Legum multitudo e diritto privato Revisione critica della tesi

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Legum multitudo e diritto privato Revisione critica della tesi
Legum multitudo e diritto privato
Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
DARIO MANTOVANI
Università di Pavia
1. Tema e metodo della ricerca
È opinione comune che le leges publicae fossero poco numerose, specialmente nel
campo del diritto privato:1 «La legislazione è estremamente scarsa: gli organi normali
dell’evoluzione in questo campo sono la giurisprudenza e il pretore. […] Sostanzialmente […] i singoli casi d’intervento legislativo rappresentano degli strappi all’jus civile imposti da preoccupazioni politico sociali».2
Quest’opinione è diventata quasi una regula, coniata da Fritz Schulz, che ambisce di
caratterizzare l’intera esperienza giuridica romana: «Das ‘Volk des Rechts’ ist nicht das
Volk der Gesetze».3 Il principale punto d’appoggio su cui Schulz basava la propria convinzione era uno studio di Giovanni Rotondi, Osservazioni sulla legislazione comiziale
romana di diritto privato, pubblicato – vuole la coincidenza – cento anni fa.4 Era uno
dei primi lavori dell’autore venticinquenne (nato a Milano nel 1885), poco dopo la
laurea in Giurisprudenza conseguita nel 1907 all’Università di Pavia – dove Rotondi
aveva avuto come maestro Pietro Bonfante – frequentata come alunno del Collegio
Borromeo, sede di questo «Collegio di Diritto Romano».
1
La nozione di diritto privato adottata in questo studio è ricavata induttivamente, per quanto possibile, dalle fonti
stesse, com’è descritto infra, § 3 (spec. nt. 70). Con lex (publica), ove non serva specificare, ci si riferirà indifferentemente alla legge comiziale e al plebiscitum.
2 G. ROTONDI, Leges Publicae Populi Romani. Elenco cronologico con una introduzione sull’attività legislativa dei comizi romani, Milano 1912, 100 nt. 2.
3 F. SCHULZ, Prinzipien des römischen Rechts, München 1934, 4 (I principii del diritto romano, tr. it. a c. di V. ARANGIORUIZ, Firenze 1946, 6). La formula «Volk des Rechts» sintetizza a sua volta un topos, che Schulz distilla, ad esempio,
da R. v. JHERING (Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung I, Leipzig 18915, 326: «die
Prädestination des römischen Volks zur Cultur des Rechts»). L’opinione di Schulz è oggi indiscussa: vd., per tutti, la
recente sintesi di G. SANTUCCI, Das Gesetz im römischen Recht. Ein Überblick, in Studi per Giovanni Nicosia VII,
Milano 2007, 283 ss., che contiene anche una bibliografia ragionata cui si fa rinvio (ivi, nt. 4, l’A. accoglie come
punto di partenza la formula di Schulz e cita gli studiosi che l’hanno sottoscritta).
4 In Filangieri 35 (1910) 641 ss. (poi in G. ROTONDI, Scritti giuridici, I. Studii sulla storia delle fonti e sul diritto pubblico romano, a c. di V. ARANGIO-RUIZ, Milano 1922, 1 ss., da cui si cita).
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Le coincidenze di tempo e di luogo aiutano a rendersi conto dello spessore almeno
secolare che il tema ha ormai assunto e incoraggiano perciò ad affrontarlo prendendo
le giuste distanze storiografiche, quanto è necessario per tentare di compiere qualche
progresso.
Va detto che, negli ultimi anni, nuove indagini hanno iniziato a incrinare alcuni
luoghi comuni. Il volume di Callie Williamson, in particolare, ha posto l’accento sull’importanza della lex publica nel sistema politico romano, come strumento cruciale
per creare consenso e risolvere i problemi più ardui posti dall’espansione di Roma fra
il IV secolo e la crisi della Repubblica.5
È sufficiente, del resto, dare la parola ai contemporanei, per i quali il sommo atto
politico capace di definire un uomo di governo e la sua attività era proprio la lex (Cic.
Phil. 1.18):
Ecquid est quod tam proprie dici possit actum eius qui togatus in re publica cum potestate
imperioque versatus sit quam lex? Quaere acta Gracchi: leges Semproniae proferentur; quaere
Sullae: Corneliae. Quid? Pompei tertius consulatus in quibus actis constitit? Nempe in legibus.
De Caesare ipso si quaereres quidnam egisset in urbe et in toga, leges multas responderet se et
praeclaras tulisse.6
L’inestricabilità della lex dalla vita pubblica di Roma – almeno negli ultimi secoli
della res publica – si traduceva persino in dettame storiografico. Nella sua professione
di metodo, alla fine del II secolo a.C., Sempronio Asellione invitava a registrare i decreti del senato, le leggi e le rogationes, quale parte essenziale e qualificante di una narrazione storica pragmatica, di cui costituiscono per così dire il lato interno. Sono questi
atti che consentono, infatti, l’introspezione nei motivi e nelle ragioni delle azioni belliche compiute dai Romani, il cui racconto resterebbe altrimenti elenco di fatti esteriori, favole per bambini, come Asellione evidentemente considerava molta della storiografia precedente (hist. fr. 2 Peter = Gell. 5.18.7):7
5 C. WILLIAMSON, The Laws of the Roman People. Public Law in the Expansion and Decline of the Roman Republic,
Ann Arbor 2005, 3 ss.
6 Sul passo e sulla sua funzione argomentativa nel contesto vd. P. BUONGIORNO, La ‘lex’ in Cicerone al tempo delle
‘Philippicae’. Fra teoria e prassi politica, in questo volume, supra, 545-567.
7 Vale la pena di notare la consonanza fra il metodo di Asellione e la poetica di Alessandro Manzoni, secondo cui il
romanzo storico «non è un racconto cronologico di soli fatti politici e militari e, per eccezione, di qualche avvenimento straordinario d’altro genere»; l’intento di narrare «una storia più ricca» implica, fra l’altro, che lo scrittore dia
notizia «delle leggi, o delle volontà de’ potenti, in qualunque maniera siano manifestate»: A. MANZONI, Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione (ed. naz. ed europ., 14), premessa di G. MACCHIA,
a c. di S. DE LAUDE, Milano 2000, 3 s.
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scribere autem bellum initum quo consule et quo confectum sit, et quis triumphans introierit ex
eo, quaeque in bello gesta sint iterare, non praedicare aut<em> interea quid senatus decreverit
aut quae lex rogatiove lata sit neque quibus consiliis ea gesta sint iterare: id fabulas pueris est
narrare, non historias scribere.8
Oltre a riportare in luce il ruolo cruciale della lex nella vita politica romana, negli
ultimi anni si è da più parti richiamata l’attenzione sulla parzialità dell’informazione di
cui disponiamo a proposito delle leges, che soffre gravemente della selezione operata
dagli autori antichi in funzione degli intenti di volta in volta da ciascuno perseguiti.9
A mano a mano che si è presa consapevolezza di quanto sia labile e squarciato il tessuto delle notizie, si sono moltiplicati gli avvertimenti a non fare acritico affidamento
su elenchi e ricostruzioni moderne, per evitare il rischio, ad esempio, di considerare
genuine molte denominazioni di leges che sono, invece, escogitazioni convenzionali
degli studiosi oppure di assegnare la rogatio all’una o all’altra assemblea senza valida
prova.10 Il movimento di revisione ormai in atto si è incanalato nel progetto di una
nuova palingenesi delle leges.11
8
Com’è noto, la tradizione del passo è difettosa e richiede vari emendamenti: ex eo] mss. ex eo libro; iterare non praedicare] mss. iterare id fabulas non praedicare; autem interea] mss. aut interea. Seguo le proposte di C. PELLEGRINO,
Sempronio Asellione e la storiografia latina arcaica nella testimonianza di Gellio (N.A. V 18), in Giorn. it. Filol. 54
(2002) 95 ss., tranne che conservo anche la seconda occorrenza di iterare tramandata dai mss. (neque quibus consiliis
ea gesta sint iterare), avvalorata dal parallelismo scribere (in posizione iniziale) / iterare (finale) – non praedicare (iniziale) / neque... iterare (finale). Per altre ricostruzioni, vd. M. CHASSIGNET (ed.), L’annalistique romaine, II. L’annalistique moyenne (fragments), texte établi et traduit par M. Ch., Paris 1999, 84 s. (fr. 2), 160 s.
9 J.-L. FERRARY, Chapitres tralatices et références à des lois antérieures dans les lois romaines, in Mélanges de droit romain
et d’histoire ancienne. Hommage à la mémoire de André Magdelain, Paris 1998, 151 ss., spec. 162 s. (anche in La
Commemorazione di Germanico nella documentazione epigrafica. Convegno Internazionale di Studi, Cassino 21-24 ottobre 1991, Roma 2000, 69 ss.) e soprattutto ID., La législation romaine dans les livres 21 à 45 de Tite-Live, in TH.
HANTOS (ed.), Laurea internationalis. Festschrift Jochen Bleicken zum 75. Geburtstag, Stuttgart 2003, 107 ss. (su cui
vd. infra, § 3). Sulla selezione delle informazioni, vd. anche le considerazioni di WILLIAMSON, The Laws of the Roman
People cit. (nt. 5), 445 ss. («Appendix» B).
10 K. SANDBERG, Magistrates and Assemblies. A Study of Legislative Practice in Republican Rome, Rome 2001, 1 ss., spec.
64 ss. Vd. anche U. PAANANEN, Legislation in the comitia centuriata, in U. PAANANEN - K. HEIKKILÄ - K. SANDBERG L. SAVUNEN - J. VAATHERA, Senatus populusque Romanus. Studies in Roman Republican Legislation, Helsinki 1993, 1
ss., secondo cui il ruolo legislativo dei comitia centuriata fu molto più esiguo di quanto solitamente si ritenga.
11 Lepor. Leges populi Romani: base de données sur les lois comitiales du peuple romain, progetto internazionale diretto
da J.-L. FERRARY e PH. MOREAU. Bisogna già menzionare le raccolte di D. FLACH, Die Gesetze der frühen römischen
Republik. Text und Kommentar, Darmstadt 1994 (rec. di D. MANTOVANI, in Athenaeum 84 [1996] 646 ss.) e M.
ELSTER, Die Gesetze der mittleren römischen Republik. Text und Kommentar, Darmstadt 2003 (rec. di L. PELLECCHI,
in Athenaeum 93 [2005] 346 ss.). Fra le iniziative scientifiche che hanno dato impulso a questo rinnovamento è senz’altro da annoverare la riedizione commentata delle leges epigrafiche (e delle XII Tavole) confluita in M.H.
CRAWFORD (ed.), Roman Statutes (RS ) (BICS. Supplement) I-II, London 1996.
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Queste indicazioni di metodo non hanno tuttavia ancora spronato gli storici del
diritto romano a riesaminare il rapporto fra lex publica e diritto privato.12 Le cause del
ritardo possono essere più d’una. Intanto, i nuovi risultati su ruolo e numero delle leges
riguardano principalmente il diritto pubblico, ambito nel quale l’importanza della
legge, in fondo, non è mai stata contestata;13 inoltre, gli allarmi sulla qualità delle notizie (su cui torneremo con maggiori dettagli al § 3), benché già molto precisi, non
hanno finora messo a disposizione degli studiosi revisioni complete delle fonti.
Sui romanisti, forse, ha anche agito come freno il timore di mettere in discussione la
centralità del ruolo dei giuristi, sentita come una specificità capace di salvaguardare il
valore del diritto romano per l’esperienza giuridica contemporanea.14 Una rinnovata
indagine sul ruolo delle leges publicae nel campo del diritto privato è invece indispensabile per comprendere in modo più realistico la giurisprudenza romana, senza fermarsi a
visioni idealizzanti e, in definitiva, semplificanti rispetto alla complessità del Juristenrecht.
Il fattore decisivo che ha indotto ad accomodarsi in questa semplificazione è stato,
come vedremo, l’assetto della documentazione, in particolare delle fonti giuridiche,
Digesto in primis. La prima e principale verifica deve dunque essere compiuta sulle
fonti (§§ 2-4): davvero le leges publicae in tema di diritto privato erano scarse?
La verifica, si vedrà, porta a una risposta sorprendentemente diversa da quella di
Rotondi e a mettere in luce, in particolare, l’espunzione sistematica cui i compilatori
del Digesto sottoposero le leges publicae, che invece erano numerose negli scritti dei
giuristi classici (§§ 5-6).
Accertata la maggiore diffusione delle leges anche nel campo del diritto privato, si
dovrà allora riflettere sui presupposti teorici – per non dire sulle precomprensioni o
12
Seguono le vedute tradizionali, anche in questo volume, L. WINKEL, The Roman Notion of lex, supra, 239-255 e
C.A. CANNATA, La posizione della lex nella sistematica delle fonti romane, supra, 257-280. Per altra bibliografia, vd.
SANTUCCI, Das Gesetz im römischen Recht cit. (nt. 3), 283 ss.; adde F. CANCELLI, La codificazione dell’edictum praetoris. Dogma romanistico, Milano 2010, 38 s.
13 Vd. per tutti ROTONDI, Osservazioni sulla legislazione cit. (nt. 4), 3: «Lo svolgimento del diritto pubblico ha per
sua fonte principale e normale la legge comiziale». L’antitesi (bonfantiana) fra diritto pubblico e privato in tema di lex
era anzi uno dei cardini della sua ricostruzione. Una tematizzazione, ed estremizzazione, del valore politico della legge,
almeno fino al IV secolo, è già in J. BLEICKEN, Lex Publica. Gesetz und Recht in der römischen Republik, Berlin - New
York 1975, spec. 58 ss., secondo il quale, nel suo concetto originario, la lex publica è dichiarazione di volontà politica che ha per oggetto azioni precisamente individuate che hanno rilievo per la res publica; contenuto normativo generale la lex sviluppò, secondo l’A., solo dopo la lotta fra gli ordini.
14 Quasi che accertare che nell’orizzonte di decisione dei iuris consulti rientravano – in misura maggiore di quanto
ritenuto – anche le leges sminuisse il pregio dell’interpretatio. È vero il contrario: aumentando i criteri di decisione di
cui i giuristi debbano tenere conto, aumenta la complessità della decisione e si amplia il repertorio delle tecniche
interpretative.
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cliché – che hanno influito su Rotondi e sulla romanistica che lo ha seguito.
Quest’esplorazione ci condurrà da una parte a Pietro Bonfante, e dall’altra al pensiero
di Eugen Ehrlich e alla sua polemica con Kelsen ad inizio Novecento, viva negli anni
in cui scriveva Rotondi, che alle concezioni di Ehrlich prestò anzi esplicito tributo. Si
arriverà così a constatare la diretta influenza esercitata da teorie generali del diritto
moderne sulla ricostruzione del diritto romano, in particolare l’influenza esercitata
dalla nascente sociologia giuridica (§ 7).
2. La quantità delle leges publicae dal punto di vista dei contemporanei
Secondo il programma dell’indagine, procediamo all’ispezione delle fonti, per verificare se le leges publicae in materia di diritto privato fossero tante o poche. La domanda si scinde in due: Qual era l’opinione in proposito dei contemporanei? In concreto
– stando alle fonti – quante erano le leges di diritto privato? Formulare questi interrogativi ed esaminarli ci pare la migliore maniera d’entrare, senza altri preamboli, nel
vivo dell’argomento.
Iniziamo con il sondare il punto di vista dei Romani.15 Il contrasto con l’aforisma di
Schulz non potrebbe essere più stridente. I Romani pensavano che le loro leggi fossero molte: Leges videmus saepe ferri multas, osserva Cicerone (Sest. 109) mentre passa in
rivista le occasioni in cui il popolo aveva modo di esprimere la propria volontà, fra le
quali i comizi legislativi erano particolarmente frequenti.16 L’oratore si riferisce in generale alla prima metà degli anni 50, gli anni del conflitto con Clodio (per hos annos).
Nel 58, su cui punta poi l’attenzione in modo specifico, Cicerone denuncia addirittura una legum multitudinem, cum earum quae latae sunt, tum vero quae promulgatae fuerunt (Sest. 55), espressione cui imprime senz’altro una punta di esagerazione la pole-
15
In questo volume, lo studio di E. ROMANO, Echi e riuso della legge nella letteratura latina, supra, 177-217, mette
in risalto a sua volta «la presenza significativa della legge nella letteratura latina non giuridica» sotto vari profili socioculturali. In questa sezione del presente lavoro, mi concentro sulle testimonianze relative al ‘numero’ delle leges.
16 Sest. 106: etenim tribus locis significari maxime de <re publica> populi Romani iudicium ac voluntas potest, contione,
comitiis, ludorum gladiatorumque consessu. Quae contio fuit per hos annos […]; 109: Venio ad comitia, sive magistratus
placet sive legum. Leges videmus saepe ferri multas. Il testo prosegue distinguendo fra le leges votate con scarsa partecipazione di votanti e quelle a favore e contro Cicerone (s’intende, rispettivamente la lex Clodia de exilio Ciceronis del
58 e la lex Cornelia Caecilia de revocando Cicerone del 57), distinguendo anche a questo proposito la diversa qualità
del consenso espresso nelle due occasioni. È notevole, nel contesto, che si ammetta che le leges possano spesso essere
approvate alla presenza di pochi votanti, il che è un indizio del fatto che le procedure di voto fossero espletate come
una frequente routine. Al § 113 sono esaminati i comitia magistratuum. Gli altri luoghi di espressione degli orientamenti politici del popolo sono appunto le contiones, da cui inizia la rassegna al § 106 sopra riportato, e i ludi, di cui
Cicerone discorre a partire dal § 115.
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mica verso i suoi nemici politici, fautori di tanto attivismo, ma che Tacito non esiterà
tuttavia a riprendere e anzi a rafforzare (multitudo infinita et varietas legum) per caratterizzare non un solo anno, ma l’intera esperienza giuridica romana afflitta dalla proliferazione e contraddittorietà delle leges.17
Tornando al 58, che era l’anno del tribunato di Clodio, in effetti ci sono note
almeno quattordici leges che furono latae.18 Delle rogationes che furono solo promulgate – secondo Cicerone altrettanto numerose di quelle approvate – è sopravvissuta
una sola notizia, il che ci mette sull’avviso circa l’incompletezza dell’informazione di
cui disponiamo.19
Lo stesso monito, anzi una conferma diretta, ci viene da un’osservazione di Cassio Dione che riguarda proprio l’anno precedente quello su cui punta l’attenzione
Cicerone, ossia il 59, altro anno di passione legislativa.20 Dopo avere nominato un
certo numero di leggi fatte approvare da Cesare nel suo primo consolato (sulla distribuzione della terra, sulla ratifica degli atti di Pompeo, sulla remissione dei debiti ai
17
Ann. 3.25.2, nell’excursus sulla legislazione romana su cui torneremo subito appresso. Notevole, ad accentuare il
contatto fra i due contesti, è che Cicerone qualifichi l’ipertrofia legislativa come una pestilenza cui i consoli dell’anno successivo dovettero porre rimedio, con una metafora della malattia e della terapia che è la medesima cui ricorre
Tacito: D. MANTOVANI, Leges, mores, potentia. La storia della legislazione romana secondo Tacito (Annales III 25-28),
in M. CITRONI (cur.), Letteratura e civitas. Transizioni dalla Repubblica all’Impero (in stampa).
18 ROTONDI, Leges publicae cit. (nt. 2), 393-399; analisi di quelle di iniziativa clodiana (dodici o tredici) in L. FEZZI,
Il tribuno Clodio, Roma-Bari 2008, 52 ss. Nessuna delle leges del 58 a noi note è direttamente di diritto privato (su
questo risultato potrebbe ovviamente pesare la selezione operata dagli scrittori antichi, interessati alle vicende politiche). Alcune di quelle varate su altri temi, tuttavia, si ripercuotevano sensibilmente sul diritto privato, dalla lex Clodia
de collegiis a (se come pare è del 58) quella de scribis, che vietò loro di fare commercio; l’anno conobbe anche una lex
iudiciaria.
19 La rogatio fallita è quella del tr. pl. C. Manlio, de libertinorum suffragiis. R.A. KASTER, in Marcus Tullius Cicero,
Speech on Behalf of Publius Sestius, Translated with Introduction and Commentary, Oxford 2006, 243, osserva che la
menzione di leggi promulgate (ma non approvate) allude forse a un intoppo nei piani legislativi di Clodio dopo la
rottura con Pompeo nella tarda primavera del 58; dato però che alle misure promulgate si accenna solo vagamente,
qui e al § 66, «we cannot say just what Cicero has in mind»: è la conferma della lacunosità della nostra informazione riguardo all’attività legislativa romana, anche per periodi coperti, come questo, da resoconti dettagliati.
20 Lo comprova la richiesta che, proprio in quel 59, Cicerone rivolge ad Attico da Anzio, dove si era ritirato con l’intenzione di studiare, esprimendogli il desiderio di essere tenuto al corrente della vita di Roma. Fra gli avvenimenti su
cui gli chiede di aggiornarlo rientrano le ultime novità legislative (Cic. Att. 2.5.2, aprile): De istis rebus exspecto tuas
litteras, quid Arrius narret, quo animo se destitutum ferat, et qui consules parentur, utrum, ut populi sermo, Pompeius et
Crassus, an, ut mihi scribitur, cum Gabinio Ser. Sulpicius, et num quae novae leges et num quid novi omnino, et, quoniam Nepos proficiscitur, cuinam auguratus deferatur, quo quidem uno ego ab istis capi possum – vide levitatem meam!
sed quid ego haec, quae cupio deponere et toto animo atque omni cura filosofei'n? Indubbiamente, la curiosità di
Cicerone si concentrava in primo luogo su aspetti che avrebbero potuto rilevare per la sua situazione, leggi incluse;
ciò non toglie che la sua curiosità circa le novae leges fosse generale, segno che si trattava di un meccanismo cruciale
della vita politica e di attivazione tutt’altro che infrequente.
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publicani) dichiara esplicitamente che «poi fece approvare molte altre leggi, senza che
alcuno si opponesse […]. Ma poiché sono moltissime e non contribuiscono in nulla a
questa storia, le tralascio» (Cass. Dio 38.7.6).21 La confessione dello storico severiano
è importante non solo perché conferma che i primi anni 50 conobbero una legum multitudo (e altrettante rogationes) che conosciamo in piccola parte – se si deve prendere a
esempio il 58, probabilmente meno della metà 22 – ma spiega anche la ragione delle
lacune: gli storici, ci avverte Cassio Dione, compivano una cernita delle leges in funzione della loro narrazione.23 Sulla selezione dell’informazione torneremo sistematicamente più avanti (§§ 3-6); ora ci interessa il punto di vista dei contemporanei.
Che la legislazione romana fosse abbondante Cicerone non lo pensava solo per il 58
o in ambito pubblicistico,24 ma specificamente in campo privatistico; non esita anzi a
definire innumerevoli le leges de civili iure latae (Balb. 20-21):
tulit apud maiores nostros legem C. Furius de testamentis, tulit Q. Voconius de mulierum
hereditatibus, innumerabiles aliae leges de civili iure sunt latae; quas Latini voluerunt,
adsciverunt.25
21
Oltre a quelle menzionate da Cassio Dione, si conoscono due sole altre leges Iuliae, quella de repetundis e quella de
rege Alexandrino: poiché lo storico afferma che quelle da lui taciute erano moltissime, non possono esaurirsi in queste due sole.
22 Cicerone afferma che le rogationes del 58 erano numerose come le leggi approvate; poiché conosciamo una sola
rogatio non approvata e almeno quattordici approvate (supra, ntt. 18 e 19), significa che, nel migliore dei casi, metà
dell’informazione è perduta. Anche in questa condizione, la legum multitudo è effettiva: rasentano facilmente per
quell’anno (fra leggi latae e promulgatae) il numero di trenta.
23 Per un altro esempio della selettività di Cassio Dione rispetto alle fonti normative (qui forse esteso anche alle constitutiones), vd. 53.21.1: «Augusto, da parte sua, si occupava delle altre questioni dell’impero con zelo crescente […]
ed emanò molte nuove leggi. Non c’è bisogno che mi soffermi a descriverne i particolari esaminandole una ad una,
ma prenderò in considerazione soltanto quelle pertinenti agli argomenti trattati» (il passo mi è stato segnalato da
Luigi Pellecchi). Il fatto che Cassio Dione dichiari di avere registrato selettivamente i provvedimenti normativi è un
sintomo tanto più grave della parzialità della nostra informazione in quanto, comparativamente, egli risulta ugualmente fra gli storici più abbondanti nella registrazione delle leges: vd. infra, § 3 e nt. 53.
24 Si veda, ad esempio, Cic. Pis. 50: exire de provincia, educere exercitum, bellum sua sponte gerere, in regnum iniussu
populi Romani aut senatus accedere, quae cum plurimae leges veteres, tum lex Cornelia maiestatis, Iulia de pecuniis repetundis plenissime vetat. La lex epigrafica de provinciis praetoriis, Cnidos III ll. 4-5, reca notizia di una di queste plurimae leges veteres, rogata da un pretore M. Porcius Cato forse nel 121 (cfr. lex Ant. Term. II l. 16): vd. per tutti
SANDBERG, Magistrates and Assemblies cit. (nt. 10), 50, 93.
25 «Cicero talks of the Latins adapting those laws dealing with ius civile which they wished to observe and implies
that there were numerous cases»: già esattamente RS I, «General Introduction», 28; cfr. ivi, 6. Sulla cd. fundi factio,
cui allude il passo, vd. di recente D. KREMER, Ius Latinum. Le concept de droit latin sous la République et l’Empire, Paris
2006, 92 ss. Cfr., per un’altra lista di leges de iure civili, Verr. 2.1.109: De iure vero civili si quis quid novi instituit, is
non omnia quae antea acta sunt, rata esse patietur? Cedo mihi leges Atinias Furias Fusias, ipsam ut dixi Voconiam, omnis
praeterea de iure civili: hoc reperies in omnibus statui ius quo post eam legem populus utatur. Non è chiaro se il plurale
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Che fosse una sensazione condivisa – e non iperboli ciceroniane – lo mostra il ben
noto progetto abortito di Cesare, volto a ridurre a una misura accettabile il ius civile,
trascegliendo il meglio ex immensa diffusaque legum copia (Suet. Iul. 44.2): ius civile ad
certum modum redigere atque ex immensa diffusaque legum copia optima quaeque et necessaria in paucissimos conferre libros. Già Pompeo, secondo Isidoro, aveva pensato a qualcosa di simile (orig. 5.1.5): Leges autem redigere in libris primus consul Pompeius instituere voluit, sed non perseveravit obtrectatorum metu. Deinde Caesar coepit [id ] facere, sed
ante interfectus est. Contano meno i dettagli di questi progetti:26 quel che importa è che
nella tarda repubblica la legum copia pareva tanto abbondante e dispersa, da richiedere
una consolidazione che potesse ridurre il ius civile a una misura dominabile.27
Il parossismo legislativo – che toccava appunto anche il diritto privato (il ius civile)
– era solo una convulsione di fine repubblica? Di sicuro la crisi aveva aggravato il fenomeno, come più tardi osserverà epigrammaticamente Tacito (ann. 3.27.3): corruptissima re publica plurimae leges.28 Tuttavia, la sensazione che le leges fossero numerose – e
inefficaci – rimontava già ai giorni di Plauto.29 Nel Curculio, in un contesto finemen-
sia effettivo o enfatico. Che possa essere effettivo – e implicare l’esistenza di più leggi rogate da membri della stessa
gens – è suggerito, anche se non dimostrato, da Cic. Phil. 3.16: hinc Voconiae, hinc Atiniae leges; hinc multae sellae curules et patrum memoria et nostra; hinc equites Romani lautissimi et plurimi. Il contesto è l’elogio del municipio di Ariccia,
e avrebbe avuto poco senso indicare al plurale le leges se ve ne fosse stata una sola di quel nome (oltre a quella sull’usucapio, è effettivamente nota almeno un’altra lex Atinia, de tribunis plebis in senatum legendis: Gell. 14.8.2).
26 Vd. per tutti FERRARY, Chapitres tralatices cit. (nt. 9), 160 ss., il quale – messe a confronto le divergenti interpretazioni – propende per ritenere che le leges publicae di cui Cesare progettava la consolidazione dovessero riguardare,
se non esclusivamente, almeno prioritariamente il diritto privato.
27 Il testo di Svetonio risuona in Nov. Theod. 1 (de Thedosiani codicis auctoritate, a. 438) § 2, dove copia immensa
librorum serve a dipingere l’eccesso di scritti giurisprudenziali cui, insieme alla varietà dei tipi d’azione e alla mole
delle costituzioni imperiali, gli imperatori volevano porre rimedio. La critica per la proliferazione legislativa viene
rivolta anche a Giustiniano, come ha ben messo in luce R. MARTINI, Giustiniano ‘contestato’?, in Studi in onore di
Gaetano Scherillo II, Milano 1972, 761 ss.
28 In questo punto, Tacito si riferisce soprattutto alle leges emanate per ragioni di lotta politica, e specialmente ai
iudicia publica istituiti ad personam; la sua riflessione sull’eccesso di leggi (su cui vd. oltre) riguarda però l’intero ordinamento.
29 Un opportuno invito a non proiettare all’indietro la situazione della fine della repubblica e a differenziare storicamente concetto e funzione della lex viene da BLEICKEN, Lex publica cit. (nt. 13) spec. 52 ss., 72 ss. Per ragioni legate alla nostra informazione, la legislazione di diritto privato – se si eccettuano le Dodici Tavole, la lex Aquilia e poco
altro – si concentra nello spazio di due secoli, fra la fine del III secolo e l’età augustea (vd. infra, 729 ss., «Tabella»).
In questo spazio di tempo, pur relativamente ristretto, è probabile che anche la legislazione privatistica abbia fatto
segnare un’evoluzione, di cui tuttavia è difficile cogliere in dettaglio la dinamica, in difetto sia di datazioni precise sia
di una conoscenza diretta del tenore letterale delle disposizioni. Anche SANDBERG, Magistrates and Assemblies cit. (nt.
10), spec. 20 ss., mette in guardia dal proiettare sulle fasi anteriori aspetti della legislazione che si ricavano dalla documentazione degli ultimi decenni della repubblica (Cicerone in primis), specialmente per quanto riguarda l’iniziativa
Dario Mantovani
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te giuridico-tecnico (si tratta di una mancipatio con stipulatio per il caso di evizione),
lo schiavo del titolo si scaglia contro il banchiere Licone, paragonando trapezitae a
lenoni; i primi rovinano gli uomini con il tasso d’interesse, i secondi con le cattive tentazioni e i lupanari (Plaut. Curc. 508-511):
vos faenore homines, hi (sc. lenones) male suadendo et lustris lacerant. | Rogitationis plurumas
propter vos populus scivit, | quas vos rogatas rumpitis: aliquam reperitis rimam: | Quasi aquam
ferventem frigidam esse, ita vos putatis leges.30
A causa degli usurai – incalza Gorgoglione – «il popolo ha approvato molte proposte
di legge» (Rogitationis plurumas propter vos populus scivit), purtroppo presto infrante,
non appena votate. «Trovate sempre una qualche scappatoia, – conclude immaginosamente la sua tirata – come se l’acqua bollente fosse fredda, così voi considerate le leggi».
Si potrebbe considerarla una concessione alla scena, se non sapessimo che quando
quelle parole furono recitate erano già state emanate almeno una decina di leggi fenebres, la prima delle quali inclusa nelle Dodici Tavole (8.18), come riferisce Tacito (ann.
6.16.2): XII tabulis sanctum, ne quis unciario fenore amplius exerceret.31
C’è anzi chi pensa che lo sfogo di Gorgoglione sia precisamente legato all’approvazione, nel 193, di un’ennesima lex de pecunia credita – la lex Sempronia attestata da Livio
– che estendeva agli italici le norme contro l’usura per porre rimedio appunto a tentativi di elusione.32 Quindi, uno sfogo dal palcoscenico con gli occhi aperti sulla realtà.
dei magistrati curuli (che l’Autore ritiene rarissima prima di Silla, a tutto vantaggio dell’iniziativa tribunizia).
L’indagine di quest’A., tuttavia, mi pare corra il rischio contrario. In particolare, la decisione di non includere il verbo
ferre (in costrutti come legem tulit) fra le espressioni che consentono tecnicamente di identificare il magistrato che ha
proposto la rogatio ai comizi porta l’Autore a escludere una serie di leggi che – fino a prova contraria – furono invece presentate ai comizi da magistrati curuli in epoca anteriore a Silla. La differenza che, sotto il profilo dell’iniziativa
legislativa, l’A. prospetta fra quest’epoca e quella posteriore a Silla non appare perciò adeguatamente dimostrata.
30 L’invettiva contro lenoni e trapezitae inizia al v. 506; su di essa, vd. per tutti R.F. HARTKAMP, Von leno zu ruffiano. Die
Darstellung, Entwicklung und Funktion der Figur des Kupplers in der römischen Palliata und in der italienischen
Renaissancekomödie, Tübingen 2004, 65 s. e ROMANO, Echi e riuso della legge nella letteratura latina cit. (nt. 15), 186-187.
31 Porta ragioni a favore dell’attendibilità della testimonianza tacitiana R. CARDILLI, Leges fenebres, ius civile ed ‘indebitamento’ della plebe: a proposito di Tac. ann. 6.16.1-2, in C. RUSSO RUGGERI (a c. di), Studi in onore di Antonino
Metro I, Milano 2009, 377 ss. A proposito, poi, del noto dictum di Catone (agr. praef.: Maiores […] in legibus posiverunt furem dupli condemnari, feneratorem quadrupli ) l’A. osserva: «dietro l’in legibus catoniano si intravedono le
varie leggi che via via hanno fissato limiti al faenus» (op. cit., 387). Per la loro prossimità temporale, la testimonianza catoniana e quella di Plauto si danno ovviamente reciproca manforte (vd. anche Liv. 35.7.2: multis foenebribus legibus, che si riferisce al medesimo contesto cronologico; cfr. nt. s.). Elenco delle leges fenebres in ROTONDI, Leges publicae populi Romani cit. (nt. 2), 99.
32 Sulla lex Sempronia del 193, vd. ELSTER, Die Gesetze cit. (nt. 11), 305 ss. n. 146. Per il collegamento, vd. per tutti
N.W. SLATER, Plautus in Performance. The Theatre of the Mind, Amsterdam 2000 2, 175 ss., che data il Curculio al 193
proprio in virtù dei versi qui in esame (508-510), ritenendo – nella scia di Teuffel – che essi alludano alla lex
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Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
Del resto, sempre Plauto, nel descrivere l’educazione giuridica impartita dai genitori ai figli, aveva già identificato le leges come oggetto specifico di insegnamento, a testimonianza del loro rilievo (Most. 120, 126): primumdum parentes fabri liberum sunt |
[…] expoliunt: docent litteras, iura, leges. Altrettanto fa Cicerone, nel descrivere la cultura del perfetto oratore: perdiscendum ius civile, cognoscendae leges (de orat. 1.158 s.) e
si muove ancora nel medesimo ordine di idee la legenda dell’aureo di Ottaviano che
celebra nel 28 a.C. l’abrogazione delle disposizioni emanate durante il triumvirato: per
esprimere il restauro dell’ordinamento, la formula usata è Leges et iura p(opuli) R(omani) restituit.33
In questa linea, che collega Plauto a Cicerone e arriva sino all’età augustea, s’inserisce perfettamente e prende un senso compiuto l’affermazione ben nota di Livio, che,
guardando a ritroso l’intera storia repubblicana, vi vede «un immenso cumulo di leggi
accatastate l’una sull’altra», anche se l’importanza delle Dodici Tavole riesce a emergere al di sopra della pletora di leges che le hanno seguite (3.34.6):
centuriatis comitiis decem tabularum leges perlatae sunt, qui nunc quoque in hoc inmenso aliarum
super alias acervatarum legum cumulo fons omnis publici privatique est iuris.34
È un’immagine tanto più rivelatrice in quanto Livio si riferisce esplicitamente sia al
diritto pubblico sia al diritto privato (la menzione delle Dodici Tavole è, da questo
punto di vista, assai significativa).
Le lamentele di Cicerone, la descrizione che Svetonio offre della situazione alla quale
Cesare avrebbe voluto porre rimedio e l’immagine retrospettiva di Livio quasi si compendiano nell’affermazione con cui Tacito apre il noto excursus sulla storia della legislazione romana, il quadro più accurato e esplicito di cui disponiamo sul ruolo storicamente rivestito dalla lex (ann. 3.25.3):
Sempronia de pecunia credita citata da Livio (35.7.2-7) e che vi sia anche un collegamento con la tirata sulla decadenza dei mores, non più frenati dalle leggi, contenuta in Trin. 1028-1054 (su cui vd. ROMANO, Echi e riuso della
legge nella letteratura latina cit. [nt. 15], 188-190). In effetti, a parte la prossimità cronologica, la descrizione di Livio,
che individua l’occasio legis nell’elusione delle norme precedenti (§ 2: cum multis foenebribus legibus constricta avaritia esset, via fraudis inita erat) coincide singolarmente con la descrizione plautina (Rogitationis plurumas propter vos
populus scivit, […] aliquam reperitis rimam); se anche non vi fosse un nesso diretto, saremmo comunque di fronte ad
una testimonianza molto realistica dello stato della legislazione sulle usure.
33 Cfr. D. MANTOVANI, Leges et iura p(opuli) R(omani) restituit. Principe e diritto in un aureo di Ottaviano, in Athenaeum
96 (2008) 5 ss., in particolare sulla formula leges et iura, impiegata tipicamente a indicare l’ordinamento nel suo complesso (mentre, com’è chiaro, nel passo di Cicerone v’è piuttosto una distinzione, che pure lascia intatto il rilievo delle
leges). Non è il caso di percorrere qui la strada terminologica che mostra in varie altre connessioni (a cominciare dalla
formula Omnes populi qui legibus et moribus reguntur di Gai. Inst. 1.1) il rilievo delle leges nell’esperienza romana.
34 Vd. per tutti, A. FLACH, Fortgeltung des Zwölftafelrechts, Frankfurt am Main 2004, 11 ss.
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ea res (cioè la situazione per cui le leggi erano divenute causa di malessere sociale, invece che
rimedio) admonet ut de principiis iuris et quibus modis ad hanc multitudinem infinitam ac
varietatem legum perventum sit altius disseram.35
Se Cicerone e Livio si limitavano a constatare l’accumulo smisurato, Tacito cerca
una spiegazione: il fatto che la multitudo e la varietas legum costituiscano il tema della
digressione, il motivo che l’avvia e su cui si regge, rappresenta anzi la conferma che
doveva trattarsi di un fenomeno reale.
In questa rapida carrellata sulle concezioni dei Romani riguardo alla legum multitudo, sono rimasti per ora assenti i giuristi. Prese di posizione critiche, come quelle di
oratori e storici, non se ne trovano e, a ben vedere, è difficile aspettarsene; la loro prospettiva è tutta interna all’ordinamento e al suo funzionamento.36 Dai iuris consulti ci
si può semmai attendere una presa di posizione circa il rango delle fonti, dalla quale si
possa cogliere l’importanza maggiore o minore che essi assegnavano alle leges. Il tema
è apparentemente sconfinato e aperto a molteplici interpretazioni, che potrebbero
sconsigliare dall’affrontarlo.37 È sufficiente tuttavia ripercorrere la storia del ius tracciata da Pomponio, assecondando la sua specifica concettualizzazione senza ridurla a categorie moderne, per intendere che, nel giudizio tecnico di un giurista romano, la lex –
e non la giurisprudenza o altre fonti – aveva il primo posto nell’ordinamento.38
Non occorre proporre qui una lettura complessiva dell’enchiridion, ricco di motivi
che eccedono i confini del discorso che stiamo conducendo, ma solo soffermarci sul
tema dell’origo, che insieme al processus costituisce il perno del primo tratto dell’opuscolo (D. 1.2.2 pr.-12) e che forse non è stato ben messo a fuoco.39
35
Alla formula la memoria letteraria di Tacito arrivava recuperando multitudo da Cicerone (Sest. 55). Per altre accertate
dipendenze dell’excursus di Tacito da Cicerone (e Sallustio), vd. per tutti A.J. WOODMAN - R.H. MARTIN (eds.), The Annals
of Tacitus. Book 3, Edited with a Commentary by A.J. W. - R.H. M., Cambridge 1996, 236 ss.; per una lettura dell’excursus nel suo complesso, vd. MANTOVANI, Leges, mores, potentia cit. (nt. 17) (in stampa). A sua volta, l’espressione tacitiana
hanc multitudinem infinitam ac varietatem legum ha influenzato l’espressione di Svetonio immensa diffusaque legum copia (che
da Livio prelevava l’aggettivo immensa), che costituisce una variatio della formula tacitiana, di cui mantiene lo schema formato da quattro elementi e conserva l’intensione semantica, pur sostituendo i termini (con la sfumatura varietas /diffusa).
36 D. NÖRR, Rechtskritik in der römischen Antike, München 1974, spec. 105 ss.
37 Anche se le linee fondamentali del sistema delle fonti sono ben identificabili: vd. per tutti M. KASER, Zur Problematik
der römischen Rechtsquellenlehre, in ID., Römische Rechtsquellen und angewandte Juristenmethode, Wien-Köln 1986, 1 ss.,
spec. 14 ss., secondo cui dalle fonti giuridiche emerge inequivocabile la «dominierende Stellung der leges» (p. 16). Con
la presente indagine si vuole dimostrare che a questa posizione ideologicamente e giuridicamente dominante corrispondeva, in concreto, un numero di leges maggiore rispetto a quello di solito (anche dal Kaser) ritenuto.
38 Sull’enchiridion, con bibliografia, vd. MANTOVANI, Leges, mores, potentia cit. (nt. 17), § 10 (in stampa), ove è esposta, più sinteticamente, anche l’interpretazione della iuris origo qui svolta.
39 Le sezioni che seguono, de magistratuum nominibus et origine (§§ 13-34) e de auctorum successione (§§ 35-53), ser-
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Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
Già l’accostamento fra i due termini – origo e processus – indica che l’origo è un
momento puntuale, la genesi istantanea cui fa seguito lo svolgimento di lunga durata,
il processus.40 In che cosa precisamente consista, lo chiarisce bene la prima porzione del
testo, che copre l’arco dagli inizi della città alle Dodici Tavole (l.s. enchir. D. 1.2.2.1-4):
[1] Et quidem initio civitatis nostrae populus sine lege certa, sine iure certo primum agere instituit
omniaque manu a regibus gubernabantur. [2] Postea aucta ad aliquem modum civitate ipsum
Romulum traditur populum in triginta partes divisisse, quas partes curias appellavit propterea
quod tunc reipublicae curam per sententias partium earum expediebat. Et ita leges quasdam et
ipse curiatas ad populum tulit: tulerunt et sequentes reges. […] [3] Exactis deinde regibus lege
tribunicia, omnes leges hae exoleverunt iterumque coepit populus Romanus incerto magis iure et
consuetudine aliqua a<g >i 41 quam per latam legem, idque prope viginti annis passus est. [4]
Postea ne diutius hoc fieret, placuit publica auctoritate decem constitui viros, per quos peterentur
leges a Graecis civitatibus et civitas fundaretur legibus.
Gli inizi di Roma, nel meccanismo dell’enchiridion, si perdono in una fase forse persino pre-romulea, in cui tutto è in mano ai re, sine lege certa, sine iure certo (§ 1).
Quest’esordio, più che enunciare un semplice fatto, contiene la chiave interpretativa:
Pomponio mostra di considerare quali valori fondamentali della narrazione la presenza del diritto (ius in civitate esse: § 13) e la sua certezza.42
vono da complemento, perché il ius – di cui la prima parte traccia la storia – non può reggersi senza magistrati che
lo facciano rispettare e giuristi che lo concepiscano e tramandino. È quasi superfluo aggiungere che l’enchiridion –
oltre alla parte storica tripartita – conteneva anche (almeno) un’altra sezione, di definizioni lessicali (di cui resta il
frammento D. 50.16.239), che con le altre sezioni, per quanto si vede, ha in comune solo lo scopo, ossia fornire
un’introduzione elementare alla fenomenologia giuridica.
40 Che questa sia la iuris origo sembra di solito passare inosservato. Non mi sento perciò di condividere, su questo punto,
la lettura per altri versi finissima di Y. THOMAS, Idées Romaines sur l’origine et la transmission du droit, in RJ 5 (1986) 253:
«A leur droit, les Romains ne semblent vouloir reconnaître aucune origine»; 254: «Nul point d’émergence, nul acte de
naissance». Viceversa, D. NÖRR, Pomponius oder ‘Zum Geschichtsverständnis der römischen Juristen’ (1974), poi in ID.,
Historiae Iuris Antiqui II, hrsg. v. T.J. CHIUSI - W. KAISER - H.-D. SPENGLER, Goldbach 2003, 1052 (trad. it. a c. di M.A.
Fino - E. Stolfi, in RDR 2 [2002] 52), rileva esattamente che esisteva nella storiografia romana la tendenza non a fare
emergere le origines in modo lento e impercettibile, bensì a collocarle all’interno di un contesto simile alla tabula rasa (p.
1052 [= 52]; l’A., tuttavia, non approfondisce il contenuto della iuris origo in Pomponio, dedicandosi invece al processus.
41 Propongo questa emendazione. La lezione del ms. F è ali, emendata da Mommsen in uti (tenendo conto dell’Epitome legum, praef.).
42 Vd. in particolare NÖRR, Pomponius oder ‘Zum Geschichtsverständnis der römischen Juristen’ cit. (nt. 40), 1058
(= 56), che individua come valori «die Gewißheit, Offenheit (Transparenz) und Ordnung des Rechts, kurz die
Rechtssicherheit». La scelta assiologica di Pomponio sembra obbligata, poiché il suo manuale aveva una destinazione propedeutica, perciò l’esistenza del ius (cioè l’oggetto stesso dello studium) e la sua certezza erano indispensabili.
Più in generale, non bisogna perdere di vista che il trattato di Pomponio non è una ‘storia’ in senso positivistico, registrazione di fatti accertati, bensì è un’interpretazione, una sorta di disegno, qual era tendenzialmente la storiografia
antica, specialmente quando si volgeva alla fase delle origini.
Dario Mantovani
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Assunti come cardini l’esistenza e la certezza del ius, la «storia geometrica» di
Pomponio – perché tale è, più che una storia in senso critico e positivistico – imbocca un andamento per tesi e antitesi: alla fase iniziale – pre-romulea – di vuoto giuridico fa da contrappunto l’origo, la nascita del diritto.
Qui si tocca il punto per noi rilevante. Il ius nacque quando Romolo divise il popolo in curie e presentò alla sua approvazione le leges (§ 2): l’origo coincide con l’assegnazione di un ruolo costituzionale al popolo, attraverso una divisione in curie che
rende possibile l’esercizio della sovranità, la quale si esprime nell’approvazione delle
leges proposte dal re. Per Pomponio, il ius è dunque, nella sua forma cronologicamente e logicamente primaria, la lex approvata dal popolo.
La coincidenza fra l’origo del ius e l’introduzione delle leges (e la dialettica fra antitesi
e tesi) è confermata dal seguito del racconto, che registra un regresso verso l’incertezza,
quasi che quella monarchica fosse stata una falsa partenza del ius: il regresso coincide
esplicitamente con il venire meno delle leges approvate da Romolo e dai successori (omnes
leges hae exoleverunt: § 3). Il popolo Romano si ritrova appunto in balia di un diritto
poco determinato e di una qualche prassi consuetudinaria, situazione a fronte della quale
Pomponio non manca di ribadire, didascalicamente, che un ordinamento giuridico veramente tale coincide con l’esistenza della lex lata (incerto magis iure et consuetudine aliqua
a<g >i quam per latam legem: § 3). Coerentemente, il rimedio è visto in una nuova legislazione: vengono così nominati i decemviri, per quos […] civitas fundaretur legibus (§ 4).
Le Dodici Tavole segnano una seconda e questa volta definitiva origo iuris, che, come la
prima, coincide con l’emanazione di leges, destinate a consolidare la città.
Non si tratta, ovviamente, di sostenere che questa rappresentazione coincida con
l’effettiva genesi dell’ordinamento romano.43 Ciò che conta è l’importanza inequivocabile che un giurista come Pomponio, ancora nel II secolo d.C., assegnava alla lex publica nella propria visione dell’esperienza giuridica romana (ed è superfluo sottolineare
che egli ha in animo in primo luogo proprio il diritto privato).
Nell’enchiridion, la presunta marginalità della legge nell’esperienza romana viene
insomma messa in dubbio una volta in più e da un’altra angolatura: non sotto il pro43
Per l’interpretazione secondo cui si tratta di una «proiezione, che retrodatava all’età monarchica – addirittura ai
tempi di Romolo! – il modello, tipicamente repubblicano, del rapporto lex-comizio», vd. per tutti A. SCHIAVONE,
Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino 2005, 74 ss. (la citazione ivi, 80). Questo tipo di interpretazione, tuttavia, solleva a sua volta un problema storico. Se la preminenza attribuita fin dalle origini alla legge fosse frutto di
una proiezione repubblicana, bisognerebbe supporre che la lex, nell’esperienza repubblicana stessa, avesse un rilievo
tale da suscitare questa anticipazione, rilievo che, viceversa, non si è in genere disposti a riconoscere alla lex in nessun momento della storia romana (tant’è che spesso si spiega questa presunta rivisitazione delle origini in chiave legalistica ipotizzando un’influenza del pensiero greco ed ellenistico in tema di nomoi).
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Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
filo della quantità delle leges, su cui rendono testimonianza le fonti letterarie, bensì
sotto il profilo di Grundnorm che i giuristi assegnano alla lex publica. Anche nell’enchiridion, insomma, si ritrova quel che impeccabilmente è stato detto in generale da
Max Kaser: «Die lex ist für die Römer der Prototyp der Rechtsquelle».44
Una concezione che, per tornare al punto di vista antico, è espressa nella sua forma
forse più alta nell’elogio ciceroniano della lex (Cluent. 146):
Hoc enim vinculum est huius dignitatis qua fruimur in re publica, hoc fundamentum libertatis,
hic fons aequitatis: mens et animus et consilium et sententia civitatis posita est in legibus. Ut
corpora nostra sine mente, sic civitas sine lege suis partibus, ut nervis et sanguine et membris, uti
non potest. Legum ministri magistratus, legum interpretes iudices, legum denique idcirco omnes
servi sumus ut liberi esse possimus.45
Prima di portare a termine il capitolo relativo alle concezioni antiche sulle leges, è
opportuno commentare un brano di un’altra opera giuridica, Gai. Inst. 4.22:
Postea quaedam leges ex aliis quibusdam causis pro iudicato manus iniectionem in quosdam
dederunt, sicut lex Publilia in eum, pro quo sponsor dependisset […]; item lex Furia de sponsu
[…] et denique conplures aliae leges in multis causis talem actionem dederunt.
Discorrendo dei casi in cui si poteva procedere alla manus iniectio pro iudicato, dopo
avere menzionato nominativamente due leggi, Gaio si rifugia in una locuzione riassuntiva: complures aliae leges in multis causis talem actionem dederunt. Più che per quel che implica – ossia che, anche in un settore delimitato, vi fossero parecchie leggi – la frase è degna
di nota perché ci mette al corrente di una strategia espositiva, ossia del fatto che Gaio non
menziona nel suo manuale tutte le leges di cui è a conoscenza, bensì procede per esempi.46
Questa consapevolezza dovrà farci da guida nella seconda parte della verifica sulle
fonti che ci eravamo proposti, alla ricerca appunto delle leges di diritto privato menzionate nelle opere dei giuristi. Prima di affrontare questo secondo versante, conviene
trarre un bilancio riguardo alle idee che i contemporanei nutrivano circa la quantità
delle leges, con la convinzione che non è troppo azzardato generalizzare asserzioni convergenti e che non trovano alcuna smentita. Da Plauto a Tacito, i Romani considera44
Zur Problematik der römischen Rechtsquellenlehre cit. (nt. 37), 14.
Sul passo, che ovviamente non ha attinenza specifica con il diritto privato, ma definisce il ruolo della legge nell’ordinamento, vd. per tutti, BLEICKEN, Lex publica cit. (nt. 13), 464. Nel contesto dell’orazione giudiziale, l’elogio
della lex è funzionale ad un’interpretazione restrittiva, volta a evitare agli equites l’applicazione della norma legislativa che puniva il circumvenire iudicio quando autore del reato fosse un senatore.
46 Simile Ulp. 18 ed. D. 9.2.1 pr.: Lex Aquilia omnibus legibus, quae ante se de damno iniuria locutae sunt, derogavit,
sive duodecim tabulis, sive alia quae fuit: quas leges nunc referre non est necesse (sempre che Ulpiano davvero ne avesse
una conoscenza precisa).
45
Dario Mantovani
721
vano esorbitante la produzione legislativa, tanto in generale, quanto nel campo del
diritto privato. La loro sensazione era agli antipodi rispetto alla caratterizzazione dei
Romani come un popolo restio all’uso della legge.
A questo bilancio occorre solo aggiungere una postilla, senza la quale chi, anche di
fronte a queste testimonianze, volesse continuare a coltivare l’immagine ‘a-legislativa’
– non meno ideologica del suo contrario – potrebbe trovare facili coperture verbali dietro cui riparare i propri postulati. I Romani – per parlare con Livio – denunciavano
l’inmensum aliarum super alias acervatarum legum cumulum e consideravano le leges –
come insegnava Pomponio – la vera e propria iuris origo. Ciò non equivale, tuttavia, a
concludere che il numero delle leges fosse esorbitante anche alla stregua delle nostre
misure. Paragonata alla produttività di un parlamento moderno, quella del concilio e
dei comizi (e del senato, che in parte si affiancava) era senz’altro inferiore. Compito
dello storico del diritto, tuttavia, è quello di cogliere dall’interno le concezioni antiche,
senza adottare la propria esperienza come metro per misurare il passato.
Insomma, sembra che davanti al numero delle loro leges i Romani fossero presi da
uno sgomento analogo a quello che ha portato il parlamento italiano nel 2005 a votare una norma definita taglia-leggi, ossia l’art. 14 della legge n. 246 del 2005 (e successive modifiche, da ultimo con l. 18 febbraio 2009, n. 9 e 18 giugno 2009, n. 69), che
ha disposto l’abrogazione generalizzata di tutte le norme anteriori al 1° gennaio 1970,
salvo quelle rientranti in settori esclusi dalla stessa legge del 2005 oppure espressamente ‘salvate’ da appositi successivi decreti. È un’analogia fra antico e moderno cui la
storia aggiunge un tocco di involontaria ironia, visto che il termine di questa ecatombe – fissato, dopo varie proroghe, al 16 dicembre 2010 – coincide con il giorno anniversario della pubblicazione del Digesto di Giustiniano.
3. Le leges publicae di diritto privato individuate da Rotondi
e la selezione dell’informazione nelle fonti
Si tratta ora di verificare se e in che modo la nitida sensazione dei contemporanei
corrisponda alle informazioni di cui disponiamo sulle leges publicae in materia di
diritto privato.
Rotondi contava 32 leggi di diritto privato su circa ottocento rogazioni e ne traeva
perciò la conclusione che fossero estremamente scarse.47
47
ROTONDI, Leges publicae populi Romani cit. (nt. 2), 100 ss. Per la precisione, ne contava 34, perché vi includeva
anche una presunta lex de nuptiis cognatorum, di cui tuttavia in sede critica disconosceva l’esistenza (op. cit., 474 s.)
e la cd. lex Iulia de servis indicibus, disposizione emanata da Caligola, ma della quale non è attestata la forma di lex.
In precedenza, nelle Osservazioni sulla legislazione cit. (nt. 4), 5, l’A. ne aveva annoverate 26. Cfr. per un elenco inter-
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Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
Di fronte a quel breve elenco, la prima considerazione è che il setaccio che ha usato
Rotondi è evidentemente troppo fine.48 Lo studioso ha escluso dal diritto privato le
leggi pertinenti alle azioni e persino le leges de sponsu, che nel 1583 Antonio Agustín,
il primo raccoglitore delle leges publicae romane, non aveva esitato a inserire nel De legibus et senatusconsultis liber – ovviamente, quelle che gli erano note prima della riscoperta di Gaio – sotto l’analoga categoria de rebus civilibus.49
Neppure le leges fenebres e sui debiti sono considerate da Rotondi, così che si arriva
al paradosso che la lex Poetelia Papiria de nexis non viene contata fra quelle di diritto
privato.50 Inoltre, dal suo elenco esulano le leges per così dire saturae o almeno miscellae, che contenevano (anche) norme di puro diritto privato:51 mancano, per fare gli
esempi più eclatanti, la lex Plautia et Iulia sul divieto di usucapire le res vi possessae e la
lex Iulia de fundo dotali, che è forse parte della lex Iulia de adulteriis (e che, se non lo
fosse, meriterebbe a maggior ragione di essere inclusa nell’elenco). Semplicemente riunendo le categorie artificiosamente distinte, la lista si modifica sensibilmente: se
Rotondi menziona 32 leges, diventano circa 70, dunque più del doppio.52
Ma la correzione da apportare all’elenco di Rotondi – bisogna dirlo con tutta la
chiarezza possibile – non sta nell’allargare le maglie troppo strette della selezione da lui
effettuata. La revisione fondamentale, e ben più complessa, si deve rivolgere a un altro
aspetto, cioè all’informazione su cui la lista è costruita. Siamo davvero sicuri di conoscere tutte o quasi le leges de iure civili ? La tradizione è limpida o è stata sottoposta a
una deformazione?
medio ID., Ricerche sulla produzione legislativa dei comizi romani, in ID., Scritti giuridici cit. (nt. 4) I, 63 nt. 3, dove
opportunamente è ricordata la lex Minicia de liberis di cui è menzione in Gai. Inst. 1.78 e Tit. Ulp. 5.8, rimasta poi
esclusa, probabilmente per errore, dall’ultimo elenco.
48 I numeri di Rotondi sono in genere accolti senza riserve; vd. per tutti BLEICKEN, Lex Publica cit. (nt. 13), spec.
142; SANTUCCI, Das Gesetz im römischen Recht cit. (nt. 3), 286. Per una distinzione delle materie ispirata a criteri
diversi, cfr. WILLIAMSON, The Laws of the Roman People cit. (nt. 5), 9 ss.
49 A. AGUSTÍN, De Legibus et Senatusconsultis liber. Adiunctis Legum antiquarum et Senatusconsultorum fragmentis,
cum notis Fulvi Ursini, Romae ex typographia Dominici Basae 1583, 10 s. Molte delle leggi pertinenti alle actiones
gli erano ignote; quelle di cui aveva notizia sono incluse in una categoria che le accostava alle aliae res civiles.
Sull’opera, vd. J.-L. FERRARY, La genèse du De Legibus et senatus consultis, in M.H. CRAWFORD (ed.), Antonio Agustín
between Renaissance and Counter-Reform, London 1993, 31 ss.
50 In Leges publicae populi Romani cit. (nt. 2), 73, ammette che anche le leges sumptuariae, insieme a quelle fenebres
e de sponsu «formano in certo modo il trait-d’union col diritto privato»: quest’ammissione del Rotondi, che ridimensiona i suoi stessi risultati, passa di solito inosservata.
51 Cfr. Fest. p. 413 L.: Satura, et cibi genus ex variis rebus conditum est, et lex <mul>tis alis legibus conferta.
52 Dato il diverso criterio adottato per costruire la tabella, che è di prendere in considerazione solo le leges che gli
stessi giuristi citavano nelle loro opere di carattere privatistico (vd. infra, ntt. 69-72), l’elenco delle leges oggetto di
revisione è inferiore, ossia 57.
Dario Mantovani
723
Lo stesso Rotondi, da ricercatore agguerrito qual era, era stato colto da seri dubbi. Dopo
avere dichiarato che Livio è «la più ampia e organica» fonte di conoscenza delle leges publicae in generale, riconosceva come grave inconveniente «parecchie lacune nel campo della
legislazione di diritto privato».53 Vedremo poi come avesse finito per superare quest’esitazione, così che per molto tempo non s’è neppure più avuta percezione del problema.
I dubbi non possono tuttavia essere elusi, poiché in tempi recenti sono stati riproposti con più forza e metodo da J.-L. Ferrary, che ha riesaminato i modi di citazione
di Livio, a partire da un meticoloso censimento delle leges citate nei libri 21-45, da lui
distinte a seconda che Livio dia notizia dell’approvazione della lex (o della promulgazione della rogatio) nell’anno in cui è avvenuta oppure ne accenni in contesti cronologici diversi (in genere, retrospettivamente).54 A fronte delle leges esplicitamente ricordate, Ferrary ha individuato una serie cospicua di leggi la cui esistenza dev’essere ipotizzata in base a eventi riferiti da Livio, senza tuttavia che lo storico ne faccia espressa
menzione (ad esempio, l’istituzione di due pretori aggiuntivi nel 198, di cui dà notizia Liv. 32.27.6, fu verosimilmente effettuata mediante una lex, ma Livio ritenne
superfluo darne conto perché era una legge di routine, così come non è menzionata la
più che probabile ratifica legislativa del trattato con gli Etoli, Liv. 26.24.14-15).55
Infine, lo studioso francese ha allestito un elenco di leggi emanate nel 218-167 e conosciute grazie a fonti diverse da Livio, che invece le passa sotto silenzio.56
53 Ricerche sulla produzione legislativa dei comizi romani cit. (nt. 46), spec. 62. La preminenza di Livio riguarda in
realtà solo gli anni coperti dalle deche; le tabelle approntate da WILLIAMSON, The Laws of the Roman People cit. (nt.
5), 449 ss. (spec. tab. B.1) mostrano che Cicerone menziona 210 leggi per il periodo 300-25 a.C. (anche se ovviamente arriva fino al 43), mentre Livio (integrale e periochae) ne registra per lo stesso periodo solo 139, seguito da
Cassio Dione con 104. Più in generale, la caratterizzazione di Livio (che vale anche per Cassio Dione e gli altri scrittori annalisti) come «fonte organica», che Rotondi gli attribuisce in quanto lo storico tende a dare notizia della legislazione nell’anno stesso dell’emanazione, riflette senz’altro una effettiva differenza, ad esempio, rispetto al modo di
procedere di Cicerone, che menziona le leges in modo sporadico, a seconda che siano rilevanti per gli argomenti di
volta in volta affrontati. Tuttavia, la qualifica di «fonte organica» – utile per evitare di confrontare generi letterari differenti e trarne errate conclusioni – rischia di creare un’illusione ottica, lasciando intendere che fra i compiti assunti
da Livio (e dagli altri annalisti) ci fosse quello di riferire metodicamente tutte le leges di ciascun anno, il che fa pensare che la nostra informazione sia abbastanza completa. In realtà, come già rivelava implicitamente il ragionamento
di Sempronio Asellione (supra, § 2) e come si constaterà subito appresso, gli annalisti erano selettivi, allo stesso modo
in cui, per fare un esempio, non fornivano gli elenchi completi dei magistrati dell’anno (ma solo delle magistrature
più importanti o di altre occasionalmente rilevanti per la narrazione) né i componenti di tutti i collegi sacerdotali.
54 FERRARY, La législation romaine dans les livres 21 à 45 de Tite-Live cit. (nt. 9), risp. 109 ss. (leggi citate in ordine
annalistico), 113 ss. (leggi menzionate fuori cronologia).
55 La législation romaine dans les livres 21 à 45 de Tite-Live cit. (nt. 9), 120 ss. (per la ratifica legislativa dei trattati,
vd. la motivata discussione, 125 ss.).
56 La législation romaine dans les livres 21 à 45 de Tite-Live cit. (nt. 9), 117 ss.
724
Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
Confrontando la lista delle leggi citate in ordine annalistico da una parte con la lista delle
leggi di routine ‘implicite’ e delle leggi note da fonti diverse dall’altra, Ferrary arriva alla
conclusione che le omissioni di Livio sono senza dubbio più numerose di quanto si sospettasse. Livio tace non solo la legislazione di routine (come appunto quella che accompagnava
l’istituzione di magistrature, la ratifica di trattati, la distribuzione di terre e la deduzione di
colonie, la dedica di templi da parte di IIviri, eventi che egli annota senza segnalare il formale passaggio legislativo),57 ma omette pure norme di rilevante contenuto socio-politico
(come le leges Porciae, Cincia o Orchia)58 e soprattutto le leggi di diritto privato, come la lex
Laetoria, anteriore al 191, la lex Atilia, anteriore al 186 e la lex Furia, anteriore al 169.59
Il principio è chiaro: leggi di diritto privato che non hanno rilievo politico e narrativo, non hanno ragione di entrare negli annali ab urbe condita, se non eccezionalmente (così come, a maggior ragione, non ne hanno per essere menzionate da Cicerone –
per riferirci all’altra nostra fonte più abbondante – nelle orazioni di diritto criminale).
A ciò, ovviamente, va aggiunta la perdita, abbastanza catastrofica, delle deche successive al libro 45.
Conclusione: «Le catalogue de Rotondi est trop souvent mal utilisé, comme s’il
s’agissait pratiquement d’une liste officielle, complète et sûre».60
Quali immensi varchi si aprano nel tessuto delle notizie tramandate dalle fonti letterarie (e giuridiche) appare chiaro da un’altra più modesta riprova, che si può effettuare rapidamente, prendendo come termine di riferimento le leggi epigrafiche incluse nella collezione dei Roman Statutes.61
57
Notevole, per il riscontro quantitativo che permette, il caso delle distribuzioni di terre o deduzione di colonie:
Livio menziona il relativo plebiscito in 2 casi, mentre lo omette in almeno altri 9 (FERRARY, La législation romaine
dans les livres 21 à 45 de Tite-Live cit. [nt. 9], 129; per una diversa ricostruzione della procedura, vd. U. LAFFI, Leggi
agrarie e coloniarie, in questo volume, supra, 461, secondo il quale le leggi «rappresentarono uno strumento giuridico marginale» e «la politica agraria e coloniaria di Roma fu realizzata su più larga scala mediante senatoconsulti»).
58 Di esse non dà notizia nell’anno di approvazione; le prime due vengono citate solo di riflesso in altri contesti, come
già vigenti: sulla lex Cincia, vd. Liv. 34.4.9; sulla lex Porcia (o leges Porciae) Liv. 10.9.4. Questo modo di procedere rappresenta un’ulteriore attenuazione del carattere di «fonte organica» che Rotondi attribuisce a Livio (vd. supra, nt. 53).
59 FERRARY, Chapitres tralatices cit. (nt. 9), 163.
60 FERRARY, La législation romaine dans les livres 21 à 45 de Tite-Live cit. (nt. 9), 141. Meno metodico, ma non privo di
spunti istruttivi, è il sondaggio effettuato da WILLIAMSON, The Laws of the Roman People cit. (nt. 5), 445 ss. («Appendix»
B) la quale ha notato che l’informazione sulle leges è significativamente maggiore, rispetto ad ogni altro periodo, per gli
anni 80-43; ciò dipende dal fatto che disponiamo della testimonianza di Cicerone, il più abbondante corpus letterario che
ci sia pervenuto, per giunta di un autore direttamente coinvolto nel processo legislativo (vd. anche supra, nt. 53). I dati
raccolti dall’Autrice, di tipo quantitativo, non permettono approfondimenti; tuttavia, mi pare di per sé indicativo che gli
storici (nel nostro caso Appiano e Cassio Dione) siano meno completi dell’oratore. Ciò dev’essere tenuto presente, atteso
che per gli altri periodi dell’età repubblicana si dispone pressoché solo di testimonianze di storici, dunque incomplete.
61 La collezione è stata scelta perché offre un campione rappresentativo, ancorché non completo (ad es., è notoria-
Dario Mantovani
725
Il modello della verifica è semplice: se le fonti letterarie e giuridiche fossero esaurienti, dovremmo trovarvi menzionate tutte le leggi che si sono conservate su bronzo.
Perciò la presenza o mancanza di riscontro delle leges epigrafiche è un indice del grado
di completezza o incompletezza delle fonti letterarie e giuridiche.
Delle 18 leges epigrafiche raccolte nei Roman Statutes, che siano sopravvissute in
dimensioni sufficienti da permettere di farsi un’idea del loro contenuto,62 solo una è
precisamente menzionata nelle fonti, ossia la lex de XX quaestoribus (RS, n. 14), citata
da Tac. ann. 11.22.6.
In altri tre casi è possibile avvicinare il testo epigrafico a una legge già nota dalle
fonti, anche se l’identificazione rimane ipotetica, ossia: la lex repetundarum Tabulae
Bembinae (RS, n. 1), di cui è probabile, anche se non certa, l’identificazione con una
delle varie leges de pecuniis repetundis menzionata dalle fonti letterarie a partire dall’età
graccana; la lex agraria incisa sul retro della stessa tavola (RS, n. 2), da molti identificata con la lex Thoria del 111 di Cic. de orat. 2.284 e Brut. 136 (cfr. App. BC 1.121125); il Fragm. Tarentinum (RS, n. 7), che può essere una delle varie leges de pecuniis
repetundis che compaiono nelle fonti letterarie.
A proposito della lex Valeria Aurelia sugli onori a Germanico (RS, n. 37) e della lex
de honoribus Drusi Caesaris (RS, n. 38), era noto dalle fonti letterarie che fossero stati
decretati onori, ma non vi è detto che fossero stati approvati tramite una lex, benché
la sua esistenza avrebbe potuto essere ipotizzata.
Non troviamo invece alcun riscontro nelle fonti letterarie e giuridiche riguardo a
dodici leges epigrafiche: lex de provinciis praetoriis del 100 (RS, n. 12); lex Tarentina (RS,
n. 15); Fragm. Atestinum (RS, n. 16); lex Antonia de Termessibus (RS, n. 19); lex Gabinia
Calpurnia de insula Delo (RS, n. 22); Tab. Heracleensis (RS, n. 24); lex Coloniae Genetivae
(RS, n. 25); lex de Gallia Cisalpina (RS, n. 28); Fragm. Susa (RS, n. 31); Fragm. Riccardi
(RS, n. 34); Fragm. Ephesus (RS, n. 35); lex Fonteia (RS, n. 36). Naturalmente, in taluni di questi casi la lex epigrafica si inserisce in un quadro storico di cui si aveva in varia
misura contezza, ma le fonti tacevano l’esistenza di una lex publica.
La verifica mi pare fornisca dati eloquenti: le fonti letterarie e giuridiche non ci hanno
informati di 2/3 delle leges sopravvissute per via epigrafica (12 casi su 18). Anche nei
mente rimasta esclusa la lex Irnitana). Sono escluse dalla verifica, perché troppo frammentarie per farsi un’idea del loro
contenuto e consentire un confronto con le fonti letterarie, le seguenti epigrafi: Nicotera frr. A e B (RS, nn. 3 e 4);
Firenze frr. A e B (RS, nn. 5 e 6); lex Latina Tab. Bantinae (RS, n. 7); fr. Chiusi (n. 7); Falerio fr. I A e B (RS, n. 17);
Falerio fr. II (RS, n. 18); Bauer fr. A e B (RS, nn. 11 e 23); Roma fr. A e B (RS, nn. 20 e 26); fr. Guardia Vomano (RS,
n. 21); fr. Veleia II (RS, n. 29); fr. Fiesole (RS, n. 32); fr. Uffizi (RS, n. 33). Sempre per la esiguità del frammento, è
senza possibilità di riscontro l’identificazione di fr. Venafro (RS, n. 27) con la lex Pedia de interfectoribus Caesaris.
62 Vd. nt. prec.
726
Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
restanti casi, in cui dei ravvicinamenti sono possibili, si constata la scarsissima qualità
dell’informazione conservata dalle fonti letterarie e giuridiche, che permettono solo delle
ipotesi. In un solo caso su 18 – quello appunto della lex de XX quaestoribus ricordata da
Tacito – le fonti letterarie hanno conservato notizia puntuale di una lex conservatasi
anche epigraficamente. Non sarebbe lecito generalizzare e volere trarne un calcolo della
perdita subita: ad ogni modo, la proporzione fra il noto e l’ignoto è impressionante.
A sua volta, la laconicità dell’unico riferimento esplicito (Tac. ann. 11.22.6: lege Sullae
viginti [sc. quaestores] creati supplendi senatui ), a fronte dell’ampiezza che doveva possedere il testo originario della lex epigrafica – che si estendeva per almeno nove tavole iscritte
su due colonne – ci avverte che la selezione operata dalle fonti letterarie non soltanto ha
impedito che giungesse a noi la notizia dell’esistenza di molte leggi. La selezione ha drasticamente ridotto anche la conoscenza del contenuto di quelle leggi che le fonti menzionano. Quando, come nel caso della legge sillana sui questori, si possiede (almeno in parte)
il documento epigrafico, il fenomeno si può misurare nelle sue drammatiche proporzioni.
4. Censimento delle leges publicae di diritto privato
citate nominativamente nelle fonti giuridiche e letterarie
I sondaggi su Livio e sulle fonti epigrafiche bastano a riaprire tutto il problema della
tradizione, che Rotondi, dopo avere intravisto, aveva invece accantonato, concludendo di potere confidare, nonostante tutto, che «le nostre cognizioni siano meno incomplete di quel che si potrebbe temere».63
In realtà, gli argomenti stessi addotti da Rotondi per minimizzare le lacune che egli
stesso aveva percepito non giustificavano la sua fiducia. Discuterli mi pare anzi il
migliore modo per compiere un passo in avanti, estendendo la revisione alle fonti giuridiche, che finora non sono state oggetto di un riesame sistematico.
Il primo argomento di Rotondi era, occorre dirlo, una petizione di principio: siccome
il diritto privato romano è essenzialmente anormativo, è ovvio che ci fossero poche leges.64
Al di là della tautologia, il ragionamento rivela che Rotondi era condizionato, nella sua
indagine, da una cornice interpretativa, da una teoria generale del diritto (romano): vi
torneremo perciò nella ultima parte di questo studio (§ 7).
Il secondo motivo che induceva Rotondi a credere che la nostra informazione fosse
abbastanza completa è che le leggi di diritto privato ci sono giunte attraverso le fonti
giuridiche (pregiustinianee e giustinianee) e – egli nota – se si confrontano con le fonti
63
64
Ricerche sulla produzione legislativa dei comizi romani cit. (nt. 46), 63.
Op. loc. cit.
Dario Mantovani
727
letterarie, si vede che le fonti giuridiche hanno omesso poco o niente, per la precisione «solo il plebiscito Canuleio del 445, la per di più dubbia lex Maenia de dote, oltre a
due disposizioni di Claudio de aere alieno fili familias e di Nerva de nuptiis, sul cui
carattere legislativo non si può essere sicuri».65
Qui si entra nel vivo del problema. L’argomento è un’indebita inversione: siccome a
proposito delle leggi di diritto pubblico le fonti letterarie sono più ricche di quelle giuridiche, Rotondi ne trae la conclusione che siano le più documentate per ogni tipo di
legge. Perciò le eleva per dire così a termine di paragone, misurando in base ad esse la
completezza anche delle fonti giuridiche. In realtà, come ha mostrato la verifica di
Ferrary, le fonti letterarie – a cominciare da Livio – sono abbastanza disinteressate alle
leges di diritto privato (e, come ha confermato il confronto con le leges epigrafiche, sono
lacunose rispetto alla legislazione nel suo complesso). Di conseguenza, non costituisce
un valido test della completezza delle fonti giuridiche il fatto che esse abbiano omesso
poche leges di diritto privato a confronto delle fonti letterarie, proprio perché queste
ultime – il termine di paragone – sono in realtà a loro volta molto manchevoli.
Lo stesso vale, a maggior ragione, per l’affermazione che le Institutiones di Gaio «non
ci hanno fatto conoscere una sola legge nuova riferibile a questo campo, escluse le leges
de sponsu e quelle procedurali».66 L’affermazione contiene già la propria confutazione,
perché si regge solo sulla decisione di escludere le leges de sponsu e quelle sulle azioni
dal novero del diritto privato. Soffre poi di un altro grave difetto: è da dimostrare che
Gaio, un manuale istituzionale noto per la sinteticità e le omissioni, menzionasse tutte
le leges di diritto privato; anzi, come s’è visto, era abbastanza onesto da ammettere che
di complures leges ne citava solo alcune exempli causa.67
Una volta squarciato il velo dell’argomentazione, la vera questione da affrontare è stabilire la qualità dell’informazione che ci proviene dalle fonti giuridiche. Siccome non si
possono adottare come termine di paragone le fonti letterarie – lacunose specialmente per
il diritto privato – né Gaio garantisce d’essere esaustivo, occorre organizzare un confronto interno alle fonti giuridiche stesse, che a tale scopo devono essere distinte per tipo, così
da potere accertare eventuali differenze nelle modalità e quantità di citazione delle leges.
65
Op. loc. cit. L’understatement è evidente dalla qualificazione di dubbia attribuita alla lex Maenia: si tratta di una
legge che aveva dato luogo addirittura a una satira menippea di Varrone e la cui pertinenza al regime dei rapporti
famigliari è difficile da mettere in dubbio (ELSTER, Die Gesetze cit. [nt. 11], 393 ss.). Al ragionamento riportato nel
testo, Rotondi aggiunge che «una buona metà [delle leges] sono riferite solo dalle fonti giuridiche esclusivamente e
non sono fra le meno importanti»: ma l’argomento è privo di mordente, perché dimostra solo che le fonti letterarie
tacciono in buona parte le norme di diritto privato (che perciò filtrano solo attraverso le fonti giuridiche).
66 Ricerche sulla produzione legislativa dei comizi romani cit. (nt. 46), 66.
67 Gai. Inst. 4.23: vd. supra, § 3.
728
Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
Questa distinzione costituisce il principio costruttivo della tabella. Essa presenta separatamente le citazioni esplicite di leges contenute nelle Istituzioni di Gaio; nei Tituli ex corpore Ulpiani; nelle restanti fonti pregiustinianee (comprese epigrafi e papiri documentari); nel Digesto; nelle restanti parti del Corpus Iuris; in Livio; nelle restanti fonti letterarie.
La disaggregazione permette, in particolare, di distinguere le fonti giuridiche di tradizione più o meno diretta (le fonti pregiustinianee) dalle fonti che hanno subito il
vaglio dei compilatori giustinianei; consente altresì di accertare eventuali variazioni
nelle modalità di citazione che dipendano dal diverso genere letterario (in particolare,
dalla natura istituzionale o meno degli scritti). La presenza delle fonti letterarie permette poi il confronto fra fonti tecniche e atecniche. L’inclusione delle fonti epigrafiche e papirologiche completa il censimento delle citazioni nominative delle leges, consentendo fra l’altro di recuperare varie occorrenze finora rimaste escluse dai repertori.
Quanto alle leges prese in considerazione per questo censimento, sono state incluse
nella tabella tutte quelle considerate di «diritto privato» da Rotondi.68
Tuttavia, come s’è accennato, la sua cernita è ingiustificatamente riduttiva. Per evitare
aggiunte che, a loro volta, potessero riuscire discutibili – perché basate su una diversa, ma
altrettanto aprioristica selezione – nella tabella sono state aggiunte tutte (e soltanto) le leges
publicae di argomento privatistico che sono citate dalle fonti giuridiche.69 In questo modo,
si è adottata una categoria di «leges di diritto privato» che è ricavata dalle fonti stesse.70
68
Vd. supra per i riferimenti bibliografici.
Ne sono dunque escluse le leges citate sì da fonti giuridiche, ma di carattere nemmeno parzialmente privatistico, in
primo luogo le leggi relative ai iudicia publica (compresa la lex Cornelia de iniuriis, benché l’actio sia definita privata da
Paul. 8 ed. D. 3.3.42.1). Fra le tante, è stata esclusa la lex Hortensia (che, trattando di gerarchia delle fonti, è significativamente menzionata sopratutto da fonti giuridiche: cfr. ELSTER, Die Gesetze cit. [nt. 11], 121). Al criterio secondo cui
alla lista di Rotondi sono state aggiunte esclusivamente le leges privatistiche citate in fonti giuridiche sono state apportate due sole eccezioni. La lex Claudia de aere alieno (citata da Tac. ann. 11-13, cfr. 11.5 e 7; 13.42) è stata inclusa in
quanto precorre il s.c. Macedonianum, abbondantemente citato da fonti giuridiche. La lex Poetelia Papiria (nota dalle
fonti letterarie: ELSTER, op. cit., 63 ss.) è stata inclusa per la sua evidente rilevanza privatistica; la mancata citazione di
quest’ultima lex da parte dei giuristi è del resto facilmente spiegabile a causa dell’antichità e della complessiva espunzione dei riferimenti ai negozi librali e all’esecuzione personale. Non si è voluto invece includere le restanti leges fenebres; il
fatto che Gaio citi la lex Marcia adversus feneratores (Inst. 4.24; inclusa nella tabella) mostra, tuttavia, il nesso di questa
legislazione con il diritto privato (nel caso specifico, con le actiones). Ricomprenderle nella tabella avrebbe ovviamente
messo in ancor maggiore risalto l’incompletezza di Gaio nella citazione di leges, che è uno dei risultati dell’indagine.
70 Poiché le fonti giuridiche, comprese quelle dei giuristi, citano anche leges di diritto criminale e pubblico, la cernita
richiede un filtro non ricavato immediatamente dalle fonti, ma elaborato dall’interprete (quello, appunto, che porta a
eliminare leges non privatistiche). Tuttavia, l’arbitrio è limitatissimo, perché la stessa sistematica delle opere giuridiche
delimita in modo sufficientemente univoco la materia: a grandi linee, la nozione di diritto privato che risulta (induttivamente) da questa cernita coincide con la materia trattata da Gaio nelle Institutiones. Il fatto che la categoria sia ricavata induttivamente dalle fonti e non deduttivamente imposta alle fonti evita anche di dovere stabilire un rapporto fra
le nozioni di «diritto privato» e di «ius civile» (nelle sue varie accezioni). Nella maggior parte si tratta di leges che hanno
69
Dario Mantovani
729
Sempre per garantire la validità dei risultati, sono state prese in considerazione solo
le citazioni esplicite delle leges publicae.71
In totale, sono state individuate 58 leges publicae pertinenti al diritto privato.72 Il
primo risultato della tabella, dunque, è che il numero delle leges è superiore dell’85%
rispetto a quello asserito da Rotondi.
ELENCO DELLE LEGES PUBLICAE DI DIRITTO PRIVATO CITATE NOMINATIVAMENTE NELLE FONTI
Legenda della tabella
× indica che la lex in questione è citata ma, per ragioni di spazio, gli estremi delle citazioni non
sono forniti. Nel caso di collezioni, è indicato anche l’autore o imperatore citato. Non si è tenuto conto delle citazioni nelle Novellae né nelle rielaborazioni bizantine del Corpus Iuris Civilis.
L’asterisco (*) indica che la fonte in questione è l’unica a citare la lex.
Nella colonna «Rotondi» il segno × contrassegna le leges classificate «Leggi di diritto privato» da G. Rotondi (LPPR, 100 ss.)
Il doppio asterisco (**) prima del nome di una lex indica che essa non si trova né in Rotondi
fra quelle «di diritto privato» né in Gaio (si tratta di 5 leges, 2 inserite perché sicuramente di
diritto privato, 3 perché menzionate dal Digesto; vd. supra, nt. 69).
La nota integr. accompagna le fonti in cui la citazione si trovi in un passo emendato; inscr.
quando la lex è menzionata nella inscriptio di un frammento del Digesto (ma non nel testo);
abrog. indica l’abrogazione esplicita di una lex.
Per brevità, si utilizzano qui come sigle:
FA = Fragmenta Gai Augustodunensia
PS = Pauli Sententiae
TH = Tabulae Herculanenses
Vat. = Fragmenta Vaticana
inciso sul ius civile nella sua ristretta accezione di ius legitimum (cioè di diritto modificabile solo mediante lex o fonti
equiparate: cfr. Gai. Inst. 4.111); in altri casi (es. lex Cincia) hanno avuto efficacia sul piano del ius honorarium.
71 Questo criterio è fondamentale: evita non solo di includere citazioni dubbie, ma anche consente di valutare il
comportamento di ciascuna fonte. Così, per esempio, se registrassimo nella tabella i passi del Digesto che contengono citazioni indirette riferibili – magari su base palingenetica – alla lex Cincia, ci sfuggirebbe proprio il criterio seguito dai compilatori, che è stato di espungere tutte le citazioni esplicite della legge dalle opere dei giuristi, che ne erano
ricche (come dimostra la tradizione pregiustinianea in cui sono sopravvissute).
72 Rispetto alle 32 leggi che Rotondi considera di «diritto privato», lo spoglio delle opere giuridiche privatistiche ha portato ad aggiungere: a) 7 leges che egli separa sotto l’etichetta «Leggi sulla procedura per legis actiones e per formulas» (Leges
Publicae Populi Romani cit. [nt. 2], 102); b) 9 leges «de sponsu, de alea» (op. cit., 100; non è inclusa nella nostra tabella la lex
aleatoria di incertissima identità e citata solo da fonti letterarie); c) 3 delle leggi da lui ricomprese fra le leges fenebres (lex
Poetelia Papiria de nexis, la lex Marcia citata da Gai. Inst. 4.23 e la lex Claudia de aere alieno filiorum familiarum citata da
Tacito, inclusa in quanto precorre il s.c. Macedonianum). A queste si aggiungono 2 leges che Rotondi ha omesse forse per
errore (la lex Ollinia di Gai. Inst. 4.109 e la lex Minicia de liberis, sulla quale vd. supra, nt. 47) e 3 leges che hanno altro oggetto principale, ma contengono disposizioni privatistiche anche di rilievo e come tali sono citate dai giuristi (lex Plautia e lex
Iulia de vi e lex iudiciorum publicorum), nonché la lex Iulia de fundo dotali, se è autonoma rispetto alla lex Iulia de adulteriis.
730
Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
Data
Leggi
(di diritto privato)
Rotondi
Gai Digesta
Inst.
451-450
XII Tabulae
×
×
×
445
Canuleia de conubio
×
326
**Poetelia Papiria de nexis
?286
Aquilia de damno iniuria dato
×
×
×
(ca. 195 citazioni)
?
Licin(n)ia de communi dividundo
(an potius caput l. Liciniae de sodaliciis?)
×
×
Marcian. D. 4.7.12
?
Pinaria iudiciaria
×*
post 241? Ap(p)uleia de sponsu
×*
?
Publilia de sponsu
×*
?
Furia de sponsu
×
?
Crepereia de summa sponsionis
×*
?
Hostilia de furti alieno nomine agendo
×
204
Cincia de donis muneribus
×
III/II sec. Laetoria de adulescentibus
×
(inscr. Paul. D. 1.3.29)
?
Cicereia de sponsu
?204-169
Furia testamentaria
?
Marcia de feneratoribus
?
Atilia de tutore dando
×
×
169
Voconia de mulierum hereditatibus
×
×
×*
×
×
×*
731
Dario Mantovani
Codex;
Institutiones
Iustiniani
Tit.
Ulp.
Fonti giuridiche pre-giustinianee
Livio
Altre fonti
letterarie
(escl. Livio)
C.; I.
×
×
×
×
×
×
×
×
Alex. C. 3.35.1;
Gord. C. 3.35.2-3;
Diocl. Max.
C. 3.35.4-6; I.
FA 103; PS 1.13a.6; 1.19.1; 2.31.23;
Coll. (2.4.1; 7.3.1-3; 12.7.1,2-10 Ulp. ed.;
2.5.1 Paul. l.s. iniur.)
×
fr. Ulp. 3 disp. IIa r. (FIRA II, 309)
I. 4.10 pr.*
×
(integr.)
Vat. (rubr.; 259; 294 Papin. resp.;
266 Ulp. ed.; 298; 310 Paul. ed.;
293.1 Diocl. Max.; 249.10 Constantin.
[integr.]); CTh. (8.12.4 Constantin.)
×
Tab. Heracl. ll. 111-112; or. Claud.
de accus. BGU 611 l. I.6; Irn. 94;
P. Oxy. 17.2111 l. 1.15 (II sec. d.C.);
BGU 378 ll. 21-22 (II sec. d.C.);
P. Oxy. 10.1274 ll. 13-14 (III sec. d.C.);
P. Oxy. 64.4435 l. 13 (kefavlaion
ejk novmou La≥i≥ªtºw≥rivou eJrmhnªeºu≥qevnto"),
cfr. 7.1020; Fragm. formul. Fab. Iv l. 1
(CPL 84 = FIRA II, 431);
CTh. (8.12.2 Constantin.)
×
×
I.
×
Vat. (301 Paul. ed.)
I.
×
ep. Oct. de Sel. l. 43;
sch. Sin. (45 Ulp. Sab.; cfr. 54)
I.
×
Coll. (16.3.20 PS = 4.8.20)
× (ma
×
178-174)
732
Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
Gai Digesta
Inst.
Data
Leggi
(di diritto privato)
Rotondi
?
Maenia ?de dote
×
?
Vallia de manus iniectione
×*
?
Silia de condictione certae pecuniae
×*
?149
Calpurnia de cond. certae rei
×*
?
Aebutia iudiciaria
×
II sec.
Atinia de usucapione
×
Iulian. D. 41.3.33 pr.;
(Sab. Cass.) Paul. D.
41.3.4.6; 50.16.215
?
Scribonia de usucapione
×
Paul. D. 41.3.4.28*
?ante 90
Minicia de liberis
?ante 81
**Titia de sponsu (et alea?)
Marcian. D. 11.5.3*
?ante 81
**Publicia de sponsu (et alea?)
Marcian. D. 11.5.3*
?81
**Cornelia de sponsu (et alea?)
Marcian. D. 11.5.3*
?81
Cornelia de sponsu
(an eadem quae praecedit?)
?81
Cornelia de confirmandis eorum testamentis,
qui in hostium potestate decessissent
×
70
Plautia de vi
?46
Iulia de tutela
×
×*
Iavol. D. 28.3.15; Iulian. D.
28.1.12; 28.6.28; 49.15.22
pr.-1,3; Scaev. D. 28.6.29;
Papin. D. 49.15.10.1;
49.15.11.1; 49.17.14 pr.;
Ulp. D. 28.3.6.12; 38.16.1 pr.;
Paul. D. 29.1.39; 35.2.1.1;
35.2.18 pr.; 38.2.4.1;
41.3.15 pr. (Marcell.);
Tryph. D. 49.15.12.1
×
×
×
Iulian. D. 41.3.33.2
733
Dario Mantovani
Codex;
Institutiones
Iustiniani
Tit.
Ulp.
Fonti giuridiche pre-giustinianee
Livio
Altre fonti
letterarie
(escl. Livio)
×* (Varro Men.
232, 238; Macr.
Sat. 1.11.5)
lex rep. Tab. Bemb. ll. 23, 73-74, 80-81?
(ad aliam l. Calpurniam referri magis
videtur)
×
I.
×
×
?
Sev.-Ant. C.
8.50.1.1; Diocl.
Max. C. 2.53.5;
6.58.8; 8.50.9
×
PS 3.4a.8
I.
I. (cfr. Theoph.)
×
×
ep. Oct. de Sel. l. 44; PP 6 (1951) 228 n. 13
Tab. I p. 2 l. 4 (TH); CPL 200 l. 3
(a. 126/132 d.C.); SB 3.6223 (= CPL 202)
ll. 3-4, 27-28 (a. 198 d.C.); ChLA 11.503
(= P. Heid. Lat. 10) l. 2 (a. 219 d.C.?);
P. Oxy. 12.1466r ll. 1 (integr.), 5 (a. 245
d.C.); P. Oxy. 4.720 ll. 4, 15 (a. 247 d.C.);
P. Oxy. 34.2710 l. 6 (a. 261 d.C.)
734
Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
Data
Leggi
(di diritto privato)
Rotondi
Gai Digesta
Inst.
?43
Titia de tutela
×
×
40
Falcidia de legatis
×
×
× (ca. 250 citazioni)
18
Iulia de maritandis ordinibus
(+ Iulia caducaria; cfr. Tit. Ulp. 28.7)
×
×
Paul. D. 23.2.44 pr.;
37.14.6.4; Ulp. D.
38.11.1.1; Marcian. D.
23.2.19 (+ inscriptiones)
×
Gai. D. 23.5.4; Paul. D.
23.5.1 pr., 3 pr.; 48.10.14.2;
Ulp. D. 23.5.13 pr.;
Tryph. D. 23.5.16
18 (o 17) Iulia de fundo dotali
(seu caput legis de adulteriis)
17
Iulia iudiciorum privatorum
×
Ulp. D. 5.1.2.1;
48.19.32
17
Iulia iudiciorum publicorum
×
Venul. D. 48.2.12.2;
Ulp. D. 48.19.32;
Paul. D. 22.5.4; 48.2.3 pr.;
Macer D. 47.15.3.1;
Mod. D. 48.14.1.4
?17
Iulia de vi privata
×
Iulian. D. 41.3.33.2; Venul. D.
48.2.12.4; Ulp. D. 47.8.2.1;
48.19.32; Paul. D. 48.7.4 pr.;
Marcian. D. 48.7.1 pr.-1;
Macer D. 48.1.1;
Mod. D. 48.7.6
?
Iulia de bonis cedendis
×
735
Dario Mantovani
Codex;
Institutiones
Iustiniani
Tit. Fonti giuridiche pre-giustinianee
Ulp.
I.
×
Livio
Altre fonti
letterarie
(escl. Livio)
ep. Oct. de Sel. l. 44 (integr.); PP 6 (1951)
228 n. 13 Tab. I p. 2 l. 4 (TH) (integr.);
CPL 200 l. 3 (a. 126/132 d.C.); SB 3.6223
(= CPL 202) ll. 3-4, 27-28 (a. 198 d.C.);
ChLA 11.503 (= P. Heid. Lat. 10) l. 2
(a. 219 d.C.?); P. Oxy. 12.1466r ll. 1, 5
(integr. bis) (a. 245 d.C.); P. Oxy. 4.720
ll. 4, 14 (integr.) (a. 247 d.C.); P. Oxy.
34.2710 l. 6 (a. 261 d.C.); sch. Sin. 54
C. (43 citazioni); ×
I. (8);
CIL 11.419 l. 10; PS (3.8.1; 4.3.3; 4.5.5);
Vat. (68 Paul.; 281 Diocl. Max.); CTh.
(5.1.4.1 Valent. Th. Arc.; 9.14.3.2 Arc. Hon.;
16.8.28 Th. Val.); Gai. epit. 2.6; P. Cairo Masp.
1.67097v D l. 71 (VI d.C.); P. Cairo Masp.
3.67312r l. 93 (a. 567 d.C.); P. Cairo Masp.
3.67353v ll. 14, 35 (a. 569 d.C.)
×
Alex. C. 6.3.7.1; ×
Iust. C. 6.40 rubr.,
2, 3 (abrog.)
P. Mich. 7.434 + P. Ryl. 4.612 ll. 1-2 (int.ext.) (II d.C.); Papin. 5 resp. Fragm. Berol.
IIIv ll. 11-13 (CPL 93 = FIRA II, 440);
Vat. (58 Sev.; 197; 214; 216 Ulp. off. pr. tut.);
Coll. (16.3.4 PS); CTh. (13.5.7 Costantin.)
×
Sev. Ant. C.
5.23.5.1; Leo Anth.
6.61.5.1; Iust.
5.3.1.15; I.
(Theoph.)
Vat. (58 Paul. man.); sch. Sin. (8 Ulp. Sab.)
Irn. 91; Vat. (197; 198 Ulp. off. pr. tut.)
×
×
s.c. Calvisianum (Sherk, n. 31) l. 117;
Vat. (197; 198 Ulp. off. pr. tut.)
×
Ant. C. 9.12.2;
Diocl. Max. C. 8.4.4;
C. 9.12.4.1; 9.12.5; I.
PS 5.26.3-4
Diocl. Max. C.
7.71.4
CTh. 4.20 rubr.; cfr. Edict. Tib. Alex. 4
(FIRA I, n. 58)
736
Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
Data
Leggi
(di diritto privato)
Rotondi
Gai Digesta
Inst.
2 a.C.
Fufia Caninia de manumissionibus
×
×
(Paul. D. 35.1.37;
50.16.215 inscr.)
4 d.C.
Aelia Sentia de manumissionibus
×
×
(25 cit.) rubr. tit. D.
40.9; Cels., Iulian.,
Pompon., Afric.,
Ter., Gai., Marcell.,
Scaev., Paul., Ulp.,
Mod., Hermog.
(cfr. inscr. Paul. et Ulp.
ad l. Aeliam Sentiam)
6 d.C.
lex de vicesima hereditatium
×
Ofil. apud Pompon.
D. 1.2.2.44?; Macer
D. 2.15.13; 28.1.7;
50.16.154
(inscr.)
9 d.C.
Papia Poppaea de maritandis ordinibus
×
×
Cels. D. 23.2.23
(+ inscriptiones)
?19 d.C.
Iunia Norbana de manumissionibus
×
×
?19 d.C.
Iunia Petronia de liberalibus causis
×
Hermog. D. 40.1.24
pr.*
?19 d.C.
(Iunia) Petronia de potestate dominorum ×
in servos (an eadem quae l. Iunia Petronia?)
Mod. D. 48.8.11.2*
24 d.C.
Visellia de libertis
(o 12 d.C.)
×
× (integr.)
?24 d.C.
(Asinia Antistia) de flaminica Diali
×
×
?28 d.C.
Iunia Vellaea testamentaria
×
×
Gai. D. 28.3.13;
Scaev. D.
28.2.29.5-7,11;
Ulp. D. 26.2.10.2;
28.3.3.1;
28.5.6.1;
28.6.2 pr.
737
Dario Mantovani
Codex;
Institutiones
Iustiniani
Tit.
Ulp.
Fonti giuridiche pre-giustinianee
I. (abrog.
Iust. C. 7.3.1)
×
P. Hamb. 1.72r l. 6 (II-III d.C.);
PS 4.14.3
×
Alex. C. 7.2.5;
7.11.1; I.
×
fr. Riccardi II l. 2; prof. liberorum nat.
FIRA III, n. 2 l. 7; P. Mich. 7.436 int. l. 6;
ext. 4 (a. 138 d.C.);
P. Mich. 3.169 int. ll. I.3; II.9-III.1
(a. 145 d.C.); P. Wisc. 2.50 l. 14
(a. 165 d.C.); P. Haun. 3.45 l. 91
(IV/V d.C.); Coll. (16.2.5 Gai. Inst.)
×
Fragm. de iure fisci 5
(emend.); PS 4.6.3
×
(abrog. Honor.
×
Theod. C. 8.57.2;
Iust. C. 6.51.1;
5.4.27; 5.4.28;
6.4.4 pr.); I.
prof. liberorum nat. (Tab. Cairo 29812 =
CPL 148 = FIRA III, n. 2) ll. 6-7
(a. 62 d.C.); P. Mich. 7.436 int. l. 7;
ext. 5 (a. 138 d.C.); P. Mich. 3.169 int. ll.
I.3-4, III.1 (a. 145 d.C.); SB 26.16502
= P. Vindob. Bosw. 5 l. 12 (a. 304 d.C.);
Vat. (158 Sev.; 214; 218 Ulp. off. pr. tut.);
CTh. (13.5.7 Constant.; 2.21.2 Constantius;
8.17.2 Hon. Th.); Coll. (16.3.4 PS)
×
(abrog. Iust. C.
7.6.1.1a); I.
×
Fragm. Dosith. 6, 12;
Fragm. Berol. de iud. 2 (integr.)
Diocl. Max. C.
9.21.1; 9.31.1.1
×
CTh. (9.20.1 Valens Grat. Val.)
Livio
Altre fonti
letterarie
(escl. Livio)
×
Alex. C. 6.28.2;
Iust. C. 3.28.34
pr.; I.
×
738
Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
Data
Leggi
(di diritto privato)
47 d.C.
Claudia de aere alieno filiorum
44-49 d.C. Claudia de tutela mulierum
96
Cocceia de nuptiis
(an potius constitutio?)
? (ante
<Vetti Libici> de servis publicis
129 d.C.) manumittendis
Rotondi
Gai Digesta
Inst.
×
×
×
×
?
Glitia (de querela inofficiosi testamenti)
?
Ollinia
?
Pesolania de pauperie
×
Leggi (di diritto privato)
Ro t o n d i Ga i . D i g e s t a
In s t .
58
32
To t a l e
Leggi
citate da
un’unica
fonte:
Gai. l.s. ad l. Gl. D.
5.2.4*
×
×*
39
23
*fonte *fonte unica: 7
unica:
11
Al di là del dato quantitativo, ossia che le 58 leges di diritto privato censite superano di circa l’85% quelle elencate da Rotondi, la tabella («Leges publicae di diritto privato citate nominativamente nelle fonti») si presta a vari commenti.
Il censimento mostra, innanzitutto, che per le leges di diritto privato le fonti giuridiche sono di gran lunga il principale canale di informazione; di 58 leges che appartengono a questa categoria, le fonti letterarie ne conoscono soltanto 24, meno della
metà. Viene confermato perciò che gli storici (Livio compreso) e gli altri scrittori non
giuristi registravano saltuariamente le leges di diritto privato, se non quando fossero
funzionali al contesto. Dunque essi non costituiscono un valido metro per valutare in
che misura l’ordinamento romano privatistico fosse di fonte legislativa.
Proprio perché si tratta di una fonte complessivamente esigua, il fatto che gli storici conoscano 5 leges ignote invece alle fonti giuridiche è tuttavia un indicatore della
739
Dario Mantovani
Codex;
Institutiones
Iustiniani
Tit. Fonti giuridiche pre-giustinianee
Ulp.
Livio
Altre fonti
letterarie
(escl. Livio)
×* (Tac. ann.
11.13.2;
13.42)
(abrog. Constantin. ×
apud Leo C. 5.30.3)
×* (Cass. Dio Xiph. 68.2.4;
Zonar. 11.20)
Diocl. Max. C.
7.9.3
PS 1.15.1*
Codex;
In s t i t u t i o n e s
Iu s t .
Ti t . Fonti giuridiche pre-giustinianee L i v i o
Ul p .
Fo n t i
letterarie
(escl. Livio)
25
17
24
*fonte unica: 1
26
5
*fonte unica: 1
*fonte
*fonte unica: 2
unica: 0 (solo in fonti
lett., incluso
Livio: 5)
incompletezza anche di queste ultime, tanto più che si tratta non solo di leges di notevole rilievo (il plebiscitum Canuleium e la lex Poetelia Papiria), anche se risalenti nel
tempo, ma pure di una disposizione – come la lex Claudia de aere alieno filiorum familiarum del 47 d.C. – che oltre a essere abbastanza recente costituiva un precedente del
s.c. Macedonianum: non mancarono dunque ai giuristi le occasioni per ricordarla,
quand’anche fosse stata modificata o abrogata dalle disposizioni senatorie.73
Se ci volgiamo al campo delle fonti giuridiche, le Istituzioni di Gaio s’aggiudicano di
gran lunga il primo rango come veicolo di informazione: delle 58 leges che più o meno
73
Ben discutibile è, invece, che fosse una lex publica (e non piuttosto una costituzione di Nerva) la quarta norma
menzionata solo dalle fonti letterarie, ossia la cd. lex Cocceia de nuptiis: vd. J.-L. FERRARY, La législation augustéenne
et les dernières lois comitiales, in questo volume, supra, 591 nt. 92. Sulla lex Maenia, vd. supra, nt. 65.
740
Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
strettamente attengono al diritto privato di cui ci sia giunta notizia, Gaio ne conosce 39.
Fenomeno ancor più significativo, in 11 casi il manuale gaiano è la nostra fonte unica
di informazione. Al cospetto, tutte le opere della giurisprudenza raccolte nel Digesto
menzionano nominativamente solo 23 leges, delle quali solo 7 non riscontrabili in Gaio.
Quando si cerchi una spiegazione a questo sorprendente assetto delle informazioni
(tanto più inatteso in quanto le Istituzioni di Gaio sono solo una pars del totum costituito dal Digesto, e anche in termini di mole il manoscritto Veronese è molto più
ridotto rispetto all’estensione del Digesto), la tabella fornisce una risposta precisa e
altrettanto sorprendente: i compilatori giustinianei, nel raccogliere i frammenti delle
opere classiche da inserire nel Digesto, hanno cancellato le leges publicae.
Questa ‘delegificazione’ compiuta dai commissari è la ragione per cui Gaio (cioè il
ms. Veronese) è la nostra fonte principale. Per rendersene conto basta scorrere i dati: nel
Digesto non sono menzionate mai (nemmeno una volta) leggi come la lex Laetoria, la
lex Cincia (che compare solo in una inscriptio), nessuna delle leges de sponsu né la lex
Voconia o la lex Fufia Caninia. Si arriva a un caso estremo, persino difficile da credere:
la lex Iulia de maritandis ordinibus è citata nel Digesto tre sole volte e la Papia Poppaea
una soltanto. È vero che molti frammenti recano l’inscriptio ad legem Iuliam et Papiam
(in conformità all’istruzione di preservare le inscriptiones: Const. Tanta /Dedoken 10),
ma i nomi delle leges mancano dai testi: un contrasto che rende ancora più palese l’operazione di espunzione compiuta dai compilatori.74
A confermare la soppressione soccorre ovviamente la tradizione pre-giustinianea
delle opere giurisprudenziali sfuggite al filtro dei commissari guidati da Triboniano (di
cui il Gaio Veronese è il caso più eclatante). Appare così che leges publicae erano citate
nei Responsa di Papiniano, nei libri ad edictum di Ulpiano, nei libri ad edictum e nel
l.s. de iniuriis di Paolo (come attestano i frammenti di queste opere conservate dai
Fragmenta Vaticana); nelle Pauli Sententiae (nei frammenti traditi sia attraverso la
Collatio sia attraverso la lex Romana Wisigothorum); nei brani di Ulpiano ad Sabinum
tramandati dagli Scholia Sinaitica.
In molti casi, questi sparsi frammenti ricordano leges che sono scomparse dal
Digesto – come la lex Cincia, la lex Furia de sponsu, la lex Pesolania, la lex Voconia, la
lex Titia – segno inequivocabile del fatto che, presenti negli scritti dei giuristi usati dai
compilatori, le leggi sono state sistematicamente da loro espunte.
74
Un censimento a tappeto, come quello tentato in quest’occasione, incorre inevitabilmente in lacune e omissioni.
Tuttavia, confido si comprenda che, per un’eventuale critica delle conclusioni di fondo, occorrerebbe rinvenire nel
Digesto (tenuto conto delle sue proporzioni rispetto alle altre fonti) citazioni di leges che, per quantità e qualità, fossero un multiplo di quelle gaiane e delle altre fonti.
Dario Mantovani
741
Lo stesso vale per i rari frustuli di opere giuridiche trasmessi autonomamente dai
papiri, dunque al di fuori non solo del Digesto, ma anche delle raccolte postclassiche, e
che rappresentano la forma più vicina all’originale cui si possa arrivare. Nonostante l’esiguità dei resti papiracei, è significativo che in ben sei frammenti di opere giurisprudenziali classiche su papiro e pergamena siano contenute citazioni di leges: la lex Furia de
sponsu nel fr. di Strasburgo delle disputationes di Ulpiano (FIRA II, 309); la lex Laetoria
nel Fragm. de formula Fabiana, Iv l. 1 (CPL 84 = FIRA II, 431); la lex Iulia de maritandis ordinibus (lex caducaria) nei responsa di Papiniano del Fragm. Berol., IIIv ll. 11-13
(CPL 93 = FIRA II, 440); la lex Aelia Sentia nell’opera conservata in P. Haun. 3.45 l.
91 (IV/V d.C.);75 la lex de vicesima hereditatium nel Fragm. de iure fisci 5; la lex Iunia
Norbana nel trattato de iudiciis tramandato dal Fragm. Berol. 2. Si aggiunga che in ben
due casi (e forse tre)76 su sei, sono leges non menzionate nel Digesto: si tratta insomma
di una notevole conferma di quanto abbia inciso il filtro giustinianeo e, d’altro canto,
una conferma diretta della presenza della citazione di leges nelle opere classiche.
Per rendersi conto della diversa sorte subita dalle leges nei testi pre-giustinianei e nel
Digesto – pur in mancanza di testi paralleli, che consentano un confronto testuale
diretto 77 – si può prendere come esempio la lex Cincia de donis et muneribus del 204,
esaminando tre testimonianze, conservate appunto dalla tradizione esterna al Digesto
e dal Digesto stesso.
La prima testimonianza è dei libri ad edictum di Paolo (dalla versione dei libri breves), conservata dai Fragmenta Vaticana (310):
Paulus libro XXIII ad edictum de brevibus. Perficitur donatio in exceptis personis sola mancipatione
vel promissione, quoniam neque Cinciae legis exceptio obstat neque in factum «si non donationis
causa mancipavi vel promisi me daturum»: idque et divus Pius rescripsit.
Paolo spiega come, fra persone che non ricadono nel divieto, la donazione si perfezioni con il semplice negozio di trasferimento (mancipatio) o obbligatorio (promissio):
75
Vd. ora l’ed. di F. NASTI, Papyrus Hauniensis de legatis et fideicommissis. Pars prior, Napoli 2010, 68 ss. (ll. 38-72).
Sicuramente la lex Furia de sponsu e la lex Laetoria; è incerto per la lex de vicesima hereditatum, cui forse allude – benché incidentalmente – Pompon. l.s. enchir. D. 1.2.2.44 oltre alla inscriptio del l.s. di Macro, conservata in D. 2.15.13.
77 In altri termini, non vi sono, fra i frammenti di tradizione esterna al Digesto che citano leges publicae, frammenti che
siano tramandati anche dal Digesto, così che si possa constatare direttamente la soppressione (significativo però il confronto fra Gai. Inst. 2.239 e I. 2.20.25). Ciò ha impedito fra l’altro a L. Chiazzese di individuare la dimensione del fenomeno e, più in generale, agli studiosi che praticavano l’interpolazionismo di riconoscere questo sicuro esempio di alterazione. L’A. (Confronti testuali. Contributo alla dottrina delle interpolazioni giustinianee, in AUPA 16 [1931] 203, 398 ss.)
aveva tuttavia potuto positivamente accertare la soppressione delle leges e soprattutto dei ss.cc. fra le operazioni tipiche
dei compilatori (vd. anche P. BUONGIORNO, Senatus Consulta Claudianis temporibus facta, Napoli 2010, 411 s.). La soppressione dei senatusconsulta è del tutto analoga a quella delle leges: i due procedimenti si confermano a vicenda.
76
742
Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
per rendere più efficace il discorso, precisa che in tal caso il donatario non può opporre né l’exceptio che richiama direttamente la lex Cincia né quella concepita in factum
che richiama la causa di donazione sottostante al negozio.
Dopo Paolo, il nome della legge Cincia continua a essere pronunciato anche da
parte della cancelleria imperiale d’età tetrarchica, a proposito della donazione di un
bene immobile situato in provincia (la costituzione spiega che occorre essere stati
immessi nella vacua possessio del bene, perché possa dirsi eseguita la donazione reale,
tanto nei confronti delle persone exceptae quanto di quelle che ricadono nel divieto
della lex Cincia). La costituzione è anch’essa di tradizione esterna al Corpus Iuris, essendosi conservata tramite i Fragmenta Vaticana (293.1):
Idem (Diocl. et Maximian., a. 293): In donatione rei tributariae circa exceptam et non exceptam
personam legis Cinciae nulla differentia est, cum […] vacuae possessionis inductione celebrata in
utriusque persona perficiatur.
Nel Digesto, invece, la lex Cincia non è mai menzionata, salvo che nell’inscriptio
di D. 1.3.29 (Paulus l.s. ad legem Cinciam), sopravvivenza fantasmatica (dovuta sempre al dettame di preservare le inscriptiones) che rende ancor più visibile l’assenza nei
testi. Vi sono però passi che, per ragioni di contenuto o palingenetiche, in origine
trattavano sicuramente delle donazioni vietate; si prenda, fra i tanti, Iavol. 14 ex
Cassio D. 39.5.24:
Fideiussori eius, qui donationis causa pecuniam supra modum legis promisit, exceptio dari debet
etiam invito reo, ne, si forte reus solvendo non fuerit, pecuniam fideiussor amittat.
Taluno promette del denaro a scopo di donazione e fornisce inoltre un garante. La
somma promessa eccede il limite della lex (quale sia, il testo non dice). Se il garante
viene convenuto dal creditore-donatario, Giavoleno afferma che può opporre l’exceptio – anche in questo caso, non si dice quale – anche qualora il donante-debitore principale voglia rinunciare all’eccezione. Il rischio è infatti che il garante paghi e poi non
possa agire in regresso contro il donante-debitore principale, se questo è insolvente.
Al di là delle particolarità dei tre casi qui esemplificati, interessa notare che tanto
Paolo quanto la cancelleria di Diocleziano nei testi conservati dai Fragmenta Vaticana
chiamano la legge Cincia con il suo nome, che scompare invece nel Digesto,78 al punto
da rendere incomprensibile il riferimento (supra modum legis). Che il passo di Giavoleno si riferisse al limite stabilito dalla lex Cincia i lettori odierni possono ricavarlo
78
Si noti che Giavoleno è la fonte più antica; insomma, Giavoleno non dice il nome che ancora Diocleziano pronunciava.
Dario Mantovani
743
aliunde, appunto grazie alle notizie sopravvissute attraverso la tradizione pregiustinianea; per i lettori del Digesto, anzi di tutto il Corpus Iuris, la scelta dei compilatori di
cancellare il nomen legis rendeva irrimediabile la scomparsa. Come questa scelta potesse conciliarsi con la funzione normativa del Digesto costituisce un problema non facile da risolvere, seppure tenendo conto del nuovo valore e contenuto che questi brani
venivano ad assumere nel quadro del diritto giustinianeo, in particolare in collegamento con il Codice.79
Un diverso problema è quello del criterio con il quale i compilatori hanno salvato
alcune leggi dalla sistematica «delegificazione» compiuta ai danni delle opere giurisprudenziali. In totale sono 23 nomi, di per sé un’inezia considerata la mole dei 50 libri.
L’interrogativo non si pone, in realtà, per le citazioni sporadiche, di una sola occorrenza, come la lex Licinnia (Marciano D. 4.7.12), le tre leges relative all’alea citate
ancora da Marciano (D. 11.5.3) o le leges Petroniae citate da Modestino (D. 48.8.11.2)
e da Ermogeniano (D. 40.1.24 pr.)80 e neppure per le leges menzionate qualche volta
di più, come ad esempio lex Atinia o la lex Iulia de fundo dotali. Si tratta di occorrenze così rare – a fronte delle ben più numerose citazioni che, delle stesse leges, dovevano trovarsi nelle opere classiche – da non potersi spiegare se non come errori redazionali oppure come menzioni considerate ornamentali. Così, per fare un esempio, in
Hermog. 1 iur. epit. D. 40.1.24 pr. (Lege Iunia Petronia, si dissonantes pares iudicum
existant sententiae, pro libertate pronuntiari iussum) non ha alcuna rilevanza il fatto che
si menzioni la lex Iunia Petronia come fonte del principio secondo cui, in caso di parità in una causa liberalis, il verdetto doveva considerarsi favorevole alla libertà. La menzione della lex rimane ornamentale, inerte, senza che essa possa portare a svolgimenti
ulteriori, dato che al lettore del Digesto non è fornito altro che quel resoconto giurisprudenziale del suo contenuto. Si può dire insomma che queste notizie isolate – che
sono la maggior parte di quelle sopravvissute nel Digesto – esauriscono la loro portata nello spazio stesso della citazione.
Un trattamento diverso, e che pone un interrogativo, hanno ricevuto invece la lex
Aquilia (con circa 200 citazioni) e la lex Falcidia (con circa 250). Quale ragione sostanziale abbia indotto a conservare queste leges – e se dipenda dalla materia trattata o dal
tenore della disposizione – non è chiaro o forse richiederebbe, per venire alla luce,
79
Il passo di Giavoleno si poteva inserire entro il quadro normativo complessivo della donazione giustinianea, il
quale sanciva in particolare un limite di 300 solidi (C. 8.53.34 pr., a. 529), portati poi a 500 (C. 8.36.3, a. 531),
oltre il quale era prescritta a pena di nullità la forma scritta dell’atto e la registrazione. Sulla «desuetudine» della lex
Cincia nel periodo postclassico, vd. per tutti M. KASER, Das römische Privatrecht II, München 1975, 399.
80 È possibile che le due ultime testimonianze si riferiscano a una sola lex – (Iunia) Petronia – del 19: in tal senso,
vd. FERRARY, La législation augustéenne cit. (nt. 73), 583-584.
744
Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
un’analisi più approfondita.81 Il punto che, tuttavia, mi pare essenziale è che, in questi
due casi, i compilatori, oltre ad abbondare nelle citazioni nominative, hanno anche
conservato il testo vero e proprio (o almeno un estratto) della lex lata: per la lex Aquilia
lo hanno riferito in D. 9.2.2 pr. (Gai. 7 ed. prov.) e D. 9.2.27.4-5 (Ulp. 18 ed.), per la
lex Falcidia in D. 35.2.1 pr. (Paul. l.s. ad legem Falcidiam). Sono gli unici due casi in
cui ciò avviene per leges di diritto privato, che vengono così trattate alla stregua delle
leges iudiciorum publicorum, di cui i compilatori hanno di regola riportato testualmente le disposizioni principali (per poi citarle frequentemente per nome).
Benché sfugga per quale ragione questo trattamento sia stato riservato a queste due
sole leggi, la corrispondenza fra l’elevato numero delle citazioni e la conservazione del
loro tenore rivela dunque che i compilatori del Digesto si erano posti il problema del
trattamento da riservare alle leges publicae e lo avevano risolto in modo coerente, tanto
per la soppressione (quasi sistematica) quanto per la (rara) conservazione.82
La «delegificazione» trova del resto un riscontro nelle istruzioni impartite ai commissari, di cui rappresenta l’esecuzione. Rilevanti sono due disposizioni della Const.
Deo Auctore; la prima è quella rivolta ai commissari al § 7, di modificare se volessero le
veteres leges e le constitutiones citate dai giuristi nelle loro opere, vietando al contempo
ai sudditi di comparare il tenore delle opere originali con quello accolto nel Digesto:
hoc etiam nihilo minus observando, ut, si aliquid in veteribus legibus vel constitutionibus, quas antiqui
in suis libris posuerunt, non recte scriptum inveniatis, et hoc reformetis et ordini moderato tradatis:
ut hoc videatur esse verum et optimum et quasi ab initio scriptum, quod a vobis electum et ibi positum
fuerit, et nemo ex comparatione veteris voluminis quasi vitiosam scripturam arguere audeat.
La locuzione veteres leges non è di traduzione univoca: nel lessico giustinianeo, lex designa molto spesso il testo di un’opera giurisprudenziale (in Const. Tanta 10, ad esempio,
auctor legis è il giurista il cui nome campeggia nell’inscriptio di un frammento, che è
appunto la lex). Nel contesto, tuttavia, la frase in veteribus legibus vel constitutionibus, quas
81
In entrambi i casi, anche le Institutiones di Giustiniano sono esplicite nel rilevare la sopravvivenza: cfr. per la lex
Falcidia I. 2.22 pr. (che contiene anzi una storia della legislazione limitatrice dei legati, a partire dalla libertà di disposizione concessa dalle XII Tavole: vd. G. MELILLO, La media iurisprudentia e le limitazioni alla legittimazione successoria delle donne, in Studi per Giovanni Nicosia V, Milano 2007, spec. 318 ss.) e per la lex Aquilia I. 4.3 pr.
82 La correlazione fra conservazione del testo e numero elevato delle citazioni conferma che nei casi in cui una lex
non viene riferita nel suo tenore letterale e viene citata per nome una volta o poco più, si tratta o di errori redazionali o più semplicemente di citazioni ritenute ornamentali e innocue. Un caso intermedio è rappresentato da alcune
poche leggi (come la Cornelia de confirmandis eorum testamentis, qui in hostium potestate decessissent, e soprattutto la
lex Aelia Sentia) che sono citate in modo più frequente – benché lontanissimo dalle occorrenze delle leges Aquilia e
Falcidia – ma di cui non è riportato in modo sistematico il tenore (cfr. tuttavia per la lex Cornelia Iulian. 62 dig. D.
49.15.22 pr. e per la lex Aelia Sentia infra, ntt. 93-95).
Dario Mantovani
745
antiqui in suis libri posuerunt si riferisce sicuramente alle costituzioni imperiali riprodotte
nelle opere giurisprudenziali; perciò, se la relativa introdotta da quas si riferisce, come
pare, anche alle veteres leges, bisogna intendere che si tratti delle leges publicae riprodotte
nelle opere dei giuristi.83 Anche se così non fosse (se, cioè, veteres leges fossero qui i testi
stessi dei giuristi), l’istruzione – nell’attribuire la facoltà di modificare le constitutiones –
mostra consapevolezza della presenza, nelle opere dei giuristi, di testi normativi, sui quali
invita a intervenire. Quale che sia l’interpretazione esatta, il potere di intervenire sulle constitutiones implicava insomma, a maggior ragione, quello di modificare le leges publicae.
Nell’applicare questa direttiva alle leges iudiciorum publicorum, i commissari scelsero in genere di conservare la lex e procedettero senz’altro ai ritocchi che erano stati loro
permessi dalla Const. Deo Auctore: è ben noto, infatti, il rimaneggiamento subito dalle
norme incriminatrici.
Per le leges di diritto privato per evitare ogni comparazione, la scelta di fondo fu di
eliminare il testo e il nomen legis.84
Una spiegazione generalissima di questo diverso trattamento fra i due gruppi di leges
può trovarsi nel legame costitutivo – e anche ideologico – fra le leges iudiciorum publicorum e le singole fattispecie criminose. Indicare soluzioni più specifiche resta tuttavia
uno dei compiti che si aprono a future ricerche. Va però osservato – a conferma dell’orientamento generale dei giustinianei contrario alla conservazione delle leges – che
anche le leges iudiciorum publicorum subirono un pesantissimo depauperamento, poiché i commissari si limitarono a recepire nel Digesto le disposizioni principali – quasi
solo quelle che descrivono le fattispecie criminose – sopprimendo la maggior parte dei
numerosi capita in cui le leges stesse si articolavano (come testimonia ad esempio la lex
Iulia de vi publica et privata, che conteneva secondo Ulpiano almeno 88 capitoli, dei
quali solo pochi stralci sono stati accolti nel Digesto).85
Si può allora azzardare una ragione complessiva della (più o meno totale) delegificazione: il desiderio di Giustiniano di comporre un testo che eliminasse le controversie che avevano diviso la giurisprudenza e che non si prestasse a sua volta a una interpretazione. Lasciare i verba legis avrebbe dato appiglio all’interpretazione, aprendo per
83 La mancanza di in davanti a constitutionibus fa propendere per riferire quas a entrambi i sostantivi. Un dubbio
viene invece dal passo parallelo Const. Tanta 10, che non fa che riprendere, modificandolo nella forma, Deo auctore
7. Ivi si legge solo: si principalis constitutio fuerat in veteribus libris relata eqs.
84 Va osservato qui, una volta per tutte, che la delegificazione poté avvenire in due modi, sopprimendo il riferimento espresso alla legge contenuto in un frammento accolto nel Digesto oppure più radicalmente evitando di includere tout court i brani dedicati alle leges.
85 Ulp. 8 off. proc. Coll. 9.2.1. Naturalmente, non è dimostrabile che i giuristi riproducessero integralmente tutti i
capitoli delle leges publicae; di sicuro, la testimonianza di Ulpiano mostra che essi li citavano con larghezza.
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Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
così dire un livello che rimandava a norme che stavano al di là del Digesto, benché
recepite in esso. Più conforme all’intento di Giustinano, di soffocare per quanto possibile le legum interpretationes, immo magis perversiones,86 era perciò di lasciare solo le
applicazioni che delle disposizioni legislative erano state già elaborate dai giuristi, eliminando per dire così l’origine e mantenendone, se serviva, la sostanza.
Fra i vari fattori che determinarono i commissari a escludere le leges di diritto privato è poi da tenere presente l’abrogazione esplicita di talune di esse operata dallo stesso Giustiniano o da imperatori precedenti: così vale ad esempio per la lex Claudia sulla
tutela (abrogata da Constantino, citato da Leone in C. 5.30.3), per la lex Fufia Caninia
(Iust. C. 7.3.1, a. 528), per la Iunia Norbana (C. 7.6.1, a. 531), in parte per la Aelia
Sentia (C. 7.5.1, a. 530) e per la disposizione della lex Iulia miscella (cioè de maritandis ordinibus) relativa al giuramento di vedovanza apposto alle disposizioni di ultima
volontà (Iust. C. 6.40 rubr., c. 2, 3, a. 531).
La delegificazione fu attuata anche più largamente, tuttavia, in esecuzione di un’altra istruzione, che vietava ai commissari di includere nel Digesto le leges cadute in
desuetudine, cioè che non avessero trovato costante attuazione nella prassi giudiziaria
o conferma nella consuetudine delle capitali dell’Impero (Const. Deo auctore 10):
Sed et si quae leges in veteribus libris positae iam in desuetudinem abierunt, nullo modo vobis
easdem ponere permittimus, cum haec tantummodo obtinere volumus, quae vel iudiciorum
frequentissimus ordo exercuit vel longa consuetudo huius almae urbis comprobavit.
In questo caso, è più probabile che leges si riferisca genericamente ai testi dei giuristi. Poiché tuttavia i testi dei giuristi erano inclusivi delle citazioni delle leges publicae,
si dovevano eliminare quelli che citavano leggi disapplicate.
È significativo che Giustiniano si richiami esplicitamente a questa duplice modalità di
abrogazione – tacita per desuetudine e esplicita per costituzione – per giustificare la definitiva eliminazione delle norme caducarie della lex Papia et Poppaea (C. 6.51.1.1, a. 534):
Et quemadmodum in multis capitulis lex Papia ab anterioribus principibus emendata fuit et per
desuetudinem abolita, ita et a nobis circa caducorum observationem invidiosum suum amittat
vigorem.87
Tanto nella forma in cui fu realizzata – curando di registrare e semmai modificare il
tenore delle poche leges che si intendevano salvare, ed eliminando delle altre il testo e
86
Const. Tanta 21: leges qui si riferisce ai testi accolti nella compilazione.
La costituzione è del 534, dunque posteriore al Digesto. L’esperienza della compilazione era stata sicuramente rilevante, perché nel seguito Giustiniano specifica che i giuristi si erano ingegnati per disapplicare la legge: affermazione che, fra l’altro, conferma l’importanza dell’interpretatio giurisprudenziale rivolta alle leges.
87
Dario Mantovani
747
il nomen – quanto nelle direttive che la ispirarono, la delegificazione appare un’operazione compiuta con consapevolezza.
5. Le leges publicae nelle opere dei giuristi
Accertato che gli scritti dei giuristi contenevano un’alta densità di leges publicae e che
furono i compilatori del Digesto a espungerle – così come fecero con le formulae e con
vari istituti fondamentali del ius civile, ad esempio gli atti per aes et libram – possiamo
tornare ora a Gaio e alle altre fonti di tradizione esterna al Digesto, sempre tenendo
presente i dati raccolti nella tabella.88
Nonostante queste fonti non abbiano patito il filtro di Triboniano, anch’esse non
offrono un’informazione adeguata.
Per quanto riguarda Gaio, come ora sappiamo, il fatto che risulti la fonte più ricca
di leges (ne conosce 39 sul totale di 58, contro le 23 citate dal Digesto) dipende esclusivamente dalle vicende della tradizione testuale, cioè dal fatto che le Institutiones ci
siano giunte fuori del Digesto, che appunto sopprimeva le leges. La controprova permette di apprezzare il fenomeno: nei 15 frammenti delle Institutiones di Gaio accolti nel
Digesto è citata soltanto una lex publica (Iunia Vellaea: D. 28.3.13 = Gai. Inst. 2.134).
La soppressione è avvenuta semplicemente non accogliendo nel Digesto i brani delle
Institutiones che citassero una lex (tranne appunto uno). Dunque, dei due modi con
cui i giustinianei eseguirono la delegificazione – ossia alterando il dettato originario
oppure scegliendo i brani che non citavano leggi 89 – è stato adottato quest’ultimo (ed
è significativo che la menzione della lex Iunia Vellaea nel passo parallelo del Gaio
Veronese – Inst. 2.134 – proseguisse con la citazione dettagliata di un’altra disposizione della lex, omessa dai giustinianei). Se il fenomeno che Gaio – grazie alla sua doppia
tradizione – ci permette di constatare potesse essere generalizzato, avremmo conferma
che (come per la epurazione del ius controversum, anche per la delegificazione) la deformazione del diritto classico fu compiuta dai giustinianei più per selezione e taglio dei
testi che per interpolazione.
Quanto alle altre opere, quella che sembra più vicina a Gaio in frequenza di citazioni
sono i Tituli ex corpore Ulpiani, che ricordano 17 leges publicae di diritto privato. Ma non
deve trarre in inganno l’effetto specchio: i Tituli dipendono in buona parte dalle Istituzioni di Gaio (o da una tradizione istituzionale comune a Gaio).90 L’opera pseudo-ulpia88
Non occorre soffermarsi in questa sede sul Codex né sulle Institutiones Iustiniani che, seppur con le rispettive caratteristiche, mostrano un’analoga soppressione delle leges.
89 Su queste due modalità, vd. supra, nt. 84.
90 Cfr., per le varie ipotesi, F. MERCOGLIANO, Tituli ex corpore Ulpiani. Storia di un testo, Napoli 1997, spec. 13 ss.;
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Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
nea è per così dire una sintesi (anche se non immediata) rispetto a quella gaiana, il che
si esprime anche nel numero ridotto delle citazioni, all’incirca la metà. Naturalmente,
proprio perché, oltre ai punti di contatto, vi sono anche non poche divergenze fra le due
opere, non stupisce di trovare in Ulpiano (23.5) una notizia che manca in Gaio (a riprova della sua incompletezza), relativa alla lex Cornelia de testamentis confirmandis.
L’unica altra opera pregiustinianea dotata di una certa organicità – esclusa una compilazione ristretta come la Collatio e pure un’opera come le Pauli Sententiae, che per
l’incompleta tradizione e per la natura appunto di collettore di sententiae receptae poco
si prestava alla citazione di leges – sono i Fragmenta Vaticana. Le leges citate sono poche,
8 contro le 39 di Gaio.91 Le ragioni di questa scarsità sono varie; la più ovvia è che i
Fragmenta Vaticana hanno mole molto inferiore rispetto alle Istituzioni di Gaio e sono
in buona parte composti da constitutiones imperiali, che di per sé citano più raramente
leges publicae. Dipende anche da ragioni di selezione delle materie: in Gaio le citazioni
si affollano nel primo libro e nel quarto, de personis e de actionibus, mentre i Fragmenta Vaticana superstiti corrispondono piuttosto ai libri de rebus. Perciò nemmeno i
Fragmenta Vaticana costituiscono una valida integrazione di Gaio (che pure suppliscono su un punto non trascurabile, la lex Cincia, di cui contengono ben 8 citazioni).92
Se spostiamo, infine, lo sguardo sui documenti papiracei, il quadro (verificabile nei
dettagli in tabella) non muta sensibilmente. Al riguardo, occorre fare una distinzione,
fra i papiri che conservano atti pubblici e privati da una parte e quelli che tramandano frammenti di opere giurisprudenziali dall’altra. A questi ultimi s’è fatto già cenno
(§ 4): riportano la menzione di almeno sei leges, delle quali almeno due sconosciute al
Digesto. L’informazione è preziosa qualitativamente, perché conferma l’incompletezza
del Digesto; la sopravvivenza di frustuli di iuris auctores è, tuttavia, talmente modesta
sul piano quantitativo, che non ci si può attendere molti supplementi di informazione; soprattutto, non offrono alcuna organicità.
Quanto ai papiri che documentano atti, le occorrenze di leges sono numerose, ma
concentrate in alcuni ambiti, in conformità ai formulari documentari, come ad esempio
le professiones liberorum che evocano la lex Aelia Sentia o la lex Papia Poppaea de maritandis ordinibus oppure le richieste di tutore che menzionano la lex Iulia e la lex Titia.
M. AVENARIUS, Der pseudo-ulpianische liber singularis regularum. Entstehung, Eigenart und Überlieferung einer
hochklassischen Juristenschrift, Göttingen 2005, spec. 36 ss.
91 Lex Cincia 8; Furia testamentaria 1; Falcidia 2; Iulia de maritandis ordinibus 4; Iulia de fundo dotali (se distinta
dalla prec.) 1; Iulia iudiciorum privatorum 2; Iulia iudiciorum publicorum 2; Papia Poppaea 3.
92 Ovviamente, rilevare che Gaio conosce tutte le leges citate nei Fragmenta Vaticana tranne una, per inferirne che
Gaio è completo, sarebbe altrettanto infondato come sostenere che Gaio è esaustivo nel citare le formule processuali, perché ne conosce più di tutti gli altri testi, Digesto e Fragmenta Vaticana compresi.
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Bisogna in definitiva ammettere che non possediamo nessuna fonte organica e ricca che
ci informi sulle leges publicae di diritto privato. La più estesa è un breve manuale elementare, che per sua natura fornisce solo informazioni essenziali sul ius civile e che per esplicita
ammissione cita le leges solo esemplificativamente. Sovviene a questo proposito il passo già
citato (Gai. Inst. 4.22): Postea quaedam leges ex aliis quibusdam causis pro iudicato manus
iniectionem in quosdam dederunt, sicut lex Publilia in eum, pro quo sponsor dependisset […];
item lex Furia de sponsu […] et denique conplures aliae leges in multis causis talem actionem
dederunt. Gaio ammette di conoscere molte altre leggi, che non menziona nelle Institutiones.
6. Leges publicae e interpretatio dei giuristi
Il lavoro di verifica compiuto sulle fonti ha dunque confermato ciò che asserivano i
Romani, ossia che anche il diritto privato (il ius civile) era afflitto da una immensa diffusaque legum copia. Solo la condizione dell’informazione, in particolare la soppressione sistematica compiuta dai compilatori giustinianei delle leges publicae privatistiche,
ha impedito di percepire questa realtà dell’esperienza giuridica romana.
Naturalmente, proprio perché la nostra fonte giuridica principale è il Digesto, questa condizione non ci consente di recuperare nomi e contenuti di leges.
Non tutto, però, è occultato. È vero che i compilatori hanno cancellato dal Digesto
le leges, ma per così dire è rimasta l’impronta sul cuscino.
Infatti, nelle opere della giurisprudenza, a partire dai Digesta di Celso e di Giuliano,
era prevista una apposita sezione de legibus et senatusconsultis (et constitutionibus), il che
vuol dire che si trattava di una fonte tutt’altro che secondaria, se Giuliano vi dedicava
un terzo dell’opera, dai libri 59 al 90, come si vede dalla tavola allestita da O. Lenel,
Palingenesia iuris civilis II, Lipsiae 1889, 1255 s.
Non tragga in inganno la ricostruzione leneliana, che può dare l’impressione che noi
conosciamo tutte le leges publicae che erano discusse in questa sezione delle opere giurisprudenziali. Anche qui, ci troviamo all’interno di un gioco di specchi. La ricostruzione
di Lenel si basa sui frammenti del Digesto, dunque conosce solo le leges che vi sono conservate (anzi, in taluni casi deve ricorrere a informazioni esterne, come a proposto delle
leges de sponsu di cui si ha notizia specialmente tramite Gaio). Che quel che sopravvive (e
che Lenel poté dunque ricostruire) sia solo una porzione minima del contenuto originario risulta dai numeri: se si adotta come misura le colonne della Palingenesia, si constata
infatti che questa sezione fu ben poco utilizzata dai commissari. Ad esempio, i frammenti tratti dai 32 libri finali dei Digesta di Giuliano (59-90), che trattano di leges e senatusconsulta, occupano 20 colonne della Palingenesia; i 58 libri iniziali, che seguono l’ordine
edittale, occupano invece ben 145 colonne, cioè, in proporzione, più di tre volte tanto.
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Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
In altri termini, i trentadue libri che Giuliano ha riservato alle leges – proprio perché erano trentadue – sicuramente pullulavano di nomi di leges (e di senatusconsulta);
ben poco ne è passato nel Digesto di Giustiniano. Se è impossibile ricuperare quel che
è perduto, la presenza di questa sezione dedicata alle leges permette tuttavia di definire almeno un perimetro più esatto del diritto privato romano, all’interno del quale, se
assumiamo i Digesta di Giuliano come una misura plausibile, le leges rappresentavano
all’incirca 1/3 dell’ordinamento vigente.
Ovviamente, l’accertamento della maggiore diffusione delle leges anche nell’ambito
del diritto privato porta con sé una serie di implicazioni sul ruolo dei giuristi nell’esperienza giuridica romana.
Svolgere tali implicazioni non è compito di questo saggio, che vuole tenere distinto
il fenomeno osservato dalle sue possibili interpretazioni.
Considerazioni generiche rischierebbero, del resto, di essere delle scorciatoie: così, la
riflessione secondo cui l’espunzione delle leges fu possibile proprio perché marginali
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perderebbe di vista che vittima di un analogo eradicamento fu, ad esempio, il processo
formulare, in un’esperienza che pure ha avuto proprio nell’Aktionenrechtlichendenken
uno dei suoi caratteri salienti e che dell’editto e delle formule ha fatto uno dei canoni
letterari fondamentali.
Altrettanto sbrigative sarebbero le considerazioni basate sui contenuti delle disposizioni sopravvissute, se si volesse generalizzarli: troppo estesa è la perdita per illudersi di
potere procedere come se non si fosse verificata.
Pur sospendendo il giudizio, è tuttavia essenziale sottolineare che, quali che fossero
le materie interessate dalle leges, quale che fosse il ritmo delle modifiche e quale infine
la natura degli interventi, la presenza delle leges modificava di per sé il quadro di riferimento entro cui operavano i giuristi, introducendo criteri di decisione e argomenti
che divenivano parte integrante dell’interpretatio; le leges non costituivano solo un
blocco isolato, ma entravano in un più complesso intreccio.
È sufficiente, per rendersene conto, l’esempio offerto da un passo dei decreta di
Paolo (D. 36.1.76.1), l’unico fra quelli conservati nel Digesto di quest’opera in cui si
menzioni una lex, nel caso specifico la lex Aelia Sentia, del 4 d. C.
La lex, benché le sue disposizioni non siano riferite integralmente nel Corpus Iuris e
anzi abbia subito l’abrogazione esplicita per la parte che istituiva la categoria dei dediticii (cfr. I. 1.5.3), fu tuttavia mantenuta in vigore per alcune sue altre disposizioni, che
sono state più o meno esplicitamente riportate nel Digesto: così la norma che sanciva
l’invalidità delle manomissioni in frode ai creditori,93 la norma che disponeva l’invalidità della manomissione di uno schiavo minore di trent’anni da parte di un dominus
minore di vent’anni, salvo che si compisse la causae probatio,94 infine le sanzioni a carico del patrono che non avesse corrisposto gli alimenti al liberto.95
93
La norma (su cui Gai. Inst. 1.37,47) è evocata da Gai. 1 man. D. 40.9.29 pr.; vd. anche Paul. 57 ed. D. 28.5.58:
lex enim Aelia Sentia ita demum ei, qui in fraudem creditorum heres institutus est, conservat libertatem, si nemo alius ex
eo testamento heres esse potest (cfr. I. 1.6.1); Cels. 29 dig. D. 28.5.61: lege Aelia Sentia ita cavetur, ut, si duo pluresve ex
eadem causa heredes scripti sint, uti quisque primus scriptus sit, heres sit; cfr. Iulian. 64 dig. D. 28.5.43; D. 40.9.5.2;
Afric. 3 quaest. D. 40.9.8 pr.; Paul. 5 ad Sab. D. 40.7.1.1; Hermog. 1 iur. epit. D. 40.9.27 pr.; Alex. C. 7.2.5; C.
7.11.1. Accennano genericamente a impedimenti alla manomissione sanciti dalla lex Aelia: Marcell. 10 dig. D.
29.1.29.1; Scaev. 18 quaest. D. 28.5.84 pr.; Mod. l.s. manumiss. D. 38.2.33.
94 Gai. 12 ed. prov. D. 26.8.9.1 ribadisce che il pupillo, anche se manometta con l’auctoritas del tutore, debet e lege
Aelia Sentia apud consilium causam probare. Cfr. Pompon. 3 fideic. D. 40.5.34.1. È notevole, per cogliere l’operazione compiuta dai compilatori, che nel titolo D. 40.2, dove si tratta dell’invalidità della manomissione compiuta dal
minore di vent’anni e della causae probatio, non risulti, se non incidentalmente, che la disciplina riferita nei frammenti giurisprudenziali era in realtà contenuta nella lex Aelia Sentia; anche nel tit. omonimo D. 40.9 qui et a quibus
manumissi liberi non fiunt et ad legem Aeliam Sentiam, i riferimenti alla lex sono scarsi.
95 Mod. l.s. manumiss. D. 38.2.33: Si patronus non aluerit libertum, lex Aelia Sentia adimit eius libertatis causa impo-
752
Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
Non interessano qui però i testi del Digesto che trattano delle disposizioni della lex
Aelia Sentia mantenute in vigore esplicitamente o implicitamente (cioè salvandone il
contenuto senza menzionare la fonte); molto più rilevante è – nel già citato passo dei
decreta di Paolo – l’uso argomentativo che della lex viene fatto per risolvere un caso estraneo alla disciplina della lex stessa. La lex Aelia Sentia, in altri termini, entrò a fare parte,
attraverso l’analogia, del repertorio di massime di decisione di cui si servivano i giuristi,
il che può valere – esemplificativamente – ad aprire uno spiraglio sulla rilevanza che le
leges publicae avevano nel Juristenrecht, anche al di là della loro puntuale disciplina.
Il caso è particolarmente significativo perché fu affrontato in sede di cognitio imperiale e Paolo, che aveva preso parte al processo come membro del consilium di Settimio
Severo, alza il sipario sulla discussione, permettendo di conoscere l’argomentazione
(Paul. 2 decr. D. 36.1.76.1):
Fabius Antoninus impuberem filium Antoninum et filiam Honoratam relinquens exheredatis his
matrem eorum Iuniam Valerianam heredem instituit et ab ea trecenta et quasdam res filiae reliquit,
reliquam omnem hereditatem filio Antonino, cum ad annum vicensimum aetatis pervenisset,
voluit restitui: quod si ante annum vicensimum decessisset filius, eam hereditatem Honoratae
restitui praecepit. Mater intestata decessit utrisque liberis legitimis heredibus relictis. Postea filius
annum agens plenum nonum decimum et ingressus vicensimum necdum tamen eo expleto decessit
filia herede Fabia Valeriana sua 96 relicta, a qua amita fideicommissum et ex testamento patris
portionem hereditatis petebat: et apud praesidem optinuerat. Tutores Valerianae filiae Antonini
egestatem eius praetendebant et recitabant divi Hadriani constitutionem, in qua quantum ad
munera municipalia iusserat eum annum, quem quis ingressus esset, pro impleto numerari.
Imperator autem noster motus et aequitate rei et verbis testamenti «si ad annum vicensimum
aetatis», quamvis scire se diceret a divo Marco non excusatum a tutela eum qui septuagensimum
annum aetatis ingressus fuisset, nobis et legis Aeliae Sentiae argumenta proferentibus et alia
quaedam, contra petitricem pronuntiavit.97
Il testo riporta, quasi a verbale, il dibattimento e la decisione resa da Settimio Severo
in appello.98
sita tam ei, quam ipsi ad quem ea res pertinet, item hereditatem ipsi et liberis eius, nisi heres institutus sit, et bonorum possessionem praeterquam secundum tabulas. Vd. anche Ter. Clem. 5 ad leg. Iul. Pap. D. 40.9.31; 8 ad leg. Iul. Pap. h.t.
32.1; Ulp. 14 ad Sab. D. 38.16.3.5; Paul. 73 ed. D. 50.16.70; 8 ad leg. Iul. Pap. D. 37.14.15.
96 Fabia Valeriana herede sua: corr. Mommsen (ed. mai. II, 253 nt. 1).
97 Accurata esegesi del testo – benché come si vedrà non del tutto condivisibile – in V. WANKERL, Appello ad principem. Urteilsstil und Urteilstechnik in kaiserlichen Berufungsentscheidungen (Augustus bis Caracalla), München 2009,
153 ss., con altra bibliografia.
98 Il verbo recitabant è particolarmente indicativo della verbalizzazione del dibattimento (cfr. Plin. epist. 10.65):
WANKERL, Appello ad principem cit. (nt. 97), 155.
Dario Mantovani
753
Fabio Antonino ha due figli, l’impubere Antonino e Onorata. Diseredatili, istituisce erede la moglie (e loro madre) Giunia Valeriana. La disposizione non mirava a
penalizzare i figli, bensì a contemperare i vari interessi nel tempo. Nel testamento,
infatti, Fabio Antonino dispone a favore della figlia un fedecommesso di 300.000
sesterzi e alcuni beni, mentre richiede che la madre restituisca tutta l’eredità al figlio
Antonino quando pervenga al ventesimo anno. Se invece il figlio muoia prima del ventesimo anno, il testatore dispone per fedecommesso che l’eredità vada alla figlia
Onorata. La successione si apre; in seguito, muore anche la madre, senza fare testamento, lasciando dunque figlio e figlia eredi legittimi. A sua volta, il figlio decede dopo
avere compiuto 19 anni, mentre è nel corso del suo ventesimo anno. Lascia una figlia,
Fabia Valeriana (che porta i nomi dei due nonni). La zia Onorata (figlia del testatore)
agisce contro la nipote Fabia Valeriana (figlia del proprio fratello Antonino), rivendicando il fedecommesso (ossia i trecenta et quasdam res che il proprio padre Fabio
Antonino aveva disposto a favore di Onorata a carico della moglie erede) e ex testamento patris la portio hereditatis, cioè l’eredità del padre che la madre per fedecommesso avrebbe dovuto restituirle nel caso in cui il fratello fosse morto prima dei 20 anni.
Il termine portio indica che si tratta della metà del patrimonio del padre, dato che l’altra metà già le sarebbe pervenuta in quanto erede legittima della madre.99
Il governatore di provincia, cui Onorata s’era rivolta, aveva pronunciato sentenza a
suo favore. Il caso è portato in appello all’imperatore. I tutori della nipote Fabia
Valeriana (che avrà avuto pochi mesi o anni, data la giovanissima età del padre premorto) adducono che ella rimarrebbe priva di patrimonio; inoltre, con argomento più
tecnico, recitano una costituzione di Adriano che, per quanto riguarda i munera municipalia, aveva concesso l’esenzione anche prima del compimento dell’età prescritta: allo
stesso modo chiedevano che si considerasse maturato il termine del fedecommesso,
benché il figlio non avesse compiuto i 20 anni.100
99 La ricostruzione della fattispecie è problematica. Diversamente WANKERL, Appello ad principem cit. (nt. 97), 156
s., intende portio hereditatis come «das gesamte vom Vater auf dem Sohn übergegangene Vermögen»; in realtà, essendo la madre morta prima che il figlio compisse i 20 anni, non aveva ancora eseguito a favore di quest’ultimo la restituzione fedecommissaria dell’eredità, cui il testo non accenna (inoltre, essendo i due figli stati diseredati dal padre,
nulla era loro pervenuto direttamente). Occorre poi dare conto del fatto che, secondo Paolo, l’oggetto della petitio di
Onorata era duplice (amita fideicommissum et ex testamento patris portionem hereditatis petebat), cioè, mi pare, comprendeva anche il fedecommesso di trecento e altre cose a favore di Onorata.
100 Cfr., pur senza citazione esplicita di costituzioni, Ulp. 11 ed. D. 50.4.8: annus vicensimus quintus coeptus pro pleno
habetur. Il principio è che questo tipo di computo valga in honoribus favoris causa, quando tuttavia la carica non comporti gestione economica. L’ipotesi è che per munera municipalia Paolo intenda cariche; nel testo di Ulpiano si distingue tra munera e honores.
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Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
Settimio Severo ribalta la decisione del governatore e pronuncia la sentenza a favore della nipote, perché gli sembra più conforme all’assetto di interessi complessivo,
all’aequitas rei: l’imperatore deve avere ritenuto che fosse volontà del testatore provvedere non solo al figlio, ma pure ai suoi discendenti. In altri termini, la decisione – così
almeno mi pare 101 – fu emessa in aderenza alla interpretazione (propugnata in un noto
responso di Papiniano) secondo cui ai fedecommessi (e alle sostituzioni) si riteneva
apposta la condizione tacita si sine liberis decesserit.102
Oltre a questo argomento, di per sé risolutivo, l’imperatore si appoggia, per la sua
decisione, anche alla formula del testamento (si ad annum vicensimum aetatis pervenerit), intendendola come se significasse «si sia approssimato al ventesimo anno» (diversamente si sarebbe dovuto interpretare, ad esempio, se la clausola testamentaria avesse
specificato – come nel caso della excusatio della tutela – che il fedecommissario fosse
‘maggiore’ di vent’anni).
Settimio Severo, tuttavia, si premura di ribadire che, secondo un’altra decisione di
Marco Aurelio, non era scusato dalla tutela chi non avesse ancora compiuto i 70
anni.103 Nella interpretazione dei verba testamenti entrava dunque in gioco l’analogia,
in base alla costituzione di Adriano addotta dai tutori dell’appellante, e contrastata dall’imperatore.104
Quel che è per noi interessante è che Paolo intervenga a sua volta nel dibattito adducendo argomenti tratti dalla lex Aelia Sentia.105 Quale norma della lex fosse invocata non
è detto; probabilmente quella che fissava l’età del dominus (che doveva essere maggiore
101 Mi distacco qui dall’interpretazione di WANKERL, Appello ad principem cit. (nt. 97), 153 ss., che non sembra avere
colto questo argomento.
102 Papin. 9 resp. D. 35.1.102: Cum avus filium ac nepotem ex altero filio heredes instituisset, a nepote petit, ut, si intra
annum trigesimum moreretur, hereditatem patruo suo restitueret: nepos liberis relictis intra aetatem supra scriptam vita
decessit. Fideicommissi condicionem coniectura pietatis respondi defecisse, quod minus scriptum, quam dictum fuerat, inveniretur. Il responso papinianeo, com’è noto, fu adottato ed esteso da Giustiniano in C. 6.42.30; vd. per tutti P. VOCI,
Diritto ereditario romano II, Milano 1963, 904 s.
103 Cfr., anche in questo caso senza citazione esplicita di costituzioni, Ulp. 5 off. proc. D. 50.6.4: qui ingressus est septuagensimum annum, nondum egressus, hac vacatione non utetur; Mod. 2 excus. D. 27.1.2 pr.
104 Giustamente, WANKERL, Appello ad principem cit. (nt. 97), 159, segnala che nel dibattimento non è stata menzionata l’opinione in punto di Marcell. 15 dig. D. 35.1.48, suffragata da una costituzione imperiale, che negava la
scadenza del termine del fedecommesso cum sextum decimum annum ingressus fuisset, cui erat relictum, «cum ad annum
sextum decimum pervenisset». Tuttavia, nel caso sottoposto alla cognitio di Settimio Severo v’era evidentemente l’elemento aggiuntivo costituito dalla presenza di una figlia del fedecommissario, circostanza assente dal caso risolto da
Marcello.
105 Pur nell’estrema sinteticità del testo, mi pare più probabile ricavarne che, in questo caso, Paolo si sia pronunciato a sostegno della decisione dell’imperatore; vd. in questo senso anche WANKERL, Appello ad principem cit. (nt. 97),
159, che discute anche la possibilità che Paolo argomenti contro l’imperatore.
Dario Mantovani
755
di vent’anni) o dello schiavo (trent’anni).106 Ad ogni modo, il contesto rende certo che
il richiamo alla lex riguardasse il computo del termine stabilito nel fedecommesso.
La lex Aelia Sentia non è invocata da Paolo perché si applicasse al caso concreto
affrontato nella cognitio imperiale, né direttamente né per analogia (legis). Più latamente (in termini di analogia iuris), essa faceva parte del repertorio di argomenti – così
come le costituzioni imperiali relative al computo delle età che esoneravano dai munera – cui i giuristi (e l’imperatore) attingevano per le loro decisioni.107
Benché minuto, questo accenno di Paolo è la dimostrazione di come fosse capillare
la diffusione delle norme legislative nell’orizzonte dell’interpretatio.
L’esempio è tanto più prezioso perché raro, salvatosi solo perché la lex Aelia Sentia
era precisamente una delle poche leges non sistematicamente eliminate da Giustiniano.
Esso ci invita a ricuperare, con pazienza, la presenza della legge come elemento del
diritto anche giurisprudenziale romano.108
106
Vd. supra, nt. 94. Ammesso che fosse questa la norma richiamata (così WANKERL, Appello ad principem cit. [nt.
97], 159), può darsi che la lex Aelia Sentia non specificasse il modo del computo, ma che esso fosse interpretato dai
giuristi (e in sede giudiziale) in modo che si tenesse per compiuta l’età quando si era ancora nel corso dell’anno. Anche
in questo caso, dove più che i verba legis il giurista si richiamerebbe all’interpretazione giurisprudenziale che ne era
data, avremmo che i giuristi tengono presente una lex publica (interpretata) come argomento in un caso diverso.
107 WANKERL, Appello ad principem cit. (nt. 97), 163, inquadra opportunamente lo schema argomentativo negli
exempla (e ritiene altresì che con alia quaedam Paolo si riferisse ad argomenti tratti anche da altre leges publicae: il che
è possibile, ma non assicurato dal testo). Un altro brano da cui risulta, proprio con riferimento alla lex Aelia Sentia,
che le disposizioni legislative venivano tenute presenti dai giuristi in un quadro sistematico, nel quale emergevano
anche i significati specifici dei verba legis, che potevano così entrare a fare parte di repertori argomentativi, vd. Paul.
73 ed. D. 50.16.70, dove il giurista annota che la parola heres, nella lex Aelia Sentia, indica esclusivamente l’erede
diretto (e non l’erede dell’erede), fissando in capo a lui la legittimazione all’accusa di ingratitudine verso il liberto
paterno, con una accezione dunque ristretta rispetto al valore comune della parola: Sciendum est heredem etiam per
multas successiones accipi. Nam paucis speciebus «heredis» appellatio proximum continet, veluti in substitutione impuberis
«quisquis mihi heres erit, idem filio heres esto», ubi heredis heres non continetur, quia incertus est. Item in lege Aelia Sentia
filius heres proximus potest libertum paternum ut ingratum accusare, non etiam si heredi heres exstiterit. Idem dicitur in
operarum exactione, ut filius heres exigere possit, non ex successione effectus.
108 Un altro esempio altrettanto significativo si trova in un frammento del III libro delle Disputationes di Ulpiano,
tramandato da una pergamena conservata nella biblioteca di Strasburgo (IIa r.), che riproduco con le integrazioni di
O. LENEL, Neue Ulpianfragmente (1904), in ID., Gesammelte Schriften, (1902-1914) III, Napoli 1991, 211 ss., spec.
220 ss.: [Nec tamen ideo quod obligationi in Italia contractae pignus accessit pigno]ris dandi in Italia contractus est, sed
si pignus in Italia contractum est, hoc est conventio de pignore; ut in Furia lege spectamus, ubi sponsor acceptus est, non ubi
obligatio contracta, cui sponsus accedit. Denique ex duobus sponsoribus, quorum alter in Italia alter in provincia acceptus
est, eum demum relevat qui Italicus est. Il passo verte sull’exceptio longae possessionis (cfr. Ulp. 3 disp. D. 44.3.5.1) che,
si apprende, spetta solo se la costituzione del pegno è avvenuta in provincia; di qui il richiamo analogico alla lex Furia
de sponsu, che si applicava solo alle garanzie contratte in Italia e che dunque viene invocata per risolvere problemi che
si potevano porre per determinare se al pegno si dovesse applicare o meno il regime provinciale.
756
Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
7. Storia della storiografia: le leges publicae e il diritto privato
fra diritto romano, teoria generale del diritto e sociologia giuridica
Prima di concludere l’indagine, conviene interrogarsi sulle ragioni che hanno spinto la storiografia giuridica ad assecondare tanto a lungo la manipolazione delle fonti
compiuta dai giustinianei, senza riconoscerla: basti dire che, fra i tanti criteri individuati – spesso a sproposito – dagli interpolazionisti, quello (reale) della soppressione
delle leges publicae non era stato messo a fuoco.109
Come s’è accennato, la ricorrenza centenaria del saggio di Rotondi, nel mettere in
risalto la distanza che ci separa dalla sua pubblicazione, è adatta per conferire a questo
interrogativo una maggiore profondità di campo e per sottrargli le parvenze di un’ingenerosa critica retrospettiva; occorre invece portare allo scoperto le influenze che, in
questo caso, possono avere condizionato la ricostruzione del passato.
Che influenze vi siano state, è inevitabile. È perché lo storico del diritto è implicato nel pensiero giuridico a lui contemporaneo che v’è sempre dell’implicito nel modo
in cui ricostruisce il passato del diritto. Per liberare l’indagine storica da questo implicito, dalle precomprensioni, non è perciò sufficiente né la vigilanza della filologia (che
pure è il primo e più efficace antidoto) né il dubbio radicale, ossia l’illusione di poter
mettere in sospeso le concezioni di cui ciascuno è portatore. L’implicito è la storia: la
storia collettiva che produce categorie di pensiero, e la storia individuale che determina l’adesione a queste categorie. Pertanto, ripercorrere la storia degli studi, come ci
accingiamo brevemente a fare, è un modo congruo per cercare di liberarsi o almeno
mettersi in guardia dai condizionamenti.
Porterebbe troppo lontano risalire fino alla perfetta anticipazione della teoria di
Rotondi che fu enunciata nel 1720 da Giambattista Vico, nel De uno universi iuris
principio, et fine uno (Lib. I, cap. 173), l’opera che precedette di qualche anno la
Scienza Nuova. Nel capitolo significativamente intitolato «In bona republica libera
nullae leges consulares de iure privato», Vico sostenne che il diritto privato (a differenza del pubblico) fu nelle mani della giurisprudenza sacerdotale e aristocratica nonché il carattere di ‘strappo’ politico che ebbe la legislazione privatistica, attuata mediante plebisciti:
[173.1] Contra quando Patres de jure publico palam cum populo agere debebant, jus
privatum, ejusque scientiam sibi conservarunt arcanam: nullamque per Consules de jure
privato ad populum legem tulere, praeter unam Poeteliam Papiriam de nexu, quam ab
optimatibus turna popularis expressit […] [2] Ceterum leges in republica libera de jure
privato latae ferme omnes Tribuniciae fuere, et omnes, ut supra diximus, libertatis fautrices:
109
Per l’intuizione di Chiazzese, vd. supra, nt. 77.
Dario Mantovani
757
is enim est mos tenuium adversus potentes postulare jus aequum; et potentiae commune
votum est, leges non esse.110
Fu lo stesso Rotondi, retrospettivamente, a certificare che le idee di Vico coincidevano con le proprie e costituivano una «singolare anticipazione».111 La coincidenza,
quale che ne siano le ragioni, è istruttiva: la palese subordinazione dei dati storici a una
filosofia della storia, quale è tipica del pensiero vichiano, dovrebbe indurre a somma
cautela chi, oggi, accetta la medesima conclusione formulata con le parole di Rotondi,
senza avvedersi che essa è altrettanto ideologicamente condizionata. In particolare,
l’equivalenza fra plebiscito e contenuto ‘progressivo’ della legislazione privatistica appare in tutta la sua schematicità, che non corrisponde né al contenuto delle leges a noi
note né alla dinamica della storia politica romana.112
Avendo tuttavia Rotondi conosciuto solo a posteriori le idee vichiane, conviene cercare influenze più vicine.
L’insistenza sul ruolo limitato rivestito dalla legge nel diritto privato romano gli veniva innanzitutto dall’adesione alla teoria sociale di Pietro Bonfante, che di Rotondi –
come s’è accennato – fu maestro a Pavia, dov’era subentrato all’inizio del 1903 a Contardo Ferrini, improvvisamente scomparso nell’ottobre dell’anno precedente. L’impronta
di Bonfante è nitida sulle concezioni pubblicistiche di Rotondi, così come sul versante
dogmatico è visibile la traccia di Carlo Longo, l’altro suo docente romanista.113
110 Cito da G.B. VICO, De uno universi iuris principio, et fine uno, in ID., Opere giuridiche, a c. di P. CRISTOFOLINI,
Firenze 1974, 251 (trad. C. Sarchi): «1. Le leggi di gius pubblico erano apertamente comunicate al popolo dal senato, ma ciò non avveniva giammai pel gius privato, perché i patrizi sempre procurarono di conservarne segretissima la
scienza, né giammai venne dai consoli proposta al popolo alcuna legge di ragion privata, tranne quella legge Petelia
Papiria, del nesso, strappata agli ottimati per un popolar rumore […]. 2. Per altro le leggi di gius privato fatte durante la libera repubblica sono quasi tutte tribunizie, e tutte, come lo abbiam detto, favoreggiavano le popolari ragioni;
perché egli è costume dei deboli di richiedere contro ai potenti l’ugual ragione, com’egli è voto comune dei potenti
che non v’abbiano leggi». Il capitolo prosegue con una disamina di alcuni plebisciti, per dimostrarne il carattere politico, a tutela della plebe contro gli abusi del ceto superiore. L’opera vichiana sul diritto universale è disponibile anche
nella rist. anastatica curata e commentata da F. Lomonaco (Napoli 2007).
111 Nello scritto pubblicato postumo Problemi di diritto pubblico romano, in Scritti giuridici cit. (nt. 4) I, 387 nt. 3.
Della coincidenza fu avvertito da Benvenuto DONATI – il filosofo del diritto suo collega a Modena, insigne studioso
di Vico, poi colpito nel 1938 dalla legislazione razziale – che pubblicò il saggio I plebisciti fonte di diritto privato secondo la dottrina romanistica del Vico, in Scritti vari dedicati al Prof. Carlo Arnò, Modena 1928, 23 ss.
112 Sul ruolo che Vico assegna alla legge, temporanea risoluzione del conflitto che sorge dal corso del processo socioculturale di un popolo, vd. M. VANZULLI, Leggi e conflitto sociale in Vico, in Quaderni Materialisti 1 (2003) 155 ss.
Un acuto e definitivo intervento critico su questo punto della teoria di Rotondi, benché abbia suscitato poca eco, è
stato formulato da tempo: C. COSENTINI, Il carattere della legislazione comiziale di diritto privato, in Archivio Giuridico
131 (1944) 130 ss.; vd. anche SANDBERG, Magistrates and Assemblies cit. (nt. 10), 1 ss.
113 Nel periodo di frequenza di Rotondi, Bonfante insegnava la Storia del diritto romano, il Diritto romano e
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Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
Proprio nel 1902, alla vigilia della chiamata a Pavia, Bonfante aveva pubblicato la
prolusione torinese (del 1901) su La progressiva diversificazione del diritto pubblico e privato. Studio di impronta sociologica – destinato non a caso alla allora neonata Rivista
italiana di Sociologia 114 – espone organicamente l’idea che la civitas si sia formata a
danno degli organismi politici inferiori (familia, gens e tribus) e che il dualismo fondamentale fra civitas e familia si rispecchi nell’antitesi fra ius publicum e ius privatum.
Questa teoria, venuta maturando fin dagli studi giovanili sulla struttura arcaica della
proprietà e della successione, consentiva a Bonfante, nel quadro della sua opzione evoluzionistica della storia giuridica, di «proporre l’intera vicenda dell’ordinamento giuridico romano come la storia della progressiva diversificazione di questi due settori».115
Fra i due ordinamenti, quello pubblicistico della città e quello privatistico della
famiglia, corre secondo Bonfante una differenza anche quanto alle fonti di produzione; lo svolgimento del diritto pubblico ha la sua fonte principale nella legge comiziale, mentre «il diritto privato presenta il fenomeno opposto: qui l’intervento della legislazione è assolutamente sporadico».116 È precisamente lo schema accolto da Rotondi.
Queste idee, d’altra parte, erano oggetto anche del corso di Storia del diritto romano
pubblicato da Bonfante nel 1903, che Rotondi ascoltò dalla viva voce del proprio
insegnante.117
Il saggio di Rotondi, nelle intenzioni stesse dell’autore, è dunque lo svolgimento
della teoria del parallelismo fra diritto pubblico e diritto privato di Bonfante, di cui
costituisce un convinto tentativo di dimostrazione.
L’indagine di Rotondi trovava appoggio, persino più condizionante, anche in un’altra teoria di impronta sociologica. Sempre nel 1902, infatti, era apparso un libro di
Eugen Ehrlich, Beiträge zur Theorie der Rechtsquellen, 1. Teil. Das ius civile, ius publicum, ius privatum, che Rotondi menziona come punto di riferimento.118
l’Esegesi; Carlo Longo le Istituzioni. Cfr. D. MANTOVANI - E. SIGNORI (a c. di), I professori dell’Università di Pavia
(1859-1961), online (www.unipv.it).
114 Vol. 5 (1902) 1 ss. (poi in ID., Scritti giuridici vari IV, Roma 1925, 28 ss.); nel 1917 vi apparirà la prolusione
romana. Cfr., per il contesto disciplinare, M.C. FEDERICI, Alle radici della sociologia in Italia: la ‘Rivista italiana di
sociologia’, Milano 1990; per il rapporto di Bonfante con la sociologia, L. CAPOGROSSI COLOGNESI, A cent’anni dalle
‘res mancipi’ di Pietro Bonfante, in Quaderni Fiorentini 17 (1988) 118 ss. nonché ID., Dalla storia di Roma alle origini della società civile. Un dibattito ottocentesco, Bologna 2008, 251 ss.
115 CAPOGROSSI COLOGNESI, A cent’anni dalle ‘res mancipi’ di Pietro Bonfante cit. (nt. 114), 117.
116 ROTONDI, Osservazioni sulla legislazione cit. (nt. 4), 4.
117 Sulla Storia di Bonfante, vd. CAPOGROSSI COLOGNESI, A cent’anni dalle ‘res mancipi’ di Pietro Bonfante cit. (nt.
114), 115 e nt. 5.
118 Berlin 1902, repr. Aalen 1970. Vd. ROTONDI, Osservazioni sulla legislazione cit. (nt. 4), 32 e nt. 5, 34 s. (cfr. infra,
nt. 134).
Dario Mantovani
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Non si può passare dinnanzi al nome di Ehrlich – benché a prima vista meno familiare di quello di Bonfante – come si farebbe davanti a quello di un qualsiasi remoto
studioso di diritto romano, pigiato fra altri in una nota a piè di pagina. Eugen Ehrlich
è, con Max Weber, il padre della sociologia del diritto.119 Benché vi fossero stati in precedenza tentativi di studiare la reciproca interdipendenza fra diritto e società (da
Montesquieu a Emile Durkheim), furono questi due studiosi a porre le basi della disciplina secondo la sua impostazione attuale, che rivela dunque, nella formazione culturale dei suoi due fondatori, un profondo debito verso il diritto romano.120
Contribuisce alla comprensione della dottrina di Ehrlich ripercorrerne brevemente
le coordinate culturali.121 Nato nel 1862 nella Bukowina, oggi parte della Repubblica
Ucraina, allora provincia estrema orientale della monarchia austro-ungarica, concluse
gli studi di diritto a Vienna e si abilitò in diritto romano con un libro sulla «dichiarazione tacita di volontà»,122 grazie alla quale fu nominato nel 1896 professore (straordinario e poi ordinario) di Diritto romano presso la Regia-Imperial Università della sua
città natale, Czernowitz, appunto in Bukowina, università di lingua tedesca fondata
pochi anni prima, nel 1875, da Francesco Giuseppe. Ehrlich insegnò la nostra disciplina fino all’invasione russa della Bukowina (dal 1918 annessa alla Romania): il rientro come professore di filosofia del diritto nel 1921 fu contrastato e spezzato quasi
immediatamente dalla morte nel 1922.
Fu proprio il suo punto d’osservazione, un crogiolo multietnico alla periferia dell’impero, a spingere Ehrlich a chiedersi quale fosse il rapporto tra il diritto formalmente valido e le relazioni reali di vita di popoli tanto diversi – ne contava nove –
quanti erano ricompresi nella Bukowina. Rendendosi conto della sopravvivenza di
119
Un’antologia degli scritti più significativi in E. EHRLICH - H. KELSEN - M. WEBER, Verso un concetto sociologico di
diritto, a c. di A. FEBBRAJO, Milano 2010. Vd. già, soprattutto per la polemica con Kelsen, E. EHRLICH - H. KELSEN,
Scienza giuridica e sociologia del diritto, a c. di A. CARRINO, Napoli 1992.
120 Com’è noto, la sociologia del diritto vanta molti padri: oltre a quelli indicati, si annoverano ad esempio Roscoe
Pound, Axel Hägerström e Leon Petraźycki (gli ultimi due anch’essi romanisti).
121 Il nesso fra biografia e concezioni ehrlichiane è un punto assodato della ricerca: vd. M. EPPINGER, Governing in
the Vernacular: Eugen Ehrlich and Late Habsburg Ethnography, in M. HERTOGH (ed.), Living Law: Reconsidering Eugen
Ehrlich, Oxford 2009, 21 ss. Su Ehrlich, vd. per tutti A. FEBBRAJO, «Presentazione» a E. EHRLICH, I fondamenti della
sociologia del diritto, a c. di A. FEBBRAJO, Milano 1975, V ss.; M. REHBINDER, Die Begründung der Rechtssoziologie
durch Eugen Ehrlich, Berlin 19862; A. CARRINO, Eugen Ehrlich e Hans Kelsen: una controversia sulla sociologia del diritto, Barcelona 1993; U. LENZER, Die rechtssoziologische Vertragslehre Eugen Erlichs, in E. SCHUMANN - F. THEISEN
(edd.), Sachsen im Spiegel des Rechts. Ius commune propriumque, Köln-Weimar-Wien 2001, 387 ss.; HERTOGH, loc.
cit.; K.A. ZIEGERT, On Eugen Ehrlich, Fundamental Principles of the Sociology of Law, in A.J. TREVIÑO, Classic Writings
on Law and Society, New Brunswick, NJ 20112, 123 ss.
122 Die stillschweigende Willenserklarung, Berlin 1893.
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Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
diritti locali al di sotto del diritto imperiale (dell’impero austro-ungarico), concludeva:
«Anche nel tempo presente, come in ogni altra epoca, il centro di gravità dello sviluppo del diritto non si trova nella legislazione, né nella scienza giuridica, né nella giurisprudenza, ma nella società stessa».
In questo giro di frase – che sintetizza la sua opera più importante, la Grundlegung
der Soziologie des Rechts 123 – si riconoscono i tre tipi di diritto che Ehrlich proponeva
di distinguere: il diritto sociale primario, il diritto secondario dei giuristi e il diritto
dello Stato, anch’esso secondario. Il diritto sociale, in particolare, è lo strato giuridico che attiene ai comportamenti fondamentali dell’uomo in società e sorge per così dire autonomamente dai fatti: possesso, unione matrimoniale, dichiarazione di volontà, successione per causa di morte. Per Ehrlich, il concreto viene sempre prima
dell’astratto ossia il diritto che sorge dalla spontanea azione sociale precede quello
statuito dalla legge (e dagli stessi tecnici): «Lo stato esisteva prima che fosse promulgata la costituzione; la famiglia è più antica dell’ordinamento familiare; il possesso
precede la proprietà; vi sono stati dei contratti prima che vi fosse un diritto contrattuale e lo stesso testamento, dove è sorto spontaneamente, è più antico del diritto
testamentario».124
Quest’impostazione fattuale sollevò, com’è facile immaginare, la critica di Hans
Kelsen, il quale rilevò l’inversione dei termini: anche in un gruppo primitivo, un
matrimonio o un contratto esiste giuridicamente se e solo se corrisponde a una proposizione giuridica che lo qualifica come tale.125 Non interessa qui seguire la polemica
con Kelsen – che per la sua importanza continua a costituire un topos della sociologia
giuridica – se non per sottolineare che essa contrappone appunto due concezioni che
rappresentano parte tuttora viva e costitutiva della nostra cultura giuridica.126 Se tale è
il normativismo kelseniano, altrettanto vale per la sociologia ehrlichiana, la cui distin123 L’edizione tedesca della Grundlegung è del 1913 (Berlin); qui si cita dall’ed. it.: EHRLICH, I fondamenti della sociologia del diritto cit. (nt. 121), 3. L’influenza anche negli Stati Uniti del pensiero di EHRLICH, vicino all’ordine di idee
del realismo nordamericano, è segnalato dalla traduzione del trattato, con prefazione di Roscoe Pound: Principles of
the Sociology of Law, trans. W. Moll, Harvard 1936. Sul rapporto fra il «Lebendes Recht» di Ehrlich e il «Law in
Action» di Pound, vd. S. NAMIGA, Pounding on Ehrlich. Again?, in HERTOGH, Living Law cit. (nt. 121), 157 ss.
124 EHRLICH, I fondamenti della sociologia del diritto cit. (nt. 121), 46.
125 H. KELSEN, Una ‘fondazione’ della sociologia del diritto, in Verso un concetto sociologico di diritto cit. (nt. 119), 13.
126 Oltre che in traduzione italiana (supra, nt. 119), le pagine originali della polemica sono state ristampate a c. di
S.L. PAULSON, Hans Kelsen und die Rechtssoziologie. Auseinandersetzungen mit Hermann U. Kantorowicz, Eugen Ehrlich
und Max Weber, Aalen 1992 (con «Vorwort», VII ss.). Per altri commenti, vd. U. REIN, Rechtssoziologie gegen
Rechtspositivismus. Die Kontroverse zwischen Eugen Ehrlich und Hans Kelsen 1915/16, in S.L. PAULSON - R. WALTER
(edd.), Untersuchungen zur reinen Rechtslehre, Wien 1986, 103 ss.; CARRINO, Eugen Ehrlich e Hans Kelsen cit. (nt.
121); FEBBRAJO, Tre definizioni del concetto di diritto, in Verso un concetto sociologico di diritto cit. (nt. 119), IX ss.
Dario Mantovani
761
zione fra diritto primario (sociale) e secondario è ancora molto produttiva, specialmente per la teoria del pluralismo giuridico.127
Pertanto, ripercorrere il contesto in cui maturò il saggio di Rotondi può essere rilevante anche per misurare le nostre proprie prese di posizione, che si fondano tuttora,
a grandi linee, sulle medesime opzioni di teoria generale del diritto.
Importa ora sottolineare – com’è stato da altri ben detto – che «Ehrlich perviene ai
suoi risultati sociologici innanzi tutto per via storiografica: è la storia (la storia del diritto) alla base della sua sociologia giuridica», prima e più della comparazione; «Ehrlich
è innanzi tutto uno storico del diritto romano».128
Ad esempio, per dimostrare la priorità del diritto sociale su quello dello Stato si rifaceva alle Dodici Tavole, in particolare alla norma sulla successione ab intestato nella
quale il suus heres è dato per presupposto (perché la successione da parte dei discendenti è un dato pacifico, che viene appunto – secondo Ehrlich – dal diritto sociale),
mentre, a suo avviso, la successione degli agnati e dei gentiles dipende da una statuizione legislativa, che è più recente.129
È fin troppo evidente che questo diritto sociale primario corrisponde per Ehrlich
allo strato del ius civile, che dunque egli immagina preesistente al diritto statale (ai
«Rechtsätze», le proposizioni giuridiche) e in larga misura indipendente da esso. Il diritto
più antico è da identificare con «l’ordinamento interno» dei gruppi primitivi,130 concezione che è evidentemente analoga a quella di Bonfante. Questo strato, il ius civile, è il «diritto vivente»: «Il diritto vivente è il diritto che domina la vita benché non sia stato posto
attraverso enunciati giuridici legislativi».131 Le norme servono solo in caso di conflitto.
È precisamente la teoria che egli mette a punto nei Beiträge zur Theorie der
Rechtsquellen del 1902, dedicati alle fonti del diritto romano, che precedono e dunque
127
Cfr. M. COUTU, rec. a HERTOGH, Living Law cit. (nt. 121), in Osgoode Hall Law J. 47 (2009) 591: «Although
blurred by definitional vagueness, Ehrlich’s distinction between state and societal law still holds great relevance for
contemporary legal sociology».
128 CARRINO, Eugen Ehrlich e Hans Kelsen cit. (nt. 121), 4. Vd. del resto EHRLICH, I fondamenti della sociologia del
diritto cit. (nt. 121), 8 s.: «L’importanza della storia del diritto per la scienza giuridica […] dipende non tanto dal
fatto che essa è storia, quanto dal fatto che essa è una scienza pura, forse l’unica scienza del diritto che esista oggi.
Quale fonte inesauribile di stimoli e di insegnamento è diventata la storia del dititto per la economia teorica, per la
economia politica, per la legislazione!».
129 EHRLICH, I fondamenti della sociologia del diritto cit. (nt. 121), 41.
130 I fondamenti della sociologia del diritto cit. (nt. 121), 38.
131 E. EHRLICH, Die Erforschung des lebenden Rechts (1911), poi in ID., Recht und Leben. Gesammelte Schriften zur
Rechtstatsachenforschung und zur Freirechtslehre, ausgw. und eingl. v. M. REHBINDER, Berlin 1967, 11. Secondo la sintesi di REHBINDER, Die Begründung der Rechtssoziologie cit. (nt. 121), 64, il diritto vivente costituisce «un diritto
sociale ad un livello superiore, cioè influenzato dalla reazione al diritto dei giuristi e al diritto statale».
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Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
preparano l’elaborazione della sua teoria sociologica, del 1913.132 In particolare, Ehrlich
sosteneva che vi fosse un’antitesi fra il ius civile e il ius legitimum: quest’ultimo, costituisce il ius publicum, diritto posto dallo Stato («das staatliche, vom Staate ausgehende
Recht»),133 mentre i Romani non consideravano tale il diritto che non è stato posto, il
ius quod sine scripto venit compositum a prudentibus, il ius civile in senso tecnico, che
insieme al ius gentium e al ius naturale essi sussumevano – secondo Ehrlich – sotto l’etichetta di ius privatum.
Questa concezione, che è affine, per non dire perfettamente sovrapponibile a
quella di Bonfante, fu accolta esplicitamente da Rotondi.134 Essa trova poi una
significativa prosecuzione fino a noi, per esempio nel pensiero di Franz Wieacker,
il quale afferma che in età arcaica v’era una differenza genetica e strutturale fra ius
e lex.135
Di fatto, l’impostazione di Ehrlich dovette attendere il 1967 per una sistematica
revisione, ad opera di Max Kaser.136
La critica di Kaser muove da un’analisi terminologica, che smentisce che nelle fonti
vi sia un’opposizione fra ius legitimum e ius civile; spesso le leges sono invece ricomprese
nel ius civile. Si è verificato un «Absorptionsprozeß» delle leges nel diritto giurisprudenziale.137 Sul piano sostanziale, ciò implica che si giunse ad ammettere che le leges
potessero modificare il ius civile, a differenza di quel che riteneva Ehrlich per il quale
si trattava di due strati incomunicabili.
Estremizzando, potremmo dire che Kaser, con la sua critica, sta a Ehrlich sul piano
del diritto romano come Kelsen sta a Ehrlich sul piano della teoria generale.
In realtà, le posizioni dei due romanisti non sono affatto antitetiche, come questa
sorta di equazione può lasciare intendere. Per meglio dire: Kaser si allontana dalle
132 Un rinvio esplicito ai risultati raggiunti nei Beiträge si trova in I fondamenti della sociologia del diritto cit. (nt. 121),
180, 316 s. (dove è annunciato anzi un secondo volume dei Beiträge, poi non apparso, dedicato a chiarire «da dove»
i giuristi romani ricavassero il «proprio materiale»). Appena successivo alla pubblicazione romanistica è il saggio che
inizia la scuola del Freirecht: E. EHRLICH, Freie Rechtsfindung und freie Rechtswissenschaft, 1903, che ha per cardine la
critica del dogma dell’assenza di lacune dell’ordinamento e, di conseguenza, concepisce il giudice come organo dell’elaborazione giuridica.
133 Beiträge zur Theorie der Rechtsquellen cit. (nel testo) I, 168.
134 Vd. ROTONDI, Osservazioni sulla legislazione cit. (nt. 4), 84 s., che, pur accogliendo una critica terminologica
rivolta dall’Erman all’Ehrlich, difende fino in fondo l’idea di quest’ultimo di una perdurante antitesi fra ius civile
(inteso come «patrimonio giuridico primitivo») e ius legitimum, che secondo Rotondi si protrasse ben oltre le XII
Tavole, fino all’affermarsi del diritto pretorio.
135 Römische Rechtsgeschichte I, München 1988, 282.
136 M. KASER, Lex und ius civile (1967), poi in ID., Ausgewählte Schriften I, Camerino 1976, 159 ss.
137 KASER, Lex und ius civile cit. (nt. 136), 174.
Dario Mantovani
763
vedute di Ehrlich solo per l’epoca post-decemvirale, cioè ritiene che l’originaria antitesi sia stata superata nel corso del tempo. Ma per quanto riguarda le origini, anche per
Kaser il diritto romano è un patrimonio di regole e istituti che nasce fuori dalle leggi,
elaborato dagli arcaici esperti di diritto – cioè i sacerdoti – attraverso l’esperienza di
generazioni e il contributo delle pronunce giudiziarie.138
L’unica vera differenza, si può dire, nelle posizioni dei due studiosi sta nel ruolo assegnato alle Dodici Tavole.
Per Ehrlich, esse non segnano una tappa decisiva; per Kaser, invece, provocarono
rapidamente un mutamento di concezione: i giuristi iniziarono a pensare che tutto il
ius fosse da ricondurre alle XII Tavole, che diventarono, per usare l’icastica definizione
di Livio, fons omnis publici privatique iuris (3.34.6).139
Questo rapido scavo – che conviene arrestare qui – porta dunque un primo risultato, ossia il ruolo ‘teorico’ che hanno assunto le Dodici Tavole nella storiografia romanistica. Più che un accertamento in base alle fonti (lacunose), l’immagine che i romanisti del Novecento danno delle Dodici Tavole è un riflesso di una teoria generale del
diritto. In altre parole, l’interpretazione delle Dodici Tavole dipende da come ciascuno concepisca nel suo complesso l’ordinamento giuridico romano. Se – da Ehrlich fino
a Wieacker, con una linea che arriva a Schiavone – si accentua l’aspetto sociale, consuetudinario, giurisprudenziale del diritto romano, le Dodici Tavole sono viste come
una sorta di incidente di percorso, senza forti conseguenze.140 Se, invece, nella prospettiva di Kaser (e, per fare un altro nome honoris causa, di Talamanca), si preferisce
ridurre a unità il sistema giuridico romano, la legislazione decemvirale viene considerata lo snodo che (persino al di là dell’intenzione dei decemviri ) unifica gli strati prima
distinti, appunto sotto il segno della positivizzazione normativa.141
Quale che sia la prospettiva che si adotti, tuttavia – ed è questo il secondo risultato
di questa breve storia degli studi, che ci riporta al centro del nostro tema – il ruolo della
138
Es. M. KASER, Die Beziehung von lex und ius und die XII Tafeln (1973), poi in ID., Ausgewählte Schriften cit. (nt.
136) I, 181 ss. Per la precisione, il ruolo assegnato da Kaser agli esperti differenzia la sua visione da quella di Ehrlich,
per il quale lo strato originario del ius (e di ogni ordinamento) sta ancora prima che nella elaborazione di esperti, nell’agire sociale, nei concreti rapporti matrimoniali, di apprensione e di scambio.
139 Così specialmente KASER, Die Beziehung von lex und ius und die XII Tafeln cit. (nt. 138), 197: benché le Dodici
Tavole non avessero in origine la funzione di legalizzare tutto l’ordinamento, ben presto dopo la loro emanazione «hat
man geglaubt, alles was es an Recht gibt, auf die lex zurückführen zu müssen».
140 Cfr. F. WIEACKER, Lex publica. Gesetz und Rechtsordnung im römischen Freistaat, in ID.,Vom römischen Recht,
Stuttgart 19612, 45 ss. («Dieses Gesetz hat seines gleichen in Rom nicht wieder gefunden»: 57); SCHIAVONE, Ius cit.
(nt. 43), 74 ss.
141 Cfr. M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, 25 ss. Per l’opinione di Kaser, secondo cui la
legalizzazione dell’ordinamento fu un processo non previsto dai decemviri, vd. supra, nt. 139.
764
Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
legislazione nel diritto privato dopo le XII Tavole viene da tutti considerato assai
modesto.142 La iuris origo – per usare l’espressione di Pomponio – finisce insomma per
pesare in modo determinante sul suo processus.
Il punto è che per i romanisti, la iuris origo – la primissima genesi del ius in età
predecemvirale – non fu affatto la lex publica, come pensava invece Pomponio. Al
contrario: essi la rinvengono – nella scia sociologica di Ehrlich – nello spontaneo
atteggiarsi dei rapporti intersoggettivi oppure nel lento accumularsi di decisioni e
responsa.143 Secondo la storiografia giuridica del Novecento, essendo gravato da questa
origo predecemvirale ‘a-legislativa’, il ius rimase perciò campo sostanzialmente estraneo
alla lex, tanto alle Dodici Tavole (considerate, in varia misura, una codificazione incompleta) quanto alla legislazione posteriore.144
Non è il caso, ovviamente, di entrare nel merito di questa rappresentazione, per provare a saggiare se essa corrisponda o meno, sul piano storico, alle effettive vicende dell’ordinamento romano. Per limitarsi a una sola considerazione, appare evidente che la
sottovalutazione del ruolo della lex publica nel diritto privato si regge su una separazione che gli studiosi introducono fra le Dodici Tavole e la legislazione successiva, invece
di concepirle come un insieme. Come un insieme le concepivano i Romani, per i quali,
addirittura, le leges posteriori non erano che una sorta di continua riattualizzazione e
riproposizione delle norme decemvirali, quarum ubi contemni antiquitas coepit, eadem
142 Ad es. WIEACKER, Lex publica cit. (nt. 140), 57 afferma «dass die Privatrechtsgesetzgebung der Folgezeit nach
Umfang, Rang und Wirkung weit hinter den XII Tafel zurückblieb»; cfr. TALAMANCA, Istituzioni cit. (nt. 142), 26,
in cui è particolarmente interessante la contrapposizione fra il riconoscimento del ruolo delle XII Tavole («un intervento del potere legislativo esercitato dai comizi che sarebbe rimasto fondamentale nelle vicende dell’esperienza giuridica romana») e il modesto apporto delle leges successive («La dottrina è concorde nel ritenere che, per lo sviluppo
del sistema privatistico, lo strumento legislativo ha avuto una portata molto limitata»).
143 Efficace raffigurazione di questo modello di iuris origo inverso rispetto a quello pomponiano in SCHIAVONE, Ius
cit. (nt. 43), 78, secondo il quale, quando nel V secolo una parte della città provò a imporre il modello greco della
legge «si scontrò subito con un’esperienza alternativa», con la «specificità romana nelle forme di regolazione sociale»,
ossia «il paradigma del ius» giurisprudenziale, già «tanto consistente e capace di autoriformarsi […] da poterglisi
opporre come qualcosa di consolidato, duro e fermo». Vd. in analoga prospettiva ad es. WIEACKER, Lex publica cit.
(nt. 140), 57.
144 Trascrivo un eloquente ragionamento di KASER, Lex und ius civile cit. (nt. 136), 174: «Die spätere Zeit (scil.: dopo
le XII Tavole) kennt nur noch Einzelgesetze, sie sind ger i ng a n Za hl und zu allermeist a uf engbegrenzte
Tatbestände beschränkt. Jede neue lex dieser Art tritt zu dem bereits b estehenden Recht zunächst nur als
modifizierende oder ergänzende Auflagerung hinzu: daraus ergibt sich der scheinbare Kontrast zum ius civile, von
dem sich Ehrlich hat täuschen lassen» (spaziato mio). Kaser rimprovera a Ehrlich un’erronea lettura delle fonti, che
lo portava a scorgervi un’inesistente contrapposizione fra ius civile e lex. Ma ciò è avvenuto – sostiene Kaser – perché
Ehrlich si è fatto ingannare dalla scarsità degli interventi legislativi, che gli sono apparsi strutturalmente diversi dal
ius civile, mentre in realtà erano solo marginali. Dunque, benché divergano sulla teoria, sul piano dei fatti i due insigni studiosi convengono nel minimizzare l’incidenza della lex sul diritto privato dopo le XII Tavole.
Dario Mantovani
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illa quae illis legibus cavebantur in alia latorum nomina transierunt.145 Concepirle, viceversa, come fenomeni senza connessione – come tende a fare la storiografia giuridica –
è il primo passo di un ragionamento che ha come punto d’arrivo il rifiuto di riconoscere nella legislazione una struttura portante dell’ordinamento romano.
Entrare nel merito delle ricostruzioni storiche non è tuttavia il compito di queste
pagine, che intendono invece portare alla luce i condizionamenti concettuali dello studio di Rotondi.
La posizione di Bonfante e quella di Ehrlich – questa è la conclusione – sono confluite nel dare appoggio ideologico all’accertamento di Rotondi (che aveva anche un
precedente in Vico). La cernita strettissima da lui effettuata, che escludeva dal novero
delle leggi di diritto privato leggi che vi erano invece di importanza notevole e a volte
cruciale, come le leges de sponsu e quelle sulle actiones – che ci è parsa inspiegabile – si
rivela condizionata all’idea della «particolarità di Roma», cioè dal postulato che «lo sviluppo del diritto privato è sottratto di regola all’intervento degli organi legislativi, ed
ha nella giurisprudenza e nel pretore due organi propri», il che rappresenta «un inestimabile vantaggio», perché come «il diritto privato si svolge in modo più uniforme, più
graduale, più logico, così più facilmente si conforma al mutarsi delle condizioni».146
Giunti a questo punto, non c’è chi non veda la continuità fra questa impostazione
e la polemica di Savigny contro la legislazione e a favore della giurisprudenza (rafforzata, specialmente negli anni vicini a noi, dal desiderio di rivendicare al diritto romano un valore per la formazione del giurista moderno, che risiederebbe appunto nella
sua natura giurisprudenziale e anormativa). È stato rilevato, indipendentemente, che
tanto Ehrlich quanto Bonfante, con le loro teorie sulla genesi sociale dell’ordinamento, si riallacciavano alla dottrina della Scuola storica del diritto, secondo cui lo spirito
del popolo è la fonte originaria del diritto e la legislazione ostacola l’adeguamento dell’ordinamento all’evolversi della società.147 È l’implicito che sta nella formula apparentemente obiettiva di Schulz «Das ‘Volk des Rechts’ ist nicht das Volk der Gesetze».
145 Macr. Sat. 3.17.7-8: Post Didiam, Licinia lex lata est […] [8] lex vero haec paucis mutatis in plerisque cum Fannia
congruit. In ea enim ferenda quaesita est novae legis auctoritas, exolescente metu legis antiquioris, ita, Hercules, ut de ipsis
duodecim tabulis factum est, quarum ubi contemni antiquitas coepit, eadem illa quae illis legibus cavebantur in alia latorum nomina transierunt. Il testo non ha ricevuto l’attenzione che merita; citato per lo più in connessione con la iterazione delle leges sumptuariae (su cui vd. M. COUDRY, Lois somptuaires et regimen morum, in questo volume, supra,
489-513), l’asserzione di Macrobio possiede invece una portata generale (e si avvicina a Ulp. 18 ed. D. 9.2.1 pr.,
riportato supra, nt. 46): vd., per un accenno, R. SCHÖLL, Legis Duodecim Tabularum Reliquiae, Lipsiae 1866, 9; non
lo menziona BLEICKEN, Lex Publica cit. (nt. 13), 142, che pure intravede il legame fra le Dodici Tavole e la legislazione privatistica successiva.
146 ROTONDI, Osservazioni sulla legislazione cit. (nt. 4), 25 nt. 6.
147 Vd. risp. per Ehrlich CARRINO, Eugen Ehrlich e Hans Kelsen cit. (nt. 121), 10 e per Bonfante CAPOGROSSI COLOGNESI,
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Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi
Avere messo a nudo l’intelaiatura ideologica che unisce Schulz a Savigny – attraverso Rotondi, Ehrlich, Bonfante – e che collega anche posizioni apparentemente distanti come quella di Kaser – non significa negare la ‘particolarità di Roma’, che è di avere
conosciuto l’attività specialistica di un ceto di interpreti del diritto. Tuttavia, la maggior presenza delle leges publicae nel diritto privato è un fenomeno effettivo, che arricchisce la complessità dell’esperienza giuridica romana e che spetta alle future ricerche
illustrare nelle sue implicazioni. Come diceva impeccabilmente Giovanni Pugliese «i
giuristi e la giurisprudenza rappresentano soltanto un aspetto o una faccia, per quanto importantissima, del diritto romano. Ci sono infatti altri aspetti o altre facce; e queste o alcune di queste non possono non avere in qualche modo influito sulla fisionomia della stessa faccia costituita dai giuristi e dalla giurisprudenza».148
È un’impostazione che racchiude perfettamente il senso della presente indagine: una
di queste altre facce erano le leges publicae.
8. Epilogo
I risultati si possono riassumere in questi punti:
a) i Romani erano convinti che, anche nel diritto privato, le leges publicae fossero
numerose, anzi rappresentassero una immensa diffusaque copia, accumulatasi a partire
dalle Dodici Tavole (§ 2);
b) l’affermazione di Rotondi, secondo cui le leggi di diritto privato «non arrivano
alla trentina» si basa su due presupposti criticabili. In primo luogo, restringe in modo
ingiustificato la categoria di leggi di diritto privato, escludendone molte che le fonti
giuridiche mostrano di ritenere tali (§ 3);
c) in secondo luogo, e soprattutto, non tiene conto che le nostre informazioni sulla
esistenza e il contenuto delle leges publicae sono estremamente lacunose, come è dimostrato dalla verifica condotta da J.-L. Ferrary su Livio e, in questo saggio, sulle leges epigrafiche (§ 3);
A cent’anni dalle ‘res mancipi’ di Pietro Bonfante cit. (nt. 114), 140 ss., secondo cui lo storicismo della scuola savignana,
«lungi dal contrapporsi alla prospettive evoluzioniste, ne costituisce piuttosto un primo stadio ancora imperfetto».
148 Brevi considerazioni su un recente indirizzo della storiografia romanistica (1978), poi in G. PUGLIESE, Scritti giuridici scelti, III. Diritto romano, Camerino 1985, 146; fra i fattori che l’A. indica tra quelli da tenere presenti rientrano le «disposizioni delle XII Tavole e di leggi repubblicane», aggiungendo che «una delle ragioni del largo ricorso alle
opere dei giuristi classici nel periodo postclassico è in effetti da vedere nell’utilità che esse avevano come veicolo di
una parte considerevole del diritto prodotto dalle diverse fonti vigenti nel periodo preclassico e classico» (op. cit.,
149). Il brano riportato in testo è ricordato di recente, ad altri fini, da L. GAROFALO, Diritto romano e scienza del diritto, in L. VACCA (cur.), Diritto romano, tradizione romanistica e formazione del diritto europeo, Padova 2008, 271 ss.,
che colloca questa presa di posizione nell’ambito del pensiero dell’insigne studioso.
Dario Mantovani
767
d ) le informazioni sulle leges publicae di diritto privato sono particolarmente difettose, perché le leggi di questo settore erano scarsamente considerate dagli storici e dagli
altri autori non giuristi (§ 4);
e) il problema più grave è che gli scritti dei giuristi, da cui avremmo potuto ricevere una informazione esauriente, sono stati espressamente depurati della maggior parte
dei riferimenti alle leges da parte dei commissari giustinianei all’atto di accoglierne i
frammenti nel Digesto (§ 5);
f ) la «delegificazione» del Digesto fa apparire – creando un’illusione ottica in cui è
caduto Rotondi e chi lo ha seguito – che le Institutiones di Gaio siano ricche di informazioni sulle leges publicae. Le Institutiones non offrono, dichiaratamente, che un’informazione esemplificativa sulle leges publicae (§ 5);
g ) l’ampia presenza delle leges nelle opere della giurisprudenza romana – oltre che
affiorare nella documentazione pervenuta fuori del Digesto e specialmente nei papiri
– è rimasta impressa nella struttura palingenetica delle opere che seguono l’ordine dei
Digesta¸ la cui seconda parte è dedicata a leges e senatusconsulta (es. Giuliano, libri 5990) (§ 6);
h) l’importanza che avevano assunto le leges publicae nel quadro dell’interpretatio si
manifesta anche nel ricorso ad esse come repertorio argomentativo da parte dei giuristi (§ 6).
Non è compito di questa indagine svolgere le implicazioni di questi accertamenti.
Di sicuro, nell’escludere le leges publicae dai frammenti accolti nel Digesto, i commissari giustinianei hanno celato un profilo importante dell’esperienza romana, così come
ne hanno tenuto a lungo in ombra altri aspetti costitutivi, dal formalismo arcaico al
ruolo centrale del processo. Nel caso delle leges, a rallentare la presa di coscienza ha
contribuito l’ideologia storicistica degli interpreti moderni (§ 7). L’auspicio è che si
possa proseguire a rischiarare questa faccia dell’attività dei prudentes con minore impaccio di ideologie e cliché, misurandosi sul piano delle fonti.