Il fiato dei colori Giovanni CF Villa

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Il fiato dei colori Giovanni CF Villa
Il fiato dei colori
Giovanni C.F. Villa
A Caterina
Nella sua sterminata retorica inventiva Pietro Aretino, amico e autentico press agent di Tiziano,
presentando alla Maestà cesarea, ovvero all’imperatore Carlo, il quinto del suo nome, il dolcissimo
e veramente regale ritratto della defunta moglie, Isabella d’Aviz, scrive che il pittore “l’ha in
maniera resuscitata col fiato dei colori, che una ne possiede Iddio e l’altra Carlo”. In questa, una
delle tante lettere pubbliche che l’Aretino diffondeva fra la società colta, l’elegante sinestesia coglie
ciò che per i contemporanei fu il tratto essenziale del pittore: un’abilità coloristica che faceva
vibrare l’immagine, la rendeva d’una autenticità viva, coglieva mutazioni di luce che andavano oltre
lo sfumato, oltre la nota creazione veneziana del colore tonale. Un chiarore che poi, come in questa
tela, proviene da un paesaggio lontano e fantastico, montuoso e misterioso: già “sublime”. Anche
perché “pochi e comuni colori erano su la tavolozza di Tiziano: onde la maggior vaghezza de’
dipinti suoi nasceva da’ contrapposti. Questo effetto si vede costantemente in natura […] Quindi fu
che la vaghezza delle opere di Tiziano mai non oltrepassò la verità; e tanto più era ed è
universalmente gradita, quanto più congiunta al gran principio della natura”: è ciò che scrive
Antonio Maria Zanetti, nel 1771.
Indubbiamente la capacità di Tiziano Vecellio nel tempo – un tempo lungo che va dal secondo
all’ottavo decennio del secolo: e dunque è di fatto il Cinquecento – fu quella di rispondere
pienamente a nuove esigenze di gusto, orientando le attese su di un orizzonte certamente più
complesso e variato di quanto non riuscisse ad alcun suo contemporaneo, in un superamento
insieme del classicismo e del manierismo, affermando su tutti la supremazia di quel colore che
riusciva impossibile da decifrare nell’impasto originario, e determinava forma e movimento anche
per l’arditezza degli accostamenti. L’aver alzato e unificato l’orizzonte di un comune vedere nella
classe dirigente del suo tempo rese Tiziano il primo vero artista europeo. E lo compresero per primi
i suoi veri creati, coloro che lo studiarono con umiltà, anche assoluta, per tutta la vita: Velasquéz e
Rubens. Per cui, dunque, “Nell’opera pittorica tizianesca, realizzata nell’arco di un sessantennio, si
avvicendano due civiltà: si potrebbe dire quella dell’Ariosto e l’altra dello Shakespeare. Il codice
espressivo tizianesco a sua volta sarà di base alla civiltà pittorica occidentale, che dal Rubens e dal
Velázquez si conclude nel nostro secolo con l’avvento del cubismo”, chiosava Rodolfo Pallucchini.
Certamente in questa capacità di porsi come pittore eponimo ci fu una sterminata capacità di lavoro,
un’ambizione sovrumana e un’intuizione delle necessità e forme dell’autopromozione che non ha
uguali: anche così va letta l’affermazione da panegirico di Ludovico Dolce, “fu non solo divino
come il mondo lo reputava, ma come un dio e senza pari” e la formulazione, peraltro molto
accademica, i cui contorni critici resteranno fissati per secoli: “la grandezza, e terribilità di
Michelangelo, la piacevolezza, e venustà di Raffaello, ed il colorito proprio della natura”.
Tiziano dimostrò questa sua abilità di movimento, ma anche di interpretazione e ricostruzione delle
necessità del gusto delle corti – di Alfonso d’Este, poi di Federico Gonzaga, infine dei Farnese e di
Maria d’Austria – ritraendo per decenni i potenti, divenendo il pittore ufficiale della prima corte
imperiale, con il seguito di noti, ma in gran parte apocrifi, aneddoti. Una lettura sociale del gusto
espresso da Tiziano dovrà certamente interagire con l’apogeo di un’idea di potere, che termina con
Filippo II: ma intanto dovrà cogliere quella densità semantica del prestigio che produrrà ritratti
senza eguali, su cui la pittura moderna – a cominciare da Francis Bacon – dovrà continuamente
tornare. In ogni caso la pittura di Venezia, che era divenuta italiana con il maestro Giovanni Bellini,
si fa europea con il cadorino Tiziano Vecellio e, pur mantenendo ancora una propria identità per
quasi due secoli, confluisce pienamente nel grande farsi della pittura continentale. Ma Tiziano va
oltre il gusto, gli emblemi, il prestigio e la nobiltà dell’aristocrazia. Impone il senso del movimento,
realizzato con una densità cromatica che si fa moto, anche ad un popolo veneziano che faticherà
non poco ad accettare l’Assunta e, infine educato, per molti versi gli preferirà Tintoretto. Impone
poi alcuni modelli che non lasceranno più la forma iconis dell’uomo occidentale: a cominciare dalla
bellezza muliebre che, ove la si paragoni a quanto si proponeva nelle precedenti generazioni, dice e
dimostra quanto innovativa e prescrittiva sia stata tutta la sua impresa. E quanto incredibilmente
orientata sul senso della pittura sia stata tutta la sua attività: avrebbe potuto, coperto di lodi e
ammirazione, terminare la propria ricerca e costruirsi una propria maniera; avrebbe potuto, assillato
dai demoni dell’ambizione e a volte della vera e propria avidità, dirigere la bottega familiare che già
produceva copie, ma che avrebbe potuto ulteriormente ingrandirsi trovando continuamente nuovi
acquirenti; avrebbe potuto, per il legame anche a volte ossessivo, con familiari e figli, dedicarsi ad
una vita del tutto cortigiana. Invece non tradì mai la sua vocazione, fu sempre pittore veneziano e fu
sempre uno straordinario sperimentatore, fino a quell’ardimentosa e visionaria vecchiaia che i
contemporanei e posteri immediati non capirono e che a noi moderni affascina per impasti di colore,
per quello stendere di dita, per quella volontà tattile di rendere carni e animo che fa di lui un
maestro eccelso.
Come costruire una mostra su un “mostro sacro”, qual’è appunto Tiziano?
Introducendo un suo fondamentale studio, quasi mezzo secolo fa, Pallucchini osservava “Sembrerà
ingenua l’ostentazione della conoscenza diretta dei testi; eppure mi pare necessaria, in tempi in cui i
libri si fanno per lo più nelle fototeche”. Era l’età della riproduzione a stampa di un’immagine
fotografata: al tempo di Internet ancor maggiore è l’abitudine a confrontarci con l’immagine
elettronica, in una conoscenza sempre più mediata e sempre più sintetica delle opere d’arte.
Pallucchini aveva scritto quella frase per sottolineare come, nel corso dei decenni avesse dovuto, e
potuto, vedere tutte le opere di Tiziano discusse nel suo volume. Volendo con ciò rimarcare che
solo la conoscenza diretta, l’osservazione anche minuta della singola concretezza testuale avesse
sostenuto il suo percorso critico.
Questa mostra vuole anzitutto consentire di apprezzare un Tiziano privo di problemi
attributivi, in un’esposizione monografica che ne racconti il complessivo arco di carriera. Potrà
sembrare paradossale, ma gli unici antecedenti italiani sono le mostre veneziane di Ca’ Pesaro del
1935, curata da Nino Barbantini e Gino Fogolari, e di Palazzo Ducale del 1990, animata da
Francesco Valcanover. Nello stesso tempo su Tiziano si è accumulata una impressionante
letteratura, con contributi e un lavoro di esegesi che ha pochi eguali, sovente di grande qualità e
originalità e la cui disamina il lettore troverà in parte nelle schede storico-critiche esemplarmente
compiute da Luisa Attardi e Margaret Binotto. Dopo l’iniziale polarizzazione fra un approccio
espansionistico, proposto per primo da Wilhelm Suida (1933), teso a radunare tutto quanto poteva
entrare nell’ambito concettuale di produzione tizianesca e uno restrizionista, capitanato da Hans
Tietze (1936), ampie e documentate sono state le discussioni intorno alla questione della
formazione e giovinezza di Tiziano, connesse a una data di nascita di cui ancora si riprende la
discussione di merito, mentre restano dubitose le questioni relative ad una sicura separazione dai
testi giorgioneschi e in generale la cronologia fino all’Assunta della basilica veneziana di Santa
Maria Gloriosa dei Frari. Anche perché la datazione di tante opere è discussa proprio per la
valutazione della stessa tecnica tizianesca, fatta di numerose stesure sovrapposte e compiute anche a
notevole distanza di tempo – come già annotava Boschini (1674) – su cui infine lavorava con
velature miste a vernici. Su tutta la questione il lettore troverà nelle dense e puntualissime pagine
del saggio di Mauro Lucco un orientamento essenziale. Quanto Tiziano sia stato apprezzato, e
quanto presto, lo si ricava dalla lettera del 31 maggio 1513, in cui domanda la concessione della
senseria del Fondaco dei Tedeschi. Una senseria che significava l’esenzione dalle tasse e un
compenso annuale di cento ducati, cui se ne aggiungevano venticinque per ogni ritratto di Doge.
Quattro anni dopo la ottiene divenendo così, di fatto, il pittore ufficiale della Serenissima. Anche
anticipando la sua data di nascita, Tiziano all’epoca non ha ancora trent’anni e, del tutto
consapevole delle sue capacità, riceve un riconoscimento prestigiosissimo. E la sua fama resterà
intatta a Venezia fino alla morte, accrescendosi nel resto dell’Europa delle arti, in una vicenda
umana qui narrata dalla sapiente penna di Elisabetta Rasy. Come essa si sia costruita sia a Venezia,
con la sua particolare committenza patrizia, anche nel corso di un dogado che rifondava la forma
urbis nella direzione della “nuova Roma”, sia presso le più importanti e coltissime corti padane,
Ferrara e Mantova, dove la sapienza intellettuale era solo pari all’intensità del dialogo fra tutte le
arti, il saggio di Humfrey, nell’esemplare chiarezza, documenta e chiarisce. E come poi si sia
composto il rapporto con Carlo imperatore lo definisce, in modi lontani dagli stereotipi aneddotici
accumulati, il saggio di Miguel Falomir, con Roberto Contini che infine introduce e delinea con
sobria chiarezza ove Tiziano approderà, e quale la sua eredità.
L’opera di Tiziano costituisce certamente il punto d’arrivo di un’intera tradizione pittorica:
dall’iniziale cromatismo, che sa anche darsi lumeggiature spavalde e raggiunge vertici di felicità
luministica, si giungerà ad un pittore maturo e poi anziano che esplora la notte e il buio, che sceglie
di spegnere i colori, di esplorare le estreme possibilità di gradazioni liquide e spente, in una
economia assoluta. Ma poi in Tiziano percepiamo una diversa dimensione delle immagini sacre:
non c’è in lui né il dramma angosciato dell’anima di fronte a Dio, né la gloria esaltata dello spirito
controriformista. Non c’è la tensione mistica, e non c’è l’abbandono fiducioso: in Tiziano il sacro è
sempre in dialogo con l’umano e il concreto, è luogo della bellezza, espressione di un sentimento
che si fa abito psicologico. Così, il dialogo fra il mondo terreno e quello celeste appare legato
armoniosamente, sollecitato ed esaltato in uno spazio che è anzitutto umanamente concepibile.
L’ultima stagione di Tiziano, ricorda Pallucchini, è “una scoperta di nuovi orizzonti, facendo
crollare il mito di una visione classica, al quale il mondo rinascimentale si era avvicinato, e
inaugurando un’altra epoca, quella che porterà alla concezione dell’uomo moderno, della sua
solitudine e del dramma della sua esistenza”.
Termina dunque necessariamente con Tiziano una stagione pittorica, ma anche un ciclo di mostre
veneziane alle Scuderie del Quirinale. Inaugurato con l’esposizione di Antonello da Messina, colui
che portò in laguna un contributo mediterraneo di tecniche e luci, poi seguita da quella che ebbe
come protagonista il patriarca dell’arte veneziana, il Maestro per eccellenza, colui che fu capace di
rimutar l’arte da bizantina in compiutamente moderna: quel Giovanni Bellini che lascerà in dote a
Tiziano la tensione all’esser costanti e progressivi, sempre tesi a rinnovare se stessi e la proprio arte.
E ancora: Lorenzo Lotto seguito nelle peregrinazioni, nelle ricerche e invenzioni, e infine Tintoretto
riproposto nella sua creatività, invenzione e furia del dipingere. Ogni volta, ogni mostra ha inteso
restituire a Venezia quel ruolo centrale ed essenziale nello sviluppo dell’arte europea tra il 1460 e il
1570, ma anche svolgere una propria specifica, faticosa, complessa e capillare attività di
conoscenza, tutela e valorizzazione del patrimonio pittorico.
Un ciclo espositivo che ha risposto a un progetto unitario, risalente a quasi un decennio fa:
strutturare a Roma, alle Scuderie del Quirinale, una serie di esposizioni rigorosamente
monografiche che presentassero in modo coerente il ruolo di Venezia come protagonista assoluta –
almeno pari a Firenze e Roma – di un’età che scolasticamente indichiamo ancora genericamente
come Rinascimento. Ma Venezia, dalla metà del Quattrocento alla fine del Cinquecento, seguì un
suo originale percorso, determinato e guidato dal particolare umanesimo repubblicano, sintetizzato
nella formula del primato del colore che, se fu essenzialmente pittorico, tuttavia si legò
profondamente anche alle arti ingiustamente indicate come minori, basti pensare alla vetreria, ai
mosaici o ai tessuti, e definì un dialogo originale e quanto mai complesso con la statuaria,
l’architettura e le arti decorative. Ma certamente non solo: Venezia fu anche la produzione navale
dell’Arsenale, le riflessioni di Ermolao Barbaro e gli aridi saggi sulla partita doppia, le prime
collezioni da museo e gli orti botanici, la biblioteca del cardinale Bessarione e gli scritti di Pietro
Bembo. Un luogo esemplare e originale per l’editoria e il dibattito intellettuale, subito toccando
vertici ineguagliati. Anche così confermava di essere città di incontri e circolazione di idee e di
confronti, assai più liberi, meno vincolati al singolo mecenatismo rispetto alle corti padane e
centroitaliane.
Tutto questo si è desiderato narrare, singolarmente, attraverso la scelta di compiere delle mostre
monografiche: per la specifica vocazione della sede, il patronato della Presidenza della Repubblica,
ma anche come voluto ritorno a un modello da cui ci separavano molti anni, alcuni decenni. Con la
volontà esplicita di offrire al pubblico più ampio la conoscenza di un artista dalla produzione
giovanile ai grandi capolavori alle ultime opere, seguendo scansioni che consentissero di ricostruire
le linee fondamentali di un catalogo, che permettessero il riconoscimento “forte” di una personalità,
a volte – per ovvie ragioni di dispersione – di difficile ricostruzione.
Tutto ciò doveva legarsi, e si è legato, a una questione delicatissima, e purtroppo sempre più grave e
su cui varrà la pena di svolgere una seria e profonda riflessione: se da un lato ottenere finanziamenti
per restauri ineludibili deve essere connesso necessariamente alla visibilità degli interventi,
dall’altra restauri necessari impongono lo spostamento di pale che il tempo e l’incuria hanno
gravato di problemi. Queste mostre non sono state l’occasione per l’ennesima ripulitura e magari
abrasione di opere che circolano fra musei e mostre, ma per la conservazione di capolavori che
avevano iniziato un processo di degrado quanto mai pericoloso in un paese, come il nostro, che ha
ultimamente lesinato i fondi assolutamente necessari per la tutela del proprio patrimonio artistico,
anche quello più prestigioso. In tal senso sono da leggersi le vaste campagne di restauro intraprese o
operazioni quali il progetto, tuttora attivo, “Terre di Lotto” e quello avviato di “Tiziano Grand
Tour”. Esemplari, su tutti, i casi dell’intervento sul Battesimo di Cristo di Giovanni Bellini,
ricollocato in sicurezza sull’altare della Basilica di Santa Corona nel settembre 2012, a quasi quattro
anni dalla chiusura della mostra; o del Polittico di Ponteranica di Lorenzo Lotto, anch’esso tornato
sul suo altare nel luglio 2012, dopo una complessa operazione non solo di salvaguardia dei dipinti
ma anche di risanamento dell’altare. O, in misura differente, il recupero di alcuni centimetri di tela
nel Miracolo dello schiavo di Tintoretto, tali da consentire di riportare alla luce il volto completo di
uno dei committenti del telero; o ancora il risanamento della carpenteria lignea dell’Incoronazione
della Vergine dei Musei Civici di Pesaro di Giovanni Bellini, che ha consentito di studiare con
nuova attenzione le paraste marmoree scoprendo, celate in esse, le numerose caricature dipinte
dall’artista. O, ancora, per Tiziano, il restauro e messa in sicurezza della cappella ove andrà
ricollocato il Martirio di San Lorenzo dei Gesuiti. Interventi che hanno visto lavorare di concerto il
Ministero per i Beni e le Attività Culturali insieme alle Regioni, le Province con i Comuni, le
Diocesi e le Soprintendenze competenti, le Università in accordo con i massimi enti di tutela, dai
Laboratori dei Musei Vaticani all’Opificio delle Pietre Dure all’Istituto Superiore Centrale del
Restauro. Con cui, ad esempio, si è anche svolto un ampio progetto di monitoraggio delle opere
durante le fasi di imballaggio e trasporto, fondamentale per offrire dati certi e inconfutabili riguardo
atti sempre di estrema delicatezza. Così come si è impostata una costante e fondamentale ricerca
sulla luce LED per l’illuminazione delle opere d’arte che ha trovato sua applicazione anche nelle
chiese, così da fare tutela attiva utilizzando sorgenti luminose a bassissimo consumo e senza
emissione di raggi ultravioletti infrarossi, estremamente dannosi per la superficie pittorica. Il tutto
coronato da una serie di campagne di analisi scientifiche, realizzate con tecniche rigorosamente non
invasive, condotte nel corso degli anni su oltre trecento opere.
“Tiziano, ecco un pittore che è fatto apposta per essere gustato da chi invecchia […]. Confesso che
quando ammiravo molto Michelangelo e lord Byron non lo apprezzavo affatto. Egli commuove,
credo non tanto per la profondità delle espressioni né per una grande comprensione del soggetto, ma
per la semplicità e per la mancanza d’affettazione. In lui le qualità pittoriche sono portate al punto
massimo: quel che dipinge, è dipinto, gli occhi guardano e sono animati dal fuoco della vita. Vita e
ragione sono presenti dovunque” annotava il 4 ottobre 1854 Eugène Delacroix nel suo Diario.
E Tiziano, pittore infine pienamente europeo, e pure sempre assolutamente veneziano, conclude e
riassume profondamente il senso stesso dei quasi dieci anni di riflessione sulla pittura veneziana alle
Scuderie del Quirinale.