Lager d`Italia Non c`erano camere a gas e nemmeno lavori forzati

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Lager d`Italia Non c`erano camere a gas e nemmeno lavori forzati
Lager d’Italia
Non c’erano camere a gas e nemmeno lavori forzati, ma si moriva lo stesso. Semplicemente di
fame e di malattie. Toccò a decine di migliaia di internati sloveni e croati. Perché i campi
fascisti ubbidivano agli stessi imperativi di quelli hitleriani: terra bruciata, pulizia etnica,
spazio vitale alla razza vincitrice. Nuovi documenti e un libro abbattono per sempre il mito
della “brava gente”
I volenterosi carnefici del Duce
di Paolo Rumiz – La Repubblica
Stessi corpi nudi, stessi occhi vuoti, scheletri senza natiche e pance gonfie come tamburi. Certo, non era
Auschwitz, non c’erano camere a gas, e nemmeno lavori forzati. Ma si crepava egualmente, come
mosche. A fare il lavoro bastava la fame, il freddo, la malaria, le cimici, la scabbia, la dissenteria, il tifo
petecchiale. Bastavano le punizioni, le adunate, la paura di essere prelevati come ostaggi per le
fucilazioni di rappresaglia. Dentro il filo spinato non c’erano ebrei, polacchi, ucraini. C’erano sloveni e
croati, ma la sporcizia e il tanfo erano gli stessi. Sulle torrette di guardia stavamo noi, “italiani-bravagente”, non i tedeschi, ma l’imperativo categorico era identico. Fare terra bruciata, annientare quegli
uomini-pidocchi, bonificare le terre del nemico, pulirle etnicamente, offrire spazio vitale alla razza
egemone. Non ci furono solo i campi di Hitler. Anche l’Italia ha avuto i suoi. Nel territorio nazionale,
incluse le aree jugoslave annesse nella primavera del 1941, i lager furono ben centosedici, e i più
malfamati vennero destinati alla “razza slava”. Fino all’8 settembre del ’43 inghiottirono decine di
migliaia di persone, in gran parte vecchi, donne e bambini, talvolta neonati, dei quali morirono di stenti
quasi uno su tre. Dei croati – i più numerosi – abbiamo dati approssimativi, ma sappiamo che i soli
sloveni furono ventiquattromila, dei quali settemila non tornarono. Tanti, per un popolo di un milione
e mezzo di abitanti. Centosedici furono i campi del Duce, ma solo quattro monumenti fuori-circuito
ricordano la sofferenza dei deportati: a Roma, San Sepolcro, Barletta e Gonars in Friuli. Per loro,
nessun giorno della memoria. Nessun accenno sui libri di scuola. Un tema tabù, dove s’è cercato per
anni, con pochi mezzi e scarsa pubblicità. Le testimonianze, terribili, ci sono: le hanno raccolte studiosi
come Costantino Di Sante, Spartaco Capogreco, Tone Ferenc, Eric Gobetti, ma sono sempre rimaste
una cosa di nicchia, non sono mai entrate nella coscienza nazionale. Ora altre voci bucano la cortina del
silenzio. Lettere di donne recluse, ritrovate negli archivi della Prefettura di Udine, dove ha funzionato
l’ufficio-censura dell’esercito di Mussolini. Lettere mai inoltrate al destinatario; invocazioni disperate di
nonne, ragazze, madri, che spesso non hanno commesso nulla e non sanno perché sono state internate.
E poi i racconti delle ultime sopravvissute, che a distanza di sessantacinque anni hanno scelto di
rompere la diga del dolore. Un materiale terribile, raccolto da Alessandra Kersevan nel libro Lager
italiani, ora in pubblicazione per conto della casa editrice Nutrimenti. Un testo da leggere, se vogliamo
fare i conti con noi stessi. Marija Poje è di Stari Kot, paese completamente distrutto dai nostri dopo la
deportazione degli abitanti. Nel febbraio del ’42 viene internata sull’isola di Arbe (Rab) dove funziona il
campo più grande della Dalmazia. Il motivo ufficiale è: protezione dalle incursioni partigiane. In realtà è
una forma di brutale occupazione. Marija ha un bimbo di tredici mesi ed è anche incinta. Al campo,
racconta, “non avevamo niente da mangiare e i bambini piangevano terribilmente… ci hanno messo
sotto tende militari… e anche lì era solo pianto e gemito di bambini”. Poi il trasferimento a Gonars,
dove la fame comincia a uccidere. Inedia, freddo, assenza di medicine. Come cibo solo brodaglia e un
pezzo di pane grande “come un’ostia”. Racconta Marija, oggi ottantenne: “A me poi è morto questo
bambino appena nato, mi è morto questo figlio della fame e del freddo… Era magro, solo ossicini, era
come un coniglietto. Due giorni di agonia prima di chiudere gli occhi. E proprio quel giorno per la
prima volta gli avevano dato… un po’ di latte freddo. Ha avuto il latte la prima volta quando è morto.
Poi l’hanno portato via ed ero così malridotta che non ho potuto accompagnarlo nemmeno sulla porta
della baracca. Sono rimasta là. E ancora adesso ho questo desiderio spaventoso, il desiderio di quella
volta. Il ricordo dei giorni terribili in cui ho desiderato che morisse prima di me… io non ho potuto
andare là, non sapevo neanche dove fosse sepolto”. Stanka è una slovena di origine rom che oggi vive
in Friuli. I suoi genitori con otto figli vennero internati ad Arbe e poi a Gonars. La testimonianza è
raccolta da Andrea Giuseppini, autore di un documentario sulla deportazione degli zingari nei campi
fascisti. “Ci hanno portato in carcere a Lubiana, poi ci hanno portato in questa isola… Rab, in
Dalmazia sarebbe… Tanta di quella fame… Non ierano baracche, nelle tende e dentro buttata paglia e lì
si dormiva come le bestie. Ieramo in tanti, cinquemila, forse anche di più. I bambini morivano di fame. I
piccoli neonati li nascondevamo sotto la paglia perché prendevamo il rancio su di loro…
Nascondevano i bambini morti per prendere il mangiare che dopo mangiavano quegli altri”. Bambini
nudi e scalzi anche d’inverno che rovistano tra i rifiuti di cucina, mortalità spaventosa, tisici, gente senza
mani, senza gambe, quasi ciechi. I medici del campo protestano, chiedono più cibo e medicine, ma
l’ordine dall’alto è “affamare”. Il 17 dicembre 1942, il generale Gastone Gambara, comandante del XI
Corpo d’Armata, annota a mano su un foglio che ci è giunto intatto: “Logico ed opportuno che campo
di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta
tranquillo”. Anche le medicine non servono, fa notare il capo del campo di Gonars, colonnello
Vicedomini. Bastano “fasce addominali di flanella”, consiglia agli infermieri, che vengono accusati di
favoreggiamento al nemico. Crudeltà gratuite, per le quali nessuno ha pagato, alla fine della guerra.
Francesca Turk, un’altra detenuta la cui lettera è stata bloccata dalla censura: “Caro fratello, non so se ci
rivedremo oppure se moriremo prima… periremo di freddo e di fame… viviamo nei patimenti e nella
paura. Ti scongiuro di mandarmi un po’ di pane secco, perché temo per la mia vita e quella dei miei
bambini… Ogni giorno muoiono da cinque a sei persone; periscono anche i giovani, come le
pannocchie. Fa freddo intenso, non abbiamo la stufa, non spero più di rivedere il mio paese”. Paola
Rausel: “Se avessi saputo ciò che mi attendeva, avrei ucciso prima i bambini e poi me stessa, perché
non è possibile sopportare ciò che sopportiamo ora. Muoiono specialmente gli uomini e i bambini… gli
uomini cominciano a gonfiarsi e a perdere la vista, poi muoiono. Per fortuna che la mamma è morta”.
Prima delle deportazioni c’erano i rastrellamenti, i villaggi distrutti. Racconta Slavko Malnar, deportato
nel 1942 all’età di cinque anni dal suo villaggio del Gorski Kotar, massiccio montuoso sopra Fiume: “Il
27 luglio l’esercito fascista incendiò tutto il nostro paese… Ci dissero che ci avrebbero protetti dai
banditi comunisti partigiani. Figuratevi quale protezione… hanno rubato il bestiame e tutti i beni
mobili, e ci hanno cacciati in un campo dove in pochi mesi sono morte trentacinque persone solo del
mio paese. Lo stesso è successo per gli altri villaggi”. Nel gennaio del ’43 la Croce Rossa segnala al
Ministero degli Esteri che nel campo di Renicci (Arezzo) i reclusi ex jugoslavi versano “in condizioni
miserevoli” e molti di loro “si sono ridotti a nutrirsi di ghiande”. Talvolta – i partigiani italiani lo sanno
– i fascisti erano peggio dei tedeschi. Non era programmata solo la fame, ma anche le umiliazioni.
Battista Benedetti, radiotelegrafista nel campo nell’isola di Zlarin in Dalmazia, racconta che per
aspettare il rancio queste larve umane erano obbligate a stare in piedi in fila per delle ore e, quando
arrivava “la brodaglia”, la colonna “cominciava ad agitarsi” e allora piovevano bastonate dei
sorveglianti. “Ma la cosa più terrificante era quando alcuni di questi malcapitati, accecati dalla paura di
restare senza rancio… uscivano dalla fila e correvano verso il cibo, e allora le bastonate non si
contavano più e i poveretti, non riuscendo più ad alzarsi, venivano portati via”. I malati di dissenteria
portavano addosso gli stessi vestiti del momento della cattura, intrisi di feci, fino alla fine. Giacevano in
un tanfo orrendo in barelle fuori dalle infermerie, all’aperto in pieno inverno, e – racconta un testimone
– i loro “occhi vitrei… sporgevano dalle orbite”. Per seppellire i corpi, in alcuni campi in Dalmazia, noi
italiani usavamo le grotte. Sì, proprio le foibe, dove a fine guerra sarebbero stati uccisi per rappresaglia
migliaia dei nostri, ma anche tanti croati, bosniaci e sloveni. “La foiba – racconta Battista Benedetti nel
suo libro di memorie – ingoiava i miseri resti di questi malcapitati che, fatti scivolare, di solito dalla
parte dei piedi, nel baratro, scomparivano; la cassa vuota veniva riportata dal gruppo degli
accompagnatori, per essere utilizzata con altre vittime”. La gente che arrivava nei campi erano già
“relitti umani”, denuncia il console italiano a Mostar Renato Giardini nell’aprile del ’42. Sono i mesi in
cui i tedeschi pare sfondino in Russia e raggiungano i giacimenti del Caspio, e questa speranza
moltiplica lo sforzo bellico nei Balcani, si trasforma in bestiali rastrellamenti. Giardini vede “mandrie di
vecchi, donne e bambini, laceri, scalzi e affamati… erranti da una contrada all’altra…”. Vede “bambini
morti lungo la strada… e i loro corpi gettati dai genitori stessi nei burroni. I poveri contadini da una
parte sono vessati dai partigiani… dall’altra gli italiani gli incendiano i villaggi, distruggono le case, gli
razziano il bestiame, credendoli partigiani”. E poi “intere zone distrutte… la gente anche non
combattente ammazzata senza pietà… a volte anche le donne seguono la stessa sorte… i campi resi
deserti e squallidi… e tutto ciò serve solo a ingrossare le file del nemico”. “Furia sanguinaria”,
“disumana ferocia”, “barbarie”: così – ricorda lo studioso Livio Sirovich – il capo dello Stato ha
definito il 10 febbraio il comportamento dei nostri vicini a proposito delle foibe. Nello stesso discorso,
i comportamenti antislavi degli italiani, messi in atto fin dal 1920, sono descritti come “guerra fascista”.
Perché? Per l’enormità imparagonabile di Auschwitz? Per la nostra mancata Norimberga? Per il mito
del “bono italiano” che non muore? Per i depistaggi dei servizi segreti dopo il ’45? Per Spartaco
Capogreco la colpa principale è della politica della memoria iniziata dieci anni fa: “Una politica del
ricordo per decreto, dove non c’è mai la parola fascismo”. Una strategia che alimenta certe memorie
con leggi, fondi, ricerche, e ne dimentica altre. “E questo è solo l’inizio. Nelle scuole nessuno più sa
cos’è il 25 aprile. Ora aspettiamo solo un decreto ministeriale che lo abolisca”.
Il coraggio che non abbiamo
di Moni Ovadia – La Repubblica
Falsa coscienza, revisionismo e furbizia inquinano la nostra memoria nazionale e ipotecano il nostro
futuro. Da qualche anno è stato istituito il giorno del ricordo che celebra la tragedia delle foibe e
dell’esodo dei profughi istriani. I dolori di quella povera gente vanno commemorati ed è doveroso
chiedere verità e giustizia per le loro sofferenze. Ma una destra intrisa di umori e nostalgie fasciste – e
non solo essa – strumentalizza quei dolori e quelle tragiche morti. Si assiste alla progressiva rimozione
dei crimini commessi dai fascisti italiani contro sloveni, croati, montenegrini, serbi, per non parlare di
quelli perpetrati contro le popolazioni libiche, etiopi, eritree, albanesi e greche. Questa rimozione ha
uno scopo evidente: assolvere il fascismo, costruire un patriottismo di maniera, pervertire il rapporto
fra carnefice e vittima. Non solo l’antisemitismo, le leggi razziali, le uccisioni degli antifascisti, ma anche
le torture, gli stupri i saccheggi operati dai fascisti italiani con efferatezza talvolta simile a quella nazista
sono documentatissimi. La Bbc nel suo documentario The Fascist Legacy (l’eredità fascista) ne parla e li
mostra diffusamente. La Rai ne ha fatto curare l’edizione italiana dal regista Massimo Sani solo per
tenerla “insabbiata” da anni nei suoi cassetti. I paesi che hanno sofferto a causa dei crimini fascisti
hanno chiesto l’estradizione di centinaia di criminali di guerra italiani, i più tristemente noti dei quali si
chiamano Roatta, Graziani, Badoglio, ma non uno di questi carnefici è stato consegnato alla giustizia.
Non si possono onorare le proprie vittime con dignità e onestà rimuovendo la proprie responsabilità e
criminalizzando la Resistenza che ha riportato l’Italia alla libertà e alla democrazia. Furbizia e ipocrisia
sono un micidiale cocktail che occlude gli orizzonti della credibilità, quindi quelli della prosperità
nazionale, e di tutte le relazioni internazionali più fertili. L’Italia abbia il coraggio di prendere esempio
dalla Germania che grazie al riconoscimento ininterrotto delle proprie enormi colpe è oggi una delle
democrazie più prospere ed affidabili del mondo.