PER UNA STORIA DELLA DALMAZIA TRA MEDIO EVO ED ETA

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PER UNA STORIA DELLA DALMAZIA TRA MEDIO EVO ED ETA
PER UNA STORIA DELLA DALMAZIA
TRA MEDIO EVO ED ETA’
CONTEMPORANEA
(804 - 1944)
di Lucio Toth
Premessa
Theodor Mommsen poteva scrivere nel 1885, parlando degli
insediamenti “italici” sulla costa orientale dell’Adriatico in tarda età
repubblicana (II-I sec. A.C.): “nella Dalmazia le coste e le isole
ebbero, per quanto era possibile, un ordinamento comunale italico e
bentosto l’intero litorale parlò il latino, quasi come ai nostri giorni
parla il veneziano” (Le province romane, cap. VI, Ed. Sansoni 1991,
pag. 221). E all’inizio del nostro secolo Sigmund Freud, tornando a
Vienna da un soggiorno a Ragusa, racconta di aver fatto un sogno in
cui parlava in italiano, spiegandolo con l’abitudine contratta a sentire
e ad usare questa lingua viaggiando in Dalmazia.
Come si era determinata nei secoli questa presenza di popolazione
autoctona italiana nelle città, nelle isole e sulle coste della Dalmazia?
Così cospicua per giunta da determinare la fisionomia linguistica e
culturale dell’intera regione?
L’antica romanità ovviamente non ne è causa sufficiente, in quanto
tutta la Pars Occidentis dell’Impero romano, come articolato da
Diocleziano, era di lingua e cultura latina fino al crollo dell’Impero
d’Occidente (476 d.C.).
Bisogna quindi cercare le radici di tale fenomeno in quei secoli
cosiddetti “bui” dell’Alto Medio Evo.
Dopo l’assassinio di Giulio Nepote, avvenuto nel 480 a Salona, ove
l’ultimo imperatore d’Occidente aveva portato da Ravenna le insegne
imperiali, la Dalmazia ritorna in primo piano sulla ribalta della storia
europea negli anni tra l’805 e l’812, con la pace di Aquisgrana.
Divenuta provincia bizantina della Prefettura d’Italia dopo la
restaurazione giustinianea, tale si mantenne anche dopo le graduali
conquiste della penisola italiana (Istria compresa) da parte dei re e
duchi longobardi, a partire dal 568, e condivise quindi le vicende civili
e religiose (scisma dei tre capitoli, iconoclastia, ecc.) dell’Esarcato con
le lagune venete, della Pentapoli e dell’Italia meridionale rimasta
all’impero greco.
1 - Dalla pace di Aquisgrana (812) alla fine della sovranità
formale bizantina (1204). La formazione dei regni slavi
Bisogna giungere all’alba del IX secolo perché la Dalmazia torni
protagonista di un capitolo fondamentale della storia europea. Nella
sua politica di espansione verso l’Europa orientale e i Balcani, Carlo
Magno, come respinse vigorosamente indietro di centinaia di miglia la
penetrazione dei popoli slavi nel Norico, fondando la Marca d’Austria
(Osterreich), così riuscì a sottrarre all’influenza bizantina i duchi croati
che governavano le regioni pannoniche nord-occidentali (801-802).
Come in tutte le regioni italiane contese tra l’eredità bizantina e
quella longobarda, si formarono anche a Venezia e in Dalmazia legate dalla medesima situazione di marginalità tra le due grandi
potenze che si dividevano la cristianità: il persistente e tuttora
robusto Impero Romano d’Oriente e il blocco di paesi euro-occidentali
che costituivano ormai di fatto l’impero carolingio (le Gallie e parte
dell’Iberia, la Germania fino all’Elba e oltre, l’Elvezia e il Norico, gran
parte della penisola italiana) - un partito francofilo e uno filobizantino.
Sia nelle lagune venete che in Dalmazia dovette prevalere nei primi
anni del secolo il partito carolingio, se le cronache dell’epoca ci fanno
trovare come ambasciatori a Salz nell’805 i duchi veneziani Obelerio e
Beato e i dalmati Paolo e Donato, rispettivamente dux e vescovo di
Zara a nome dell’intera provincia, i quali affidano al re dei Franchi –
già incoronato “imperatore” d’Occidente dal papa Leone III a Roma
nel Natale dell’800 - il governo delle coste venete e dalmate.
La reazione del nuovo imperatore d’Oriente Niceforo all’ambasceria
veneto-dalmata fu per quei tempi immediata. Una flotta bizantina,
guidata dall’ammiraglio Niceta, si inoltra nell’Adriatico nell’806. Senza
colpo ferire riottiene la sottomissione a Bisanzio di dalmati e
veneziani.
Iniziano a questo punto laboriosi negoziati tra i due imperi, che si
concludono nell’812 con la pace stipulata ad Aquisgrana: Carlo Magno
rinuncia alla sovranità, mai acquisita ufficialmente, sulle Venezie
bizantine (sostanzialmente le lagune da Chioggia a Grado) e sulla
Dalmazia in cambio del riconoscimento del titolo imperiale, anche se
Michele III conserva solo per sé e i suoi successori il titolo pieno di
“Imperatore dei Romani”. Sul piano del diritto internazionale l’evento
è comunque di importanza capitale. Solo il titolare reale della corona
imperiale, cioè l’imperatore d’Oriente, aveva la potestà di riconoscere
il nuovo sovrano della parte occidentale dell’impero di Augusto e di
Diocleziano. L’incoronazione papale aveva un grande valore per
l’autorità morale che conferiva ad un re di “Barbari”, ma solo Bisanzio
poteva elevare questo re germanico a sovrano legittimo dell’Europa
occidentale.
Dalmazia e Venezia sono il prezzo di questa concessione. Tanto
esse
sono
considerate
importanti
dalle
due
massime
potenze
dell’epoca!
Come a Salona si era spento l’ultimo successore occidentale di
Augusto, così la Dalmazia diventa il premio di un patto che fa
rinascere in occidente il “Sacro Romano Impero”.
Acquisita sul piano storiografico la sovranità formale di Bisanzio
sulla Dalmazia nei secoli dal IX al XII, si è sempre posta agli storici e
ai giuristi una domanda fondamentale e inquietante: come si
conciliava
questa
situazione
”de
iure”
con
la
contemporanea
indubitabile esistenza di stati continentali fondati dai popoli slavi
nell’entroterra balcanico dell’antico Illiricum? E come si concilierà dal
1076 in poi questa sovranità del Basileus di Costantinopoli con il titolo
di “rex Dalmatiae et Croatiae” riconosciuto dal papa ai dinasti croati
prima e ungheresi poi, mentre negli stessi secoli il doge di Venezia si
sta fregiando del titolo, altrettanto legittimo, di “dux Dalmatiae”?
La risposta a questo interrogativo non può essere che flessibile, nel
senso che essa va commisurata di volta in volta alla situazione politica
concreta e alle diverse mentalità dei soggetti interessati. Altri erano i
concetti giuridici di una corte evoluta, erede diretta della dottrina e
della giurisprudenza romana, come quella di Bisanzio; altri quelli di
una corte altrettanto evoluta, come quella papale di Roma, intenta a
strappare il più possibile di potestas civile all’Impero orientale e a
concederne il meno possibile a quello occidentale; altra infine la
percezione di queste distinzioni e controversie, tutt’altro che formali,
da parte dei sovrani che si succedevano sui troni degli stati slavi.
Si erano infatti venuti formando, dopo il crollo del regno degli Avari
(fine dell’VIII sec.), alcuni Stati slavi a ridosso delle Alpi Dinariche,
nelle pianure e negli altipiani interni della Balcania occidentale. I
nomi,
l’estensione
loro,
le
dinastie
che
li
governano,
variano
naturalmente nell’arco di quei secoli lontani. A nord, dalla Sava alle
Dinariche troviamo fin dal IX secolo uno Stato dei Croati; più a Sud,
negli altipiani e nelle valli dell’Illirico centrale, la “Bossina”, nome
latinizzato
dell’antica
Bosnia;
nell’ampio
bassopiano
del
medio
Danubio e nei bacini della Morava e del Vardar (l’Axiopòtamos dei
greci) lo Stato di Rascia, antenato del Regno dei Serbi, e più verso il
mare gli Stati più piccoli: Pagania, alle foci della Narenta; Zacumia;
Travunia, alle spalle di Ragusa; Zeta e Doclea, che coprivano territori
fra l’attuale Montenegro e il Kossovo.
Di questi Stati quello che raggiungerà la maggiore estensione,
indipendenza e potenza effettiva sarà il Regno di Serbia, che arriverà
in alcuni periodi fino a toccare le rive dell’Egeo, in un rapporto di
perenne
conflitto-collaborazione
con
l’impero
bizantino
e
quasi
sempre di aperto contrasto con i vicini regni dei Bulgari ad est e dei
Magiari a nord.
Tutti gli Stati formatisi sull’antico Illirico tendevano come spinta
naturale verso l’Adriatico e quindi verso le coste dalmate e albanesi.
Da qui l’inevitabilità dei rapporti con le città “bizantine” della
Dalmazia.
Un importante documento dell’anno 873 ci mostra l’atteggiamento
ed il ruolo del pontefice romano nei confronti della Dalmazia e dei
neonati Stati balcanici che premono sulle coste. Giovanni VIII si
rivolge a chi si può considerare a capo dello stato croato con queste
parole: “Domagoi, duci gloriosi. Praeterea devotionis tuae studium
exortamur ut contra marinos ladruncolos, qui sub praetextu tui
nominis in christicolas debachantur…” E’ un capolavoro di diplomazia
pontificia perché l’esortazione al leader slavo per far cessare le
scorrerie che i pirati croati,
già insediatisi nelle più ricettive
anfrattuosità della costa, compiono in suo nome contro i navigli delle
città “cristiane” è accompagnata dall’avvertimento che, in caso
contrario, si dovrà ritenere che l’uso che essi fanno della sua
protezione non sia vano e che, in tal caso, sarebbe direttamente a lui
che si dovrebbe addossare la responsabilità di queste incursioni.
E’ infatti dai primi decenni del secolo IX che si verifica il fenomeno
della pirateria slava nei confronti delle flotte mercantili che percorrono
l’Adriatico da Bisanzio e dal Levante verso Venezia e l’alto Adriatico.
Fenomeno che terrà occupate per secoli sia le città rivierasche delle
due sponde che la marina bizantina, impegnata a difendere i suoi
territori adriatici (Puglia e Dalmazia), e più tardi le flotte veneziane e
normanne.
Una parte della storiografia croata darà di questo fenomeno una
valutazione positiva, come espressione di libertà e di indipendenza e
al tempo stesso di valentia marinara del nuovo popolo da poco
affacciatosi sulle sponde mediterranee. Un’altra parte invece porrà in
risalto il ruolo positivo dei sovrani croati nel contenere tale fenomeno,
a protezione delle città costiere e in ossequio alle richieste papali e
alle proteste bizantine.
Sta di fatto che lo stesso pontefice Giovanni VIII, pochi anni dopo,
nell’879, rivolgendosi ai vescovi dalmati che a lui si erano rivolti in tal
senso, dopo averli esortati a restare uniti alla Chiesa di Roma e a non
gravitare religiosamente verso il patriarca di Costantinopoli, li
rassicura.
“Si
aliquid
de
parte
graecorum
vel
sclavorum
dubitatis…sappiate che noi, secondo gli insegnamenti stabiliti dai santi
padri e dai nostri predecessori, prenderemo cura di voi”.
Si ha quindi la riprova di un gioco politico-religioso al cui centro
sono le città latine della Dalmazia: da un lato Bisanzio che ne
rivendica
la
sovranità
e
cerca
nel
contempo
di
staccarle
religiosamente da Roma; dall’altro la Chiesa romana, che difende la
sua giurisdizione ecclesiastica contro Bisanzio e insieme contro
l’invadenza del glagolitico nella liturgia, favorito da una parte del clero
slavo delle campagne; e infine i sovrani croati che, oscillando tra il
vassallaggio ai due imperi (a volte quello franco, a volte quello
bizantino) cercano di consolidare il loro potere nell’interno della
Croazia e ad estenderlo alle città latine.
Si manifesta in questo periodo anche la rivalità tra la neonata
diocesi
di Nona, fondata alla fine
del IX
secolo
proprio per
evangelizzare la popolazione slavofona della Dalmazia, e le antiche
diocesi dalmate fondate nei primi secoli dell’era cristiana e insediate
nelle città romane sotto sovranità bizantina.
Sulla latinità di queste città non vi sono dubbi. Dalla testimonianza
dell’imperatore bizantino Costantino Porfirogenito (915-959) nella sua
opera “De administrando imperio” (titolo latino) alle descrizioni dei
cronisti e dei viaggiatori, si dà atto del carattere etnicamente e
linguisticamente composito della regione dalmata. Scrive ad esempio
Guglielmo di Tiro, storico della prima crociata, nel 1096: “Est autem
Dalmatia, populo ferocissimo rapinis et cedibus assueto, inhabitata,
exceptis paucis qui in oris maritimis habitant, qui ab aliis et moribus
et lingua dissimiles, latinum habent idiomam, reliquis slavonico
sermone
utentibus
et
habitu
barbarorum”
(Racki,
Documenta
Croatorum, Zagabria 1877).
Il passo è scomodo per tutti nella sua pesantezza discriminatoria
tanto che ne è stata contestata l’autenticità. Da un lato infatti dà atto
che la Dalmazia era fin da allora abitata prevalentemente da
popolazioni slave, dall’altro si riconosce la permanenza e l’autoctonia
delle città latine (Arbe, Zara, Spalato, Ragusa, Traù, Curzola, Cattaro,
ecc.) o anche “romanze”, come vengono chiamate nella pubblicistica
serba e romena.
Scrive nel 1992 lo storico Sima Cirkovic, a proposito della
diffusione di influenze romaniche occidentali nell’edilizia religiosa della
penisola balcanica, e in particolare del Montenegro e della Serbia:
“nelle chiese del secolo XII e di quello successivo, queste indicazioni
rimandano inequivocabilmente a una origine occidentale, ad ambienti
nei quali quei maestri avevano potuto conoscere i modelli romanici.
Non c’è uniformità di pareri sulla provenienza dei costruttori e degli
scalpellini dei monumenti rasciani, se cioè provenissero dalle città
latine della costa adriatica, come Antivari, Cattaro, Ragusa, Spalato e
Zara,
che
erano
i
centri
più
vicini,
oppure
dalle
città
della
corrispondente costa dell’Italia meridionale…” (“I Serbi nel Medio
Evo”, Jaka Book 1992).
Dello stesso tenore sono i numerosi passi dedicati alla Dalmazia dal
bizantinologo Georg Ostrogorsky (“Storia dell’impero bizantino”,
Monaco 1963; trad. ital. Einaudi 1968-1993), solo per citare alcuni
esempi.
Del resto nella storiografia croata sono emerse interpretazioni
confliggenti circa il ruolo svolto dalle città dalmate nello sviluppo del
popolo croato nel Medio Evo, e in particolare nel breve periodo del
regno croato nel secolo XI. Per taluni esse svolsero, con la loro
cultura latina e la loro sostanziale fedeltà alla Chiesa romana, un
ruolo positivo facilitando la diffusione del cristianesimo e dei modelli
occidentali
tra
la
popolazione
slava
della
regione
dalmata
e
dell’entroterra croato propriamente detto e trasferendo nelle lingue
slave forme, concetti, acquisizioni tecnologiche della cultura italiana
ed europea occidentale in genere. Per altri sarebbe stata proprio
l’influenza nefasta del clero latino delle città dalmate sulla corte dei re
croati a determinare il distacco di quei sovrani dall’anima popolare
slava della maggioranza dei loro sudditi, causando le profonde
divisioni tra i signori croati dell’interno, la rapida decadenza del regno
e la sua caduta sotto la corona ungherese nel 1080, cioè ad appena
quattro anni dall’incoronazione di Zvonimiro a re dei croati da parte
del legato pontificio inviato a Salona dal papa Gregorio VII.
E’ in questo quadro complesso che va inserita la politica di Bisanzio
prima e di Venezia poi nell’Adriatico orientale. Fu il grande imperatore
bizantino Basilio I, restauratore e riorganizzatore del vasto impero che
andava dai deserti siriani alle coste adriatiche e tirreniche, a costituire
a meta del IX secolo, il “Thema Dalmatiae” con capitale Zara per
riordinare sotto la sovranità greca quella provincia costiera, così come
nello stesso torno di tempo aveva riconquistato e riorganizzato il
“Thema Langobardiae”, comprendente le Puglie, la Calabria e la
Basilicata, che appunto da lui prese il nome.
Due secoli dopo sarà Basilio II, detto Bulgaroctono (letteralmente
massacratore dei Bulgari) a riordinare il tema dalmato con le sue due
città principali, Zara a nord e Ragusa a sud.
Ed è sempre in nome dell’imperatore greco che i dogi veneziani
intrapresero le loro spedizioni dalmate, a cominciare da quella famosa
di Pietro II Orseolo nell’anno 1000, che accorse in aiuto delle città
dalmate e istriane che ne avevano invocato il soccorso contro la
pressione dei pirati narentani e dei re croati.
La situazione politica appare abbastanza chiara. Pur nell’inevitabile
altalenare dei partiti interni alle città dalmate – che si andavano
organizzando nelle forme comunali italiane – rimane sempre fermo,
fino alla fine del sec. XII, il riconoscimento della sovranità di Bisanzio.
Gli
atti
notarili
degli
archivi
dalmati
recano
costantemente
l’intestazione al basileus regnante in quel momento a Costantinopoli.
Altri dedicano l’intestazione al papa di quel periodo. Nessuno ai
principi o re croati; nemmeno quelli che si riferiscono a negozi
giuridici compiuti da alcuni di questi principi, come il noto – ed
apocrifo – atto di donazione di Crescimiro IV all’abate di S. Grisogono
di una piccola isola dell’arcipelago zaratino (datato all’anno 1069, ma
probabilmente “costruito” nel 1183 per avvallare le ragioni del
convento benedettino di Zara in una causa contro l’arcivescovo e lo
Stato veneziano).
La
spiegazione
più
attendibile
che
si
può
dare
a
questa
sovrapposizione di competenze sovrane è che effettivamente sulle
città latine della Dalmazia venisse riconosciuta dai re croati e voluta
dalle
autorità
cittadine
la
sovranità
di
Bisanzio,
rappresentata
dall’esistenza e dalla permanenza del Tema di Dalmazia, a meno di
non voler considerare gli imperatori e le cancellerie costantinopolitane
affetti da forme paranoicali, allo stesso modo dei notai dalmati che a
quegli imperatori intestavano i loro atti, riguardanti gli affari più
delicati e importanti per le famiglie, come la proprietà immobiliare, le
successioni, ecc. E’ impensabile che tecnici del diritto redigessero atti
nulli o inutilizzabili perché intitolati ad un’autorità statale inesistente!
Solo che ovviamente, per la lontananza della capitale dell’impero e
delle sue basi militari, le autorità cittadine dalmate non potevano non
tener conto della realtà fattuale della presenza nel loro immediato
entroterra di un sovrano croato, straniero si sul piano formale, ma fin
troppo presente su quello materiale, che esercitava sulle sue terre,
finitime al contado cittadino, un’autorità che era stata in qualche
modo legittimata dalle stesse autorità bizantine e dal Papa di Roma.
Anche il cosiddetto ”praetium pacis” che le città dalmate pagavano
in alcuni periodi ai sovrani croati erano l’espressione di una delega
espressa dell’imperatore greco, che aveva devoluto il tributo a lui
dovuto come sovrano legittimo a questi capi croati, per tenerseli
buoni ed indurli a rispettare l’autonomia delle magistrature cittadine e
le loro costumanze latine.
Quando infatti l’autorità di Bisanzio o di
Venezia poteva essere esercita con maggiore efficacia i comuni
dalmati venivano liberati da questo tributo. Che era umiliante per
tutti: per i re croati perché ne sottolineava la subalternità all’impero
orientale (ma ne beneficiavano volentieri perché gli iperperi bizantini
erano il denaro più pregiato dell’epoca); per Bisanzio perché ne
rimarcava l’impotenza a difendere con efficacia città che ad esso
appartenevano; per i comuni dalmati e per Venezia (anch’essa
coinvolta in questa obbligazione) perché era il segno della loro
incapacità di difendersi da soli dalle soperchierie del vicino stato
croato.
Che i sovrani croati e lo stesso papa osservassero scrupolosamente
la sovranità bizantina è dimostrata dal fatto singolare, rimarcato da
tutti gli storici, che i re croati non stabilirono mai la loro sede in una
delle città riconosciute come bizantine, ma quando risiedettero in
Dalmazia scelsero la cittadina di Belgrado (“Alba Maris” in latino,
“Biograd na more” in croato), che si
chiamerà poi
Zaravecchia
(senza peraltro alcuna identificazione geografica con la città di Zara,
trovandosi venti miglia più a sud).
Ma il fatto giuridicamente più
significativo fu che quando Zvonimiro nel 1076 fu incoronato re dal
legato papale questo evento solenne per il popolo croato non avvenne
in nessuna delle città latine con le loro splendide basiliche, ma tra le
rovine di Salona. E questo proprio perché una cerimonia del genere
non poteva svolgersi in una città che giuridicamente non apparteneva
allo Stato croato (F. Sisic, “Povijest Hrvata u vrijeme narodnih
vladara”, Zagabria 1925).
Su questo argomento dopo le controversie del passato la
storiografia croata non ha difficoltà a riconoscere che “dopo la pace di
Aquisgrana le principali città dalmate rimasero sotto il dominio politico
dell’impero bizantino, che allora confinava con il giovane regno di
Croazia”, come si legge nella presentazione delle mostre “Croati e
Carolingi” organizzate di recente in varie città europee dal governo di
Zagabria.
Tra il 1080 e il 1090 il regno croato si disfaceva e la sua eredità
passava
a
Ladislao
I,
re
d’Ungheria.
Da
allora
la
Croazia
giuridicamente farà parte della corona ungherese fino al 1918.
Malgrado questo passaggio ereditario, fino a quasi tutto il secolo
XII le città della Dalmazia continuarono ad essere considerate e si
considerarono soggette a Bisanzio e l’atteggiamento dei re ungheresi
verso di esse si mantenne negli stessi limiti dei precedenti re croati: il
rispetto delle libertà comunali e della sovranità bizantina. “Rex stetit
ante fores iurans prius urbis honores” fu la formula imposta a re
Colomano d’Ungheria per entrare a Zara a firmare la pace tra la
corona e i comuni dalmati (1107).
Ma intanto le città dalmate venivano intrecciando i loro rapporti
con le città istriane, con quelle della penisola italiana e con i più
potenti comuni marinari: Venezia, Genova e Pisa. Numerosi sono i
trattati di commercio e di regolamentazione dei rapporti giuridici tra i
rispettivi “cives” che le città dalmate stringono con Ancona e le città
pugliesi. In particolare sono Zara e Ragusa le due città più restie ad
accettare in questi secoli la supremazia veneziana sull’Adriatico, per
gelosia di traffici e orgoglio cittadino.
Ed è a Zara che Venezia commetterà uno dei suoi “misfatti” storici:
l’assalto e la conquista della città nel 1202 come prezzo imposto ai
cavalieri occidentali della IV crociata per portarli con le sue navi in
Terrasanta.
Gesto
che
costerà
alla
Repubblica
la
immediata
scomunica papale. E sempre sotto le mura di Zara verrà siglato
l’accordo con il pretendente al trono di Bisanzio, Alessio Angelo, che
porterà all’altro misfatto storico della Serenissima: l’assedio e la
conquista della cristiana Costantinopoli nel 1204 da parte dei crociati
e la fondazione dell’ Impero Latino d’Oriente.
Fu con quel “misfatto” però che la Repubblica del leone si assicurò
l’eredità commerciale, politica e militare di Bisanzio nel Mediterraneo
orientale, due secoli e mezzo prima del crollo definitivo dell’Impero
romano d’Oriente. Siamo arrivati all’anno 1204.