltre, sono previste sanzioni durante il periodo delle 26 settimane, se il
giovane non accetta un lavoro o si rifiuta di partecipare a corsi di formazione.
Risultati
A maggio del 2007 hanno partecipato a questo programma circa 90.000 ragazzi, mentre molti
altri partecipavano ad altri programmi come il New Deal for Lone Parents (14.000 giovani) o il New
Deal for Disabled People (18.000 giovani). I tassi di abbandono nella seconda fase, inizialmente alti,
sono calati dal 1999 al 2007. Molti studi hanno, inoltre, dimostrato come il punto di forza del NDYP
sia il rapporto di tutoring che si viene a instaurare tra Personal Adviser e giovane disoccupato. Il punto
più debole sembra, invece, essere la creazione di occupazione sostenibile nel lungo periodo: per questo il Governo sta vagliando misure per incentivare e premiare i fornitori provati in tal senso.
Box 4. I Paesi Bassi e l’occupazione giovanile: una strategia integrata
e di lungo periodo
Da circa dieci anni i Paesi Bassi perseguono politiche molto aggressive per combattere la disoccupazione giovanile. I numerosi provvedimenti intrapresi si fondano su due principi chiave. Da un lato, un
sistema di ammortizzatori sociali legati a formazione e lavoro (flexsicurity); dall’altro, una grande enfasi
sul ruolo dell’istruzione e della formazione e una ferma lotta all’abbandono scolastico. I principali provvedimenti, adottati dalla fine degli anni Novanta ad oggi, ruotano attorno a questi temi principali e sono:
1999 Flexibility and Security Act, vuole incoraggiare i contratti di lavoro flessibili, superando la rigidità tradizionale del mercato del lavoro aprendolo alle sfide e alle opportunità della contemporaneità, senza però alimentare l’insicurezza sociale e la precarietà. La legge prevede forme di
coinvolgimento attivo di tutti gli attori sociali e predispone norme a tutela dei lavoratori flessibili che
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ne garantiscono il reddito e la sicurezza sociale. Il limite del periodo di prova è fissato a due mesi.
Viene, inoltre, introdotto un numero massimo di tre contratti a tempo determinato che non devono
superare complessivamente i tre anni, oltre i quali è conferito al lavoratore il diritto di ottenere
un’occupazione permanente.
2002 Legge SUWI, istituisce la Struttura per l’Amministrazione del Lavoro e del Reddito
(SUWI), definendo soggetti, ruoli e coordinamento tra le attività. Uno dei perni della struttura è rappresentato dai Centri per il Lavoro e il Reddito (CWI), che sono il punto di riferimento per tutti i
potenziali richiedenti di indennità che cercano un lavoro e che necessitano un sussidio. È un istituto
pubblico che si occupa di funzioni comprendenti diversi servizi come la gestione della banca dati nazionale dei posti vacanti, l’intermediazione attiva, la divulgazione delle informazioni, la consulenza, la
preparazione dei candidati al lavoro e al sussidio, la determinazione della difficoltà nell’immettere i soggetti nel mercato del lavoro e l’accertamento della possibilità di reintrodurli nel programma. L’idea
di un unico punto di accesso (ovvero uno sportello unico) è centrale nell’esperienza del CWI. Il CWI
assicura l’esistenza di un mercato del lavoro trasparente e si coordina con i comuni che sono responsabili per il reintegro di coloro che fanno domanda all’Assistenza Nazionale. I comuni ricevono
fondi ed incentivi per il reintegro dal Fondo per il Lavoro e il Reddito (FWI) ed affidano poi la gestione dei servizi ad agenzie private.
2003 Youth Unemployment Action Plan, un piano con l’obiettivo di ridurre la disoccupazione giovanile creando 40.000 nuovi posti per giovani e promuovendo il ritorno dei giovani disoccupati a percorsi di formazione. Il piano prevedeva 31 misure, tra cui incentivi fiscali per la formazione,
finanziamento integrativo per il CWI per consulenze individuali, etc.Tra le misure più significative del
piano vi è la:
Youth Employment Task Force (2003-2007), che ha avuto un ruolo chiave nel promuovere la
cooperazione tra Ministeri ed altri soggetti interessati, nel sensibilizzare le aziende e l’opinione pubblica
sull’importanza dell’assunzione di giovani e nel promuovere i contatti fra imprese e giovani disoccupati.
2007 The “Qualification law”, obbliga i giovani disoccupati che non hanno concluso il ciclo
d’educazione di base, a frequentare un programma d’educazione a tempo pieno fino al diciottesimo anno
d’età. Per i giovani 18-27 che non hanno concluso la scuola secondaria, invece, è stato introdotto l’obbligo di frequentare un percorso di formazione che porti al conseguimento di un diploma o di un lavoro.
2009 Youth Unemployment Action Plan, un nuovo piano da 250 milioni di euro per investire sulla formazione dei giovani attraverso cinque azioni principali: 1) mantenere i giovani nelle
scuole per un periodo più lungo possibile, incentivando la formazione professionale; 2) coinvolgere
gli enti locali attraverso accordi che predispongano misure concrete; 3) creare un sistema che faccia
incontrare le richieste dei datori di lavoro e i talenti dei giovani; 4) incentivare la possibilità di apprendimento, attraverso stage, apprendistato e volontariato; 5) prestare particolare attenzione ai giovani con minori opportunità.
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4.4 Incentivi fiscali per l’assunzione di giovani
Di incentivi per l’assunzione di determinati gruppi sociali (giovani, donne, disabili o altre
categorie considerate “a rischio”) si parla in molte occasioni, anche se gli esperti sono spesso
scettici sulla loro efficacia per alcuni motivi che vedremo in dettaglio più avanti.
Gli incentivi all’assunzione possono assumere varie forme, dalla defiscalizzazione degli
oneri sociali a veri e propri sussidi agli stipendi (wage subsidies), e possono essere indirizzati
o alla creazione di nuova occupazione in generale, senza restrizioni sulle categorie di persone
assunte (in tal caso vengono usati come strumenti anti-ciclici) oppure all’assunzione di categorie specifiche di persone (donne, giovani, etc.). Tra i più recenti esempi di utilizzo della leva
fiscale mirata all’assunzione dei giovani troviamo gli Stati Uniti, dove, a Marzo 2010 è stata approvata la legge "Employing Youth for the American Dream Act" (EYADA), che stanzia 8 miliardi di dollari per incentivare le imprese ad assumere giovani svantaggiati e a rischio
disoccupazione e per supportare formazione e assistenza ai giovani.
Gli incentivi all’assunzione, nel complesso, non sono certo strumenti nuovi: varie tipologie di incentivi per promuovere l’occupazione, infatti, hanno iniziato a diffondersi già nella
seconda metà degli anni Settanta in Nord America e in Europa. Sia il Canada che gli Stati
Uniti hanno fatto ampio uso di questi strumenti, ma solo i programmi a portata più generale
hanno avuto successo. Specificamente: l’Employment Tax Credit Program, adottato in
Canada tra il 1978-81 ed il New Jobs Tax Credit, adottato negli Stati Uniti nel 1977, una misura che prevedeva un sussidio ai salari per tutte le assunzioni che superavano il 2% di aumento rispetto all’anno precedente.
Al contrario, le numerose iniziative “mirate” a gruppi sociali specifici, come, per esempio,
il programma statunitense Work Incentive Program (WIN), per le famiglie povere, ed il Targeted Jobs Tax Credit (TJTC), per i lavoratori svantaggiati, sembrano aver avuto risultati più
deludenti. È impossibile riassumere in poche righe le ragioni dello scarso successo di programmi
molto diversi tra loro per obiettivi, risorse e requisiti; ad ogni modo, i principali motivi per cui
le iniziative focalizzate su gruppi specifici di lavoratori si sono rivelate deludenti sono:
1.
Burocrazia. Spesso gli incentivi fiscali, soprattutto quando sono mirati a gruppi specifici, richiedono l’espletamento di lunghe procedure burocratiche. Le procedure servono a verificare l’eligibilità e limitare gli abusi, ma il risultato è quello di disincentivare le aziende a farvi
ricorso. Per questo si rileva spesso un elevato livello di sottoutilizzo di questi strumenti.
2.
Non incisività sulle caratteristiche della domanda: se il datore di lavoro, a torto o a ragione, pensa che un disoccupato di lungo periodo o un giovane neodiplomato o una
donna non siano adatti alle caratteristiche del lavoro svolto nella sua azienda, difficilmente cambierà idea per uno sconto sulle tasse. A meno che non vi siano misure che
intervengano sulla formazione e riqualificazione del lavoratore, difficilmente gli incentivi
saranno capaci di modificare la struttura della domanda, soprattutto nel lungo periodo.
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In conclusione, e come indicano anche gli esperti, le politiche migliori per aumentare
l’occupabilità di fasce più a rischio sono misure che combinano sussidi ai salari con formazione, assistenza nella ricerca di lavoro e di crescita professionale: solo con questi interventi si riescono ad ottenere risultati efficaci nel migliorare l’occupazione e i livelli
salariali delle categorie più a rischio.
4.5 Misure normative relative al mercato del lavoro: il contratto unico
Nonostante molti aspetti legati al fenomeno della disoccupazione giovanile abbiano radici in larga parte socio-economiche, tra le politiche attivabili per contrastarla vi sono anche
strumenti giuridici legati al funzionamento del mercato del lavoro. Infatti, così come hanno rilevato molti economisti, alcune problematiche legate all’occupazione giovanile sono state amplificate in alcuni paesi da un’incompleta e mal attuata deregolamentazione del mercato del
lavoro che ha dato luogo al cosiddetto “mercato duale”. Si intende per mercato duale un mercato da un lato estremamente flessibile, volatile e con scarse, se non nulle, forme di protezione
sociale per una fascia di lavoratori (tipicamente le generazioni più recenti) e, dall’altro, ancora
strettamente regolato e protetto per le fasce di lavoratori già stabilmente inserite nel lavoro.
L’Italia e la Spagna sembrano essere tra i paesi europei quelli maggiormente esposti a questo
problema. Forse, anche per questo, sono i due paesi in cui numerosi giuristi ed economisti si
sono confrontati sulla possibilità di una riforma del lavoro che contribuisse a rettificare le
storture causate da un sistema normativo inadeguato.
Uno dei perni delle proposte degli esperti, sia spagnoli sia italiani, è l’introduzione di una
specifica forma di contratto che andrebbe a sostituire tutte le decine di tipologie di contratti
a tempo determinato attualmente vigenti sia in Italia che in Spagna. Si tratterebbe, quindi, di
un “contratto unico”, come viene definito dai suoi stessi propositori, che sia a tempo indeterminato ma che preveda un sistema di tutele crescenti col passare del tempo trascorso in
quell’impiego. Al di là dei dettagli tecnici del contratto, che variano molto a seconda delle proposte prese in considerazione (solo in Italia vi sono almeno quattro disegni di legge in materia), il senso generale dell’idea del contratto unico è quello di creare un contratto a tempo
indeterminato con alcune specificità. Si prevede infatti che l’azienda, nei primi anni del rapporto
di lavoro (in alcune proposte sono specificati i primi 3 anni), possa interromperlo per motivi
economici. Un’interruzione a fronte della quale il lavoratore avrà però diritto ad un’indennità
di licenziamento che cresce con l’anzianità acquisita nell’impresa e, in alcune proposte, anche
a benefici aggiuntivi come un trattamento complementare di disoccupazione a carico dell’impresa. Trascorsi i primi tre anni nel rapporto di lavoro (durata che varia a seconda del
progetto di legge), scattano tutte le tutele tradizionali a favore del lavoratore. Questa proposta cerca così di andare incontro sia all’esigenza di garantire a milioni di persone una serie di
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diritti e tutele da cui sono attualmente escluse, sia all’esigenza di mantenere un minimo di
flessibilità all’ingresso e di non reintrodurre quelle rigidità iniziali per il datore di lavoro che
rappresentano spesso i principali freni alla crescita dell’occupazione.
L’obiettivo della proposta è quello di ridurre la volatilità nel mercato del lavoro per i
più giovani, incentivare e supportare la loro formazione ed avviamento al lavoro e garantire
un minimo di tutele alle fasce di lavoratori attualmente più deboli, in modo da attenuare l’impatto sociale di fasi di crisi economica come quelle che stiamo attraversando. Si tratterebbe
quindi di uno strumento normativo che potrebbe avere importanti ricadute su variabili economiche e sociali.
4.6 Promozione e supporto della cultura imprenditoriale
Molti paesi si stanno accorgendo dell’importanza della nuova imprenditoria come
mezzo, non solo per rinnovare il tessuto economico e produttivo, ma anche per generare
nuova occupazione. Un recente studio della Kauffman Foundation ha mostrato come dal 1977
al 2005 la crescita di occupazione negli Stati Uniti è stata quasi interamente guidata dalla creazione di start-up. Le imprese esistenti hanno bruciato, in media, 1 milione di posti di lavoro all’anno, mentre le nuove imprese, nel loro primo anno di attività hanno generato 3 milioni di
posti di lavoro. Ma come si promuove l’imprenditoria tra i giovani? Le misure adottate nei
vari Paesi per incentivare la nuova imprenditoria variano considerevolmente. Molte sono focalizzate sulla formazione, per creare una nuova generazione di imprenditori e aziende all’avanguardia. In Francia, per esempio, vi sono due programmi pubblici nazionali volti ad
aumentare la cultura e le competenze imprenditoriali tra i giovani: il programma Enterprises
Cadettes, che si basa sulla cooperazione tra imprese locali e banche e il programma Graines
d’Entrepreneurs, che viene realizzato attraverso una partnership tra governi regionali e il sistema
delle camere di commercio e dell’industria. Programmi analoghi sono stati realizzati negli Stati
Uniti (per esempio il Junior Achievement, il National Foundation for Teaching Entrepreneurship, ed
il REAL, ovvero il Rural Entrepreneurship through Enterprise) e in Canada dove è stato creato il
Centre for Education and Enterprise (CEED), assieme ad altre iniziative regionali come la South
Peace Secondary School in British Columbia o il Centre for Entrepreneurship and Development
(CEED) in Nova Scotia.
In altri casi si adottano agevolazioni fiscali e prestiti agevolati, come i programmi inglesi Prince’s Trust-Business (PTB) per le start-up ed il Livewire, oppure come il programma canadese Youth Business, che fornisce prestiti agevolati ed altri servizi di supporto
all’imprenditoria giovanile. Programmi analoghi sono presenti in Australia (Young Aussie Enterprises ed il Nescafe Big Breakfast), in Portogallo (come il Sistema de Apoio jovens Emresarios, che
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copre il 50% dei capitali necessari, o il Quiosque do Invetidor, che aiuta i giovani imprenditori
ad identificare e sfruttare opportunità di business) e in Spagna (come la Escuela Taller, rivolta
soprattutto ai giovani tra i 18 e i 25 anni con scarse professionalità).
Anche l’Italia ha adottato un approccio di incentivi fiscali con la Legge 95/95 che prevedeva sia finanziamenti agevolati che a fondo perduto per i giovani tra i 18 e i 29 anni residenti
in alcune aree specifiche del paese che avviassero un’impresa nuova. Una misura la cui efficacia è stata però fortemente messa in discussione da una serie di inchieste su abusi e sulla concessione dei finanziamenti ad aziende che, di fatto, non rispondevano ai criteri richiesti.
Al di là dei vari episodi che possono aver creato scetticismo su alcuni strumenti adottati in passato, il tema era e resta di grande attualità per l’Italia, soprattutto alla luce delle dinamiche dell’imprenditorialità giovanile degli ultimi anni, anche prima degli effetti della crisi.
Come è evidenziato dai rapporti Cerved, già negli anni tra il 2000 e il 2007 le aziende “giovani” (definite come quelle realtà produttive in cui il titolare, tutti i soci o tutti gli amministratori non abbiano ancora compiuto 35 anni alla nascita dell’impresa) hanno subito una
forte contrazione, sia nel settore industriale che in quello dei servizi e, sia nelle forme giuridiche più semplici (ditte individuali) che in quelle più complesse (società di persone e società
di capitali), con cali che vanno dai 5 ai 13 punti percentuali.
A Z I E N D E “ G I OVA N I ”
2000
2007
Servizi
Ditte individuali
Società di persone
Società di capitali
Industria
Ditte individuali
Società di persone
Società di capitali
39.10%
59%
23%
23.80%
–
53.60%
27.20%
23.40%
Variazioni %
32.80%
46%
17.10%
18.60%
40%
41.20%
20.50%
19.30%
- 6.30
- 13.00
- 5.90
- 5.20
–
- 12.40
- 6.70
- 4.10
Tabella 6. Incidenza delle imprese “giovani” (2000-2007)
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Nell’industria, tra il 2000 e il 2007, la quota di imprese giovani sulle nuove nate si è ridotta dal 53,6% al 41,2% per le ditte individuali, dal 27,2% al 20,5% per le società di persone
e dal 23,4% al 19,3% per le società di capitale7. Stesso trend si rileva nel settore dei servizi.
Complessivamente nel 2000 il 39,1% delle aziende nate nei servizi “business to business” erano imprese under 35; la percentuale ha toccato un picco nel 2002 (il 40,3%), ma poi
è costantemente calata ed è scesa al 32,8% nel 20078.
È chiaro che un aumento “quantitativo” delle start-up giovani non implica necessariamente un aumento qualitativo delle stesse e del tessuto economico-produttivo del paese. Per
questo è importante che politiche volte a rafforzare la capacità imprenditoriale delle nuove
generazioni includano percorsi che stimolino l’imprenditorialità, che rendano familiari le nuove
tecnologie, le più avanzate conoscenze manageriali e i processi di internazionalizzazione. Particolarmente importante, poi, è un’assidua attività di mentorship per le aziende nei primi anni
di vita e anche prima della fase di start-up. Non è solo l’assenza di fondi che penalizza i giovani imprenditori, ma la mancanza di attività di stimolo, indirizzo e supporto manageriale. In
Italia si parla spesso della necessità di rafforzare il mercato del venture capital, ossia di quelle
organizzazioni che finanziano e supportano le imprese dalla nascita alla quotazione in borsa.
Ma i venture capital crescono dove sono le buone idee, perché di questo si alimentano: di
molte e buone idee imprenditoriali. Numerosi venture capital nazionali ed internazionali segnalano che il flusso di progetti realizzabili proveniente dall’Italia è ancora scarso e debole. Per
questo è importante agire su vari fronti, dalla formazione al supporto progettuale pre-avviamento. In quest’ottica integrata le politiche per l’imprenditorialità giovanile possono divenire
buoni strumenti di crescita occupazionale e di riqualificazione del sistema produttivo del paese.
Interessante notare come il calo delle imprese giovani sia stato frenato dalla crescita rapida e strutturale dell’imprenditoria straniera.
Tra il 2000 e il 2007, la percentuale di nascite di ditte individuali giovani non italiane è passata dal 12,8% al 30,4%.
8 È’ importante sottolineare come tale calo sia solo in parte attribuibile alle dinamiche demografiche del nostro paese, che hanno visto
un calo del peso dei giovani tra i 18 e i 34 anni sulla popolazione totale dal 24,6% nel 2000 al 21,2% nel 2007. Se si rapporta il numero
di imprenditori sotto i 35 anni alla popolazione della corrispondente classe di età per neutralizzare l’effetto demografico, si nota come
la quota di giovani che ha avviato una nuova attività produttiva si riduce da 15,6 su 10.000 nel 2000 a 11,8 su 10.000 nel 2007.
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C A P I TO L O 2
TRE PROPOSTE PER RIPARTIRE DAI GIOVANI
di Marco Simoni
1.
Introduzione
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2.
Una regola fiscale:
legare il recupero dell’evasione alla riduzione delle tasse.
A partire dai giovani
43
3.
Tagliare tre nodi:
difficoltà di credito, eccessiva tassazione, peso della burocrazia
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4.
Uno scambio tra generazioni:
finanziare le borse di studio innalzando di un anno l’età pensionabile
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INTRODUZIONE
Il tema della disoccupazione giovanile in Italia ha due facce. Da un lato è legato alla debolissima dinamica della crescita del nostro paese che, negli ultimi dieci anni, ha fatto registrare il più basso tasso di crescita del mondo. Inevitabilmente, i giovani, che si trovano all’inizio
del loro percorso lavorativo, pagano maggiormente la riduzione di opportunità che la crisi
porta con sé. La mancanza di politiche orientate alla crescita economica e il pesante fardello
del debito pubblico pesano soprattutto sulle giovani generazioni.
A queste ragioni, strettamente economiche, si sommano ragioni relative alle scelte distributive operate dai governi degli ultimi venti anni in termini di spesa, di regolamentazione
del mercato del lavoro, di (mancate) liberalizzazioni.
La fragilità occupazionale delle generazioni giovani e la sostanziale assenza di supporto
pubblico che esse ricevono dallo Stato sono dati, crediamo, evidenti non solo dalle statistiche
ma dall’esperienza quotidiana della maggioranza degli italiani.
È importante riconoscere che se la politica può far molto per correggere le storture distributive e gli incentivi perversi che sembrano caratterizzare l’Italia contemporanea, essa però
non può tutto. La ripresa economica, una nuova stagione di crescita e l’aumento dell’occupazione giovanile dipendono largamente dalla ripresa dell’attività privata, dal migliore funzionamento dei mercati, dall’accelerazione della produttività e da un fisco più snello ed equilibrato.
Questo per dire, in poche parole, che il tema della disoccupazione giovanile non è una
questione settoriale ma è la questione economica e sociale principale per la nostra nazione,
che riguarda la ricerca di un modello di sviluppo per il paese. È ormai chiaro che, esaurito il
modello di sviluppo del dopoguerra, negli scorsi venti anni la classe politica non è stata in
grado di individuare una nuova traccia sulla quale l’economia potesse ripartire, traccia verso
la quale, al contrario, è urgente orientarsi.
Pertanto, le tre proposte che presentiamo qui non vanno lette come esaustive. Esse non
possono sostituire o compensare altri capitoli fondamentali che, pur riguardando solo indirettamente i giovani, proprio dei giovani andrebbero a maggior beneficio. Su ognuno di questi capitoli l’intervento della politica dovrebbe essere coraggioso e sostanziale e, su molti di essi,
Italia Futura è intervenuta più volte negli scorsi mesi. È auspicabile un alleggerimento della tassazione sul lavoro, in parte compensata da una più attenta e non distorsiva tassazione sulle attività finanziarie e sulle rendite. È urgente una ripresa vigorosa delle liberalizzazioni dei mercati
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e delle professioni: l’Italia continua ad essere, tra i grandi paesi europei, quello con il più alto
tasso di regolamentazione, con una conseguente presenza di rendite monopolistiche che strozzano le opportunità di crescita. È necessario – come richiamato recentemente anche dal Governatore Draghi – un intervento unificante sulla disciplina del mercato del lavoro che,
favorendo il lavoro stabile, renda più serena la vita delle persone e contribuisca ad una ripresa
della produttività. Ormai da anni alcune proposte importanti e autorevoli sono presenti sul tavolo e sarebbe ora che la politica le prendesse seriamente. È fondamentale tornare a investire
sulla formazione e sulla ricerca, portando a termine riforme che da venti anni vengono scritte
per poi arenarsi all’ultima boa, lasciando gli studenti italiani sempre meno preparati rispetto ai
loro colleghi europei e le nostre università dimenticate dalle classifiche internazionali.
Le proposte che presentiamo qui non hanno la dimensione di riforme di sistema, non
prefigurano grandi interventi. Tuttavia, direttamente o indirettamente, affrontano tutti i temi
appena richiamati: il tema della riforma fiscale, il tema del lavoro dipendente, il tema della semplificazione burocratica, il tema della produttività e dell’innovazione, il tema della formazione
e del capitale umano. Sono dunque tre proposte ambiziose che, se attuate, consentirebbero,
crediamo, un salto di qualità nell’arco di pochi anni, con riferimento a tre questioni: quella
degli squilibri distributivi, quella del patto fiscale tra cittadini, quella della crescita economica.
Iniziando dalla prima, in Italia, esiste un evidente squilibrio distributivo a svantaggio delle
generazioni giovani. Questo avviene per il sommarsi di tre fattori, tra loro separati. Primo, la
debolissima dinamica del mercato del lavoro con riguardo ai gruppi più giovani; secondo, la povertà di risorse di welfare a cui i giovani possono accedere; terzo, il fatto che i lavori non stabili si concentrino essenzialmente tra i giovani. Questo squilibrio distributivo va corretto per
due ragioni: la prima è un’elementare ragione di giustizia sociale. La seconda è relativa al fatto
che il sistematico depauperamento delle generazioni giovani equivale al depauperamento del
futuro del paese. Pertanto, ognuna delle tre proposte contiene elementi di ridistribuzione a
favore dei giovani italiani. Tuttavia, in ognuna delle proposte, è costantemente presente la richiesta esplicita di un’assunzione di responsabilità, come parte necessaria di un nuovo patto
di convivenza, fondato sulla giustizia e orientato alla crescita.
Secondo, qualsiasi politica economica, anche se basata sul principio dell’equilibrio di bilancio, ha bisogno di risorse che vanno raccolte o la cui destinazione va modificata. Noi crediamo che parte fondamentale della crisi italiana si manifesti in una slabbratura del patto
sociale tra cittadini e fisco da un lato, e tra diversi gruppi di contribuenti dall’altro. Di conseguenza, in Italia non è più possibile suggerire capitoli di spesa in maniera credibile senza
contemporaneamente indicare voci di entrata. Inoltre, questo legame non deve essere meramente funzionale o quantitativo, ma deve essere presente con chiarezza un legame di sostanza tra capitoli di maggiore spesa (o minori entrate) e capitoli di entrate (o minore spesa).
Un nuovo patto fiscale tra lo stato e i cittadini deve fondarsi sulla trasparenza delle misure,
sulla chiarezza e responsabilità nell’impiego dei fondi pubblici e sulla conseguente onestà dei
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contribuenti. È necessario invertire lo schema che ha caratterizzato l’Italia del passato recente
nel quale si combinavano una sostanziale irresponsabilità nella gestione della spesa pubblica,
caratterizzata da discrezionalità senza accountability, con una sostanziale tolleranza nei confronti dell’evasione fiscale.
Infine, ognuna di queste tre proposte è pensata per favorire la crescita economica,
perché senza la fine del lungo ventennio della stagnazione economica, ogni altro obiettivo sarà
precluso. Nell’individuare le tre proposte abbiamo dunque cercato di evitare elementi distorsivi, tentando di ridurre l’impatto intrusivo dello stato nel mercato, mentre, al contrario,
si aumenta l’intervento pubblico per sostenere i fattori che incrementano la produttività e
la competitività. Questo ha compreso un peso minore della tassazione, una maggiore facilità
nell’attività privata e un sostegno forte alla formazione delle persone che sono il capitale
più importante del paese.
Sono tre proposte che guardano con grande fiducia e speranza all’Italia del futuro
prossimo.
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P R O P O S TA 1
Una regola fiscale: legare il recupero
dell’evasione alla riduzione delle tasse.
A partire dai giovani
In Italia la pressione fiscale sul lavoro dipendente è eccessiva, il cuneo fiscale – ossia il
costo del lavoro dovuto alla pressione fiscale – è superiore alla media europea ed è una delle
cause delle deboli dinamiche occupazionali. Questo giudizio è condiviso dal mondo accademico, imprenditoriale, sindacale. Allo stesso tempo l’Italia è uno dei paesi Europei in cui l’evasione fiscale è più elevata, facendo sorgere nel lavoro dipendente la sensazione di pagare
l’illegalità contributiva due volte. La prima volta perché, a causa dell’evasione, finisce per pagare
troppo chi – imprese e lavoratori dipendenti – non può evadere. La seconda volta perché, a
causa di un’imposizione sul lavoro troppo elevata, le opportunità occupazionali sono inferiori
rispetto a quelle che potrebbero essere. Stime recenti del Sole 24 Ore suggeriscono che l’ammontare complessivo di mancate entrate supera i 100 miliardi di euro, il che significa che oltre
il 15% del PIL, secondo le stime dell’ISTAT, sfugge all’imposizione. Il contrasto all’evasione fiscale
ha caratterizzato tutti i governi degli ultimi quindici anni. Tuttavia, in assenza di meccanismi di
responsabilità e trasparenza nell’uso delle risorse aggiuntive così recuperate, la lotta all’evasione
è stata spesso vissuta dai contribuenti come un’ingiusta caccia al capro espiatorio, svolta con
metodi draconiani ma, soprattutto, finalizzata ad alimentare una spesa pubblica troppo spesso
non produttiva e non gestita secondo criteri di efficienza ed efficacia. Basti pensare che il debito pubblico negli ultimi dieci anni è continuato ad aumentare, raggiungendo livelli talmente alti
da mettere a repentaglio le possibilità di futura crescita economica.
Per interrompere questo circolo vizioso è necessario ristabilire un patto fiscale trasparente che, da un lato leghi lo Stato ai cittadini, dall’altro sia fattore di coesione tra i cittadini, a diverso titolo contribuenti e fruitori di servizi pagati con la fiscalità generale. Per
ricostruire il patto fiscale pensiamo sia necessario che lo Stato inizi a chiedere meno risorse
ai suoi cittadini e allo stesso tempo pretenda che quanto chiesto venga corrisposto. Soprattutto è importante che i cittadini abbiano la percezione di come questo legame li vincoli a un
rapporto di reciproco rispetto.
Per questa ragione, proponiamo che il recupero dell’evasione venga utilizzato per ridurre l’imposizione. È una proposta che nei suoi principi generali era stata enunciata negli
scorsi mesi da Italia Futura e, che ora, può essere formulata in maniera puntuale. Negli ultimi
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tre anni, diverse manovre finanziarie hanno ascritto oltre 35 miliardi di euro di maggiori entrate al recupero dell’evasione. Nella più recente manovra correttiva, caratterizzata da tagli
orizzontali e nuove entrate, queste ultime sono state quasi interamente dipendenti da una
previsione di un recupero dell’evasione fiscale pari a 8 miliardi di euro.Vi sono due errori fondamentali in questa impostazione. Innanzitutto, inserire a bilancio preventivo un aumento
delle entrate dovuto a un ipotetico recupero dell’evasione significa esporsi all’incertezza che
tale recupero non avvenga e, dunque, prepararsi a dover affrontare un buco di bilancio in un
momento successivo. Alternativamente, qualora il recupero dell’evasione fiscale fosse superiore alle attese, significa – da un punto di vista pratico – ipotizzare di trovarsi con delle risorse aggiuntive da usare in maniera discrezionale e, dunque, in balia della trattativa politica
ex-post. Si ricordano, a questo proposito, poco edificanti discussioni su un fantomatico “tesoretto”, termine con cui governi di qualche anno addietro avevano identificato un extra-gettito non programmato.
In entrambi i casi, sia quando si ascrivano preventivamente a bilancio risorse non ancora recuperate dall’evasione, sia quando ci si trovi ex-post ad aver tassato i cittadini senza
una ragione chiara e, dunque, con delle risorse inutilizzate, si sta violando un elementare principio di trasparenza che dovrebbe legare chi paga le tasse a chi quelle tasse ha il dovere di
usarle a fini precisi e certi. Allo stesso tempo, in presenza di una tassazione così elevata, pensare di continuare a recuperare l’evasione a fini di aumento della spesa, significa perseverare
nei comportamenti che hanno portato il paese ad avere il terzo maggiore debito pubblico dei
paesi industrializzati.
Noi proponiamo pertanto di approvare una nuova regola fiscale. Questa regola prevede che la Ragioneria Generale dello Stato stimi ex-post, ovvero alla fine di ogni esercizio
finanziario annuale, l’ammontare dell’evasione fiscale recuperata al netto dei costi sostenuti
per il recupero stesso. La stessa norma deve prevedere che tali risorse vengano interamente
impegnate per ridurre il cuneo fiscale dei lavoratori dipendenti in età compresa tra i 15 e i
34 anni, fino a che non raggiunga un valore del 10% inferiore alla media della vecchia UE a
15 (cfr l’allegato per una tabella riassuntiva). Una volta raggiunto questo risultato, successive
riduzioni del cuneo legate al recupero dell’evasione riguarderanno le altre classi di età.
Alcune stime, per quanto approssimate, possono dare un’idea della dimensione di questa proposta. I calcoli più prudenti, in eccesso, su dati della contabilità nazionale, suggeriscono
che il gettito fiscale, associabile al cuneo fiscale sui lavoratori dipendenti tra i 15 e i 34 anni, è
pari a circa 80 miliardi di euro l’anno (dati riferiti al 2008). Si tratta, ripetiamo, di una stima in
eccesso. Calcoli basati sul reddito individuale medio dei dipendenti giovani suggeriscono cifre
notevolmente più contenute ma le nostre conclusioni, qualora le cifre reali fossero più basse
ne verrebbero rafforzate. La manovra correttiva varata nella primavera del 2010, come già ricordato, ha previsto per l’esercizio successivo maggiori entrate, a seguito del recupero dell’evasione fiscale, pari a 8 miliardi di euro. Ipotizzando che tale cifra venisse raggiunta,
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l’applicazione della regola fiscale che noi suggeriamo consentirebbe di ridurre il cuneo fiscale
per i dipendenti tra i 15 e i 34 anni del 10%. Confermando un recupero dell’evasione di eguale
portata per due anni successivi, dunque pienamente nei parametri delle manovre finanziarie
dei governi più recenti, sarebbe possibile ridurre il cuneo circa del 20% in due anni per i giovani, consentendo di intervenire nella riduzione anche per altre fasce d’età. Il vantaggio economico derivante dalla riduzione del cuneo dovrebbe essere equamente ripartito tra
lavoratori – nella parte relativa all’Irpef – e imprese. Essa determinerebbe, dunque, da un lato,
un beneficio visibile in termini di salario netto, dall’altro, una riduzione non indifferente del
costo del lavoro.
Noi crediamo che questa proposta abbia tre pregi fondamentali. Innanzitutto dimostra,
sulla base di semplici stime verificabili e replicabili su dati pubblici, che è possibile ridurre il carico fiscale e l’evasione fiscale semplicemente modificando le scelte politiche. In altre parole,
una politica più lungimirante avrebbe potuto prendere questo provvedimento già da tempo,
solo la mancanza di volontà, e non cause esterne, determinano lo svantaggio economico di cui
soffrono i giovani italiani oggi. Secondo, se approvata, una riforma del genere avrebbe immediati effetti benefici sul reddito dei giovani lavoratori dipendenti. Essi sarebbero visibili, invertendo la tendenza degli ultimi quindici anni che ha visto i giovani sempre svantaggiati in termini
distributivi: questa è una ragione importante che giustifica la proposta di cominciare dai più
giovani nella riduzione dell’imposizione fiscale.Terzo, la riduzione del costo del lavoro, che andrebbe perseguita anche con altri strumenti di politica economica non indirizzati prioritariamente ai giovani e, dunque, non discussi in questa sede, avrebbe l’effetto di incentivare
l’assunzione di nuove persone, contribuendo a favorire l’occupazione stabile nel nostro paese.
Ridurre il costo del lavoro standard aiuta a rendere meno profittevole, dal punto di vista dei
costi, l’assunzione con contratti a flessibilità estrema e, dunque, favorisce l’occupazione stabile. Questo potrà avere anche effetti positivi sulla produttività del lavoro che, come documentato da recenti studi, ha sofferto negativamente di un eccessivo proliferare dell’uso di
contratti di lavoro precari.
Infine, la regola fiscale, una volta approvata, riduce la discrezionalità di spesa per il tempo
in cui è in vigore. Legare in tal modo il recupero dell’evasione alla riduzione delle tasse contribuisce a restituire valore etico all’onestà contributiva. Valore etico che non dipende da
norme astratte e lontane ma dal patto di convivenza tra cittadini che condanni comportamenti
scorretti, non dal pulpito di uno Stato assente e inefficiente, ma dalla vicinanza di chi, da quel
comportamento onesto, riceverà un beneficio diretto.
In questi anni la lotta all’evasione ha avuto sempre il volto minaccioso di una sanzione,
spesso preventiva, e quello ottuso della burocrazia che complica la vita dei cittadini e delle imprese. Al contrario, le armi più incisive per la lotta all’evasione sono quelle della chiarezza ed
efficacia della spesa, della riduzione dei carichi di imposta eccessivi e di regole che rendano
chiaramente percepibili le sue conseguenze antisociali.
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Tagliare tre nodi: difficoltà di credito,
eccessiva tassazione, peso della burocrazia
Secondo un recente rapporto curato dalla Banca Mondiale, l’Italia è all’ottantesimo
posto per quanto riguarda la facilità di fare impresa. Si tratta di un risultato talmente grave e
negativo dall’essere persino di difficile decifrazione. Tutti i paesi dell’Europa occidentale, gran
parte dei paesi americani e asiatici, ma anche quasi tutti i paesi dell’Europa orientale hanno un
sistema di regole, tassazione, infrastrutture materiali e immateriali, che consentono una facilità dell’attività privata maggiore che da noi. Questo dato sintetico spiega forse meglio di tante
analisi economiche le ragioni della lunga stagnazione italiana e del decennio di crescita quasi
zero che è alle nostre spalle.
Senza una sana, remunerativa e creativa attività privata l’economia non può crescere.
Le imprese private in Italia sono moltissime e molte riescono a mietere grandi successi nonostante gli ostacoli posti dal sistema. Le piccole e medie imprese, “multinazionali tascabili”
come a volte vengono chiamate, hanno sostenuto negli anni passati la nostra economia riuscendo a farci evitare il peggio. Non basta più. Per questo è urgente operare per invertire la
logica, per strutturare un sistema che contribuisca a sostenere e coadiuvare gli sforzi di impresa, in particolare quelli delle imprese nuove. Anche in questo ambito è fondamentale investire sui giovani, sulla loro creatività e energia.
In questo momento, segnato dai postumi della crisi internazionale, lavorare per favorire
l’imprenditorialità giovanile trova due ragioni ulteriori. La prima è legata alla necessità diffusa
di innovazione, presente in molti sistemi industriali e particolarmente acuta nel nostro. Uno
dei fattori – causa e conseguenza allo stesso tempo – della lunga stagnazione economica è
stata l’incapacità del sistema Italia di favorire l’emersione e la specializzazione di imprese in settori emergenti. I nostri settori di specializzazione sono gli stessi di vent’anni fa, mentre sono
cambiati in Germania, in Francia e negli altri paesi europei. Dare una spinta all’imprenditorialità giovanile, ossia favorire il percorso di chi vuole lavorare e competere nell’economia globalizzata, significa moltiplicare le probabilità che innovazioni positive e di successo possano
nascere, crescere e rafforzarsi.
Da un altro punto di vista, le attività imprenditoriali possono cercare di raccogliere non
solo una domanda di innovazione nel campo dei prodotti industriali o delle nuove tecnologie,
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
ma anche nell’ambito dei servizi alle imprese e alle persone. Favorire l’imprenditorialità giovanile significa pertanto anche allargare il bacino di servizi a cui i cittadini possono accedere,
dando modo all’offerta di trovare meno barriere di quelle che esistono oggi e incontrare la
propria domanda. Inoltre, da un punto di vista occupazionale, il settore dei servizi è un bacino
di potenziali grandi dimensioni non ancora del tutto sviluppate, in particolare nel meridione.
Gli ostacoli individuati dalla Banca Mondiale sono già noti a chiunque, nel nostro paese,
provi a cominciare una nuova impresa senza avere alle spalle una struttura già avviata o forti
capitali. Primo: la pesantezza degli adempimenti burocratici. In Italia rimane difficile espletare
le pratiche per aprire un’azienda e, nonostante la diffusione di “sportelli unici”, manca un sistematico supporto per chi volesse farsi imprenditore. Secondo: il peso della tassazione è un
formidabile ostacolo sia per quanto riguarda la sua dimensione, sia per la difficoltà e il tempo
necessari all’adempimento dei doveri fiscali.Terzo: in Italia è ancora molto difficile ottenere credito in assenza di corpose garanzie reali.
Le conseguenze di questi ostacoli si traducono in bassi tassi di innovazione, debolezza
nelle dinamiche di crescita – comprese le dinamiche occupazionali – e lo spreco di tante idee
e talenti che nel nostro paese non riescono a tradursi in fatti ed economia vera.
Per invertire questa china noi suggeriamo tre tipi di intervento: sul versante del credito,
su quello del fisco e sul peso della burocrazia.
La difficoltà di accesso, ad un credito di mercato, adatto a finanziare attività che prosperino, è uno degli ostacoli più seri alla nascita di nuove aziende e di giovani imprenditori di
prima generazione. In Italia la forma tipica dei sostegni alle nuove imprese si è basata in passato sui cosiddetti contributi a fondo perduto e su finanziamenti agevolati. Entrambe queste
forme di supplenza alla difficoltà dell’accesso al credito hanno il limite di non supportare l’idea
di responsabilità individuale e di rischio che devono, al contrario, essere legati a qualunque idea
imprenditoriale di successo.
Un’impresa crea ricchezza solo se sopravvive sul suo mercato e, dunque, con una struttura di costi adeguata e con un business plan che tenga in considerazione il livello d’investimento necessario alla fase iniziale. Tuttavia, nel nostro paese, rimane molto difficile accedere
al credito solo sulla base di una buona idea e di un buon business plan, in assenza di garanzie
reali. Anche i diversi fondi di garanzia esistenti per le piccole e medie imprese, compreso Confidi, garantiscono normalmente solo una parte dell’investimento previsto. Questo riduce drasticamente la platea dei potenziali imprenditori, diminuendo le opportunità individuali e le
opportunità di crescita sociale.
Noi crediamo, al contrario, che vi siano tutte le ragioni per cui lo Stato debba credere
nelle giovani generazioni e nelle loro idee, senza paternalismi, ma consentendo che alcuni limiti imposti dalle condizioni di mercato in Italia vengano superati. Questo si concretizza nella
proposta di alzare il massimale affinché le garanzie concesse dal Fondo Centrale di Garanzia
– con il supporto della Cassa depositi e prestiti – raggiunga il 100% per le nuove imprese in
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cui l’imprenditore, o la maggioranza dei soci, abbia meno di 34 anni, e nessuno dei soci sia già
titolare di imprese. In altre parole, ove un progetto imprenditoriale sia già ritenuto meritevole
di garanzia parziale e, dunque, ad un punto in cui solo le condizioni finanziarie e personali dell’aspirante giovane imprenditore – una mancanza di disponibilità di capitali – potrebbero ostacolarne lo sviluppo. È importante che la selezione sulla qualità e il merito dei potenziali
investitori e dei loro piani, rimanga in mano al mercato e dunque alle banche e agli istituti di
garanzia già esistenti, senza alcun intervento statale che finirebbe per distorcere gli incentivi.
L’intervento pubblico è tuttavia utile affinché l’accesso al credito si ampli per includere chi volesse iniziare, con buone idee, ma alcun capitale.
Dal punto di vista della semplificazione fiscale proponiamo una completa esenzione
dagli oneri fiscali – ad esclusione di quelli sociali per i dipendenti – per le nuove imprese in
cui la maggioranza dei titolari abbia meno di 34 anni e non risulti già titolare di altre imprese.
Questa esenzione dovrebbe durare per tre anni, con una possibile estensione a cinque, per
le aziende che decidessero di quotarsi nel mercato azionario delle piccole imprese. Questo
intervento avrebbe tre benefici diretti. Il primo è quello del sostegno economico indiretto: una
nuova impresa godrà di un periodo iniziale di alleggerimento fiscale, al fine di supportare i
momenti in cui i costi e l’incertezza sono maggiori. Secondo, forse di importanza addirittura
superiore, l’esenzione fiscale porta con sé l’alleggerimento degli adempimenti burocratici nel
periodo iniziale, in cui è bene che l’imprenditore si concentri sulla sostanza del suo business,
al fine di una piena sostenibilità competitiva. Terzo, questo sostegno non comporta trasferimenti economici a fondo perduto, o altre spese dirette da parte dello Stato e, dunque, non
pesa direttamente sui conti pubblici e – con la clausola legata alla quotazione sul mercato
azionario – mira a spingere le imprese fuori dal nanismo. Una misura di sostegno alle imprese
così concepita – legata all’età dell’imprenditore – avrebbe necessità di approvazione preventiva da parte della Commissione Europea. Gli esperti di diritto comunitario consultati da Italia Futura suggeriscono come possibile e probabile una sua approvazione, ove questa misura
fosse motivata dal grave stato di sofferenza economica e sociale in cui versano le generazioni
giovani, come documentato altrove in questa pubblicazione.
Nonostante gli adempimenti fiscali rappresentino la parte più gravosa degli obblighi burocratici necessari alla nascita di una nuova attività, essi non sono certamente gli unici. La semplificazione normativa, necessaria a facilitare la nascita di nuove imprese, comprende decine di
interventi nella disciplina dei diversi settori di attività. Come anche detto altrove, una politica
di liberalizzazioni sicuramente coadiuverebbe lo sviluppo dell’imprenditoria giovanile. Tuttavia,
anche in assenza di uno sforzo complessivo, è possibile ottenere risultati immediati istituendo
in maniera selettiva e non casuale centri per l’imprenditoria giovanile, concentrandosi nelle
aree del paese nelle quali aprire una nuova azienda appare un’impresa proibitiva.
Ribaltando le logiche assistenziali che tradizionalmente in Italia hanno affievolito lo spirito imprenditoriale, ingabbiandolo nella logica dei contributi pubblici, i centri per l’imprendi-
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toria giovanile dovrebbero fornire consulenze di tipo manageriale e legale che aiutino la fase
di start-up di nuove imprese. Una serie di servizi di incubazione – offerti ad un costo ridotto
ma non completamente gratuiti – dovranno essere finalizzati a coprire i gap di know-how
manageriale e legale che si riscontrano soprattutto nelle aree depresse del paese. La missione
di questi centri dovrà essere duplice: da una parte favorire l’incubazione di nuove imprese dal
lato della tecnica manageriale, dall’altra ridurre l’intermediazione burocratica fornendo direttamente gli strumenti interpretativi di tipo legale. Al momento, i servizi pubblici alla nascita di
imprese – prerogativa degli enti locali – sono una delle forme in cui si manifesta l’enorme diversità territoriale del nostro paese: ricevere aiuto per aprire una nuova impresa è un’esperienza molto diversa se fatta nel Nord o nel Mezzogiorno, dove i costi di start-up, anche solo
per le consulenze più semplici, sono proibitivi. Per questa ragione è necessario un intervento
dal centro che assicuri un servizio di semplificazione soprattutto nelle aree più depresse del
paese, dove è maggiore il bisogno di un tessuto imprenditoriale più robusto e la debolezza
degli enti locali non assicura il supporto necessario.
Una nuova cultura dell’imprenditorialità e della funzione sociale dell’impresa passa
anche per un rinnovato patto tra lo stato e i suoi cittadini, centrato da un lato sull’organizzazione di un sistema che favorisca lo sviluppo di buone iniziative dei singoli, dall’altro sulla capacità delle persone di prendersi fino in fondo le proprie responsabilità, senza scorciatoie e
mettendosi in gioco direttamente.
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P R O P O S TA 3
Uno scambio tra generazioni:
finanziare le borse di studio innalzando
di un anno l’età pensionabile
Uno degli aspetti più problematici della disoccupazione giovanile in Italia riguarda la
cosiddetta disoccupazione intellettuale. Una fetta ampia, infatti, di giovani laureati rimane a
lungo disoccupata: nel 2009 la percentuale di laureati era persino leggermente superiore tra
i disoccupati che tra gli occupati. Questo dato certamente dipende dalla fragilità complessiva
del sistema competitivo e dalla scarsa capacità dell’economia italiana di mettere a frutto, fino
in fondo, il capitale umano di cui dispone. Da un altro punto di vista, tuttavia, questo dato nasconde un paradosso della stagnazione economica ed occupazionale italiana, ossia la sproporzione tra i percorsi di formazione scelti dagli studenti e le necessità del sistema produttivo.
Dati raccolti ed elaborati dall’Unione delle Camere di Commercio e dal Ministero del Lavoro
mostrano un costante squilibrio tra l’offerta e la domanda di laureati.
Dati del 2009 indicano che in Italia c’è scarsità di laureati in ingegneria, in materie economico-statistiche, in medicina e nelle scienze naturali. Si verificano gravi eccessi di offerta, invece, per i laureati in materie politiche-sociali, in materie umanistiche, in biologia e in geologia.
In altre parole, la difficoltà di molti giovani laureati a trovare un’occupazione deriva anche da
queste incoerenze qualitative tra domanda e offerta. Nel 2009 ciò ha comportato un eccesso
totale di offerta di circa 44mila persone con titoli di studio non richiesti dal sistema produttivo, mentre allo stesso tempo, l’economia italiana non riusciva a trovare 35mila persone laureate in materie ad alta domanda. Nel 2008 questo squilibrio aveva toccato quasi la cifra di
70mila laureati mancanti nelle discipline più adatte al mercato del lavoro italiano.
Questo dato va sommato ad altre statistiche allarmanti. In Italia, i lavoratori in possesso
di un titolo di studio universitario continuano a essere molto inferiori rispetto agli altri grandi
paesi europei: circa la metà rispetto all’Inghilterra e quasi la metà della Germania. A peggiorare la prospettiva, in Italia oltre il 50% degli iscritti all’università non riesce a raggiungere il
titolo di studio: si tratta del peggior dato tra tutti i paesi dell’OCSE. Questo dato, in parte, si
capisce facendo riferimento a un altro dato internazionale: l’Italia è il paese dell’OCSE dalla
più bassa percentuale di studenti universitari che riceve borse di studio. La povertà di aiuti economici agli studenti universitari ha due effetti deteriori: da un lato riduce fortemente la potenzialità degli studi superiori come veicolo di mobilità sociale, dall’altro priva il paese di
migliaia di giovani laureati che abbandonano gli studi, o non vi accedono, per ragioni legate al
reddito di partenza.
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È dunque necessaria una politica che, puntando sulle eccellenze accademiche presenti
in Italia e sulla motivazione dei suoi migliori studenti, affronti entrambi i nodi: quello del mismatch tra domanda e offerta di capitale umano e quello sulla scarsità di supporto alla formazione superiore.
Il cuore di questa proposta è quello dunque di aumentare drasticamente il numero di
borse di studio, sia per consentire ad un numero maggiore di studenti di completare gli studi
universitari che per orientare la scelta degli studi verso discipline maggiormente richieste dal
nostro sistema produttivo. Gli studenti più meritevoli dovrebbero poter accedere all’università senza dover pagare le tasse di iscrizione e ricevendo un modesto contributo per vitto e
alloggio. Il sostegno finanziario allo studente dovrà essere rigidamente vincolato al superamento, in tempo e a pieni voti, degli esami universitari. L’idea di fondo è, dunque, di favorire
uno shock formativo e di opportunità per l’Italia che, nel giro di pochi anni, una o due legislature, sia in grado di accrescere drasticamente il capitale umano del paese, mentre viene rimesso in moto l’ascensore sociale.
Sono tre i dettagli qualificanti di questa proposta. Il primo riguarda il modo in cui queste borse devono essere erogate, per rispondere al mismatch tra domanda e offerta. Con cadenza biennale il Ministero del Lavoro individua le aree disciplinari che corrispondono alle
necessità produttive del paese, ossia quelle in cui la domanda di lavoro è superiore all’offerta.
In maniera corrispondente dovranno essere ripartiti i fondi a disposizione delle borse di studio, ed assegnati alle venti migliori università italiane, secondo la più recente classifica stilata
dal Ministero dell’Università. Le borse di studio saranno assegnate agli studenti direttamente
dalle università, che provvederanno ai bandi legati ai corsi di studio cui sono orientate. La gestione e la responsabilità nella selezione, accoglienza e monitoraggio degli studenti rimarranno appannaggio degli enti di formazione che, gestendo in maniera oculata le risorse,
potranno ulteriormente beneficiarne. Questa proposta naturalmente non supera la necessità di una riforma complessiva del sistema universitario e della ricerca, che gli ultimi governi
hanno finora mancato di attuare. Individua però un elemento fondamentale per riaffermare
il valore sociale e collettivo dell’educazione superiore e il supporto che lo Stato deve dare
agli studenti meritevoli.
Il secondo dettaglio riguarda i numeri: per essere un vero shock, la dimensione del finanziamento dovrà riguardare circa 100mila studenti universitari l’anno a regime, ossia distribuiti sui diversi anni di corso. Questo numero comporta un costo notevole, da noi stimato
in circa 1,2 miliardi di euro l’anno.
Noi proponiamo che questa misura venga finanziata attraverso l’aumento permanente
di un anno dell’età di pensionamento per le pensioni di vecchiaia e anzianità, sia per gli uomini
che per le donne. Secondo i calcoli della Ragioneria Generale dello Stato riferite alla manovra
finanziaria della primavera 2010, l’aumento di un anno dell’età di pensionamento consente un
risparmio pari a circa la cifra necessaria a finanziare lo shock di formazione da noi proposto.
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Pensiamo sia significativo legare direttamente un sacrificio chiesto alle coorti più anziane
del nostro paese ad una misura che, non solo favorisca i giovani, ma, aumentando la qualità del
capitale umano e in prospettiva la produttività e la competitività del paese, contribuisca anche
alla ripresa della nostra economia e dunque alla sostenibilità del sistema pensionistico. Mentre è urgente un riequilibrio delle risorse pubbliche spese a favore delle generazioni più giovani, e la nostra proposta va in questa direzione, è altrettanto importante unire le generazioni
da un patto di responsabilità che si rafforza legando tra loro voci di spesa e voci di entrata.
Questa proposta ha anche la caratteristica utile – sia pur indiretta – di favorire la competizione tra università, dato che le migliori venti attrarranno gli studenti più bravi e una quota
di finanziamenti pubblici non indifferente. Se gestite in maniera oculata, queste risorse possono
beneficiare gli istituti riceventi in maniera più che proporzionale al loro ammontare, con ulteriori effetti positivi sul livello della formazione offerta a tutti gli studenti italiani.
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IL CASO DELL’ARTIGIANO:
UN’OCCASIONE PER CRESCERE
di Stefano Micelli
1.
Un decennio vissuto pericolosamente
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2.
Una nuova credibilità internazionale
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3.
Il lavoro artigiano e la piccola impresa nelle catene
globali del valore
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4.
Innovazione e piccola impresa: un binomio da ripensare
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5.
Internazionalizzare il lavoro artigiano
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6.
Quattro proposte per un nuovo artigianato
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6.1
Una task force per integrare l'artigianato italiano
con le economie emergenti
64
6.2
Oltre il Made in Italy:
un marchio per la valorizzazione internazionale dell'artigianato
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6.3
Una Ivy league delle scuole dell'artigianato
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6.4
Un nuovo modo di raccontare l'artigianato italiano
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1. Un decennio vissuto pericolosamente
L’Italia è un paese di piccole imprese. Le statistiche ce lo ricordano continuamente. In
Italia le imprese comprese nella classe fra 1 e 19 addetti costituiscono il 98,3% del nostro sistema imprenditoriale; la stessa statistica, nel Regno Unito si attesta al 94,9%; in Germania,
scende al 93,4%. Se si considera il solo comparto industriale, le imprese con meno di 20 addetti sono oltre 430.000 e pesano per quasi 1.800.000 addetti, più di un terzo degli addetti
del manifatturiero (37,9%). Il peso della piccola impresa continua a rappresentare un aspetto
caratterizzante del nostro sistema produttivo e ci contraddistingue rispetto alla generalità
delle economie avanzate.
Nonostante il quadro delle statistiche nazionali e internazionali confermi una fotografia a cui siamo sostanzialmente abituati, nel corso dell’ultimo decennio il sistema industriale
italiano ha conosciuto profonde trasformazioni. Dal 2000 ad oggi, l’industria nazionale ha dovuto confrontarsi con tre shock importanti: l’introduzione dell’euro, l’entrata a pieno titolo
della Cina nel commercio internazionale e la diffusione delle nuove tecnologie nella gestione
delle imprese. Questi shock hanno messo in discussione alcuni degli elementi su cui si è fondata la competitività del Made in Italy tradizionale. Lungo tutto il corso degli anni ’90, il successo della produzione italiana nel mondo è stato legato principalmente al successo del
modello dei distretti industriali. Nel corso degli ultimi dieci anni, è cresciuta sensibilmente
l’importanza di una nuova generazione di medie imprese capaci di proporsi in modo originale
e innovativo sul mercato internazionale.
Le caratteristiche salienti delle medie imprese che rappresentano la nuova ossatura del
Made in Italy sono presto dette. Le nuove medie imprese italiane hanno saputo costruire un
percorso di crescita internazionale investendo in reti distributive e, aspetto particolarmente
importante, avviando nuovi rapporti di fornitura a scala globale. Sono imprese che hanno costruito il loro vantaggio competitivo sulla ricerca e sulla comunicazione a scapito della manifattura in senso stretto: spesso hanno delocalizzato la produzione per concentrarsi sulle fasi
a maggior valore aggiunto della catena del valore. Sono aziende che hanno mantenuto un rapporto forte con il territorio selezionando, tuttavia, i propri interlocutori sulla base di know
how e competenze.
A fronte di questi importanti cambiamenti, la piccola impresa artigiana ha subito un ridimensionamento delle proprie performance economiche collocandosi, quando possibile, a ri-
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dosso delle imprese leader di mercato. La crisi economica, innescata dalla finanza americana
nel corso del 2008, ha accentuato ancora di più questo processo selettivo, attivando una nuova
fase di differenziazione dei risultati economici. I dati forniti dall’Istat a metà 2010 forniscono
una conferma che la crisi ha colto in controtempo le piccole e le microimprese, in particolare quelle meno “agganciate” a un circuito di crescita internazionale. Per contro, molte medie
imprese hanno dimostrato di poter reagire alle difficoltà di mercato in termini relativamente
brevi, riassorbendo in alcuni casi in un solo biennio la riduzione del fatturato legata alla crisi
del 2008.
In questo contesto, è lecito domandarsi se e come è possibile rilanciare la competitività della piccola impresa a carattere artigianale in una fase di crescente globalizzazione dei
processi economici. La risposta non è scontata. La media impresa che ha svolto storicamente
la funzione di traino della piccola impresa sui mercati internazionali, oggi tende a guardare al
potenziale delle economie emergenti per attingere a competenze manifatturiere a basso costo.
Per questo la piccola impresa artigiana è chiamata a fare oggi un nuovo salto di qualità, reinventando il proprio posizionamento sul mercato.
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2. Una nuova credibilità internazionale
Se è vero che la piccola impresa oggi soffre la competizione internazionale, è altrettanto
vero che in questi anni la figura dell’artigiano è stata ampiamente rivalutata. La crisi che si è
abbattuta sull’economia mondiale e le critiche che la finanza ha attirato sul proprio operato
hanno contribuito a ridare lustro e legittimità all’economia reale e al ruolo dell’artigiano. Negli
Stati Uniti alcuni libri sulla modernità del lavoro artigiano hanno conosciuto un certo successo; anche il Financial Times ha dedicato una sua prima pagina alle virtù del lavoro manuale
e alla necessità di valorizzare il ruolo degli artigiani in campo sociale e economico.
A prima vista, questo rilancio della figura dell’artigiano potrebbe suggerire connotazioni regressive. In molti percepiscono la scelta dell’artigianato come una versione elegante
del cosiddetto “downshifting”, ovvero una riduzione delle aspettative di carriera e del proprio
livello di materiale in cambio di una maggiore attenzione alla qualità della propria vita sociale:
meglio vivere facendo qualcosa con le proprie mani, vedendo ogni giorno i risultati del proprio lavoro, piuttosto che contribuire, spesso in modo inconsapevole, a un processo di alienazione che oggi segna in misura sempre più importante anche i lavori cosiddetti intellettuali.
Questa scelta “no global”, nel senso stretto del termine, per quanto interessante sul piano
umano, rischia di far apparire il lavoro artigiano come una ritirata rispetto alla possibilità di proporre il proprio talento nel mondo della creatività e dell’innovazione.
In realtà non è così. Oggi sono proprie le grandi imprese più dinamiche e innovative a
livello internazionale a rilanciare la figura del lavoro artigiano come ingrediente essenziale della
competitività sui mercati. Molte case di moda (Louis Vuitton, Gucci, Kiton, Dolce e Gabbana per
citarne alcune) hanno promosso campagne pubblicitarie per mettere in risalto il contributo del
lavoro artigianale alla qualità del loro prodotto. Il lavoro artigiano è cura, attenzione al dettaglio, personalizzazione, cultura.
Il contributo del lavoro artigiano non è cruciale solamente nei settori tradizionali come
l’abbigliamento e la calzatura. Di recente Jonathan Ive, responsabile del design di Apple, ha sottolineato l’importanza di recuperare un rapporto diretto con la materia come ingrediente essenziale nell’innovazione del prodotto high-tech. La sensibilità dell’artigiano è cruciale nella
sperimentazione di nuove soluzioni e di nuovi materiali. Se si vuole essere davvero eccellenti
– ha scritto Thomas Friedman sul New York Times – non basta essere nella media (“average”):
si deve fare qualcosa in più, a tutti i livelli. Recuperare uno spirito artigianale (Friedman usa
esplicitamente la parola “artisan”) è uno dei modi per uscire dalla crisi.
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3. Il lavoro artigiano e la piccola impresa
nelle catene globali del valore
Come ripensare il ruolo del lavoro artigiano per la competitività della piccola impresa
in uno scenario di economia globale? Un’analisi sulle piccole imprese che hanno avviato in
questi anni percorsi di successo parla di un nuovo modo di essere artigiani, non solo a scala
locale. Rivela una nuova capacità di dialogo con il mondo della creatività e del design, ma anche
con il mondo dell’industria e della distribuzione. Il vantaggio competitivo dei nuovi artigiani deriva nella maggior parte dei casi dalla capacità di trovare un nuovo ruolo all’interno delle catene globali del valore a scala internazionale.
La gestione di questo nuovo posizionamento competitivo richiede una grande attenzione. Il lavoro artigiano costa. Tradizionalmente abbiamo pensato in termini di contrapposizione fra prodotto artigiano (di qualità, ma costoso) e prodotto industriale (di scarsa qualità,
ma economico). Quanto emerge dall’attività del nuovo artigiano è il superamento di questa
contrapposizione e la ricerca di nuove complementarietà. Il lavoro artigiano rilancia la sua
competitività quando attiva, completa o arricchisce le filiere industriali. Il nuovo artigiano, insomma, non compete più con l’industria, ma diventa parte integrante di catene del valore a
cui contribuisce con la sua specificità.
Qualche esempio. Da sempre le imprese artigiane svolgono un’attività di prototipazione e di produzione di prime serie per le filiere dell’abbigliamento e della calzatura. La traduzione dei bozzetti degli stilisti in manufatti pronti per la produzione in serie è cruciale per
ottenere economie di scala nel processo industriale. Il valore prodotto dall’impresa artigiana
dipende dal fatto che grazie a queste prime collezioni è possibile mettere in moto economie
che verranno garantite da processi industriali consolidati, magari in paesi emergenti. Dobbiamo considerare l’artigiano in contrapposizione con l’industria? Piuttosto il contrario.
Il lavoro artigiano dimostra la sua complementarietà con l’industria anche proponendosi a valle della filiera. Si pensi, ad esempio, al caso dell’edilizia sostenibile. In questo caso le
imprese artigiane fanno proprie le economie di scala delle imprese che producono componenti a livello industriale per svolgere una funzione cruciale di adattamento, necessaria soprattutto quando queste nuove tecnologie vengono applicate a edifici già esistenti. In questo
caso, il valore del lavoro artigiano dipende dalla capacità di configurare e combinare in modo
originale elementi già disponibili sul mercato.
Anche per il cosiddetto artigianato artistico non vale più la contrapposizione con l’industria e la grande distribuzione. È vero che spesso liutai, maestri vetrai, ceramisti, gioiellieri
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danno vita ad oggetti che devono il loro valore alla loro esclusività. Immaginiamo volentieri la
bottega di questi artigiani, in pieno centro storico, in contrapposizione con la catena di montaggio della fabbrica sorta nella zona industriale appena fuori città. In realtà già oggi il lavoro
di questi artigiani può costituire il punto di partenza per produzioni in serie. Il rapporto sui
mestieri d’arte e sui saperi tradizionali, curato dalla senatrice francese Catherine Dumas, racconta la storia di Serge Mansau, creatore di vere e proprie sculture in vetro che le grandi case
di moda hanno spesso utilizzato come flaconi per i propri profumi. I flaconi prodotti in serie
per Dior, Kenzo e Azzaro, solo per fare alcuni nomi, nulla tolgono al valore della produzione
originale dello stesso Mansau.
Tutti questi esempi confermano la necessità che la piccola impresa si dimostri capace
di produrre valore attraverso un nuovo dialogo con l’industria e la distribuzione. La piccola
impresa artigiana, in altre parole, è chiamata a diventare ingrediente essenziale di processi manifatturieri che hanno bisogno, in fasi specifiche, di creatività, capacità di adattamento e di risoluzione dei problemi. Questo non implica che le filiere siano necessariamente italiane al
cento per cento: è possibile contribuire con un servizio “su misura” anche a catene del valore solo in parte nazionali mantenendo un ruolo specifico e visibile.
Come promuovere una sua presenza originale nelle catene globali del valore? Vale la
pena soffermarsi su due grandi tematiche che riflettono altrettanti possibili capitoli di una
nuova economia industriale per la piccola impresa: innovazione e internazionalizzazione.
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4. Innovazione e piccola impresa: un binomio
da ripensare
Un elemento che oggi qualifica il lavoro artigiano è la specificità del suo percorso di innovazione. Si tratta di un tema cruciale per la competitività dell’impresa artigiana, sul quale vale
la pena soffermarsi. Una ricerca di Censis - Confartigianato ha messo a fuoco alcuni aspetti
tipici del processo di innovazione dell’impresa artigiana a partire da un’analisi condotta su un
campione di piccole imprese dinamiche. Dalla ricerca emerge che l’impresa artigiana investe
una quota rilevante di ore lavorate (oltre il 10%) in attività di ricerca e sperimentazione. Questo sforzo di ricerca si svolge prevalentemente all’interno del perimetro proprietario dell’impresa; l’artigiano stenta a costruire un dialogo con soggetti come l’università o con altri
enti di ricerca. Altro aspetto rilevante riguarda l’esito di questo percorso di ricerca: nella stragrande maggioranza dei casi le innovazioni introdotte si traducono in un vantaggio competitivo sul mercato, qualificando l’attività di impresa ben oltre gli standard di mercato.
Nel caso delle aziende artigiane della sub-fornitura, questo sforzo di innovazione contribuisce in maniera essenziale alla competitività delle imprese committenti. Un terzo delle imprese analizzate da Confartigianato dichiara di adottare un comportamento attivo verso le
imprese leader, proponendo soluzioni innovative e lavorando in partnership per risolvere i problemi. Anche in un comparto oggi particolarmente delicato come quello delle lavorazioni
conto terzi, una quota importante delle imprese artigiane pratica un’innovazione che si traduce in servizi a valore aggiunto.
La creatività dell’artigiano, la sua capacità di trovare soluzioni innovative e di trasferirle
continuamente al prodotto, costituisce un ingrediente essenziale della manifattura di qualità,
indipendentemente dal legame ufficiale con la ricerca scientifica e tecnologica. Il problema, allora, è come allargare la platea delle imprese artigiane che sono in grado di mettere in moto
questi comportamenti e come moltiplicarne il valore. Un aspetto essenziale su cui riflettere
è legato al contesto sociale e culturale entro al quale l’artigiano si trova ad operare e a sviluppare il proprio percorso di innovazione.
Un esempio di progetto in grado di arricchire le relazioni dell’artigiano e stimolare l’innovazione è stato recentemente promosso da CNA Vicenza. Con l’aiuto di alcuni designer di
fama internazionale (nel caso specifico Aldo Cibic e Martino Gamper), CNA Vicenza ha selezionato un gruppo di giovani talenti provenienti dal Royal College of Art e li ha ospitati nel vicentino per farli lavorare a stretto contatto con alcuni artigiani attivi in diversi ambiti, dalla
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ceramica al plexiglass. Nell’arco di pochi mesi, giovani promesse del design e artigiani dall’esperienza consolidata hanno imparato a convivere sviluppando una serie di prototipi che
sono stati presentati ufficialmente a conclusione del progetto.
Altro esempio interessante di creazione di nuove connessioni sociali e professionali è
quello del Museo Zauli a Faenza. Il museo sta sviluppando una politica di promozione culturale
che punta a legare l’artigianato e l’arte contemporanea per rinnovare radicalmente i linguaggi
espressivi della ceramica. Il progetto punta a creare nuovi legami fra mondi che a lungo si sono
parlati poco e male. I risultati sono già oggi di grande interesse e superano la dimensione della
sperimentazione. In un territorio in forte crisi, la ricostruzione di un nuovo contesto e di nuovi
linguaggi ha consentito di generare rapidamente un ritorno economico misurabile.
In alcuni casi l’emergere di questi legami nasce in modo spontaneo. Il collettivo Gate
08, ad esempio, è un gruppo di designer di tutto il mondo che ha deciso di avviare una collaborazione con un gruppo di artigiani per proporsi in modo innovativo sul mercato. Gate 08
ha proposto i risultati di questa collaborazione al Salone del Mobile di Milano e, a più riprese,
a Udine presso sedi commerciali e istituzionali. In questo caso Confartigianato sta svolgendo
un ruolo importante nel qualificare questa esperienza attraverso lo strumento del contratto
di rete, per dare al progetto forza di mercato e visibilità presso la distribuzione.
In tutte queste esperienze, ciò che emerge è l’importanza di una dimensione sociale nel
processo di innovazione. L’artigiano innova attraverso il dialogo diretto, attraverso un confronto che lo mette in gioco come persona a tutto tondo. Il mondo dei distretti ha probabilmente esaurito un ciclo di creatività “manifatturiera”, ma chi esce da questa esperienza è pronto
a rilanciare la propria esperienza entro un nuovo orizzonte professionale e culturale. I casi ora
citati sono solo una selezione dei tanti fermenti che stanno caratterizzando tutta l’Italia manifatturiera. Si tratta di incentivare progetti che puntano ad arricchire il contesto del lavoro artigiano puntando a stimoli nuovi, capaci di innescare dinamiche innovative originali.
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5. Internazionalizzare il lavoro artigiano
Internazionalizzazione e artigianato sono parole che, secondo alcuni, non vanno d’accordo. Se guardiamo i dati dell’export questa convinzione si rafforza. Sono infatti le medie e
le grandi imprese a garantire in maniera rilevante l’export nazionale. L’artigianato concorre alla
presenza del prodotto italiano sui mercati internazionali solo in minima parte.
In realtà il tema dell’internazionalizzazione non può essere ricondotto semplicemente
alla capacità di esportare prodotti e servizi. Oggi l’internazionalizzazione ha a che fare con la
conoscenza, e non solo con le merci. Le reti trasformano il nostro modo di essere “internazionali”, allargando sensibilmente l’orizzonte geografico dell’agire dell’impresa artigiana. Il cambiamento in atto è profondo e richiede – nuovamente – di utilizzare il punto di vista delle
catene globali del valore.
L’impresa artigiana oggi ha la possibilità di informarsi diversamente sui propri fornitori
guardando a un orizzonte internazionale; può ripensare il proprio rapporto con il mercato cercando – individualmente o in partnership – di candidarsi a svolgere fasi specifiche di catene
del valore a livello globale. La maturità delle tecnologie e dei servizi disponibili in rete consente forme nuove di specializzazione a livello internazionale prima riservate alle aziende di
maggiori dimensioni.
Alcuni esempi. Sul versante della commercializzazione del prodotto la rete propone
nuove opportunità di commercio elettronico.Tradizionalmente questo canale non è stato utilizzato dalle imprese del Made in Italy, in parte perché poco adatto a comunicare la flessibilità
e la versatilità delle nostre imprese artigiane, in parte perché inadeguato nel comunicare la ricchezza di contenuti storici, artistici e cultuali del prodotto artigiano. Rispetto alla prima metà
degli anni 2000 il contesto, oggi, è profondamente mutato. L’introduzione della banda larga e l’innovazione nelle piattaforme di e-commerce hanno consentito di arricchire gli strumenti del
commercio elettronico: è migliorato il potenziale di interazione fra domanda e offerta ed è aumentata la possibilità di comunicare il valore di prodotti complessi grazie alla multimedialità.
Nel campo del commercio elettronico business to business si sono imposte piattaforme
globali come www.alibaba.com che hanno saputo intermediare l’offerta di produzioni cinesi
presso le imprese e i compratori occidentali. Piattaforme come Alibaba contano oggi milioni
di contatti giornalieri e un volume di transazioni considerevole. Non si tratta di compravendite basate solo sul prezzo: esiste la possibilità di gestire processi di personalizzazione delle
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offerte anche per pochi pezzi. Questo consente di ripensare il proprio modo di acquistare e
di vendere on line.
Chris Anderson, editor di Wired, ha indicato Alibaba come una delle piattaforme su cui
si costruirà quella che lui stesso ha definito la prossima rivoluzione industriale (“The next industrial revolution”): grazie alle nuove piattaforme di commercio elettronico è possibile costruire auto su misura (come nel caso dell’americana Local Motors), acquistare e vendere
circuiti integrati personalizzati, persino gestire la produzione di prodotti high tech. Insomma
un universo di opportunità per artigiani di nuova generazione disposti a raccogliere la sfida.
Per la piccola impresa italiana, questi nuovi ambienti di lavoro rappresentano una sfida non da
poco. Oggi il traffico italiano conta su Alibaba per l’1% delle transazioni contro il 60% delle imprese cinesi e il 7% delle imprese americane.
Anche nel campo del commercio elettronico business to consumer, lo scenario è molto
cambiato in questi ultimi anni. Nel campo dell’hand made si sono consolidate a livello internazionale piattaforme di commercio elettronico in grado di rappresentare delle opportunità
anche per l’artigianato italiano. Esty.com costituisce un esempio interessante in questo campo.
Inoltre, i recenti successi di piattaforme come Yoox.com dimostrano la possibilità di sviluppare
canali di distribuzione capaci di comunicare la ricchezza del prodotto Made in Italy.
In generale, la disponibilità di nuovi strumenti gestionali e di reti a banda larga consente
di ripensare il posizionamento delle imprese artigiane nelle filiere internazionali. Attività
come la prototipazione e lo sviluppo di prime serie, come accennato in precedenza, possono essere svolte per nuovi committenti a scala globale. Le imprese artigiane specializzate
in queste attività in campi diversi come la confezione o la produzione di stampi possono inserirsi e consolidare un proprio posizionamento competitivo anche senza una filiera completamente Made in Italy.
Dall’insieme di queste esperienze emerge un quadro di nuove opportunità per il mondo
della piccola impresa artigiana che deve essere preso sul serio, e in tempi brevi. Le economie
con cui l’impresa artigiana è chiamata ad orientarsi sono complesse. Esiste un problema di affidabilità delle controparti, di messa a punto di nuove competenze, di tutela della proprietà intellettuale, soprattutto perché le opportunità di crescita che questi strumenti consentono
guardano principalmente ad Est, verso le economie emergenti dell’Asia.
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6. Quattro proposte
per un nuovo artigianato
Esiste un consistente spazio di politica industriale per un rilancio dell’artigianato italiano.
Il quadro che emerge da un’analisi del comparto suggerisce iniziative diverse, alcune a scala
nazionale, altre in una proiezione internazionale. Tutte hanno in comune l’obiettivo di promuovere la qualità del lavoro artigiano come un tratto distintivo della nostra industria nazionale presente - in forme diverse - nella grande, nella media e nella piccola impresa. Questo
ingrediente essenziale ha consentito ai quattro grandi settori del Made in Italy (alimentazione,
casa-arredo, moda, meccanica) di mantenere nel tempo la propria competitività a livello internazionale. Innocenzo Cipolletta ha definito questa straordinaria capacità di flessibilità e di
adattamento alla domanda internazionale “industria su misura”. Se il Made in Italy è stato “industria su misura”, nella piccola impresa così come in quella di maggiori dimensioni, ciò si
deve a una qualità del lavoro che oggi riconosciamo come artigianale.
Abbiamo già cominciato a comunicare e a promuovere il lavoro artigiano in modo
nuovo. Chi ha seguito le attività del padiglione italiano all’Expo di Shanghai ha potuto apprezzare il successo riscosso dallo spazio dedicato al lavoro artigiano. Nel parallelepipedo di plexiglass in cui sono stati ospitati i nostri artigiani, si sono alternate presenze di grandi imprese
ormai consolidate (ad es. Ferragamo), istituzioni di prestigio (ad es. l’Opificio delle pietre dure
di Firenze) e laboratori artigiani di talento (ad es. i liutai di Cremona). Il lavoro artigiano è stato
presentato come l’enzima che consente alla nostra imprenditorialità di raggiungere l’eccellenza
nella qualità e la passione per il dettaglio.
Il riconoscimento di questo tratto nazionale deve suggerire una prospettiva unificante
fra piccola e grande impresa. Il lavoro artigiano costituisce probabilmente il vero denominatore comune di tanta parte dell’industria italiana. Riconoscere la sua importanza significa prima
di tutto mettere da parte le tante contrapposizioni fra il fronte della piccola impresa, in sofferenza per la crisi degli ultimi due anni, e quello delle imprese più consolidate, ormai proiettate in uno scenario internazionale. Il problema da affrontare con urgenza è capire in che
modo l’artigianato, che oggi qualifica la piccola impresa italiana, può essere valorizzato a scala
globale. Quattro sono le priorità da affrontare con la massima urgenza.
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6.1 Una task force per integrare l’artigianato italiano con le economie
emergenti
Il primo obiettivo da perseguire è l’inserimento delle piccole imprese artigiane all’interno delle catene globali del valore. La piccola impresa artigiana non può pensare di competere a livello internazionale perpetuando un approccio mercantile: non si tratta
necessariamente di imporre il prodotto della piccola impresa sui mercati internazionali. Piuttosto, si tratta di trovare delle forme di partenariato che consentano alla piccola impresa
di valorizzare le proprie competenze all’interno di nuove relazioni con l’industria e la distribuzione. Come accennato in precedenza, alcune esperienze di partenariato sono già state avviate con successo: in diversi contesti, piccole imprese di matrice artigianale hanno saputo
inserirsi in processi di divisione del lavoro a scala internazionale.
Per favorire un’accelerazione di questi processi di integrazione è necessaria una politica
industriale su due fronti. Un primo fronte è legato allo sviluppo di reti di impresa capaci di
aggregare una massa critica di competenze distintive in grado di proporsi efficacemente su uno
scenario internazionale. Difficile pensare che siano le singole imprese a dialogare con i nuovi
protagonisti della manifattura industriale nel Far East: più verosimile che gruppi selezionati e organizzati di aziende artigiane possano diventare interlocutori di strutture industriali in forte crescita. Lo strumento del contratto di rete costituisce lo strumento cardine per favorire questa
proiezione internazionale e per questo deve essere promosso e comunicato a scala nazionale.
Un secondo fronte riguarda la cooperazione internazionale. Le nostre imprese devono poter essere aiutate e sostenute nel confronto con economie e culture percepite come
lontane e poco praticabili. In passato il Ministero dello Sviluppo Economico ha promosso
una task force per rendere produttivo l’incontro fra partner russi e italiani e favorire la reciproca conoscenza fra imprenditori. La task force ha avuto il merito di affrontare molto
pragmaticamente le priorità percepite degli operatori economici e favorire l’identificazione
di soluzioni sul piano della concretezza. Questo stesso modello operativo oggi deve essere
replicato per favorire l’integrazione delle nostre reti di impresa con le realtà produttive più
dinamiche in Cina e in India.
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6.2 Oltre il Made in Italy: un marchio per la valorizzazione internazionale
dell’artigianato
Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito a un lungo confronto sul tema del marchio Made in Italy. La legge Reguzzoni-Versace (L.55 del 2010) ha rappresentato un importante punto di arrivo per la salvaguardia delle esigenze di informazione e trasparenza verso
il consumatore finale: quando saranno predisposti i regolamenti attuativi i consumatori saranno in grado di stabilire con precisione l’origine delle merci e il luogo della manifattura
di settori cruciali come il tessile e la pelletteria. Difficile pensare, tuttavia, che il marchio
Made in Italy – anche quando esteso ad altri settori - possa davvero valorizzare, di per sé,
la piccola impresa artigiana nell’economia internazionale. In passato il marchio Made in Italy
è stato utile nel rimarcare la differenza fra un modello industriale di matrice fordista (tipico
di grandi economie come quella americana) e un modello industriale come quello italiano,
profondamente radicato nella tradizione artigiana e nella cultura dei territori. Questa demarcazione non è più proponibile in uno scenario globale: le nuove economie emergenti
hanno certamente sviluppato apparati produttivi tipici della produzione di massa (si pensi
al sistema industriale cinese), ma continuano a essere caratterizzate da una consistente presenza di lavoro artigiano.
La tradizione italiana dell’artigianato che ambisce a proiettarsi nel mondo ha bisogno
di linguaggi nuovi, capaci di incontrare e riconoscere il valore di culture diverse. L’Italia non
può pensare di essere l’unico paese depositario di competenze artigiane: deve, piuttosto, diventare il paese promotore dell’artigianato a livello internazionale. Deve diventare il punto di
riferimento di una nuova cultura della produzione che fa dell’uomo e del lavoro artigiano un
elemento essenziale della qualità materiale e immateriale delle merci.
L’artigianato, come è stato per l’agricoltura, ha bisogno di marchi e riconoscimenti
inclusivi. Se guardiamo all’esperienza Slow Food, vediamo un brand capace di dare senso e
includere tradizioni diverse (i presidi locali in Italia e nel mondo). Slow Food non difende l’Italia; promuove la cultura del cibo nel nostro paese e nel mondo. Grazie a un linguaggio aperto
e universale, il nome Slow Food è stato accolto praticamente dappertutto. È ovvio che fra i
beneficiari di questo straordinario successo vi siano state anche imprese italiane: Eataly, ad
esempio, ha appena ampliato la sua rete distributiva con un importante sbarco negli Stati Uniti;
Grom, la catena di gelaterie di qualità che ha conosciuto una grande crescita in questi ultimi
anni, beneficia anch’essa delle esternalità positive generate da Slow Food e dai suoi presidi.
È importante che nell’ambito dell’artigianato emerga al più presto un progetto simile
a quello promosso da Carlo Petrini. I fermenti culturali di questi anni dimostrano che esiste
un interesse globale per un nuovo riconoscimento del lavoro artigiano (si pensi al movimento
dei makers negli Stati Uniti, già oggi organizzato attorno a eventi e riviste di settore). L’Italia
deve diventare il punto di riferimento di questa cultura del lavoro promuovendo attività di
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ricerca, di promozione e, ovviamente, marchi e etichette riconoscibili. Al pari di Slow Food,
un’iniziativa di innovazione sociale di questo tipo, richiede slancio e imprenditorialità da parte
di istituzioni, associazioni di categoria, operatori della cultura e mondo delle imprese.
6.3 Una Ivy league delle scuole dell’artigianato
La formazione del nuovo artigiano non ha ancora istituzioni qualificate. Mentre l’artigianato evolveva e si trasformava sotto la spinta delle pressioni del mercato, le scuole dei mestieri si limitavano a riproporre la figura dell’artigiano della tradizione. Non è solo una
questione di accesso alle nuove tecnologie, che spesso le scuole non sono in grado di garantire perché in ritardo rispetto al mondo delle imprese ma è, più in generale, un problema di
impianto formativo che oggi richiede un abbinamento più stretto fra competenze manuali e
strumenti culturali evoluti.
Come riproporre una formazione artigiana al passo coi tempi? La predisposizione di
nuovi curricula, capaci di interpretare il nuovo ruolo dell’artigiano nell’economia globale, richiede una riflessione di carattere nazionale. Il nuovo artigiano ha bisogno di scuole che ne
rilancino il profilo e la visibilità oltre la scala regionale e che ne proiettino la legittimità in un
orizzonte internazionale. È necessario avviare al più presto una serie di corsi di eccellenza che
facciano leva su quanto di meglio abbiamo saputo sviluppare nelle diverse regioni per attrarre
nel nostro paese talenti di tutto il mondo, interessati ai mestieri artigiani e alla cultura italiana.
L’insieme di scuole dovrà costituire una Ivy league dell’artigianato che potrà condividere
alcune risorse di base (si pensi all’offerta didattica di carattere generalista) e che potrà specializzarsi in aree elettive coerenti con le diverse vocazioni territoriali.
In generale, il rilancio della formazione artigiana favorirebbe una diversa percezione del
lavoro manuale nella società italiana. Studi recenti di Confartigianato confermano la ritrosia
dei giovani italiani nell’intraprendere un percorso di lavoro artigiano perché poco attratti dalle
offerte della piccola impresa di carattere artigianale. Percorsi formativi di eccellenza, orientati
a studenti nazionali e internazionali, in grado di fornire sbocchi professionali sia nella media
che nella piccola impresa, potrebbero trainare in maniera sensibile tutto il comparto.
Queste stesse scuole di eccellenza potranno inoltre diventare le piattaforme di scambio e di integrazione tra competenze artistiche e altri campi del sapere. Come richiamato in
precedenza, i percorsi di innovazione nel mondo artigiano passano attraverso la socializzazione
e l’esperienza diretta di nuovi saperi. Le scuole avranno la funzione di interfaccia fra artigianato e mondo del design, dell’arte contemporanea, dell’ingegneria, delle scienze ambientali: saranno queste istituzioni a legittimare e a gestire quei percorsi di incontro che hanno bisogno
di mediazione e accompagnamento.
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6.4 Un nuovo modo di raccontare l’artigianato italiano
Il racconto dell’artigianato di qualità ha seguito, tradizionalmente, una trama territoriale. Il radicamento dell’impresa artigiana all’interno dei distretti ha favorito una promozione dell’impresa artigiana per aree geografiche omogenee. L’Italia ha promosso il vetro di
Murano, l’oreficeria di Valenza, la lavorazione del corallo di Torre del Greco. La lista potrebbe continuare a lungo.
Il confronto con mercati nuovi, diversi per cultura e per richieste dai mercati tradizionali, spinge a ripensare il nostro modo di comunicare la competenza artigiana, favorendo l’aggregazione di competenze e lavorazioni coerenti con le richieste di mercati specifici.
CNA, ad esempio, ha promosso la pubblicazione di un libro-catalogo dal titolo “Fatto per te”
che raccoglie i profili di una quarantina di artigiani che, sparsi su tutta la penisola, sono a disposizione per confezionare abiti e accessori su misura per clienti russi. In questo caso, la narrazione delle eccellenze riflette il punto di vista della domanda, non più quello della geografia
dell’offerta. Cataloghi simili sono già stati prodotti con successo per altri settori, come quello
della casa sostenibile e della moda.
In alcuni casi il problema non è solo quello di raccontare un artigianato che già esiste
e opera sul mercato; si tratta, invece, di aggregare e rendere visibili operatori che devono conoscersi e sviluppare progetti comuni. Il progetto DNA Italia, la fiera delle tecnologie per i
beni culturali, ad esempio, è stato un importante momento di incontro per operatori del
settore, che ha consentito di mescolare e presentare pubblicamente eccellenze della ricerca
scientifica assieme a competenze artigianali tipiche del restauro. In questo, così come in altri
casi analoghi, l’obiettivo è quello di dar vita a momenti fieristici e di confronto che consentono alle piccole imprese di confrontarsi e di dialogare in forme non dissimili da quelle che
tradizionalmente caratterizzano i distretti (non a caso la letteratura chiama questo tipo di
eventi temporary cluster).
Per molti settori del Made in Italy questa riorganizzazione della comunicazione distrettuale è particolarmente urgente. La promozione delle reti di piccole imprese all’estero richiede una maggiore attenzione alle richieste del mercato e una attenta selezione dei
partecipanti. Nel sistema casa, così come nella moda e nella meccanica, la possibilità di arrivare al mercato con proposte integrate e coerenti rappresenta un elemento distintivo rispetto alla concorrenza. È importante accelerare la produzione di nuovi cataloghi e di nuove
aggregazioni di imprese a scala nazionale in vista di una più aggressiva proiezione internazionale. In questa prospettiva le associazioni di categoria giocano un ruolo particolarmente cruciale avendo una lettura locale e nazionale della distribuzione delle imprese.
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A P P E N D I C E S TAT I S T I C A
I NUMERI DEL QUINDICENNIO PERSO (1994-2009)
di Sergio de Ferra
1.
Introduzione
70
2.
Dati economici
Crescita del Pil
Pil pro capite
Apertura dell’economia
Investimenti esteri
Diseguaglianza
Squilibri regionali
Nascita di imprese
74
3.
Finanza Pubblica
Debito pubblico
Deficit
Pressione fiscale
Spesa pubblica
Intervento dello Stato nella crisi economica
78
4.
Mercato del lavoro
Tasso di disoccupazione
Tasso di disoccupazione per gruppi
Cuneo fiscale
Differenza di salario tra i sessi
Uscita dalla forza lavoro
Incidenti mortali sul lavoro
Differenze regionali nell’occupazione
82
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Istruzione
Punteggio nel test PISA
Numero di alunni per insegnante
Abbandono scolastico
Laureati in materie scientifiche
Cultura
Brain Drain
86
6.
Istituzioni e Concorrenza
Corruzione
Attività professionali
Prezzi dell’energia
Fiducia nelle istituzioni
89
7.
93
Innovazione
Ricerca e Sviluppo
Internet
Brevetti
8.
Popolazione
Percentuale della popolazione a rischio di povertà
Effetto dell’intervento pubblico sulla povertà
Numero di figli per donna
Giovani
Popolazione carceraria
Stranieri
95
9.
Salute
Obesità
Bevande alcoliche
Tabacco
Durata della vita
Sistema sanitario
99
10.
Ambiente
Automobili
Energie rinnovabili
Inquinamento dell’aria
Tasse sull’ambiente
101
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A P P E N D I C E S TAT I S T I C A
1. Introduzione
Il declino economico del nostro paese costituisce sempre di più uno dei principali argomenti del dibattito pubblico italiano, sia a livello accademico che tra i politici e sui media. È
purtroppo frequente, tuttavia, che questo dibattito, nonostante la sua pressante importanza,
sia condotto in termini dilettanteschi, inadeguati, facendo ricorso al sentito dire, ad informazioni di dubbio valore e persino agli insulti. Anche quando dei dati vengono portati a sostegno delle diverse tesi, questi sono spesso presentati in maniera poco seria, urlati e confusi in
una miriade di informazioni discordanti.
Questa raccolta di indicatori comparati sulla situazione economica dell’Italia in Europa,
vuole offrire, al contrario, un contributo di chiarezza. Abbiamo selezionato circa cinquanta indicatori, tratti dai dati degli istituti statistici e delle organizzazioni internazionali. Il criterio alla
base della nostra scelta è stato quello di far emergere un’immagine imparziale delle condizioni
materiali in cui vivono gli italiani del 2010, con uno sguardo al passato più recente ma cercando
di intravedere nei dati quello che riservano i prossimi anni.
In altre parole, abbiamo voluto capire quale sia la qualità della vita in Italia, quali siano le
possibilità, materiali e non, degli italiani e come è cambiato il paese negli ultimi quindici anni.
Tra gli indicatori strettamente economici quelli che più ci sono sembrati significativi
sono stati la crescita del Pil, il livello del debito pubblico, i dati sull’intervento dello
Stato durante la recente crisi finanziaria e le fortissime differenze tra le regioni
italiane in termini di occupazione.
Tra i dati non economici, sono particolarmente rilevanti la classifica internazionale sul
livello della corruzione, la performance scolastica degli alunni italiani, l’investimento in ricerca del nostro paese, il numero di giovani che vivono ancora in famiglia
e il numero di auto per abitante. È, inoltre, da menzionare la performance dell’Italia in termini degli indicatori sulla sanità.
Il fiacco andamento della crescita desta particolare preoccupazione. Già nell’arco di
un decennio, una scarsa crescita del Pil determina un forte peggioramento degli standard di
vita se si confronta il paese con i vicini che corrono più veloci. La posizione relativa dell’Italia
rispetto ai suoi partner europei e agli Stati Uniti è, dunque, oggi più arretrata rispetto a quanto
non fosse quindici anni fa. Allo stesso tempo, le economie emergenti dell’Europa dell’Est e
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dell’Asia crescono molto velocemente, facendo sì che gli standard di vita in alcune di esse
siano oggi comparabili, se non superiori, a quelli italiani. Preoccupa anche il fatto che la crescita susciti scarso interesse nei media. Come si è detto, le conseguenze sulla qualità
della vita di un piccolo cambiamento nella crescita sono enormi, ma questo dato importante viene troppo frequentemente ignorato.
Le dimensioni del debito pubblico italiano sono gigantesche. Dopo il Giappone e
la Grecia, la cui condizione di finanza pubblica non è certo invidiabile, l’Italia ha il terzo debito
pubblico più grande tra i paesi OCSE. Questo non è un fatto recente, dovuto alla crisi finanziaria internazionale, ma persistente da ormai più di quindici anni. Un debito pubblico di simili
dimensioni costringe ogni anno l’Italia a destinare enormi risorse al pagamento degli interessi
su di esso, spesso posseduto da investitori stranieri. Queste risorse potrebbero essere certamente investite in modo più efficace, nella forma di migliori servizi per i cittadini o di un abbassamento delle tasse. Inoltre, il nostro paese risulta gravemente esposto alle fluttuazioni
difficilmente prevedibili dei mercati finanziari. Fortunatamente, negli anni recenti non si sono
verificati forti attacchi speculativi ai danni del debito pubblico italiano. Non si può però escludere che ciò non avvenga mai ed è doveroso premunirsi riducendo velocemente l’ammontare
del nostro debito pubblico.
Le conseguenze negative di questo enorme debito si sono fatte recentemente sentire.
Durante la crisi finanziaria del 2008-2009, tutti i maggiori paesi europei sono intervenuti
attivamente a sostegno dei propri sistemi industriali. Da un punto di vista teorico, l’efficacia
di simili politiche di stampo keynesiano è tuttora discussa. Per l’Italia, tuttavia, una simile
scelta era comunque esclusa dalle opzioni disponibili: l’impossibilità di registrare eccessivi
deficit di bilancio a causa del debito troppo pesante ha fatto sì che gli aiuti concessi dallo
Stato italiano durante il 2008 siano stati addirittura inferiori a quelli dei cinque
anni precedenti. La media dei paesi europei ha invece triplicato la percentuale del Pil destinata ad aiuti di Stato.
Oltre a soffrire di una generica arretratezza economica nei confronti dei propri
partner, l’Italia si caratterizza per una condizione fortemente diseguale all’interno delle
proprie regioni. È noto che esistano forti differenze tra le diverse regioni d’Italia, ma le dimensioni del fenomeno non sono talvolta ben percepite. In Italia, la variazione nell’occupazione fra le regioni è la maggiore in Europa, superiore a quella della
Germania dopo l’unificazione. Appare evidente come questo sia uno dei più gravi problemi economici dell’Italia e come, se si vuole riportare il paese a competere con le principali economie europee, sia necessario che il Meridione possa godere di una condizione
economica comparabile con quella delle regioni del Nord.
Anche i dati di natura non strettamente economica offrono un quadro non roseo della
situazione del paese. La classifica recentemente presentata dall’organizzazione internazionale
Transparency International ci restituisce l’immagine di un’Italia dove la corruzione è un
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fenomeno pervasivo. Questo malcostume diffuso fa sì che la posizione del nostro paese sia
bassissima, penultima in Europa. Il nostro paese è inoltre superato per percezione della corruzione da moltissimi paesi emergenti o di scarsa tradizione democratica.
Un dato particolarmente scoraggiante è quello riferito alle abilità degli studenti
quindicenni della scuola italiana, misurato dal test PISA elaborato dall’OCSE. La performance degli alunni italiani è notevolmente inferiore a quella di quasi tutti i
loro omologhi europei. Questo fatto dovrebbe suscitare enorme preoccupazione. Una
bassa qualità dell’istruzione, infatti, può seriamente compromettere la competitività futura del
paese, riducendo le possibilità degli studenti di oggi nel mercato del lavoro di domani. Appare importantissimo avviare un programma di miglioramento e rinnovamento del sistema
educativo italiano.
L’investimento in ricerca delle aziende italiane è molto scarso, così come la loro
domanda di brevetti. La ricerca, seppure spesso non offra profitti nel breve periodo, migliora
le possibilità tecnologiche del paese, permettendo alle sue imprese di competere sui mercati
internazionali e trainandone la crescita nel lungo periodo. Uno scarso investimento in ricerca
farà sì che la nostra produttività non possa mantenere il passo di quella dei nostri competitors,
europei e non. Sarebbe dunque auspicabile che le imprese italiane investissero di più in ricerca, possibilmente favorite dalla politica che dovrebbe generare le condizioni necessarie
perché questo investimento sia profittevole.
Un dato di cui in passato si è molto discusso, seppur in termini approssimativi e dispregiativi, è quello riferito ai cosiddetti “bamboccioni”, i giovani e meno giovani che ancora
vivono con i propri genitori. Effettivamente questo fenomeno è fortemente diffuso in Italia, molto più che nel resto dei paesi europei. Quasi la metà degli uomini italiani tra i 25 e i 32
anni vive ancora con i propri genitori. Questo è probabilmente segno di una scarsità di opportunità lavorative e, in generale, di poca fiducia nel futuro. Questo dato scende al di sotto
del venti per cento in Germania, Francia e Gran Bretagna.
Le abitudini degli italiani riguardo ai trasporti sono piuttosto peculiari. Nonostante il reddito per abitante non sia particolarmente elevato, l’Italia si caratterizza per il maggior numero di auto per abitante in Europa. La passione degli italiani per i motori può forse spiegare
in parte questo fenomeno. È possibile, tuttavia, che cause meno romantiche siano alla radice di
questo fenomeno, come la carenza dei servizi di trasporto pubblico. Un tale numero di auto è
ovviamente dannoso per l’ambiente. Inoltre esso comporta gravi costi sia dal punto di vista
energetico che da quello della congestione dei servizi urbani, come le strade e i parcheggi.
Gli italiani si distinguono positivamente dai loro concittadini europei per le loro migliori abitudini alimentari e di salute. L’incidenza dell’obesità e del consumo di alcool e
tabacco è notevolmente inferiore a quella registrata negli altri paesi d’Europa e l’aspettativa
media di vita è alta. Inoltre, il sistema sanitario italiano è stato classificato come il secondo migliore al mondo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
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Questa raccolta di indicatori non nasce con l’obiettivo di dipingere un’immagine del
paese senza speranza. È, anzi, proprio il nostro amore per l’Italia e la fiducia nelle sue possibilità di riprendersi che ci spinge a studiare, senza pregiudizi, quali siano le sue attuali condizioni.
Non si può negare che il quadro offerto sia piuttosto fosco. È però possibile trovare nei dati
alcune indicazioni di un certo ottimismo e di un desiderio degli italiani di “far funzionare le
cose”, prima tra tutte la loro superiore attenzione alla salute o, da un punto di vista politico,
il sentimento di fiducia nei confronti dell’Unione Europea. La speranza è quella che riguardando
a questi indicatori tra cinque o dieci anni molto sia cambiato, certi che questo non avverrà
senza l’impegno del paese.
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2. Dati economici
C R E S C I TA D E L P I L
1994-2001
2001-2006
2006-2009
UE 15
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
4.7%
3.3%
6.8%
4.5%
3.6%
5.7%
1.9%
1.0%
3.3%
1.7%
0.9%
2.6%
- 0.4%
- 0.5%
0.2%
0.2%
- 1.7%
- 0.7%
1994-2009
1.8%
1.1%
2.9%
1.8%
0.9%
2.2%
Fonte dati: AMECO, serie Gross domestic product at 2000 market prices (OVGD)
In Italia, la crescita del Pil è stata molto scarsa negli ultimi quindici anni. Essa
è la più bassa nel gruppo di paesi da noi considerato. In un arco di quindici anni, anche un divario di un solo punto percentuale in termini di crescita causa forti divergenze nel Pil e, dunque, negli standard di vita.
La crescita italiana è inferiore a quella dei suoi partner in tutti i sottoperiodi considerati, la fine degli anni Novanta (con l’eccezione della Germania), i primi anni
Duemila, gli ultimi 3 anni. In quest’ultimo triennio la performance italiana è stata particolarmente negativa, segno che la crisi economica ha colpito pesantemente un sistema
già in difficoltà.
UE 15
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
PIL PRO CAPITE
1994
2001
2009
19 971
22 509
12 751
20 757
18 546
22 718
24 399
26 400
16 779
24 943
20 043
29 607
23 530
25 359
16 042
24 003
21 284
27 802
Unità: euro, 1 GBP = 1,64 EUR (Tasso di cambio medio anno 2000)
Fonte dati: AMECO, serie Gross domestic product at 2000 market prices (OVGD)
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
Il Pil Pro Capite (PPC) dell’Italia è più basso di quello dei principali partner
europei, ad eccezione della Spagna. Questo indice misura approssimativamente il reddito
di ciascun cittadino ed è dunque comunemente usato come misura degli standard di vita del
paese. Questa misura indica dunque come gli standard di vita italiani siano tuttora più bassi
rispetto alle altre economie avanzate europee. È da notare, inoltre, come il Pil Pro Capite dei
principali paesi europei sia aumentato tra il 2001 e il 2009, anche tenendo conto degli effetti
della crisi, contrariamente a quanto accaduto in Italia. Nel nostro paese, dunque, gli standard di vita sono oggi peggiori di quelli che si avevano nel 2001.
A P E RT U R A D E L L’ E C O N O M I A
1994
2001
UE 15
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
42%
38%
32%
35%
34%
40%
57%
56%
45%
49%
43%
42%
2009
54%
61%
35%
39%
38%
38%
(Importazioni + Esportazioni)/Pil
Fonte dati: elaborazione su dati AMECO, serie DMGT, DXGT, UVGD
Questo indicatore consiste nella somma di esportazioni ed importazioni come percentuale del Pil. Esso differisce dal rapporto tra il saldo commerciale e il Pil, che è invece calcolato come la differenza tra esportazioni e importazioni in percentuale del Pil. Questo dato
è comunemente utilizzato come misura dell’apertura dell’economia di un paese agli scambi
internazionali di beni e servizi.
Secondo questo indicatore, l’Italia è moderatamente aperta agli scambi internazionali, all’incirca come Francia, Spagna e Regno Unito. La Germania è però
notevolmente più aperta. Nell’ultimo quindicennio, infatti, il valore di questo dato per l’economia tedesca aumenta di ben 23 punti percentuali, segno di un notevole processo di apertura economica.
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
INVESTIMENTI ESTERI
2001
2008
Questa tabella mostra la media
dei flussi di investimento diretto estero
UE 15
2.6
2.3
(FDI) in entrata ed uscita dai diversi
Germania
1.7
2.4
paesi europei. Questo dato è un ulteSpagna
5
4.7
riore indicatore dell’integrazione con
Francia
5.5
5.2
l’estero del sistema economico. Gli
Italia
1.6
1.3
investimenti diretti esteri sono, in
Regno Unito
3.8
4.7
Italia, di scarse dimensioni se conInvestimenti diretti esteri in rapporto al Pil
frontati con gli altri paesi europei
Fonte dati: elaborazione EUROSTAT,
e la media UE. In particolare, Gerserie [tsier130] - Market Integration - Foreign Direct Investment (FDI) intensity
mania, Francia e Regno Unito risultano
particolarmente integrate a livello internazionale da questo punto di vista.
L’attrattività di un paese per gli investimenti diretti esteri può essere considerata come un segno della fiducia degli investitori internazionali nel suo sistema economico ed istituzionale.
UE 15
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
1998
D I S E G UAG L I A N Z A
2001
2005
2008
29
25
34
28
31
32
29
25
33
27
29
35
29.9
26.1
31.8
27.7
32.8
34.6
30.4
30.2
31.3
28.1
31
34
Indice di Gini
L’indice di Gini è una comune misura di diseguaglianza dei redditi. Questo indice è compreso tra valori di 0 e 100 e cresce all’aumentare della diseguaglianza dei redditi. Esso si aggira tuttavia in un intervallo attorno al valore di 30 per tutti i paesi più avanzati.
In Italia la diseguaglianza dei redditi è abbastanza elevata, se confrontata
con la Francia o i paesi nordici. Essa è tuttavia diminuita nell’ultimo decennio. Una certa
diseguaglianza dei redditi, seppure fisiologica in un sistema economico di mercato, può ridurre
la coesione sociale. Inoltre essa può essere interpretata come segno di una certa iniquità del
sistema economico.
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
SQUILIBRI REGIONALI
<75%
>125%
2000
2007
2000
Germania
Francia
Spagna
Italia
Regno Unito
0
3
21
22
1
0
3
2
29
3
38
18
18
57
29
2007
39
18
20
25
28
Percentuale della popolazione residente in regioni al di sotto e al di sopra del reddito medio europeo
Fonte: Centro Studi Confindustria, Scenari Economici, Autunno 2010, elaborazione su dati Eurostat
L’Italia è l'unico dei principali paesi europei in cui una grande frazione della popolazione vive in regioni con un reddito pro capite al di sotto del 75% della media
europea e, allo stesso tempo, un altrettanto consistente frazione della popolazione vive in regioni significativamente più ricche della media UE (125% del reddito
pro capite). Inoltre, quest'ultima quota si è fortemente ridotta negli ultimi anni. Questa è una
diretta conseguenza dei dati visti precedentemente, in particolare dell'inferiore crescita dell'Italia rispetto agli altri paesi europei. In Spagna, la percentuale della popolazione residente in
regioni più povere della media UE si è fortemente ridotta dal 2000 al 2007. Lo scoppio della
bolla immobiliare, tuttavia, potrebbe riportare a livelli più alti questo valore. In Francia, Germania e Regno Unito, la frazione della popolazione residente in regioni il cui reddito pro capite è inferiore al 75% della media UE, è pressoché nulla.
È da notare che stiamo qui confrontando l'Italia con la media UE 27 includendo quindi
anche i paesi di più recente accesso all'UE. Se si utilizzasse come metro di confronto la media
UE 15 sarebbe ancora superiore la frazione della popolazione italiana che figurerebbe nelle
colonne di sinistra.
N A S C I TA D I I M P R E S E
2007
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
9.46
9.55
10.14
8.38
14.28
In Italia, la percentuale di nuove imprese
nate ogni anno, è inferiore a quella nei principali paesi europei. La nascita di nuove imprese è
particolarmente dinamica nel Regno Unito. La lentezza delle procedure burocratiche necessarie
per avviare un’impresa è probabilmente un fattore determinante di questo dato.
Rapporto percentuale tra il numero di nuove imprese
e quello di imprese attive
Fonte dati: EUROSTAT,
serie [tsier150] - Business demography; Birth rate
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
3. Finanza Pubblica
1995
UE 15
Belgio
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
69.7
130.4
55.6
63.3
55.5
121.5
51.2
D E B I TO P U B B L I C O
2001
2006
2007
62.3
106.6
58.8
55.5
56.9
108.8
37.7
–
88.1
67.6
39.6
63.7
106.6
43.4
–
84.2
64.9
36.1
63.8
103.6
44.5
2008
–
89.6
66.3
39.8
67.5
106.3
52.1
2009
–
96.2
73.4
53.2
78.1
116
68.2
Debito delle amministrazioni pubbliche in percentuale del Pil9
Il debito pubblico italiano è tra i più elevati in Europa e nel mondo. Questo
non accade solamente a causa della recente crisi finanziaria internazionale. Come evidenziano
i dati, questo fenomeno colpisce il paese da ormai più di quindici anni. Un paese che
nel 1995 si trovava in una situazione peggiore della nostra, il Belgio, ha avviato negli ultimi decenni un forte programma di risanamento. Questo l’ha portato, tra il 1995 e il 2008, a ridurre
il proprio rapporto debito/Pil di oltre 40 punti percentuali. In Italia, nello stesso arco di tempo,
la riduzione è stata di soli 15 punti. Essa, inoltre, sembra essere fortemente rallentata a partire dal 2001, se si esclude la parentesi del 2007.
Un elevato debito pubblico costringe ogni anno il paese a destinare una gran
parte dei suoi introiti fiscali esclusivamente alla spesa per interessi. Esso impedisce,
inoltre, l’avviamento di progetti pubblici necessari per il paese e lo espone all’andamento incontrollabile dei mercati finanziari internazionali. Per il rispetto dei parametri di Maastricht, il
debito pubblico di ogni paese europeo dovrebbe essere inferiore al 60% del proprio Prodotto interno lordo.
I dati per l’UE-15 sulla finanza pubblica a partire dal 2006 non sono disponibili a causa dell’inaffidabilità dei dati per la Grecia. Questi saranno resi disponibili da Eurostat nel corso di Novembre 2010.
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
UE 15
Belgio
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
1995
DEFICIT
2001
2006
2007
2008
2009
- 1.8
- 0.9
- 2.2
- 3.2
- 2.6
- 2.8
- 0.1
- 1.3
0.4
- 2.8
- 0.6
- 1.5
- 3.1
0.5
–
- 0.3
0.3
1.9
- 2.7
-1.5
- 2.7
–
- 1.3
0.1
- 4.2
- 3.3
- 2.7
-5
–
-6
-3
- 11.1
- 7.5
- 5.3
- 11.4
–
0.2
-1.6
2
- 2.3
- 3.4
- 2.7
Deficit delle amministrazioni pubbliche in percentuale del Pil
Fonte dati: EUROSTAT, serie [teina200] - General government deficit and surplus
I dati sul deficit e sul debito sono strettamente connessi. Solo attraverso avanzi di bilancio positivi (surplus) è possibile infatti ridurre l’ammontare del debito pubblico, mentre
l’accumularsi dei deficit, anno dopo anno, forma il debito pubblico.
La soglia da non superare per il rispetto dei parametri di Maastricht è del 3%.
Questa viene superata 5 volte dall’Italia tra il 1998 e il 2008, 4 da Francia e Regno Unito, 3 dalla
Germania e 2 dalla Spagna. Per ridurre sensibilmente il proprio debito l’Italia dovrebbe
registrare forti surplus per diversi anni, seguendo l’esempio del Belgio. Questi surplus, per
una semplice constatazione aritmetica, possono essere ottenuti solamente per mezzo di
un aumento delle tasse, già elevate, o di una riduzione della spesa pubblica.
Alternativamente, se l’Italia riuscisse ad ottenere una rapida crescita del Pil, oltre a
veder migliorare i propri standard di vita, risolverebbe il problema del debito pubblico. Essendo
questo misurato in rapporto al Pil, infatti, un aumento del Prodotto interno lordo ridurrebbe
drasticamente questo dato, senza imporre dolorose decisioni di finanza pubblica.
UE 15
Belgio
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
PRESSIONE FISCALE
1998
2002
2005
2006
2009
45.7
49.5
45.9
37.8
50.1
46.2
39.4
–
48.8
43.7
40.4
50.4
45.4
41.5
–
48.1
44.5
34.7
48.4
46.6
40.4
44.4
49.7
44.4
38.4
49.5
44.4
39.1
44.7
49.4
43.5
39.4
50.4
43.8
40.8
Entrate statali in percentuale del Pil
Fonte dati: EUROSTAT, serie [tec00021] - Total general government revenue; General government
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
La pressione fiscale italiana è in linea con quella nei principali paesi europei.
Questa è più elevata rispetto a Germania, Regno Unito e Spagna ma più ridotta rispetto a
Francia e Belgio. Si assiste, in Italia e in Germania, a un processo di riduzione della pressione fiscale che si interrompe all’incirca nel 2005, seguito da un aumento negli ultimi
anni. Sia in Belgio che in Francia, caratterizzati da una pressione fiscale piuttosto elevata, si assiste ad una certa riduzione del carico fiscale negli ultimi anni. La forte riduzione delle entrate
fiscali spagnole nel 2009 è da attribuirsi alla forte crisi economica che ha colpito questo paese.
1998
UE 15
Belgio
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
47.5
50.4
48
41.1
52.7
49.2
39.5
SPESA PUBBLICA
2002
2006
46.8
49.8
48.1
38.9
52.6
47.4
41.1
–
48.6
45.3
38.4
52.7
48.7
44.2
2007
2009
–
48.4
43.6
39.2
52.3
47.9
44
–
54.2
47.5
45.8
56
51.9
51.6
Spesa pubblica in percentuale del Pil
Fonte dati: EUROSTAT, serie [tec00023] - Total general government expenditure; General government
La spesa pubblica in Italia è piuttosto elevata. Essa è rimasta tendenzialmente stabile negli ultimi dieci anni, attorno al 49% del Pil. Essa è, dunque, inferiore rispetto a Belgio
e Francia ma maggiore di Germania, Spagna, Regno Unito e della media UE. In tutti i paesi
considerati, la spesa aumenta molto nel 2009, come conseguenza della crisi economica e dei piani di sostegno dell’economia. Questo fenomeno è decisamente
meno accentuato in Italia. La Germania ha ridotto la spesa pubblica di 5 punti percentuali
tra il 2003 e il 2007 per aumentarla di nuovo solamente nel 2009.
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
I N T E RV E N TO D E L L O S TATO
NELLA CRISI ECONOMICA
2002-2007
2008
Questa tabella mostra la differenza tra gli aiuti statali concessi all’economia nei sei anni precedenti la
UE 27
0.59
2.24
crisi finanziaria e nel 2008. Si assiste
Germania
0.80
2.68
nei principali paesi europei ad un
Irlanda
0.60
20.20
aumento nell’erogazione di aiuti
Spagna
0.50
0.56
da parte dello Stato. Questo auFrancia
0.56
1.37
mento è particolarmente forte in IrItalia
0.44
0.35
landa e nel Regno Unito, dove sono
Regno Unito
0.27
4.00
state compiute operazioni di “salvatagAiuti statali all’economia in rapporto al Pil
gio” (bailout) del sistema finanziario.
Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsier100] - State aid by type of aid; Total State aid
Anche in Germania e in Francia lo
Stato è intervenuto attivamente a sostegno dell’economia. In Italia, gli aiuti concessi nel 2008, sono stati addirittura inferiori alla media dei sei anni precedenti.
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
4. Mercato del lavoro
TA S S O D I D I S O C C U PA Z I O N E
1994
2001
UE 15
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
10.4
8.2
19.5
11.6
10.6
9.3
7.3
7.6
10.3
8.3
9.1
5
2009
9
7.5
18
9.5
7.8
7.6
Fonte dati: AMECO, serie Unemployment rate, total (ZUTN)
L’Italia compie, tra il 1994 e il 2009, una forte riduzione del tasso di disoccupazione. Questo diminuisce di quasi 3 punti percentuali, scendendo al di sotto della media
UE. Una riduzione ancora maggiore avviene in Spagna, dove si riduce di più di 9 punti tra il
1994 e il 2001. In Spagna, tuttavia, questo tasso ritorna nuovamente a livelli alti dopo la crisi
finanziaria.
Il tasso di disoccupazione è, però, da molti punti di vista una misura carente per
studiare il mercato del lavoro. Esso non tiene conto, infatti, dei diversi tipi di contratto esistenti, considerando un lavoratore con contratto “flessibile” alla pari di un lavoratore a tempo indeterminato. Inoltre, qualora un disoccupato rimanesse tale per lungo tempo
e decidesse di abbandonare i tentativi di ricerca di lavoro, esso non verrebbe più considerato
disoccupato, facendo diminuire questo dato. Si parla in questo caso di “lavoratori scoraggiati”.
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
TA S S O D I D I S O C C U PA Z I O N E
PER GRUPPI
Donne
Minori
di 25 anni
È possibile studiare il tasso di
disoccupazione riferito, piuttosto che
all’intera popolazione, ad alcuni sottogruppi di essa, come, ad esempio, le
UE 27
8.9
19.7
donne o i giovani, intesi come i minori
Germania
6.9
10.4
di 25 anni.
Spagna
18.4
37.8
Il tasso di disoccupazione
Francia
9.8
23.3
femminile italiano è più alto di
Italia
9.3
25.3
quello medio nell’Unione EuroRegno Unito
6.4
19.1
pea ma non eccessivamente. Esso è,
Fonte dati: EUROSTAT,
tuttavia, più alto di quello riscontrato
serie Unemployment rate, annual average, by sex and age groups, dati anno 2009
in Germania e Regno Unito. La condizione dei lavoratori minori di 25 anni è,
invece, più difficile. Il tasso di disoccupazione riferito ai giovani è molto alto in tutta
Europa, ad eccezione che in Germania. In Italia, però, esso è particolarmente elevato, superiore alla media UE di quasi 6 punti percentuali.
CUNEO FISCALE
1996
2002
UE 15
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
39.7
46.5
34.4
44.3
48.3
26.8
40.5
48.1
35.7
47.4
43
28.7
2008
40.8
46.6
34
45.4
43
29.7
Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsiem050] - Tax wedge on labour cost
Questo dato misura la percentuale del costo del lavoro dovuta all’imposizione fiscale,
il cosiddetto cuneo fiscale sul costo del lavoro. In Italia, il carico fiscale sui redditi da lavoro risulta superiore alla media europea.Tuttavia, esso si è notevolmente ridotto
nell’ultimo decennio, principalmente a partire dal 1998.
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
DIFFERENZA
DI SALARIO TRA I SESSI
2007
UE 15
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
18.3
23
17.1
16.9
5.1
21.1
Il gender pay gap misura la differenza tra il salario orario medio di un uomo e di una donna in rapporto al salario medio di un uomo. Questo dato è un
indicatore della discriminazione tra uomini e donne sul
posto di lavoro. Secondo questo dato, la discriminazione tra i sessi appare meno accentuata in
Italia che nel resto d’Europa.
Gender pay gap
Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsiem040]
Gender pay gap in unadjusted form
Il valore di questo indicatore
consiste nell’età in cui, in media, un lavoratore si ritira dalla forza lavoro,
UE 15
60.3
61.5
smettendo di lavorare e di cercare
Germania
60.6
61.7
un’altra occupazione. Esso è, dunque,
Spagna
60.3
62.6
un indicatore dell’età in cui, in media, i
Francia
58.1
59.3
lavoratori vanno in pensione.
Italia
59.8
60.8
In Italia, l’uscita dalla forza
Regno Unito
62
63.1
lavoro avviene all’incirca un anno
Età media di uscita dalla forza lavoro
Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsiem030] - Average exit age from the labour force
prima che nel resto d’Europa.
Questa età media è aumentata
nel corso dell’ultimo decennio ma meno che negli altri paesi europei. È, dunque, aumentato
anche il divario con la media UE e con Germania, Regno Unito e Spagna. Questo dato è particolarmente basso in Francia, dove i lavoratori vanno in pensione, in media, due
anni prima dei loro equivalenti europei. L’aumento della durata della vita e un inferiore
tasso di natalità rendono impossibile, per la sostenibilità del budget pensionistico, mantenere
contemporaneamente ai livelli passati l’età pensionabile e l’ammontare delle pensioni. Questo rende necessario, in Europa e in Italia, un ripensamento del sistema pensionistico.
U S C I TA DA L L A F O R Z A L AVO R O
2001
2008
www.italiafutura.it
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
I N C I D E N T I M O RTA L I S U L L AVO R O
1997
2007
Il numero di incidenti mortali sul lavoro è in Italia leggerUE 15
3.4
2.1
mente superiore alla media
Germania
2.7
1.8
europea. Si assiste però a un generale
Spagna
6.3
2.3
fenomeno di riduzione di questo dato
Francia
4.1
2.2
in tutti i paesi europei. Questo si riduce
Italia
4.2
2.5
in particolare di ben 4 punti in Spagna.
Regno Unito
1.6
1.3
La riduzione è più conteNumero di incidenti mortali per 100.000 lavoratori
nuta in Italia. Il fenomeno di riduFonte dati: EUROSTAT, serie [tps00043] - Fatal accidents at work: incidence rate
zione degli incidenti sul lavoro è
possibilmente dovuto a più stringenti
norme sulla sicurezza, al progresso tecnologico e ai conseguenti cambiamenti strutturali nell’apparato produttivo.
Il coefficiente di variazione dell’occupazione tra regioni è un indicatore della variabilità del tasso di
occupazione tra le diverse regioni di un
UE 15
13.8
10.5
paese o dell’Unione Europea. Questo
Germania
5.4
4.8
sarebbe pari a zero qualora l’occupaSpagna
10.8
7.5
zione fosse la stessa in ogni regione,
Francia
7.1
6.6
mentre aumenta al variare di essa.
Italia
17.4
16.3
Questo dato è uno degli Indicatori
Regno Unito
7.5
5.4
Strutturali alla base del cosiddetto ProCoefficiente di variazione dell’occupazione tra regioni
Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsisc050] - Dispersion of regional employment rates
cesso di Lisbona.
In Italia la dispersione dell’occupazione tra regioni è la più elevata in Europa, più che doppia rispetto a Germania, Francia e Regno Unito. Questo dato è segno di forti differenze nell’economia delle diverse
regioni italiane. Presumibilmente, dunque, esso è legato alle differenze, ancora persistenti,
tra l’economia del Nord Italia e quella del Sud.
DIFFERENZE REGIONALI
N E L L’ O C C U PA Z I O N E
1999
2007
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
5. Istruzione
PUNTEGGIO NEL TEST PISA
Matematica
Lettura
Media OCSE
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
498
504
480
496
462
495
495
495
469
492
461
488
Scienze
500
516
488
495
475
515
Fonte dati: OECD, PISA Country Profiles, http://pisacountry.acer.edu.au
Il test PISA, organizzato dall’OCSE nel 2006, valuta la performance scolastica degli studenti quindicenni in diversi paesi. La performance media italiana è inferiore alla media
OCSE e dei principali partner europei in tutti i principali ambiti misurati.
NUMERO DI ALUNNI
PER INSEGNANTE
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
16.7
11.2
14.4
10.7
15.7
Fonte dati: EUROSTAT, serie Teachers and trainers;
age distributions - pupils to teachers ratio, educ_thpertch
Si può notare come la scarsa performance italiana nell’istruzione, evidenziata nella tabella riferita ai
dati PISA, avvenga nonostante un basso numero di
alunni per insegnante, come dimostra il confronto
con gli altri paesi europei. È dunque probabile che, al
fine di migliorare la prestazione scolastica degli alunni
italiani, non si debba ricorrere ad un aumento del numero di insegnanti, apparentemente già elevato, quanto
piuttosto a modifiche strutturali nel modo in cui
l’istruzione è amministrata.
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
ABBANDONO SCOLASTICO
1999
2009
L’Italia è uno dei paesi europei
con il più grave fenomeno di abbanUE 15
20.5
15.9
dono scolastico. Una notevole fraGermania
14.9
11.1
zione dei giovani abbandona
Spagna
29.5
31.2
l’istruzione senza una qualifica di
Francia
14.7
12.3
scuola secondaria superiore. Il conItalia
27.2
19.2
fronto con Francia, Germania e Regno
Regno Unito
19.8
15.7
Unito è notevole. Con ogni probabilità,
Percentuale della popolazione tra i 18 e i 24 anni
queste persone si troveranno
con al più una qualifica di scuola media inferiore
sotto-qualificate nel mercato del
Fonte dati: EUROSTAT,
serie [tsisc060] - Early school-leavers - Percentage of the population aged 18-24
lavoro ed avranno difficoltà ad inserirwith at most lower secondary education and not in further education or training
cisi, specialmente nei settori più dinamici e con maggior domanda di abilità
intellettuali. Come conseguenza, l’Italia si ritroverà in futuro in possesso di una forza lavoro
dotata di scarso capitale umano. Questo renderà ancora più difficile per il nostro paese
raggiungere i livelli di reddito delle economie più avanzate.
L A U R E AT I I N M AT E R I E
SCIENTIFICHE
2007
UE 27
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
13.8
11.4
11.2
20.7
12.1
17.5
Numero di laureati in matematica, scienze e tecnologia
per 1000 abitanti tra 20 e 29 anni
Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsiir050] - Science and technology
graduates by gender; Graduates (ISCED 5-6) in mathematics,
science and technology per 1 000 of population
aged 20-29, since 1993
La percentuale di laureati in materie
scientifiche è in Italia inferiore alla media UE27, oltre che a Francia e Regno Unito. Sorprende il
dato riferito alla Germania, dove i laureati in queste
materie sono ancor meno che in Italia.
Si può pensare che i laureati in materie tecnicoscientifiche possano offrire un maggior contributo rispetto al resto della popolazione in quei settori ad
alto livello tecnologico ritenuti maggiormente
importanti per determinare la crescita e la
competitività di un paese. Un simile dato può,
quindi, fungere da indicatore parziale del livello di
Capitale Umano di ogni paese.
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
C U LT U R A
Euro
UE 15
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
1124
1374
562
1079
583
1475
%
4.5
5.4
3.3
4.2
2.4
4.9
Consumo di prodotti culturali
(in Euro e in percentuale del consumo totale, anno 1999)
Fonte dati: EUROSTAT, Average annual cultural expenditure per household
Secondo questo dato, gli italiani dedicano una piccolissima
frazione del proprio consumo ai
prodotti culturali. L’immagine frequentemente presentata dell’Italia
come paese della cultura e delle arti
appare in contrasto con le abitudini di
consumo dei suoi abitanti. La spesa
per consumo di prodotti culturali
dell’italiano medio è all’incirca la
metà di quella media UE, sia in termini percentuali che assoluti.
Questi dati, tratti da un lavoro
precedente di Costanza Rodriguez
2000
d’Acri per Italia Futura e risalenti alGermania
-194 234
147 586
l’anno 2000, mostrano come in Italia
Spagna
36 561
52 703
sia particolarmente rilevante il fenoFrancia
74 342
301 973
meno del brain drain. Questo consiste
Italia
-242 799
-243 868
in un deflusso di personale altaRegno Unito
-595 522
-214 360
Flusso di lavoratori qualificati verso l’estero
mente qualificato dal paese d’oriFonte tabella: Costanza Rodriguez d’Acri,
gine verso l’estero. Valori negativi
Italia 1994-2009: i numeri, Gli italiani oggi? Cambiamenti istituzionali e sociali
Fonte dati: World Bank, International Migration Dataset
indicano un deflusso, mentre valori positivi indicano che il paese attrae personale qualificato dall’estero (brain gain). La cosiddetta fuga di cervelli assume dimensioni
particolarmente drammatiche se confrontata con l’andamento negli altri paesi europei che,
dal 1990 al 2000, sono riusciti ad invertire la direzione del fenomeno, come nel caso della
Germania. Secondo questi dati, la Francia aumenta di molto in questi dieci anni la propria capacità di attrarre talenti, mentre il Regno Unito ne riduce il deflusso. Si ritiene comunemente che il fenomeno si sia particolarmente aggravato in Italia negli ultimi dieci
anni. Questo comporterebbe una grave perdita di capitale umano per il nostro paese e, dunque, forti danni in termini di crescita, prodotto pro capite e standard di vita.
BRAIN DRAIN
1990
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
6. Istituzioni e Concorrenza
CORRUZIONE
Classifica
L’indice di corruzione presentato, compilato ogni anno dall’associaDanimarca
1
9.3
zione internazionale Transparency
Irlanda
14
8.0
International, misura la percezione
Germania
15
7.9
del livello di corruzione nel setRegno Unito
20
7.6
tore pubblico in 178 paesi del mondo.
Francia
25
6.8
Il punteggio attribuito ad ogni paese va
Slovenia
27
6.4
da 0, per un paese “molto corrotto”, a
Spagna
30
6.1
10, per un paese “pulito”. È riportata
Portogallo
32
6.0
inoltre la posizione di ogni paese nella
Turchia
56
4.4
classifica globale di tutti i paesi inclusi
Italia
67
3.9
nello studio.
Grecia
78
3.5
La performance dell’Italia è
Indice di Percezione della Corruzione 2010
Fonte dati: Transparency International, Corruption Perceptions Index 2010
pessima. L’Italia è il penultimo paese
dell’UE 15, seguita solamente dalla
Grecia. Inoltre, il nostro paese è superato da numerosi paesi “emergenti” come
ad esempio Turchia e Slovenia, in Europa, e numerosi paesi africani ed asiatici,
come Botswana, Ghana, Ruanda, Malesia e Taiwan.
Questo dato consiste in un indicatore composito, basato sulla percezione del livello di
corruzione nel mondo. Sebbene ampiamente citato, la sua metodologia è stata recentemente
criticata dall’Ocse, secondo cui ci sarebbe il rischio che questi dati siano distorti da pregiudizi di diverse forme10.
10
Punteggio
OECD Development Centre, Policy brief No. 39, Measuring Governance, di Charles P. Oman e Christiane Arndt
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
AT T I V I T À P R O F E S S I O N A L I
1996
2003
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
4.17
3.41
1.84
3.30
1.36
3.08
2.36
1.90
3.66
1.05
2008
2.85
2.06
2.11
3.23
0.74
Fonte dati: OECD, serie Professional Services
Questo dato è un indicatore del grado di regolamentazione riguardante l’accesso e lo
svolgimento di attività professionali come la professione legale, contabile, ingegneristica e l’architettura. Valori più elevati indicano la presenza di una regolamentazione più forte.
Tra i paesi considerati, l’Italia è quello con la più stringente regolamentazione di queste attività, mentre è nel Regno Unito che esse sono maggiormente
liberalizzate. Inoltre, in Germania, Spagna e Regno Unito il grado di regolamentazione si è
ridotto negli ultimi anni, mentre è rimasto pressoché costante in Italia.
P R E Z Z I D E L L’ E N E R G I A
1994
2001
UE 15
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
0.114
0.126
0.106
0.103
0.159
0.101
0.103
0.122
0.086
0.091
0.157
0.100
2007
0.121
0.143
0.100
0.092
0.166
0.125
Unità: Euro/kilowattora al netto delle tasse
Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsier040] - Electricity prices by type of user; Medium size households
Il costo dell’energia per l’uso domestico è piuttosto elevato in Italia. Questo
può essere dovuto, oltre a problemi strutturali come l’assenza di materie prime o la mancata
produzione di energia nucleare, a una scarsa concorrenza nel settore dei servizi. La presenza di scarsa concorrenza nel settore dei servizi consiste in una grave inefficienza del sistema
produttivo. A causa di essa, ingenti risorse vengono trasferite dai settori competitivi
a quelli caratterizzati da rendite di posizione. Sarebbe opportuno che lo Stato si impegnasse attivamente per aumentare la competizione laddove assente, con probabili benefici
per la maggior parte degli abitanti del paese.
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
FIDUCIA NELLE ISTITUZIONI
Si fida
Non si fida
UE 27
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
31
62
39
54
21
71
36
57
26
62
24
69
Fiducia nel Parlamento nazionale (%)
Non sa
7
7
8
7
12
7
Fonte dati: Commissione Europea, Eurobarometro, Standard Eurobarometer 73, QA14.2+3+4, Maggio 2010
FIDUCIA NELLE ISTITUZIONI
Si fida
Non si fida
UE 27
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
29
66
32
64
20
76
25
71
25
64
26
69
Fiducia nel Governo (%)
Non sa
5
4
4
4
11
5
Fonte dati: Commissione Europea, Eurobarometro, Standard Eurobarometer 73, QA14.2+3+4, Maggio 2010
FIDUCIA NELLE ISTITUZIONI
Si fida
Non si fida
UE 27
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
42
47
37
54
43
44
39
51
42
41
20
68
Fiducia nel nell’Unione Europea (%)
Non sa
11
9
13
10
17
12
Fonte dati: Commissione Europea, Eurobarometro, Standard Eurobarometer 73, QA14.2+3+4, Maggio 2010
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
Le rilevazioni dell’Eurobarometro mostrano come la fiducia degli italiani
nelle istituzioni nazionali sia leggermente inferiore a quella della media dell’Unione Europea. I cittadini tedeschi appaiono particolarmente fiduciosi nel proprio governo, il cui partito di maggioranza, la CDU, è stato riconfermato al potere nelle elezioni che
si sono svolte pochi mesi prima di questo sondaggio. I francesi si distinguono invece per una
fiducia superiore alla media nelle loro istituzioni parlamentari. I cittadini spagnoli appaiono
particolarmente sfiduciati nei confronti delle loro istituzioni politiche.
La fiducia degli italiani nell’Unione Europea è ancora piuttosto alta, superiore a quella dei cittadini dei principali paesi europei, con l’eccezione della Spagna. Su questo
tema, però, è grande la frazione degli italiani che non si sente in grado di dare una risposta,
ben il 17% dei rispondenti al sondaggio. I cittadini britannici si distinguono per una
scarsissima fiducia nelle istituzioni europee, oltre che nel proprio governo e parlamento. È da notare che anche nel Regno Unito si sono svolte elezioni nel Maggio 2010 che
hanno tuttavia portato ad un cambiamento nel partito di governo.
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
7. Innovazione
RICERCA E SVILUPPO
2001
2008
INTERNET
2003
2009
L’innovazione tecnologica è
ritenuta il fattore più determinante
UE 27
1.86
1.9
per la crescita del Pil. Essa determina
Germania
2.46
2.63
a sua volta l’aumento degli standard di
Spagna
0.91
1.35
vita in un paese. Pertanto la spesa in R&D
Francia
2.2
2.02
è un indicatore molto importante per
Italia
1.09
1.18
comprendere l’andamento economico
Regno Unito
1.79
1.88
nel lungo periodo di un paese.
Frazione del Pil spesa in attività di Ricerca e Sviluppo (R&D)
Fonte dati: EUROSTAT, serie Gross domestic expenditure on R&D (GERD)
La spesa in R&D è molto
scarsa in Italia, di molto inferiore
a quella di tutti gli altri paesi europei. La Germania, in particolare, dedica una consistente frazione del proprio Pil all’innovazione tecnologica. Se l’Italia desidera competere con
le economie più avanzate, sarà necessario investire nella produzione di conoscenza e nell’avanzamento della frontiera tecnologica del nostro paese.
UE 15
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
43
54
28
31
32
55
68
79
54
63
53
77
Percentuale di famiglie con accesso ad Internet
Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsiir040] - Level of Internet access – households
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
È ancora scarso in Italia l’accesso delle famiglie alla rete. Solo il 53% di esse dispone di accesso ad Internet in casa, 15 punti percentuali in meno che nella media UE e ben
26 in meno che in Germania. Le potenzialità offerte dalla rete sono ormai ben note. Essa può
avere un notevole effetto migliorativo delle condizioni di vita, garantendo l’accesso a
migliori informazioni e ad una maggiore scelta di beni e servizi, influendo anche sul livello della
concorrenza. Essa può permettere, inoltre, una semplificazione delle procedure amministrative e un migliore controllo delle attività dei governanti. Sarebbe opportuno che la politica avviasse un’opera di incentivazione dell’accesso alla rete. In questo senso, sarebbero auspicabili
una semplificazione della creazione di reti wifi pubbliche, un miglioramento delle
condizioni di concorrenza o persino un investimento diretto dello Stato nella creazione
di infrastrutture per le connessioni ad alta velocità.
BREVETTI
1994
2001
UE 27
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
62.17
153.01
10.01
84.47
41
63.47
105.06
264.44
21.28
118.83
69.37
94.53
2007
116.54
290.7
32.62
132.37
86.37
89.16
Numero di domande presso l’ufficio brevetti europeo
Unità: domande di brevetti per milione di abitanti
Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsiir060] - Patent applications to the European Patent Office (EPO)
La domanda di brevetti da parte di aziende e cittadini italiani è molto inferiore alla media UE. Questo dato è segno di una scarsa produzione di innovazione di
tipo brevettabile. Il dato non è sorprendente vista l’inferiore quantità di risorse investita in
Ricerca e Sviluppo in Italia rispetto ad altri paesi. È inoltre possibile che, a causa della particolare struttura produttiva del nostro paese, parte dell’innovazione prodotta consenta un miglioramento dei processi produttivi ma, per le sue innate caratteristiche, non possa essere
soggetta a brevetto. Germania e Francia sono caratterizzate da una forte domanda di brevetti,
segno di una vivace produzione di innovazione tecnologica.
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
8. Popolazione
P E R C E N T UA L E D E L L A
POPOLAZIONE
A R I S C H I O D I P OV E RT À
2008
UE 27
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
16.5
15.2
19.6
13.3
18.7
18.8
Il tasso di rischio di povertà è definito da Eurostat come la percentuale della popolazione che vive
con un reddito disponibile al di sotto del 60% della
mediana11 nazionale. Questo indicatore tiene conto
dell’effetto redistributivo compiuto dai trasferimenti
sociali. In Italia, la percentuale della popolazione
a rischio di povertà è elevata, al di sopra della
media europea.
Tasso di rischio di povertà dopo i trasferimenti sociali
Fonte dati: EUROSTAT,
serie At-risk-of-poverty after social transfers; Percentage
E F F E T TO D E L L ' I N T E RV E N TO P U B B L I C O
S U L L A P OV E RT À
1995
2001
2008
UE 27
Danimarca
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
–
–
-7
-8
-11
-3
-12
–
-19
-10
-4
-13
-3
-10
- 8.6
-16
-9
- 4.5
- 9.8
- 4.7
-10.2
Cambiamento nel tasso di rischio di povertà in seguito ai trasferimenti sociali
Fonte dati: elaborazione su dati EUROSTAT,
serie At-risk-of-poverty after social transfers; Percentage, At-risk-of-poverty before social transfers; Percentage
11
http://epp.eurostat.ec.europa.eu/statistics_explained/index.php/Glossary:At-risk-of-poverty_threshold
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
Questo dato consiste nella differenza tra la percentuale della popolazione a rischio di
povertà prima e dopo l’intervento dei trasferimenti sociali. Un valore fortemente negativo indica un’efficace riduzione del rischio di povertà ad opera del sistema di trasferimenti.
Questo indice è molto scarso per l’Italia, segno evidente di un’incapacità del sistema pubblico italiano di ridurre il rischio di povertà. L’indicatore è molto al di sotto
della media europea, oltre che dei valori registrati da Francia, Germania e Regno Unito. Si può
notare come nei paesi nordici, tra cui la Danimarca inclusa a titolo di esempio, i trasferimenti
pubblici compiano una notevole attività di riduzione del rischio di povertà.
NUMERO DI FIGLI
PER DONNA
2007
UE 27
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
1.56
1.37
1.40
1.98
1.37
1.90
Tasso di fecondità totale
Fonte dati: EUROSTAT, serie Fertility indicators (demo_find)
12
Il tasso di fecondità totale (Total fertility rate) è un
indicatore della fertilità media di una donna in un
paese. Esso descrive il numero medio di figli che
avrebbe una donna nell’arco della sua vita ed è pertanto anche detto numero medio di figli per donna12.
Il tasso di fecondità totale è in Italia inferiore alla media UE, Regno Unito e Francia, in linea
con Spagna e Germania. Certamente, fattori economici
e culturali possono influire su un simile dato, che può
però rappresentare un semplice indicatore della fiducia nel futuro.
Una definizione più esatta è disponibile su Wikipedia: http://en.wikipedia.org/wiki/Total_fertility_rate (inglese)
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Giovani, al lavoro! Le proposte di Italia Futura per l’occupazione giovanile
G I OVA N I
18-24
Donne
Uomini
UE 27
Danimarca
Germania
Spagna
Francia
Italia
Portogallo
Regno Unito
71
27.1
70.8
84.8
57.7
82.5
82.8
64.2
81.5
40.4
83.5
87.8
65.9
91.8
91.6
75.6
25-34
Donne
Uomini
19.6
0.5
9.2
29.8
8
32.7
34.9
10.5
32
2.8
18.7
41.1
13
47.7
47.6
20
Percentuale di giovani adulti residenti con i propri genitori
Fonte dati: EUROSTAT, newsrelease 8 ottobre 2010, One in three men and one in five women aged 25 to 34 live with their parents,
http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_PUBLIC/3-08102010-AP/EN/3-08102010-AP-EN.PDF
I dati mostrano, disaggregando per sesso e per fasce di età, la percentuale di giovani residenti con i propri genitori nei principali paesi europei nel 2008.
Per l’Italia questo dato è superiore alla media UE per ambo i sessi e per
tutte le fasce di età considerate. Il dato è molto probabilmente influenzato da fattori culturali, come testimoniato dalla somiglianza del dato italiano a quello spagnolo o greco.
I dati per la fascia di età più “anziana” sono probabilmente i più preoccupanti. In Italia,
quasi un uomo su due tra i 25 ed i 34 anni vive con i propri genitori. Questo fenomeno è praticamente inesistente nei paesi nordici o di dimensioni molto ridotte in Francia,
Germania o Regno Unito.
POPOLAZIONE
CARCERARIA
2007
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
89.1
150.9
94.9
82.3
145.8
La popolazione carceraria per abitante in
Italia è piuttosto scarsa se confrontata con gli
altri principali paesi europei. Questo fa pensare
che le cattive condizioni del sistema carcerario, più
volte documentate, non siano dovute a uno straordinario numero di detenuti quanto piuttosto a una carenza delle infrastrutture carcerarie.
Numero di carcerati per 100.000 abitanti
Fonte dati: elaborazione su dati EUROSTAT,
serie crim_pris-Prison population e demo_pjan-Population
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STRANIERI
1999
La frazione della popolazione di origine straniera resiUE 27
–
6.2%
dente è inferiore in Italia rispetto
Germania
8.9%
8.8%
a quella registrata nella media dei
Spagna
1.6%
11.6%
paesi europei. Questo dato, tuttavia, è
Francia
5.4%
5.7%
rapidamente aumentato negli ultimi
Italia
2.0%
5.8%
anni, quasi il triplo rispetto a dieci
Regno Unito
3.9%
6.6%
anni fa. Oggi, in Italia, la percentuale della popolazione straniera
Percentuale di residenti stranieri
è superiore a quella riscontrata in
Fonte: elaborazione su dati EUROSTAT,
Francia, paese più comunemente asserie [tps00157] - Population by citizenship – Foreigners e [tps00001] - Total population
sociato ai fenomeni di massiccia immigrazione. È possibile che il dato francese sottostimi la percentuale di residente di origine
straniera, visto che non si considera qui straniero chiunque abbia ottenuto la cittadinanza
francese, dunque gli immigrati di seconda e terza generazione.
L’accurata gestione delle politiche di immigrazione appare come una delle principali
sfide per la politica. Il malcontento frequentemente registrato in Italia nei confronti
degli stranieri è probabilmente dovuto a questo improvviso aumento della loro
presenza e a una mancata comprensione delle motivazioni e delle dimensioni dei
flussi migratori internazionali.
2008
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9. Salute
OBESITÀ
Uomini
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
20.5
15.7
16.1
7.4
24
Donne
21.1
15.4
17.6
8.9
24
Percentuale della popolazione obesa
Fonte dati: Organizzazione Mondiale della Sanità, World Health Statistics 2010
TA B A C C O
Uomini
Germania
Spagna
Francia
Grecia
Italia
Regno Unito
37.2
37.0
36.4
63.4
34.0
26.1
B E VA N D E A L C O L I C H E
2007
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
11.7
10.0
13.2
8.0
11.5
Consumo di bevande alcoliche per persona
Unità: Litri di alcol puro per persona per anno
Fonte dati: Organizzazione Mondiale della Sanità,
World Health Statistics 2010
Donne
25.7
27.2
26.9
39.4
19.5
23.5
Percentuale di fumatori
Unità: Percentuale di fumatori tra i maggiori di 15 anni
Fonte dati: Organizzazione Mondiale della Sanità, World Health Statistics 2010
Questi dati sulla salute restituiscono un’immagine dell’Italia come paese più “sano”
rispetto ai suoi principali vicini. Rispetto agli altri paesi considerati, l’Italia si distingue,
infatti, per un’inferiore incidenza dell’obesità, per un minore consumo di alcool e
per una minore percentuale di fumatori, principalmente tra le donne.
Queste più sane abitudini degli italiani possono certamente contribuire ad allungare la
loro vita e a migliorarne la qualità. Inoltre, per mezzo di un aumento delle condizioni generali
di salute, possono contribuire ad alleggerire il costo del sistema sanitario nazionale.
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D U R ATA D E L L A V I TA
Uomini
Donne
L’aspettativa di vita alla nascita
costituisce il principale indicatore riGermania
76.4
82.0
guardo la durata attesa della vita di un
Spagna
77.7
84.1
abitante medio di ciascun paese. BisoFrancia
77.2
84.1
gna sottolineare, come questo dato,
Italia
78.3
84.0
tenda a sottostimare la durata massima
Regno Unito
77.0
81.3
della vita degli abitanti di un paese.
Aspettativa di vita alla nascita
Dalla tabella si nota come questo
Fonte dati: OECD, Dataset Gender, Institutions and Development Database 2009 (GID-DB)
dato sia sostanzialmente omogeneo per tutti i paesi inclusi nel nostro campione. Questo è segno di un livello sostanzialmente molto simile nelle condizioni di
salute generali della popolazione. In Italia, Francia e Spagna, l’aspettativa di vita è leggermente
superiore a quella in Germania e Regno Unito, soprattutto per quanto riguarda le donne.
S I S T E M A S A N I TA R I O
Posizione
Francia
Italia
Spagna
Regno Unito
Germania
1
2
7
18
25
Classifica internazionale dei sistemi sanitari
Fonte dati: WHO,
Measuring Overall Health System Performance
For 191 Countries, Tandon, Murray, Lauer, Evans
Secondo questa classifica, presentata in uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità con dati
risalenti all’anno 2000 ed ampiamente citata, il sistema
sanitario italiano è il secondo al mondo per livello di efficienza. Questo dato sembra, dunque,
contraddire il malcontento frequentemente registrato
nei confronti del sistema sanitario nazionale. In particolare, secondo questa classifica, gli Stati Uniti sarebbero solamente il trentasettesimo paese mondiale per
livello di efficienza del sistema sanitario.
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10. Ambiente
A U TO M O B I L I
1996
2001
UE 15
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
435
500
373
427
536
392
480
538
443
467
583
435
2006
506
566
464
489
597
471
Numero di auto per 1.000 abitanti
Fonte dati: EUROSTAT, serie road_eqs_carhab-Passenger cars per 1000 inhabitants
L’Italia è il paese europeo13 con il maggior numero di automobili per abitante. Questo dato potrebbe essere comprensibile qualora il Pil pro capite italiano fosse notevolmente più elevato di quello degli altri paesi europei. Dato che il Pil italiano è invece
inferiore a quello dei principali paesi europei, deduciamo che gli italiani spendono per le
automobili una frazione ancora maggiore del proprio reddito. Questo dato potrebbe
segnalare una carenza di servizi di trasporto pubblico, o altri fattori, di tipo culturale e
geografico, che spingono gli italiani a comprare molte più auto degli altri cittadini europei.
13
Ad eccezione del Lussemburgo, le cui caratteristiche lo rendono però non confrontabile con gli altri paesi.
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E N E R G I E R I N N OVA B I L I
2008
2020
UE 27
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
10.3
9.1
10.7
11
6.8
2.2
20
18
20
23
17
15
Uso di energie rinnovabili
Unità: percentuale di energie rinnovabili nel consumo finale di energia
Fonte dati: EUROSTAT,
serie [t2020_31] - Share of renewable energy in gross final energy consumption
I N Q U I N A M E N TO D E L L’ A R I A
2001
2008
UE 27
Bulgaria
Germania
Spagna
Francia
Italia
Finlandia
Regno Unito
27.1
28.6
24.9
30.6
21.9
31.1
16.4
24.2
26.8
52.7
21.1
27.7
24.1
34.3
14.3
20.4
Esposizione all’inquinamento da particolato
Unità: concentrazione nell’aria
Fonte dati: EUROSTAT,
serie [tsien110] - Urban population exposure to air pollution by particulate matter
L’utilizzo di energie rinnovabili è ancora piuttosto scarso in
Italia. Questo avviene nonostante la
carenza di materie prime dovrebbe
spingere il nostro paese ad adottare sistemi alternativi di produzione di energia. Nella colonna per il 2020 è indicato
l’obiettivo previsto dalla strategia Europe 2020. Tutti i paesi europei
sono ancora piuttosto lontani dal
raggiungere quest’obiettivo, ma
questo è vero in particolar modo
per l’Italia.
L’esposizione all’inquinamento
da particolato è molto elevata nel nostro paese, superiore alla media UE.
Inoltre la concentrazione nell’aria
di questo componente è aumentata negli ultimi anni, a differenza
di quanto avvenuto, ad esempio,
in Germania, Regno Unito e Spagna. Questo dato è indicatore di una
scarsa qualità della vita nelle città italiane e, in particolare, di gravi rischi
per la salute.
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TA S S E S U L L’ A M B I E N T E
1994
2001
UE 25
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
5.92
5.96
5.91
8.78
8.02
6.73
6.31
6.22
5.31
7.13
7.6
2008
6.06
5.65
4.93
4.92
5.68
6.49
Percentuale delle entrate fiscali dovuta a tasse ambientali14
Fonte dati: EUROSTAT, serie [tsdgo410] - Shares of environmental and labour taxes in total tax revenues
Le tasse sull’ambiente sono frequentemente proposte15 come soluzione ai problemi
di finanza pubblica e, allo stesso tempo, come metodo per incentivare la ricerca e
la crescita nei settori “verdi” a minore impatto ambientale. Questo è quanto suggerito anche dalla ricerca economica sul tema delle esternalità secondo cui, qualora
possibile, sarebbe auspicabile tassare quelle attività che procurano un danno alla
collettività.
L’Italia si distingueva negli anni Novanta per un’elevata frazione del gettito pubblico derivante dalle tasse ambientali. Questa frazione è tuttavia costantemente diminuita negli ultimi quindici anni, fino ad arrivare al di sotto della media UE. Il Regno
Unito è, invece, uno dei paesi che maggiormente si affida alle tasse sull’ambiente come strumento di finanza pubblica.
14 Le tasse ambientali sono definite da Eurostat come quelle tasse che incidono su attività dannose per l’ambiente. Esse includono
dunque le tasse sull’energia, sui trasporti e sull’inquinamento.
15 Secondo il Segretario Generale dell’OCSE, Angel Gurría, “spostare parte del carico fiscale sull’inquinamento renderebbe più attraente lo sviluppo e l’adozione delle tecnologie pulite e promuoverebbe la crescita verde”.
Fonte: http://www.oecd.org/document/1/0,3343,en_2649_37465_46177473_1_1_1_1,00.html
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Impaginazione: [email protected]
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finito di stampare
nel mese di novembre 2010
Italia Futura
È un luogo di ideazione civile, nato
per promuovere il dibattito pubblico
oltre le patologie di una transizione
politica ormai ripetitiva.
È uno strumento di libera
progettazione sul futuro del paese,
che vuol dar voce a chi non si
rassegna a contribuire alla vita
pubblica solo il giorno delle elezioni.
Stefano Micelli
Insegna Economia e Gestione delle Imprese
all'Università Cà Foscari di Venezia e dirige
la Venice International University.
È un incubatore per le idee
e i progetti che nascono dalla
conoscenza dei problemi reali
e dalla passione civile di singoli
cittadini e di altre realtà associative.
Marco Simoni
Insegna economia politica alla London School
of Economics, dove è coordinatore del Master
in Public Administration in European Public
and Economic Policy.
i
f
italiafutura
www.italiafutura.it
Irene Tinagli
[email protected]
Insegna all'Università Carlos III di Madrid,
è esperta di innovazione, creatività e sviluppo
economico.