LE CITTÀ DI GIACOMO LEOPARDI Estratto da Atti del VII Convegno
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LE CITTÀ DI GIACOMO LEOPARDI Estratto da Atti del VII Convegno
LE CITTÀ DI GIACOMO LEOPARDI Estratto da Atti del VII Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 16-19 novembre 1987). Firenze: Leo S. Olschki, 1991. 202 pp. Il volume consta di sette saggi: "Leopardi e Recanati" di Emilio Bigi, "Leopardi e Roma" di Aulo Greco, "Leopardi e Milano" di Guido Bezzola, "Leopardi e Bologna" di Emilio Pasquini, "Leopardi e Pisa" di Luigi Blasucci, "Leopardi e Firenze" di Domenico De Robertis e "Leopardi e Napoli" di Mario Marti. Un saggio che esula parzialmente dallo scopo centrale della raccolta, "Leopardi e Γ Antichità" di Claudio Moreschini, intende "vedere quale parte abbia avuto il mondo classico nelle società [...] con cui il poeta venne a contatto" nel corso dei suoi viaggi per le città italiane. I saggi sono utili e importanti: rimettono in nuova luce una messe di dati biografici e offrono nuovi punti d'avvio per penetrale nel tormento intellettuale e poetico del recanatese. Il saggio su Recanati, la città natale e quella in cui il poeta trascorse la maggior parte della sua vita, rivela il suo antagonismo per il borgo selvaggio ove egli "trovava scarsa risposta alla sua ansia di vita intensamente vissuta, al suo desiderio di gloria e di arricchimento culturale, al suo bisogno inesausto di affetti generosi e profondi." Ma il saggio rivela anche che dalla "contemplazione e dal ricordo della vita e dei sentimenti delle umili persone" di Recanati e dalla "suggestione dei paesaggi" che il borgo gli offriva, Leopardi trasse "lo spunto per esprimere alcuni dei temi più genuini e originali della sua poesia," come si concreteranno, per esempio, nelle Ricordanze. Purtroppo Roma, che il poeta raggiunse nel novembre del 1822 segnando il primo allontanamento dall'aborrita "prigione" di Recanati, fu per lui una delusione. Vi dimorò sei mesi senza averne alcun piacere; ma invero 190 n'ebbe uno, peculiare, quello di visitare il sepolcro di Torquato Tasso "per provare il 'piacere delle lagrime'." Le ragioni della delusione sono tre: Γ "indifferenza" dei romani, il "deserto culturale esistente," la vastità della città eterna e la corrispondente "larghezza," ossia impersonalità, della sua società. Il contrasto tra Roma e Recanati sarà nello Zibaldone la base delle lunghe e acute riflessioni sui beni e sui mali della società "stretta" e "larga." Intanto le lettere da Roma rivelano una "disperante e sempre più crescente rovina psicologica" e "l'estremo naufragio dell'anima leopardiana." Milano, ove il poeta dimorò dal luglio al settembre del 1825, gli porgeva il destro di raggiungere "tutti i suoi propositi culturali" e d'"inverare il sogno di grande gloria letteraria che il giovane Leopardi sognava" ma che non attuerà mai. Preparò testi (le crestomazie) per l'editore Fortunato Sella da cui ricevette, caso unico nella vita del poeta, uno stipendio fisso che verrà però sospeso nel 1828 a causa del declinare della salute di Giacomo e del suo "progressivo distaccarsi da tutto volgendosi sempre più in sé." Sembra dunque che Leopardi avesse delle buone ragioni per esser contento di sé e della città che l'ospitava. Ma non era così. In Milano, egli scriveva, "il bello [...] è guastato dal magnifico e dal diplomatico." "Mi trovo qui," a un altro corrispondente scriveva, "di malissima voglia, occupato in studi che abbomino, e ricaduto nella mia vecchia [...] malinconia." "Qui non ho conosciuto ancora se non pochissime persone di merito" e nessuna di esse disposta a concedere al poeta la sua amicizia. Dal punto di vista sociale Milano appariva a Leopardi come il luogo in cui "centoventi mila uomini stanno insieme per caso come centoventimila pecore." Di passaggio a Bologna diretto a Milano, Leopardi aveva intuito che la città dalle due torri poteva essere il luogo ideale per lui. "Io sospiro però per Bologna," scriverà da Milano, "dove sono stato [...] festeggiato, dove ho contratto più amicizie in nove giorni che a Roma in cinque mesi, dove non si pensa ad altro che a vivere allegramente [...], dove i forestieri non trovano riposo per le gran carezze che ricevono, dove gli uomini d'ingegno sono invitati a pranzo nove giorni ogni settimana [...] In Bologna nel materiale e nel morale tutto è bello." Ma anche Bologna, dove poi visse dal settembre 1825 al novembre deiranno successivo e poi ancora dall'aprile al giugno del 1827, deluse Leopardi inducendolo ad "affermazioni di un pessimismo sconvolgente." Fu incapace "di entrare in simbiosi col clima culturale" della città, una deficenza che l'autore del saggio, Emilio Pasquini, giudica il sintomo 191 della "costante tensione nevrotica" e dell'"indole solitaria e ritrosa" di Giacomo. Fallì nella sua ricerca di "un impegno fisso che gli consentisse l'indipendenza economica dalla famiglia." E l'inclemenza dell'inverno bolognese, il "bestialissimo freddo," ravvili talmente da farlo "immalinconire e disperare," dandogli la "voglia di piangere come un bambino." Infine, la disavventura amorosa con la contessa Malvezzi, per la quale Leopardi avvampò di passione quando ne fece la conoscenza, ma finì coll'aborrirla come "quella puttana della Malvezzi," non potè non contribuire all'immalinconamento suo. A Pisa, ai tempi di Leopardi una rinomata stazione climatica, egli visse dal novembre 1827 al giugno 1828. Le "esigenze climatiche," la "necessità," ο la paura, di affrontare i rigori dell'inverno fiorentino portarono al soggiorno pisano, la lieta parentesi nel tormentato errabondare del poeta per le città italiane. Oltre che la mitezza del clima, il contatto con alcuni intellettuali della città, primo tra i quali Giovanni Rosini docente di eloquenza italiana all'università, con "gente semplice e cordiale" e "frequentazione rasserenante di signore gentili e colte" influirono sullo stato d'animo del poeta. "Quel lung'Arno," egli scriveva, "è uno spettacolo che m'incanta: io non ho mai veduto il simile." Trovava Pisa un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di rustico, tanto nelle cose, quanto nelle persone: un misto propriamente romantico." A Pisa avvenne il "risorgimento dell'animo" e il "risorgimento poetico" leopardiano e nacque nel poeta la "disposizione al piacere di ricordare." Con Firenze Leopardi ebbe rapporti più duraturi ed intimi che con qualsiasi altra città. Vi dimorò dal giugno al novembre del 1827 e del 1828, dal giugno all'ottobre del 1831 e dal marzo del 1832 al settembre del 1833. Qui ricevette "molte gentilezze" dai letterati, inclusi "i primarii." Giambattista Niccolini andava a "trovarlo," Giordani era da lui "mattina e sera." Colletta e Poerio, fuorusciti napoletani, diventarono amici e sostenitori del poeta. Leopardi entrò nel giro della Nuova Antologia e in stretti rapporti con Capponi e Vieusseux, l'uomo col quale il poeta si sarebbe "volentieri adattato a vivere." A Firenze apparve la prima edizione dei Canti ( 1831) dedicata "Agli amici suoi di Toscana." Lì conobbe Fanny Targioni-Tozzetti, la donna che gl'ispirerà vibranti liriche amorose. A un certo punto Firenze diviene per Leopardi "quasi il luogo natio." Essa sembra la città in cui egli avrebbe trovato quel che cercava — calore umano, fecondo clima intellettuale e la via per una brillante carriera letteraria. Nacque infatti in Leopardi un 192 attaccamento profondo per Firenze. Profondo, ma non forte abbastanza per legarlo permanentemente alla città e agli "amici suoi di Toscana." Già nel 1827 accusava varie indisposizioni corporali e una malattia agli occhi che gl'impedivano di "conoscere la città," inducendolo a "rifiutare tutti gl'inviti che gli vengono fatti" e a uscire soltanto di sera "come un pipistrello." Nel 1828 scriveva che Firenze gli riusciva "malinconica al solito." In luglio al Giordani: "Questi viottoli [...] mi affogano; questo sudiciume universale mi ammorba; queste donne sciocchissime, ignorantissime e superbe mi fanno ira." Gli accadeva spesso di trovarsi "come in un deserto." Nel 1830 alludeva alla morte come a un "bene" aspettato, rimedio delle "sue pene" e della sua "completa infelicità di vita." La sua avversione per la statistica e gli studi sociali l'indurrà più tardi a rompere con Vieusseux e l'Antologia. Leopardi, scrive Domenico De Robertis, tendeva "sempre più a fai parte per sé stesso." Il poeta stesso dirà d'aver "allontanato da sé tutti i suoi amici." Ma perché quest'ingiustificata ostilità per Firenze? De Robertis scrive che Recanati esercitava un'attrazione irresistibile sul poeta, costituendo per lui "un miraggio." Si potrebbe anche ripetere quel che un altro critico osserva, ch'era impossibile a Giacomo di trovarsi bene in qualsiasi luogo. Ma allora perché desiderale il ritorno proprio a Recanati, il mai abbastanza aborrito "borgo selvaggio"? Napoli, la città in cui Leopardi visse "in un perfetto isolamento da tutti," era il luogo meno adatto a soddisfare le sue aspirazioni di uomo e di pensatore e a trascorrervi quasi quattro anni della sua vita. Eppure egli soggiornò a Napoli più a lungo che in ogni altra città, dal settembre 1833 fino al 1837. Vero è che li regnava il buon clima, ma Leopardi dava poco peso al bel tempo, mentre era perfettamente conscio della scarsa convenienza di vivere a Napoli. "L'aria di Napoli mi è di qualche utilità," scriveva nell'aprile del 1834, "ma nelle altre cose questo soggiorno non mi conviene molto [...] Spero che partiremo di qua in breve, il mio amico [Ranieri] ed io." Eppure Leopardi non lasciò mai Napoli; ci visse come "un estraneo diffidente, un ospite precario" e ci morì nel giugno del 1837. S'accorse presto di vivere tra un popolo "semibarbaro e semicivile" e non tarderà ad emettere su Napoli e sui napoletani giudizi "spesso avvilenti e oltraggiosi" che "hanno qualcosa di aspro, di malevolo, di acrimonioso e di sprezzante." Questa scoperta e questa reazione significano che a Napoli Leopardi conobbe la faccia del "vero," o, come scrive Mario Marti, Leopardi acquisì "l'universale coscienza della verità." Questa conoscenza e questa conquista sono 193 estremamente significative: produssero la scintilla intellettuale e poetica che farà del soggiorno napoletano una stagione creativa straordinariamente feconda (Aspasia, Paralipomeni, Pensieri, Palinodia, Nuovi credenti, etc.), una stagione che culminerà nel "supremo canto leopardiano," "La ginestra." Dai saggi raccolti nel volume traspare insistente Γ incapacità, ο riluttanza, da parte di Leopardi d'adattarsi e inserirsi nell'ambiente e nella vita delle città di cui fu ospite, e traspare come una carenza da parte di lui. Questo punto di vista biografico mi sembra erralo perché ignora la ragione dell'atteggiamento peculiare di Leopardi verso le sue città. La ragione è che là dove le cose andavano bene Leopardi desiderava trasferirsi perché la vita facile e prospera era un modo d'essere alieno al suo animo. Questa ragione rivela una dimensione vitale della sua personalità poetica e umana: egli agognava il confronto con le forze avverse dell'umanità e della natura onde trarre dalla lotta con esse il trionfo intellettuale e poetico. Di Leopardi a Milano Guido Bezzola scrive: "Avrebbe avuto bisogna di cure attentissime, di gran copia di affetti, di esser amato e di poter amare, del conforto di una vera gloria fra i grandi." A Pisa Leopardi sembrò trovale, almeno in gran parte, quel che gli mancava a Milano; inoltre vi godette, forse per la prima volta in vita sua, un clima eccellente (e sappiamo di quanta sofferenza sia stata cagione al poeta il clima intemperato, specialmente freddo). "In questa nuova situazione di ripresa," scrive Luigi Blasucci, il coefficiente ambientale è da ravvisare [...] proprio nell'esperienza di una precisa realtà umana e cittadina come quella di Pisa, con la mitezza del suo clima, [...] con la conversazione pacata di personaggi amanti delle buone lettere, [...] con la frequentazione rasserenante di signore gentili e colte, con lo stesso contatto domestico di gente semplice e cordiale come i padroni di casa. Ma si noti quale fosse la produzione leopardiana a Pisa: Il risorgimento e A Silvia. Blassuci attribuisce eccessivo valore al Risorgimento scrivendo che la poesia rappresenta "una sorta di ripensamento-riepilogo [...] della vita del proprio 'cuore' alla luce della recente rinascita." La poesia, mi sembra, riflette piuttosto compiacimento per il benessere fisico e forse per qualche successo sentimentale. E A Silvia non si può spiegare e capire come un'opera nata nell'idillico ambiente pisano. Il senso della mortalità e la disperazione che la pervadono mostrano che 194 a Pisa non erano le sensazioni della buona vita a impandronirsi dell'animo poetico di Leopardi; A Silvia è il frutto di un'ispirazione e di un tempo leopardiano che non possono essere pisani. Che il Leopardi di A Sìlvia fosse ispirato da un sentimento tutt'altro che idillico "rinascimentale" è sintomatico dell'intima indifferenza per la piacevolezza di Pisa e della gente che vi conobbe. Similmente a Bologna dove, secondo Emilio Pasquini, Leopardi acquisi "coscienza del proprio valore e delle stesse sue potenzialità sul piano dell'impegno pratico e della libera comunicazione sociale," egli esibì "un pessimismo sconvolgente," producendo nello Zibaldone l'immagine non meno sconvolgente del giardino che soffre e perisce. Si consideri d'altra parte quel che avvenne a Recanati e a Napoli, i due luoghi più esecrati dal poeta, i due luoghi che videro la nascita delle grandi opere. Per Recanati, basti un campione. Nel settembre del 1829 il poeta scrisse a un corrispondente: "Non solo i miei occhi, ma tutto il mio fisico, sono in istato peggiore che fosse mai. Non posso né scrivere, né leggere, né dettare, né pensare." Eppure in quello stesso mese compose Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio e iniziò il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. A Napoli, l'aborrita città dei Nuovi credenti e del colera, la qualità e quantità della produzione leopardiana che culminò nella "Ginestra" stupiscono il lettore. A chi conosce le parti componenti il grande canto non sfuggirà che lo slancio appassionato e vitale del solitario fiore rigogliante sul versante vulcanico scaturisce come sfida all'avversa natura e al terrore ch'essa incute sui suoi figli. Senza l'avversità dell'ambiente e della sorte la ginestra non sarebbe mai assurta a quel singolare simbolo poetico e umano che tutti ammirano. Né sfuggirà al lettore del poema che la ginestra è la metafora del cuore poetico leopardiano. ALFREDO BONADEO University of California, Santa Barbara, California 195