DA ELIO GIOANOLA, Giovanni Pascoli

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DA ELIO GIOANOLA, Giovanni Pascoli
DA ELIO GIOANOLA,
Giovanni Pascoli (in Storia letteraria del Novecento in Italia)
In tale prospettiva, la poesia pascoliana migliore, quella cioè di Myricae (1891,1894) dei Poemetti
(1897), dei Canti di Castelvecchio (1903), di alcuni dei Poemi conviviali (1904), appare dominata, al di là
delle superficiali apparenze del sentimentalismo e del piccolo realismo campestre, da una
sostanziale, per quanto spesso inconsapevole, vocazione simbolistica. Né, a proposito del
simbolismo pascoliano, ci si deve limitare alla considerazione di quel molto vago “senso del
mistero” che viene rintracciato nelle poesie “cosmiche”, e nemmeno all’operazione allegorica
spesso adottata dal poeta per significare attraverso figure particolari (“La piccolezza” per esempio,
o “Il Libro”) alcuni concetti esistenziali o di poetica. Il simbolismo pascoliano che veramente
interessa è quello di tipo onirico a cui si è fatto cenno sopra, che introduce direttamente agli strati
psichici inconsci e permette un discorso apertamente antinaturalistico, malgrado le prime
apparenze di una poesia che, proprio nelle raccolte citate, è gremita di figure direttamente attinte
ad un preciso ambiente campestre e contadino. Occorre anzi aggiungere che la natura del
simbolismo pascoliano è strettamente psicologica, e questo mentre tutte le apparenze farebbero
pensare a un naturalismo appena velato di intonazioni sentimentali. Il fatto è che la poesia
pascoliana rappresenta un caso forse unico di compromesso tra spinte inconsce fortissime ed
ineliminabili ed una censura altrettanto rigorosa, anche se, forse, del tutto inconsapevole, per cui il
risultato è quello di una presenza costante di elementi «innocentemente» realistici ma innescati al
di sotto da cariche molto robuste di significazioni simboliche. Esattamente come avviene nei sogni
di persone dotate di forte autodominio moralistico, o nelle manifestazioni di soggetti nevrotici
dominati da un super-io intransigente, quanto il materiale degli impulsi istintuali inconsci è costretto
a manifestarsi in forme apparentemente innocenti, capaci di sfuggire alla censura. E per il poeta
Pascoli la censura è costituita dal suo abito di letterato all’italiana, dall’ossequio carducciano e
classicista, dal provincialismo acuto di tutta la nostra cultura particolarmente in quel tempo: oltre
che, sul piano dell’esistenza privata, da una chiara situazione nevrotica faticosamente sublimata in
dedizione al nido familiare e al lavoro letterario. A differenza di un Rimbaud, che volutamente si
addentra sul terreno dell’inconscio alla ricerca di terre poeticamente inesplorate, il Pascoli
seppellisce le pulsioni profonde sotto culmini di letterarietà, di idillismo campestre, di
sentimentalità: ma proprio per questo sforzo di rimozione continua il suo simbolismo risulta tanto
più profondo e significativo e le sue figure, oltre le apparenze naturalistiche, si offrono come
sintomi di una condizione psicologica angosciatamente moderna.
Dunque, per il Pascoli, simbolismo in senso stretto, quasi psicanalitico: nella sua poesia ricorre una
simbologia costante, facilmente rintracciabile in alcuni temi continuamente ritornanti e spiegabile,
almeno fino ad un certo punto (non crediamo affatto alla «spiegabilità» della poesia in termini
«scientifici», sociologici o psicologici), col riferimento alle ossessioni, fobie, angosce interiori del
poeta. In tale direzione, la figura simbolica più ricorrente appare quella del «nido», sia nella forma
propria e specifica della dimora degli uccelli, sia in quella trasposta della «casa», del «focolare», della
«culla», dell’«orto», del «muro», della «siepe» e così via.
La poesia pascoliana è piena di nidi e di uccelli, oltre che di erbe piante e fiori, e sappiamo anche
quanto il poeta si facesse scrupolo di risultare un competente conoscitore della fauna e della flora
di cui tanto abbondantemente si serviva: c’è addirittura in lui uno scrupolo positivistico di esatta
informazione e di completezza. Eppure tali figure così vistosamente naturalistiche sono i veicoli
normali di significazioni e allusioni inconsce, a cominciare appunto dalla figura del nido, che appare
al centro di questa costellazione simbolica. Il nido, intanto, è sempre presentato come un luogo di
caldo conforto, di sicurezza, di rifugio, di protezione; magari è «rozzo di fuori, radiche e stecchi»,
ma dentro, pieno com’è di musco e lanugine, è tiepido e sicuro. In quel componimento quasi
programmatico che è il «X Agosto» è offerto un esatto parallelo tra il nido delle rondini e la famiglia
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del poeta, privato quello della madre che portava il cibo, questa del padre. Il nido è proprio il luogo
della famiglia, unita e solidale contro i pericoli esterni, dove il padre adempie il ruolo di colui che
procura il cibo, e la madre quello della custode trepida e vigilante. Nella forma più originaria, il nido
si presenta nell’immagine della culla, in cui si realizza in pienezza il rapporto di assoluto conforto e
protezione madre-figlio, in un limbo di dimenticanza del mondo e dei suoi pericoli e pene, nel
calore di una dipendenza del tutto appagante. Al limite, il nido è il grembo materno, il rapporto per
eccellenza viscerale, ciò che sta prima della vita e prima della morte, in quella condizione limbica
in cui il mondo è completamente abolito e di conseguenza la paura non esiste.
Il nido è insomma figura dell’«incapacità di vivere». Il Pascoli attraverso questa immagine esprime
la sua paura del mondo, della vita e degli uomini: non per nulla quando compare il simbolo del
nido, esso è sempre accompagnato dal motivo contrastante del pericolo (il temporale, «Il lampo»,
«Il tuono», la notte nera, ecc.) in una tipica contrapposizione dentro-fuori, dove da un lato si
accumulano gli elementi del conforto e della protezione, dall’altra quelli della minaccia del terrore
dell’angoscia. Il riferimento psicologico evocato da tale immagine è quello della «regressione
all’infanzia», nel tentativo di recuperare in fantasia uno stato di sicurezza e di felicità. Il nido significa
la sicurezza del cibo (padre) e degli affetti (madre e fratelli), mentre nella vita adulta il cibo bisogna
procurarselo, con tutta la fatica, il rischio, il difficile contatto con gli uomini che la necessità
comporta; e bisogna procurarsi anche l’affetto, attraverso l’amore per una donna e la formazione
di una nuova famiglia, assumendosi la responsabilità di creare un sistema di rapporti non vincolati
dalle affinità viscerali, di sangue, che caratterizzano la famiglia d’origine. Il nido è per eccellenza il
luogo della famiglia originaria, prima di ogni responsabilità personale e di ogni traumatizzante
affrontamento esistenziale; bozzolo aureo della beatissima infanzia ignara di frustrazioni. (Inutile
dire quanto le vicende della vita pascoliana abbiano corroborato tale visione e quanto il poeta, nella
sua condotta, abbia scontato le gravi carenze psicologiche immaginativamente sublimate nella
poesia).
Un altro elemento fondamentale che rientra nella simbologia del nido è quello costituito dalla
presenza dei «morti», i cari morti familiari, madre padre fratelli, che continuamente ritornano a
confortare, ammonire, vigilare, redarguire anche il figlio rimasto a protezione di ciò che avanza del
nido originario. I «morti» pascoliani hanno la fondamentale caratteristica di appartenere a una
specie di limbo in cui sono contemporaneamente presenti le caratteristiche della vita e della morte,
e comunque di possedere, benché in forma imperfetta, la possibilità di continuare a convivere e a
comunicare coi vivi (si pensi a «La voce»). Tra i rimasti e quelli che se ne sono andati il legame
affettivo non si è mai allentato ed i loro rapporti non hanno mai conosciuto interruzioni e
interferenze dall’esterno: anzi i morti sono diventati i garanti in eterno di tale continuità. In questa
prospettiva, anche la frequente immagine del cimitero è una variante del simbolo del nido: cinto
dal muro, dalla siepe, rallegrato dalla presenza degli uccelli e delle erbe fiorite, anche il cimitero
rappresenta un ambito chiuso, protetto, esclusivo, all’interno del quale si mantiene viva quella
circolazione affettiva che dominava nel nido originario: vivi e morti sono ancora visceralmente
uniti, in solidale comunione d’interessi e di affetti.
Anche il simbolo frequentissimo della «siepe» è riconducibile alla matrice fondamentale del nido:
la siepe, irta di spini al di fuori e ricca di fiori all’interno, recinge il podere e assicura l’autonomia,
facendosi garante di un possesso tanto povero quanto sicuro e confortato. Tale simbolo prende
grande rilievo nel passaggio dalle Myricae ai Poemetti, che costituiscono un vero e proprio romanzo
georgico, con personaggi ricorrenti e una diligente ricognizione delle «opere e giorni» della vita
campestre. E si tratta proprio, in un evidente allargamento del «nido» a tutta la realtà della
campagna, del più organico tentativo pascoliano di rimozione del dolore, dell’angoscia e della morte
nel ciclo chiuso e ritornante delle stagioni e della vita rituale dei contadini.
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La siepe è tanto quella reale che delimita la proprietà del contadino, assicurandogli gli indispensabili
alimenti, pane olio e vino, quanto la grande siepe metaforica che isola il mondo della campagna nel
suo complesso da ogni rapporto con l’esterno, facendone una rusticana edizione dell’eden, dove
nulla manca alla sicurezza della vita perché la terra-madre, sempre feconda e fedele nei suoi ricorsi
stagionali senza difetto, provvede a garantire l’indispensabile, assicurando nel contempo semplicità
di costumi, sanità di affetti e custodia contro i traumi dell’affannata vita cittadina. Naturalmente
l’allargamento metaforico della «siepe» comporta la scomparsa di quell’altro termine di confronto,
costituito dalle figure dell’angoscia dei pericolo della morte, che crea la tensione drammatica delle
migliori composizioni pascoliane. La conseguenza diretta è il dilagare dell’idillismo, con
l’assegnazione alla campagna di una funzione esemplare di mondo della vita perfetta, dove tutto si
compie in un ciclo rituale di accadimenti sicuri e tranquillizzanti. L’esorcizzazione massima
dell’angoscia esistenziale finisce per ricreare gli elementi di una falsa e psicologicamente molto
improbabile arcadia.
Ma la simbologia del nido non si esaurisce certo nell’ambito di queste figure: tutto ciò che evoca la
figura del cerchio rientra in tale prospettiva, l’anello come la corolla del fiore, gli occhi come il muro
del giardino, la «nebbia di latte» come le costellazioni del cielo. È facile notare, per esempio, come
la nebbia rappresenti sempre una specie di opaca recinzione attorno all’hic et nunc del poeta, che a
lei chiede un limite non solo spazio-temporale ma addirittura fantastico, in modo da non poter
nemmeno immaginare cosa esiste al di là, o addirittura se il di là esista. E qui può diventare
esemplare il confronto con la stessa figura della nebbia nella poesia di Carducci (magari nel
sintomatico quadretto di «San Martino»): in tale poesia la nebbia è chiaramente un fenomeno
meteorologico con tutte le connotazioni naturalistiche che gli sono proprie, mentre nel Pascoli la
funzione simbolica è dominante e la nebbia obbedisce assai più alle regole imposte da una turbata
psicologia che a quelle regolanti le perturbazioni atmosferiche.
Quanto al cielo e alle stelle, senza entrare nel merito delle questioni relative alla «poesia cosmica»
pascoliana, si può subito indicare il frequente accostamento a cui il poeta sottopone le immagini
che si riferiscono alla dimora degli uomini e quelle di carattere cosmologico («sette case nel tacito
borgo – sette Pleaidi un poco più su»). In questi casi il macrocosmo è la proiezione immaginativa
del microcosmo, un modo per inserire fuori delle dimensioni di spazio e tempo quel luogo per
eccellenza limbico che è il nido, col ricorso a una caratteristica diminutio che fa degli immensi spazi
del cielo un regno favoloso e domestico, praticabile da un’immaginazione di carattere infantile. Ma
anche quando le metafore cosmiche assumono il tono dello spavento di fronte alle immensità
dell’universo, la nota dominante non è mai quella della contemplazione sgomenta della piccolezza
umana di fronte agli spazi, con tutto il corredo delle domande esistenziali di fondo (al di fuori del
Leopardi la poesia italiana non conosce altri poeti veramente «cosmici»), bensì quella di uno
smarrimento e di una perdutezza provenienti dalla fantasia di una caduta senza fine, fuori ormai di
ogni vincolo naturale, in una continuità di sprofondamento che è garanzia di smemoratezza, di
infinità, di mancanza insomma di ogni rottura traumatizzante, prima fra tutte quella della morte.
Siamo di fronte a vere e proprie figurazioni oniriche, quelle create dall’impressione di caduta in
chissà quali abissi, mentre un’esperienza di miracolosa levità accompagna i salti e i rimbalzi in spazi
indeterminati. Anche qui dunque si tratta di «fantasie regressive», nella direzione di una fuga dalle
responsabilità e dalle paure della vita reale, alla ricerca di un luogo fuori dello spazio e di un tempo
fuori del tempo che assicurino le fantastiche consolazioni della beata infanzia.
Ma il simbolismo pascoliano non conosce soltanto queste forme riconducibili ad un principio
generale di regressione: ci sono anche dei simboli diretti del rimosso, che trova indiretta via di
espressione nelle immagine delle «campane», degli «uccelli», dei «fiori».
Il primo di questi simboli è molto sfruttato anche nella direzione regressiva, nell’intento di ottenere
un’atmosfera irreale, di sogno o di fantasia, nella quale immergersi per sprofondare nello
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smemoramento e nell’oblio della realtà. Le campane però possiedono anche connotazioni di
inquietudine e turbamento: mentre da un lato richiamano l’infanzia con le sue dolcezze, spesso
intervengono a turbare la serenità faticosamente ottenuta, provocando sussulti improntati alla
scoperta del dolore e all’intuizione della morte. Il suono grave delle campane, che coglie
all’improvviso soprattutto nei risvegli inquieti dell’alba, provoca un soprassalto del cuore che
coincide esattamente coi soprassalti angosciosi provenienti dalle regioni più profonde della
coscienza, che aprono spiragli fulminei sull’abisso di nulla e di morte, di paura e di istinto che giace
oltre le soglie della normale consapevolezza.
Gli uccelli costituiscono forse la tematica più diffusa della poesia pascoliana e popolano
assiduamente le campagna di Myricae, dei Poemetti, dei Canti di Castelvecchio. La loro presenza però si
afferma nell’assenza accentuata di altre specie animali e nel contempo il catalogo ornitologico non
è molto ampio e privilegia soprattutto le rondini e gli uccelli notturni: cosa davvero singolare se ci
si muovesse in un universo naturalistico, ma in un regime simbolistico il fenomeno è normale, dal
momento che i simboli sono ricorrenti e si fissano a determinate figure particolarmente atte a
veicolare significazioni privilegiate. Anche se può sembrare molto strano, in genere il simbolo degli
uccelli appare staccato da quello del nido. Gli uccelli infatti (se non siano i «farlotti» ancora implumi)
non abitano il nido ma una regione superiore del cielo, dalla quale, spesso invisibili, inviano la loro
voce: ed è una voce spesso di tono quasi oracolare, misteriosa, alludente a un mondo fuori delle
consuete dimensioni di spazio e tempo, comunque «diversa»: tanto che il poeta si studia, a forza di
onomatopee, di imitarla, non certo per esigenze realistiche, bensì in obbedienza ad una specie di
rituale iniziatico che permetta di entrare nelle dimensioni chiuse e riservate di un linguaggio di
misteriosa sapienza.
Ma la connotazione più profonda del simbolo degli uccelli (soprattutto la civetta, il chiù, le rondini
dell’alba, il pipistrello) è costituita da significazioni di morte. Certi notturni, certe livide albe, sono
l’ambiente di elezione di fantasie angosciate, dove il grido degli uccelli segna il punto culminante di
uno spavento tanto profondo quanto immotivato: e questo perché tale grido è la trasposizione di
un urlo interiore, generato dall’improvvisa intuizione dell’ineludibile presenza della morte. E
l’atmosfera è sempre di tipo onirico: le insurrezioni angosciate sono di chiara natura inconscia,
s’impongono al di là di ogni tentativo di esorcizzazione e di riferimento alle normali dimensioni
dell’esistenza, impregnando di sé le figure del mondo fino a far loro smarrire una parte della loro
riconoscibilità realistica. Questi uccelli notturni hanno la consistenza di fantasmi, la loro presenza
è un’«orma», un’«ombra», il loro volo un «soffio molle»: creature dell’immaginato, portano con sé
tutta la labilità realistica delle loro origini ma anche tutta la carica dell’originario sgomento
esistenziale.
E finalmente i fiori, i simboli più diretti delle fondamentali pulsioni istintive. Eros e Thanatos. I
fiori del Pascoli o sono fiori di morte o sono fiori di sesso, con tutte le velature
dell’inconsapevolezza nel secondo caso. Intanto, il collegamento tra i fiori e i morti è quasi fisso:
nel paesaggio pascoliano i fiori non formano mai uno spettacolo di bellezza, di trionfo della natura,
ma si fanno annunciatori di morte, di solitudine e servono soprattutto per adornare le tombe.
Pascoli ama i fiori fuori stagione, che incredibilmente fioriscono nel tempo meno indicato,
testimoniando una fragile apparenza di vita nel deserto della natura morta; così come ama i fiori
che germinano e quasi traggono alimento dalla terra che ricopre i morti, simbolo del rapporto
speculare tra vita e morte.
Ma i fiori diventano anche, nei momenti di più turbata sensibilità, simboli di una sessualità ambigua
e tormentata. La poesia del Pascoli, si sa, non conosce la donna e l’amore e d’altra parte tutta la
simbologia del nido dimostra, in negativo, l’assenza di ogni necessaria apertura d’affetto e di
sensibilità per le persone fuori dello cerchio familiare. In una situazione sentimentale così bloccata
dove tutti gli affetti sono costretti a ripiegarsi su se stessi nell’incondizionata dedizione alla famiglia
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d’origine, le esigenze amorose subiscono una violenta censura, perché rappresentano una specie di
tradimento nei confronti del nido, indirizzate come sono verso l’esterno, verso la donna, l’estranea
che è al di fuori dei vincoli di sangue. L’istinto sessuale, così bloccato, resta a un livello infantile, di
curiosità morbosa e inappagata, di desiderio pieno di rimorsi, di tortuosa immaginazione. L’amore
appare come qualcosa di pauroso, quasi un atto di violenza che sgomenta e affascina nello stesso
tempo («Ella doveva ora vegliar nel letto/sola con lui! Senza sperare aiuto!»). Il simbolo del fiore
veicola appunto tutto questo complesso di istinti e sentimenti: ad un livello altamente
inconsapevole e quindi con tanto maggiore efficacia e potenza. Sempre, all’incontro con evocazioni
più o meno dirette e consapevoli di materia richiamante all’amore (come nell’«epitalamo» famoso
del «Gelsomino notturno»), la metafora del fiore compare a velare e svelare nel contempo, come
ben si addice ai simboli, il turbamento istintuale («E s’aprono i fiori notturni;…Dai calici aperti si
esala/l’odore di fragole rosse…si schiudono i petali un poco gualciti…»).
Ed il fiore del sesso è anche «fior di…? morte:», come esemplarmente appare in quell’altro
capolavoro che è «Digitale purpurea». Le due pulsioni istintuali di fondo tendono figurativamente
a coincidere, secondo un modello che contiene in embrione una delle più ricche e drammatiche
intuizioni dell’arte contemporanea. E forse il senso della morte costituisce il senso finale di tutta
l’esperienza poetica pascoliana, trovando proprio in ciò la garanzia di un’appartenenza sostanziale
alla storia della letteratura novecentesca. Tutta la simbologia presente in questa esperienza poetica
è dominata da un senso della fuga, della regressione, della difesa contro i pericoli della vita e degli
uomini: il nido, gli uccelli, i cieli e le stelle, le campane, i fiori, rappresentano in realtà un tentativo
di fuga più radicale, di rifugio più assoluto perché il vero nemico non sono gli uomini e il male che
possono fare, ma è la morte. La simbologia pascoliana può essere intesa anche come una continua
esorcizzazione della morte, con tutta la carica d’ambivalenza che i simboli contengono perché, nel
momento in cui si configurano come sistemi di difesa contro l’angoscia esistenziale e la paura della
morte, essi rivelano la natura del nemico che combattono, e la morte trapela continuamente come
una presenza vanamente elusa.
Né, evidenziando questo termine della morte, si può dimenticare il valore che il tema assume in
chiave di moderna intuizione psicologica e esistenziale; è chiaro che il tema della morte è forse il
più diffuso nella poesia di tutti i tempi, ma per tutta l’età classica fino all’Ottocento, esso si presenta
in forma d’alternativa rispetto al termine opposto della vita, in una contrapposizione assoluta che
fa dell’uno la negazione dell’altro, per lo più nella coppia metaforica buio/luce che è presente
ancora nel Carducci. Col Pascoli, lungo la strada della scomparsa delle opposizioni razionalistiche
che da un punto di vista gnoseologico abbiamo individuato nell’abolizione di confini tra Io e
Mondo, la morte cessa di essere l’alternativa drammatica della vita, ma penetra nella stessa
compagine vitale costituendo l’angoscioso significato, o non-significato, del vivere umano. Il
Pascoli è già chiaramente, ed è questa la garanzia della sua appartenenza all’area della più viva
sensibilità contemporanea, lungo la strada che sarà approfondita dalla psicologia e dalla filosofia
del Novecento, per la quale la morte non è il termine dell’esistenza ma «un modo d’essere che
l’uomo assume quando c’è» (Heiddeger).
Sul piano dello stile, la poesia pascoliana non presenta una decisa rottura con moduli tradizionali,
mantenendosi, soprattutto a livello metrico, nell’ambito delle misure canoniche. Privo com’era di
un’adeguata poetica, che sostenesse con consapevolezza teorica e con il conforto di concomitanti
esperienze di rinnovamento tecnico, le intuizioni ispirative, il Pascoli fu costretto a inventarsi
un’originalità stilistica all’interno degli strumenti apprestatigli dalla tradizione lirica italiana. Egli non
arriva al verso senza misura fissa, a quel verso libero che segnò, anche polemicamente la svolta
stilistica più appariscente della nuova poesia. Mentre però, da un lato, c’è la conservazione
scrupolosa del metro tradizionale, dall’altra si assiste alla dissoluzione ritmica di tali metri. Pascoli
anzi, con un’ansia di sperimentazione che già di per sé testimonia di un’irrequietezza significativa,
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ripropose l’uso di tutti i metri e le strofe proposte dalla storia della poesia, dal trisillabo
all’endecasillabo, lungo la scala di tutte le misure sillabiche; dal madrigale popolaresco alla coltissima
ode saffica, alla terzina dantesca. Ma all’interno della tradizione i rinnovamenti operati sono
decisivi, tanto da rendere irriconoscibile il metro classico per l’assoluta arbitrarietà delle scansioni
ritmiche, che normalmente non coincidono più con la lunghezza del verso. La caratteristica più
evidente è proprio fornita dalle violente cesure all’interno dei versi, che ne alterano la normale
compattezza accentuativa, creando unità ritmiche brevissime e nettamente scandite. E a ciò
concorre la punteggiatura quasi ossessiva, l’uso dei punti di sospensione, le esclamazioni interposte,
il frequentissimo dialogato.
Le novità più grosse, dense di conseguenze per tutta la poesia del Novecento, sono proprio sul
piano sintattico, com’è naturale trattandosi di una poesia di qualità simbolistica, per la quale il
rapporto analogico viene a sostituire quello logico. La tecnica analogica, la paratassi accentuata, le
intermittenze del significato sono la risposta, sul piano delle strutture sintattiche, al fondamentale
antinaturalismo pascoliano. Con la crisi della costruzione logica, e la conseguente riduzione del
gioco sintattico e grammaticale, in un linguaggio ridotto a frasi brevissime (e quindi con pochi
verbi) e pochissima costruzione, l’elemento su cui è costretto a puntare il poeta è il lessico, cioè
aggettivi e sostantivi. In questi limiti, per ottenere effetti nuovi e inediti, il Pascoli ricorre con
estrema frequenza alla junctura sostantivo-aggettivo, facendole carico di grandissime responsabilità
significative, in un gioco di opposizioni per cui i due termini sono quasi sempre semanticamente
poco affini, se non addirittura contrastanti (per cui si assiste al dominio della metonimia, della
sinestesia, dell’oximoron). Nell’affidamento al lessico di tante responsabilità che la tecnica analogica
crea, si comprende il ricorso al gergo e ai linguaggi tecnici che, anziché testimoniare di una curiosità
realistica che non esiste affatto, adempiono alla funzione di rallentamento semantico con la loro
difficoltà di comprensione, nell’intenzione di costituire un linguaggio chiuso e non comunicativo
(language de la tribu, in evidente rapporto con l’deologia del «nido») e nel contempo di rilevarsi
linguisticamente in una specie di indipendenza contestuale che veicoli la carica allusiva e talvolta
ossessiva.
Col Pascoli insomma siamo sulla strada dell’«oggettivo simbolico»: la rottura sintattica ed il rilievo
dei lessemi isolati ha insegnato alla poesia contemporanea a guardare alla realtà come ad un insieme
discontinuo di oggetti inquietanti. Mentre infatti le «piccole cose» pascoliane possono sembrare
elementi di un microcosmo ben integrato, solidale e confortante (e spesso intenzionalmente lo
sono), in realtà si rivelano oggetti assoluti, che non assumono significato dal contesto in cui sono
inseriti ma dalla carica simbolica che contengono. Pascoli è veramente all’origine di quella poetica
dell’oggetto che, spogliata dei connettivi sentimentalistici e moralistici, troverà sviluppo nei
crepuscolari e culminerà nella spoglia oggettualità montaliana. Pur rimanendo all’interno di un
preciso ambiente di cose riscontrabili nella realtà e adottando i metri della tradizione, Pascoli ha
operato una specie di svuotamento dall’interno di quei contenuti e di quelle forme. Vedendo le
cose o troppo da vicino o troppo da lontano (il microcosmo e il macrocosmo) il poeta ha deformato
il reale secondo le proprie misure psicologiche, intridendo ogni aspetto naturalistico di
significazioni personalissime e spesso inconsce.
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