leggi il primo capitolo del libro
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mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 1 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 2 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 3 Yahoopolis mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 4 Collana diretta da Edoardo Montolli mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 5 Francesco Viviano Alessandra Ziniti I misteri dell’Agenda Rossa Aliberti editore mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 6 © 2010 Aliberti editore Tutti i diritti riservati Sede legale: Piazza del Popolo, 18 00187 Roma Tel. 06 36712863 Sede operativa: Via Meuccio Ruini, 74 42100 Reggio Emilia Tel. 0522 272494 - Fax 0522 272250 - Ufficio Stampa 329 4293200 Aliberti sul web: www.alibertieditore.it www.alibertistudi.it www.myspace.com/editorealiberti www.myspace.com/alibertistudi www.blogaliberti.it [email protected] mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 7 A Giulia a Marta e a nonna Enza mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 8 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 9 Introduzione Le troppe verità ignorate Nel dicembre del 1991 Giovanni Falcone incontrò Gaspare Mutolo nel carcere di Spoleto. Si trattava di un colloquio segreto, mai registrato negli archivi della prigione, ma un colloquio fondamentale. Mutolo era stato l’attendente di Riina, killer infallibile, l’uomo che, tra i primi, si preparava a collaborare con la giustizia raccontando la Cosa nostra dei corleonesi. E soprattutto le loro collusioni con le istituzioni, la politica, la magistratura. Nessuno, o quasi, ne seppe nulla fino a quando, dopo la strage di Capaci, analizzando le agende e i pc del giudice, l’allora commissario di polizia Gioacchino Genchi ne trovò traccia in un appunto digitale. Uno dei pochi appunti rimasti: i file del computer erano infatti stati manomessi dopo il sequestro, così come era stata cancellata una sua agenda elettronica che tanti autorevoli testimoni, prima, avevano giurato si fosse smagnetizzata in aeroporto. Scomparsa per sempre anche la memoria esterna delle agende, di cui rimase soltanto parte dei diari pubblicati nel giugno del ’92 da Liana Milella sul «Sole 24Ore». mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 10 Non si sa come e quando, ma pare che, pur non essendo nessuno, o quasi, a conoscenza dell’incontro segreto tra Falcone e Mutolo, Riina ne fosse venuto a conoscenza. Passarono meno di due mesi. Con la morte del giudice, Mutolo non fece marcia indietro, ma chiese espressamente di parlare solo con Borsellino. Si videro tre volte, fino a due giorni prima della strage di via D’Amelio. Ciò che il pentito raccontò, sulle collusioni istituzionali, non venne verbalizzato. Ci sarebbe voluto diverso tempo. E Borsellino, che non amava particolarmente la tecnologia, segnò ogni dettaglio sopra un’Agenda Rossa. Nessuno, o quasi, seppe cosa appuntò lì dentro. Ma di quest’agenda da cui il magistrato non si separava mai, com’è noto, non si è mai saputo nulla. Nella sua borsa ritrovata integra nonostante l’esplosione, non c’era. Le indagini non hanno portato a nulla. Anzi, secondo i giudici della sesta sezione penale della Cassazione, non è affatto detto che fosse custodita all’interno della sua borsa. Sicché le morti di Falcone e Borsellino si portano dietro due singolari coincidenze: la scomparsa delle loro annotazioni, e l’argomento principale di quelle stesse annotazioni. E cioè le dichiarazioni di Mutolo sulla connivenza tra istituzioni e mafia. Dichiarazioni di cui nessuno, o quasi, doveva sapere nulla. Oggi a Caltanissetta hanno riaperto le indagini sui mandanti occulti delle stragi del ’92. Si ipotizza che Borsellino sia stato ucciso perché si oppo10 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 11 se a una trattativa tra lo Stato e Cosa nostra per far cessare una scia di sangue mai vista prima. E un sacco di gente sembra avere ritrovato la memoria, ricordando episodi e fatti che Mutolo aveva narrato quasi vent’anni fa. Si va alla ricerca di quel “quasi nessuno” che sapeva e che di fatto fece da trait d’union tra la mafia e lo Stato, una talpa o forse un’entità in grado di interagire con entrambi gli apparati. Di lei, della talpa, o di una di esse, ha parlato nell’ultimo anno Massimo Ciancimino, figlio di Don Vito sindaco, chiamandola “signor Franco” (o signor Carlo), un uomo appartenente ai servizi segreti sempre presente accanto a suo padre quanto l’ingegner Lo Verde, noto al resto del mondo come Bernardo Provenzano, l’imprendibile per quarantatré anni che, per contro, era libero di muoversi per la capitale, andando a casa di Ciancimino per discutere i loro affari. Ed è come se tutto ciò costituisse un puzzle, di cui mancano i tasselli fondamentali, in grado di collegare Capaci e via D’Amelio alla trattativa, al Papello, e al tavolo al quale, per tanti, tantissimi anni, sembrano essersi seduti contemporaneamente boss e servizi segreti, deviati non si sa bene a favore di chi. Si sa però ora, ormai quasi con certezza, che i boss non avevano mentito quando non avevano riconosciuto il pentito Vincenzo Scarantino, il cui racconto aveva portato alla ricostruzione dell’attentato e del gruppo di fuoco che costò la vita a Borsellino. La tesi, dopo le dichiarazioni di un vero killer di Cosa nostra, e cioè Gaspare Spatuzza, è che qualcuno 11 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 12 abbia imboccato Scarantino con una falsa verità, sviando così le indagini. Spatuzza era uomo dei Graviano e il suo è un racconto che porta dannatamente lontano, per quanto a nessuno è davvero chiaro perché solo diciotto anni dopo la strage di via D’Amelio abbia deciso di dire che fu lui, e non Scarantino, a rubare la 126 poi imbottita di esplosivo e usata per la strage. E tutto sta diventando febbrile. Diversi poliziotti del gruppo Falcone-Borsellino, che coordinò l’inchiesta su via D’Amelio, sono stati inquisiti. È emerso che forse il capo di quel gruppo, l’ex questore scomparso Arnaldo La Barbera, era legato ai servizi col nome in codice “Catullo”. Ogni dettaglio fa dunque supporre che ci vorrà ancora molto tempo per arrivare, se ci si arriverà, alla verità. E a capire, quantomeno, se la trattativa fu una sola o se ci fu qualcosa di più. Perché intanto altre cose sono successe. Pare che la misteriosa morte dell’agente Nino Agostino, e la scomparsa nel nulla del giovane Emanuele Piazza, siano da ricondurre alla loro presenza per conto dei servizi segreti all’Addaura, quando si consumò il primo attentato fallito ai danni di Falcone. E forse non solo ai suoi danni. Un attentato del 1989 cui seguì un anno più tardi, secondo il racconto del pentito Francesco Di Carlo, un approccio nel carcere inglese in cui era detenuto, di alcuni esponenti dei servizi segreti di diversi Stati: gli avrebbero chiesto un contatto per poter organizzare l’omicidio di Falcone. E lui avrebbe detto loro di rivolgersi ad Antonino Gioè, uno dei capi allora 12 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 13 sconosciuti di Cosa nostra, che fu effettivamente tra gli ideatori dell’attentatuni, così come lo chiamavano in gergo i mafiosi. E che, manco a farlo apposta, morì suicida in carcere, poco dopo il suo arresto. Un suicidio misterioso, con tanto di bigliettino nel quale faceva riferimento a un infiltrato dai servizi, un certo Paolo Bellini, in effetti tramite acclarato di una trattativa tra i carabinieri e Cosa nostra per il recupero di opere arte rubate. C’è dunque un filo rosso che collega sempre, in ogni strage e delitto o suicidio, elementi di Cosa nostra ed elementi dei servizi segreti, ufficiali o ufficiosi. Un filo che si manifesta fin dal 1989 e che fa pensare che tutto sia cominciato molto prima e non certo per iniziativa dei caprai corleonesi. In questo intricato groviglio, Francesco Viviano, da giornalista di razza qual è, ha scavato come un cane da tartufo, scoprendo elementi totalmente destabilizzanti. Dopo anni di silenzio è andato a recuperare Mutolo, diventato pittore come Luciano Liggio, in località segreta, spillandogli il racconto di quegli incontri con Falcone e Borsellino, e di ciò che accadde durante i loro colloqui. Attraverso un lungo dialogo con l’ex pm di Caltanissetta Luca Tescaroli, il primo a credere a un’unica pista che portava dall’Addaura fino a Capaci, ricostruisce la palude in cui si sono consumate via via le collusioni tra istituzioni e Cosa nostra. E infine imbecca il trait d’union, focalizzandosi su due punti cruciali: le lettere autografe di Vito 13 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 14 Ciancimino in cui l’ex sindaco chiedeva insistentemente di essere sentito in Parlamento a proposito di ciò che era accaduto in quel periodo. E, scelto come depositario del testamento di Massimo Ciancimino, Viviano rivela qui per la prima volta l’identità del signor Franco, alias Keller Gross, un tizio forse appartenente ai servizi segreti, ma che comunque sia appare in una lista insieme a personaggi dell’ex Alto Commissariato dell’epoca in un documento di Don Vito. Un rompicapo cui insieme a Viviano si intrufola e scoperchia un vaso di Pandora Alessandra Ziniti, tra i giornalisti che più conoscono la realtà della Palermo grigia fin dalla metà degli anni Ottanta, autrice di miriadi di scoop sui veleni al Palazzo di giustizia di Palermo dai tempi in cui il Corvo seminava zizzania attaccando Falcone e De Gennaro. Ma è un rompicapo a cui non sta a noi dare risposta. E infatti Viviano e la Ziniti fanno domande. Una se la pongono a proposito di Riina che dice che Borsellino «l’hanno ammazzato loro», e cioè lo Stato. L’altra la fanno suscitare da un documento straordinario sino a oggi ignorato: un appunto scritto a mano allegato agli atti sulle stragi in cui qualcuno segnava i punti da dettare a Scarantino per la verità che il “falso” pentito doveva raccontare su via D’Amelio. Non si sa chi fosse quel qualcuno, né per conto di chi agisse. Probabilmente fa parte di quel “quasi nessuno” che sapeva e faceva da filtro, o da talpa, chiamatelo come vi pare. 14 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 15 L’unica cosa certa è che, dopo la pubblicazione di questi documenti, non si potrà più far finta di nulla. E qualcuno si dovrà decidere a riscrivere la storia. Edoardo Montolli 15 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 16 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 17 Le rivelazioni di Riina: «Borsellino? L’ammazzarono loro…» In diciassette anni non ha mai detto una parola se non, all’inizio, quando cercava di farsi passare per un campagnolo che nulla sapeva se non di pecore e formaggi, costretto a nascondersi per una vita solo perché inseguito dalle menzogne degli infami. Poi, un giorno di marzo di sette anni fa, quando il suo compaesano Vito Ciancimino è morto da pochi mesi e il suo erede prediletto non è ancora assurto all’onore delle cronache, dalla sua gabbia del processo per il fallito attentato dello Stadio Olimpico, il “capo dei capi” butta sul tappeto quella che, molti anni dopo, sarebbe diventata una delle carte giocate dalle Procure di mezza Italia per cercare di capire sul serio chi fu il puparo della stagione delle stragi. Non solo quelle del ’92, Capaci e via D’Amelio, non solo quelle del ’93, via dei Georgofili, via Fauro, il Velabro, ma un unico filo rosso, dal tritolo mai saltato in aria sulla scogliera dell’Addaura della villa di Giovanni Falcone nel giugno dell’89, fino al fallito attentato dell’Olimpico mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 18 nel quale a saltare in aria avrebbero dovuto essere decine di carabinieri. È lui, Totò Riina, il 25 marzo del 2003, a fare, inascoltato, per primo, il nome di Massimo Ciancimino. «Perché – chiede ai giudici – il figlio di Ciancimino non è stato mai sentito? E perché non sentite mai l’onorevole Mancino?» Di cosa parla, Totò Riina se non di quella “trattativa” che, cominciata a cavallo delle stragi del ’92, sarebbe andata avanti a colpi di bombe fino a quando, ai primi del ’94, Cosa nostra non avrebbe finalmente stretto il patto con i suoi nuovi referenti? E tutto tra silenzi, bugie, depistaggi e complicità di pezzi della politica e delle istituzioni tanto da far ipotizzare, oggi, quasi vent’anni dopo, che quelle furono vere e proprie stragi di Stato. Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza, nuovi testimoni e nuovi pentiti che abbozzano una nuova verità e passano un colpo di spugna su quelle “mezze” verità già consacrate da decine di ergastoli passati in giudicato. Processi da rifare, sentenze da rivedere, anche qualche innocente in carcere, e diversi responsabili fuori, tra mandanti ed esecutori e depistatori di Stato. Dalla sua Procura di frontiera dove lavora giorno e notte insieme a un manipolo di magistrati che non si fermano mai e a un piccolo gruppo di investigatori sommersi da carte che non si trovano più e fascicoli da rifare, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari è lapidario: «La nostra ipotesi non è che Cosa nostra sia stata eterodiretta da entità altre ma che, accanto a Cosa nostra, seduti allo 18 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 19 stesso tavolo con i mafiosi ci siano stati soggetti deviati dell’apparato istituzionale, che hanno tradito lo Stato con lo scopo di destabilizzare il Paese con compiti operativi mettendo a disposizione un know-how strategico e militare». Solo poche settimane prima, nel parlatorio del carcere, ormai prossimo agli ottant’anni, Riina aveva affidato al suo avvocato Luca Cianferoni poche parole da veicolare all’esterno. Per la prima volta, il vecchio corleonese, l’uomo condannato per tutte le stragi di mafia, aveva deciso di parlare proprio di quelle stragi, lanciando un messaggio che oggi appare sempre meno sibillino. «Paolo Borsellino? L’ammazzarono loro… Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro anche voi». Loro chi? Voi chi? L’allusione a quei pezzi dello Stato che – rispondendo a qualcuno, ai vertici delle istituzioni – negli ultimi vent’anni avrebbero camminato fianco a fianco con i mafiosi seminando sangue, terrore e destabilizzazione, è fin troppo chiara. Ma perché Riina decide di parlare ora? E cosa vuole dire veramente? Sono parole, messaggi indirizzati a chi sa, a chi deve intendere ma anche a chi indaga, tutti da rileggere. A cominciare da quel suo intervento in aula, il 25 marzo 2003, passato assolutamente inosservato, al processo per il fallito attentato dello Stadio Olimpico. … Signor Presidente, la verità, è che io, forse allo Stato servo per parafulmine, perché tutto quello 19 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 20 che succede in Italia e che è successo in Italia, all’ultimo si imputa a Riina, Riina è il parafulmine e Riina sta bene per tutte le “pietanze”, per tutte le “processe” che si vengono fatte a Riina o ai compagni di Riina. Quindi che cosa succede? Parlo di questa situazione qua di Firenze, ma se io sono lì (isolato in carcere, ndr) che non ho contatti con nessuno, a chi lo mandai a dire, come lo mandai a dire, come sono ideatore, come lo ideai? Allora si cerca di… quello di Mazara, il pentito che dice… vabbè ma Riina abitava a Mazara, ma questo Sinacori che dice che Riina abitava a Mazara dice delle bugiarderie, dice delle cose che non sono vere, perché a Mazara, Signor Presidente, signori della Corte, c’è un mio fratello che si è fatto fidanzato nel ’72, si è sposato nel ’74, ha abitato sempre a Mazara, si è fatto la famiglia a Mazara, mio fratello è mazarese perché abita lì. Io da latitante come stavo a Mazara o facevo il mazarese? Quindi sono anche cose inventate di questo signor Sinacori e cose… Si arrampica sugli specchi per cercare di confutare le dichiarazioni di uno fra le decine di pentiti che lo accusano, il mazarese Vincenzo Sinacori, ma il messaggio che per la prima volta Totò Riina prova a far passare a marzo di sette anni fa, è che ci sono da ricercare responsabilità “altre” che vanno oltre il “parafulmine” Riina se si vuole far luce su tutto quello che è successo da un capo all’altro dell’Italia in quegli anni. Ed è lui stesso a indicare la linea su cui corre il filo rosso delle stragi, una linea su cui in più punti si allungano le inquietanti ombre dei servizi segreti: il volo privato con il quale Falcone 20 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 21 tornò a Palermo quel 23 maggio del ’92, le misteriose presenze di uffici dei servizi al Castello Utveggio con un occhio su quel che accadeva in via D’Amelio... Nel suo italiano approssimativo, Riina pone all’attenzione dei giudici questi elementi: Nel processo Falcone c’è un aereo nel cielo nel mentre che scoppia la bomba. Quest’aereo non si può trovare di chi è, allora quindi si condanna Riina perché certamente Riina è stato a compierlo. E nel processo di Borsellino, lì sul monte Pellegrino c’è l’hotel e nell’hotel ci sono i servizi segreti e quando succede che scoppia la bomba i servizi segreti scompaiono però non vengono mai citati perché si condanna a Riina, perché l’Italia così è combinata. Cioè quando Scalfaro dice «io non ci sto», io devo dire, Signor Presidente, «io non ci sto!» a queste condanne così. Queste sono condanne di Stato, fatte a tavolino. Non sono condanne perché si cerca la verità, perché io ho commesso questo delitto o ho fatto commettere questo delitto. È attento Riina al dibattito politico e a quel che avviene in Italia. Capisce o sa che forse qualcosa è cambiato, che si è aperta una breccia che può far oltrepassare un muro fino a oggi invalicabile. Ricorda le vicissitudini giudiziarie di un vecchio uomo d’onore, poi diventato collaboratore di giustizia, Francesco Di Carlo, ritenuto sempre molto attendibile fino a quando… Di Carlo viene creduto quando accusa a me o accusa ad altri, ma quando il Di Carlo dice che sono 21 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 22 andati a trovarlo nel carcere dell’Inghilterra i servizi segreti americani e quelli israeliani e quelli dell’Inghilterra perché volevano aiuto per uccidere a Falcone, lui c’ha nominato a suo cugino, quello che si venne a trovare poi impiccato al carcere di Roma, quindi che cosa succede? Che il cugino, poverino, si è messo a disposizione però poi c’ha lasciato le penne. Chiediamo a chi sa, riavvolgiamo il nastro indietro fino alla vigilia della mia cattura, propone il vecchio boss corleonese, convinto com’è di essere stato tradito da più d’uno. L’appello, rivolto quel giorno di marzo 2003 al presidente di quella corte, sarebbe caduto nel vuoto per molti anni ancora: Signor Presidente, il figlio di Ciancimino non è stato mai citato, non è stato mai sentito, perché non si deve sentire il figlio di Ciancimino che era in contatto con il colonnello dei carabinieri e l’allievo di quelli che mi hanno arrestato? Perché questo Ciancimino che collaborava con ’sto colonnello non ci viene a dire il perché cinque, sei giorni prima, l’onorevole Mancino ci dice «Riina in questi giorni viene arrestato», ma a Mancino chi ce lo disse cinque giorni prima che io venissi arrestato? E allora ci sono dei signori che mi han venduto? Allora cercare la verità non è che significa commettere delitti, la verità sta bene a tutti, Signor Presidente, può stare pure bene a me, ma perché mi si deve condannare per le cose che io non so, che io non ho commesso e che io non ho fatto? Io, Signor Presidente, ringrazio a lei e alla Corte per avermi sentito, però mi sento la persona additata 22 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 23 per dire: “Tu sei il parafulmine dell’Italia! Tu devi pagare il conto di tutti!” E io sono qua, malato… malandato eh, ci affidiamo alla volontà di Dio… Che Dio può pensare anche per tutti. Nel ruolo di vittima innocente messa in mezzo per proteggere chissà chi, Riina di certo non convince nessuno. Ma alcune delle domande da lui poste sette anni fa sono quelle che frullano oggi nelle teste di tutti grazie anche alla “memoria” improvvisamente ritrovata da tanti che, nell’immediato, avrebbero potuto essere preziosi testimoni: da Luciano Violante, ex presidente della Commissione antimafia, a Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia, a Nicola Mancino, allora ministro dell’Interno e protagonista di quel misterioso incontro (da lui ancora negato) dal quale Paolo Borsellino, a Roma per interrogare il pentito Gaspare Mutolo che aveva chiesto espressamente di parlare con lui, uscì stravolto. Tre giorni prima di saltare in aria in via D’Amelio. Già, Paolo Borsellino. «L’ammazzarono loro...» dice Riina incaricando il suo avvocato Luca Cianferoni di portare all’esterno, per la sua prima volta, il suo pensiero sulla strage di via D’Amelio. Estate 2009, parlatorio del carcere di Opera. Il legale che difende il capomafia da dodici anni, la racconta così: Sono andato a trovarlo al carcere di Opera e l’ho trovato che stava leggendo alcuni giornali. Neanche ho fatto in tempo a salutarlo e lui, alludendo al caso Borsellino, mi ha detto quelle paro23 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 24 le… «L’ammazzarono loro…» Mi ha dato incarico di far sapere fuori, senza messaggi e senza segnali da decifrare, cosa pensa. Lui è stato molto chiaro. Mi ha detto: «Avvocato, dico questo senza chiedere niente, non rivendico niente, non voglio trovare mediazioni con nessuno, non voglio che si pensi ad altro». Insomma, il mio cliente sa che starà in carcere e non vuole niente. Mi ha ripetuto più volte: «Avvocato parlo sapendo bene che la mia situazione processuale nell’inchiesta Borsellino non cambierà, fra l’altro adesso c’è anche Gaspare Spatuzza che sta collaborando con i magistrati quindi…» Legge e rilegge le carte processuali, Totò Riina, nella sua cella al 41 bis regime speciale illuminata ventiquattr’ore su ventiquattro. Racconta ancora l’avvocato: Non ha mai capito ad esempio perché, dopo l’esplosione dell’autobomba che ha ucciso il procuratore Borsellino, sia sparito tutto il traffico telefonico in entrata e in uscita da Castel Utveggio. Per carità. Pensa che la sua posizione rimarrà quella che è e che è sempre stata, non si sposterà di un millimetro. Ma ora vuole dire anche il resto. E cioè: non guardate solo me, guardatevi dentro anche voi. 24 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 25 La sentenza di morte contro Falcone «Sono convinto che Giovanni cominciò a morire il 18 gennaio ’88, quando il Csm gli preferì Meli alla guida dell’ufficio istruzione di Palermo. E non si può negare che c’è stata una campagna, cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato». Ventiquattro giorni prima di essere dilaniato insieme alla sua scorta dall’autobomba piazzata sotto casa della madre in via D’Amelio, Paolo Borsellino aveva pronunciato quelle parole, la “sentenza di morte” che era stata già emessa nel gennaio del 1988 contro il suo amico e collega, Giovanni Falcone, nell’atrio della biblioteca comunale di Palermo il 25 giugno del 1992. Era un dibattito organizzato da «Micromega» dal significativo titolo È solo mafia? Borsellino parlava come se fosse già morto anche lui. Ricordava il suo amico Giovanni Falcone e accusava il Consiglio superiore della magistratura («che continua a ucciderlo» disse), alcuni suoi colleghi “Giuda” che lo tradirono. E confermava che la “fuga” di Falcone da Palermo 25 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 26 avvenne perché in Procura «non poteva più lavorare». Borsellino parlò per venti minuti tra applausi e lacrime di rabbia. E dopo le accuse la conferma: i «cosiddetti diari» pubblicati dal «Sole24Ore», sono autentici. Scritti da Falcone e letti da Borsellino mentre il magistrato era ancora in vita: «Sono proprio gli appunti di Giovanni». Con Borsellino quella sera c’erano anche Leoluca Orlando e Nando Dalla Chiesa. Orlando rivelò fatti inediti. Il 3 agosto 1988, mentre era sindaco di Palermo, convocò un’improvvisa e drammatica conferenza stampa: «Quella mattina Falcone mi aveva chiamato dicendomi che temeva di essere ucciso. Ai giornalisti dissi che la mafia aveva il volto delle istituzioni ed evitai un funerale di Stato». Poi Orlando aggiunse che qualche mese dopo il fallito attentato dell’Addaura incontrò Giovanni Falcone e quando gli disse che probabilmente non era stata solo la mafia a organizzarlo, il giudice rispose: «Ma che dici? Che dici? È stato Madonia». «Ma – commentò Orlando – non aveva per nulla l’aria di crederci». La parola passa a Borsellino. Parlò di “Giovanni” sottolineando di non volersi imbarcare «in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per stabilire chi era più suo amico». Ma il magistrato non disse tutto quello che sapeva. Prima volle parlare con i magistrati che indagavano sulla strage, «gli unici in grado di valutare quanto queste cose che io so possano essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone». Poi parlò della lunga “agonia” di Giovanni Falcone. 26 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 27 Borsellino diede ragione a Caponnetto: Falcone «cominciò a morire nel 1988» anche se – aveva precisato – con ciò non intendo dire che la strage sia stata il naturale epilogo di questo processo di morte». Disse: Oggi tutti ci rendiamo conto di quale sia stata la statura di Falcone e ci accorgiamo come il Paese, lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di chiunque altro, cominciarono a farlo morire proprio nel gennaio ’88, se non addirittura l’anno prima, quando Leonardo Sciascia sul «Corriere della Sera» bollò me come un professionista dell’antimafia e l’amico Leoluca Orlando professionista dell’antimafia nella politica. L’inizio di questo “processo di morte” fu lo scontro tra Falcone e Meli per la carica di consigliere istruttore. «E quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua candidatura alla successione di Antonino Caponnetto, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro. E poi il giorno del mio compleanno – aggiunge Borsellino – il Csm, con motivazioni risibili, il Csm gli preferì Antonino Meli». Ma nonostante «lo schiaffo» del Csm «Giovanni che aveva un altissimo senso delle istituzioni continuò con impegno nel suo lavoro». Borsellino intuì che «nel giro di pochi mesi Falcone sarebbe stato distrutto, e ciò che più mi addolorava è il fatto che sarebbe morto professionalmente senza che nessuno se ne accorgesse». Quella sera Paolo Borsellino parlava a fatica. Quella sera eravamo presenti anche noi alla biblioteca comunale e le 27 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 28 sue parole facevano accapponare la pelle. Quell’intervento era un vero e proprio testamento. Ecco perché ve lo riproponiamo. Perché rappresenta un documento unico, da non dimenticare mai. Il testamento di Paolo Borsellino Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli 28 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 29 all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita. Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul «Sole24Ore» dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi. Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che que29 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 30 sto, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il primo gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul «Corriere della Sera» che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando a Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistra30 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 31 tura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli. Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve 31 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 32 morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio. L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla Procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare a operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al Ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente per32 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 33 ché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del Ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò a illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa. Certo, anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al Ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, 33 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 34 ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato e attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia. Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura; si 34 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 35 può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale, lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura. 35 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 36 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 37 Antonino Caponnetto, il “padre spirituale” di Falcone E quando nel pomeriggio del 23 maggio 1992 le agenzie e i telegiornali diffusero la notizia che il giudice Giovanni Falcone era stato ucciso nell’attentato di Capaci insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli uomini della sua scorta, il “padre spirituale” del magistrato, Antonino Caponnetto che era andato via da Palermo dopo anni di duro lavoro insieme a Falcone, Borsellino, Leonardo Guarnotta… si trovava nella sua casa di Firenze. Disperatamente tentava di avere notizie, di sapere se davvero Giovanni era morto. E in un’intervista dal titolo Scelsero Meli e Giovanni cominciò a morire, rilasciata a Franca Selvatici di «Repubblica», il magistrato ricordò quel drammatico giorno: «La notizia l’ho avuta dal telegiornale. L’attentato, i morti, Giovanni e la moglie feriti. Ho fatto il numero del cellulare di Paolo Borsellino. Alla fine mi ha risposto. “Come sta Giovanni?” gli ho chiesto con il cuore in gola. Silenzio. “Come sta Giovanni?” Silenzio. Non capivo, insistevo. Poi Paolo è esploso in un singhiozzo e mi ha detto: “È morto due minuti fa tra le mie braccia”». mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 38 Non fa freddo nel piccolo salotto della casa fiorentina di Antonino Caponnetto. Ma lui, l’ex consigliere istruttore di Palermo, rabbrividisce. Sul pianoforte, la foto di Rocco Chinnici, il giudice trucidato dalla mafia. Caponnetto andò a sostituirlo a Palermo alla fine del 1983. Fu allora che conobbe Giovanni Falcone. FRANCA SELVATICI: Quando lo ha sentito l’ultima volta? ANTONINO CAPONNETTO: Mi chiamò lui alla fine di aprile. Aveva saputo in ritardo di una mia intervista alla «Sicilia» di Catania. Il direttore, Zambro, mi aveva chiesto un parere sulla superprocura antimafia e se condividevo le critiche di una parte dei magistrati contro Falcone per la sua vicinanza con il potere politico. Sulla superprocura avevo confermato le mie perplessità. Su Falcone avevo reagito duramente. Era stupido pensare che fosse condizionato dal potere o aggiogato a un carro politico. Giovanni, con voce commossa, mi espresse la sua gratitudine. Era amareggiato dai continui attacchi di chi lo considerava un traditore, venduto al palazzo. Lei milita nella Rete, e Leoluca Orlando ha attaccato duramente Falcone. A Genova Alberto La Volpe mi ha accusato con toni bruschi di non aver parlato degli attacchi mossi a Falcone da Orlando. Eravamo lì per commemorare Giovanni, non per fare polemiche per38 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 39 sonali. Ho taciuto. Ma ora mi corre l’obbligo di precisare. Le critiche di Orlando sui processi tenuti nei cassetti non sono mai state dettate da malanimo contro Falcone, ma solo da ansia di giustizia: e c’è una bella differenza. Anche di recente Orlando ha ripetuto che Giovanni aveva lottato sempre e fino in fondo contro la mafia. E questo dovrebbe chiarire i termini di una polemica fin troppo insistita. Anche se in dissenso, erano tutti e due sullo stesso fronte. Sì. E poi è bene ricordare che le lagnanze di Orlando per il ritardo sui processi Mattarella, Reina, La Torre non sono del tutto infondate. Ci sono voluti dieci anni per arrivare a una requisitoria che Pino Arlacchi ha giudicato «brutta, insufficiente, dove si tirano in ballo i soliti quattro boss senza approfondire le responsabilità della classe politica dominante». Io stesso chiamai Giovanni per chiedergli perché l’avesse firmata. Mi rispose testualmente: «Nino, ho dovuto firmarla, non mi far dire di più». Questo ci porta al periodo difficile vissuto da Falcone alla Procura di Palermo. Giovanni si muoveva in mezzo a molte incomprensioni, rivalità e contrasti nella Procura della Repubblica di Palermo. Ho sempre avuto ritegno a parlarne per non alimentare polemiche inutili. Ma ora che vedo l’argomento 39 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 40 trattato da diversi giornali ritengo inutile ogni mio ulteriore riserbo. C’erano contrasti fra lui e il procuratore Pietro Giammanco? Si sentiva come un leone in gabbia. Gli mancava la libertà di movimento di cui aveva goduto nell’Ufficio istruzione, gli mancava l’affiatamento con i colleghi. E questo spiega il suo trasferimento a Roma. Ma quel trasferimento al Ministero disorientò molti anche fra i suoi amici più cari. Anch’io gli espressi i miei dubbi e le mie riserve. Mi rispose che il suo proposito era quello di proseguire da Roma la lotta contro la mafia. Non si può dimenticare che arrivò a Roma dopo una serie di cocenti sconfitte. Sono convinto che Giovanni cominciò a morire il 18 gennaio ’88, quando il Csm gli preferì Meli alla guida dell’Ufficio istruzione di Palermo. E non si può negare che c’è stata una campagna, cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. È vero, dunque, che Falcone era sempre più solo? Sì, e non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato. Perciò non posso fare a meno di collegare gli omicidi Dalla Chiesa e Falcone: perché in 40 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 41 tutti e due i casi sono stati colpiti due uomini nel momento del loro massimo isolamento, e per lo straziante particolare della presenza delle mogli. Due delitti molti simili avvenuti a dieci anni di distanza: dieci anni durante i quali la mafia si è rafforzata, e non già – come qualcuno ha detto – «è stata messa con le spalle al muro». Ed è molto grave che ancora oggi continui a imperversare la giurisprudenza di Carnevale. Dottor Caponnetto, Falcone credeva nello Stato, ma era anche l’uomo che forse più di tutti conosceva il livello di inquinamento mafioso dello Stato. Era con lei quando Tommaso Buscetta si rifiutò di fare i nomi dei politici, non è vero? Eravamo insieme. Chiesi a Buscetta di fare i nomi dei politici con cui aveva avuto contatti. S’irrigidì. Disse: «Non ho fiducia in questo Stato che sento nemico. Temo che non sia in grado di sopportare le reazioni che le mie rivelazioni scatenerebbero». Gli dissi: «In fondo lei in America è sicuro, è protetto». Rispose: «Giudice, se io parlassi non sarei sicuro neanche in America». Quella frase mi agghiacciò. Che cosa significava secondo lei? Evidentemente la presenza in certi settori delle istituzioni di elementi inquinati, come dimostrato dall’esperienza acquisita sulle deviazioni dei servizi segreti. Ed esiste certamente una massa di voti – due o tre milioni nel 41 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 42 Sud Italia – che la mafia vende in cambio di favori. Ma quella frase significa molto di più. Può darsi. Solo che noi ci siamo fermati dove Buscetta ci ha fatto fermare. Il monito di Buscetta E soltanto dopo la strage di Capaci Tommaso Buscetta, che a Giovanni Falcone aveva detto: «Dottore se io faccio i nomi dei politici, io sarò preso per pazzo e lei sarà ucciso», decise di parlare dei politici, fece il nome dell’ex presidente del Consiglio e senatore a vita Giulio Andreotti, parlò dei legami tra mafia e politica, delle sentenze aggiustate. Andreotti fu processato e assolto ma ritenuto responsabile di avere avuto rapporti con Cosa nostra fino alla primavera del 1980, reato gravissimo che però era già prescritto (escludendo il successivo incontro con il boss Andrea Manciaracina, uomo di fiducia di Riina, risalente al 19 agosto 1985). E dopo la morte di Falcone, Paolo Borsellino, che era poi stato nominato procuratore aggiunto di Palermo, fece quella clamorosa denuncia alla Biblioteca comunale di Palermo. Borsellino sapeva e registrava sull’Agenda Rossa Ma nessuno ascoltò Paolo Borsellino. La Procura di Caltanissetta diretta allora dal procuratore 42 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 43 Gianni Tinebra, non lo interrogò, nonostante le pubbliche dichiarazioni di Borsellino che, come aveva anticipato nell’intervento alla biblioteca comunale di Palermo, cose da dire ne aveva tante e non le poteva dire in pubblico perché era anche un magistrato e, soprattutto, come lui stesso disse, «un testimone». Un «testimone» particolare, che conosceva i segreti di Giovanni Falcone, che era pronto a riferirli alla Procura di Caltanissetta che indagava sulla strage di Capaci. Eppure, per oltre due mesi, Borsellino non fu mai convocato. Perché? Non c’è una risposta convincente. Si disse che non ce ne fu il tempo perché Paolo Borsellino fu ucciso prima ancora di essere sentito come testimone. Forse non doveva essere sentito? Forse le sue rivelazioni avrebbero potuto aprire uno squarcio sulla partecipazione di entità esterne a Cosa nostra nella strage Falcone? Forse avrebbe rivelato quel che aveva annotato nella sua Agenda Rossa che portava sempre con sé e che scomparve misteriosamente il 19 luglio del 1992, alcuni minuti dopo che il giudice era stato dilaniato insieme agli uomini della sua scorta. Morirono tutti alle 16.58 del 19 luglio 1992 in via Mariano D’Amelio. In quel preciso istante, mentre Borsellino era appena uscito dall’auto blindata avvicinandosi al portone di casa della madre, qualcuno azionò a distanza un telecomando che innescò la miscela esplosiva, una carica di circa cento chilogrammi di tritolo con presenza di T4 e pentrite che era stato collocato all’interno di una Fiat 126 posteggiata la sera prima davanti il por43 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 44 tone d’ingresso di via D’Amelio, dove abitava la madre del giudice Borsellino. Quel giorno gli autori di questo libro si trovano in automobile, stanno rientrando dal mare. Un collega che si occupa di sport, Massimo Norrito, ci telefona dicendoci di avere sentito una forte esplosione vicino casa sua. Casa sua si trovava, in linea d’aria, a circa cinque chilometri di distanza. Cominciamo a telefonare. A bordo dell’automobile, mentre facciamo ritorno a Palermo a velocità pazzesca, c’è anche un giovane magistrato che faceva il pm a Sciacca, Morena Plazzi. Le prime notizie che riusciamo ad apprendere sono quelle di un attentato al giudice Giuseppe Ayala che abitava in residence a duecento metri da via D’Amelio. Poi la notizia “giusta” arriva a Morena Plazzi da un collega che le dice: «Hanno ammazzato Paolo, Paolo Borsellino e con lui sono morti anche gli agenti della sua scorta». Morena scoppia in lacrime, a fatica ci rivela quella “notizia”. Chiamiamo il giornale, raccontiamo che c’era stata una strage e che in quella strage erano morti Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, Claudio Traina, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli ed Eddie Walter Cosina. Quando arriviamo in via D’Amelio il fumo dell’esplosione è ancora intenso, i vigili del fuoco tentano di spegnere gli incendi, soprattutto quello sulla Fiat 126 utilizzata come autobomba. Una scena apocalittica. Quella strada è invasa da centinaia di uomini, poliziotti, carabinieri, vigili urbani, fotografi, giornalisti. Poi alziamo lo 44 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 45 sguardo e sulla facciata del palazzo dove abitava la madre di Paolo Borsellino, brandelli di carne. Carne umana, quelli di Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta. L’Agenda Rossa scompare Ed è in quel preciso momento che un giovane capitano dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, viene fotografato mentre tiene in mano la borsa di pelle del giudice Paolo Borsellino che era stata appena estratta dalla blindata del magistrato. Dentro di solito c’era l’Agenda Rossa. E quell’agenda non è stata mai più ritrovata. Quel fotogramma che immortala il capitano dei carabinieri con la ventiquattrore di Borsellino sotto braccio viene riesumato soltanto alcuni anni dopo la strage. Un anonimo avverte gli investigatori che c’è una testimonianza fotografica che registra quel momento. Il fotografo è Franco Lannino, la Dia trova quel fotogramma, si avvia un’indagine, Arcangioli viene indagato ma l’inchiesta è archiviata, sparisce anche lei. Così commentò quell’archiviazione Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. Già quando il primo aprile 2008 il gup Paolo Scotto di Luzio aveva prosciolto il colonnello dei carabinieri dei Ros Giovanni Arcangioli dall’accusa del furto dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino avevo manifestato il mio sconcerto per il fatto che il processo si fosse chiuso in fase di udienza preliminare impedendo così a un procedimento di tale importanza di arrivare alla fase dibattimentale nel corso 45 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 46 della quale, con un’analisi approfondita delle prove (addirittura fotografiche) e delle testimonianze (incerte e contraddittorie) avrebbe potuto essere accertata l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato. Avevo poi sperato, grazie al motivato e circostanziato ricorso presentato dalla Procura di Caltanissetta contro questa sentenza di proscioglimento che la Corte di cassazione l’annullasse affermando che «il procedimento in oggetto è un classico caso in cui è necessario un vaglio dibattimentale» per «colmare i vuoti» e le contraddittorie testimonianze attraverso un «approfondimento dibattimentale». Era poi arrivato il 17 febbraio 2009 il macigno della dichiarazione di inammissibilità del ricorso da parte della Corte di Cassazione, evento con il quale, come dichiarai all’epoca, era stata posta una pietra tombale sulla ricerca della verità in questa vicenda, la sparizione dell’Agenda Rossa del Giudice che è a mio avviso uno dei motivi fondamentali dell’assassino del Giudice e delle modalità con cui è stata effettuata la strage: uccidere Paolo senza fare sparire anche la sua Agenda non sarebbe servito a nulla perché in quell’Agenda sono sicuramente contenute le prove di crimini e di complicità che possono inchiodare alle loro terribili responsabilità un’intera classe politica. Le motivazioni della sentenza emessa dalla tristemente nota sesta sezione penale della Corte di cassazione, oggi riprese da Apcom, vanno addirittura al di là di questo già di per sé osceno quadro di evidenze negate, di verità nascoste e di crimini occultati. Si arriva addirittura a negare che la borsa del Giudice contenesse l’Agenda Rossa asserendo che «gli unici accertamenti compiuti in epoca prossima 46 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 47 ai fatti portavano addirittura a escludere che la borsa presa in consegna dal capitano Giovanni Arcangioli contenesse un’agenda». Si prendono cioè per buone le dichiarazioni contraddittorie date in tempi diversi dall’imputato chiamando in causa testimoni che lo hanno smentito, come l’ex magistrato (al momento del fatto) Giuseppe Ayala o addirittura non presenti sul luogo della strage, come Vittorio Teresi, e non si dà alcun valore alla testimonianza della moglie del Giudice, Agnese Borsellino, che vide Paolo riporre l’Agenda nella borsa, dopo averla consultata nel pomeriggio di quel 19 luglio, prima di andare all’appuntamento con la sua morte annunciata. A questo punto non resta che trarre le inevitabili conseguenze da questa sentenza della Corte di cassazione, incriminare la moglie del Giudice per falsa testimonianza e processare tutti i familiari del Giudice, figli, moglie, fratelli e sorelle per la sottrazione e l’occultamento dell’Agenda. Dato che Paolo non se ne separava mai, solo i suoi familiari possono averla sottratta e occultata. Contro la madre del Giudice non si potrà procedere per sopravvenuta morte dell’imputato. E tutti i misteri sull’Agenda Rossa di Borsellino e il depistaggio dell’inchiesta scoperto soltanto nel 2010, quando il pentito Gaspare Spatuzza svela che fu lui, e non Scarantino, a rubare la 126 che fu imbottita di tritolo per uccidere il magistrato, cominciano proprio in via D’Amelio quel 19 luglio del ’92. Alcune ore dopo l’attentato gli investigatori della squadra mobile guidata allora da Arnaldo La Barbera (diventato poi questore e prefetto e 47 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 48 morto alcuni anni fa) scoprono che l’autobomba era intestata a Maria D’Aguanno, rubata e denunciata il 10 luglio 1992 presso i carabinieri della stazione di Palermo-Oreto da Pietrina Valenti. Sul luogo dell’esplosione viene trovata anche la targa di un’altra Fiat 126 intestata a Anna Maria Sferrazza, il cui furto è denunciato la mattina del 20 luglio 1992 da Giuseppe Orofino, titolare di una carrozzeria, dove l’auto di Anna Maria Sferrazza è stata lasciata per riparazioni. Ma l’automobile non era stata rubata, erano stati rubati i documenti e la targa. A fare quella segnalazione alla squadra mobile è il Sisde, il servizio segreto civile, che gira l’informazione alla squadra mobile. Ma, si è scoperto soltanto nel 2010, già a quell’epoca anche Arnaldo La Barbera, con il nome in codice “Catullo”, faceva parte dei servizi segreti. Misteri su misteri. Gli investigatori intercettano l’utenza telefonica di Simone Furnari, marito di Pietrina Valenti, proprietaria della 126. Da quelle intercettazioni si scopre un caso di violenza carnale commesso su Cinzia Angiuli da parte di Luciano Valenti, fratello di Pietrina Valenti, da parte di Roberto Valenti e di Salvatore Candura. E qui comincia l’altro depistaggio. Salvatore Candura viene sospettato di avere preso parte al furto della 126 e quando viene interrogato “confessa” di avere rubato l’utilitaria per conto di Vincenzo Scarantino, personaggio equivoco, piccolo spacciatore di droga e cognato però di un mafioso, Salvatore Profeta, che fu imputato 48 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 49 anche nel primo maxiprocesso a Cosa nostra. Il 26 settembre 1992 Vincenzo Scarantino viene arrestato per strage e furto aggravato. Scarantino nega, anche i suoi familiari organizzano manifestazioni a favore del picciotto sostenendo che, con quella strage, Enzuccio non aveva nulla a che fare e che la polizia aveva preso un abbaglio. Scarantino viene rinchiuso in carcere e alcuni mesi dopo un certo Francesco Andriotta, anche lui un piccolo delinquente, si “pente” e racconta che tra il giugno e l’agosto del 1993, aveva passato un periodo di detenzione insieme a Vincenzo Scarantino, il quale gli aveva confidato che Giuseppe Orofino, uno degli imputati finito in carcere per la strage e condannato all’ergastolo da innocente, gli aveva ordinato di rubare la Fiat 126 utilizzata per la strage di via D’Amelio. Sempre Andriotta racconta di avere saputo da Scarantino che un certo Scotto, fratello di un mafioso della borgata dell’Arenella e dipendente di un’azienda telefonica, aveva intercettato per conto di Cosa nostra il telefono della madre di Paolo Borsellino. I componenti della famiglia Fiore-Borsellino raccontano agli investigatori di aver visto un operaio intento ad armeggiare nella cassetta dei fili telefonici con una Panda azzurra della Elte ricordando che già un paio di mesi prima della strage avevano notato anomalie nel funzionamento del telefono. Gli investigatori decidono allora di analizzare la rete telefonica del condominio di via D’Amelio numero 19 per vedere se è rimasta traccia di intercettazioni sulla linea 49 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 50 della famiglia Fiore-Borsellino. Questa analisi mette in evidenza che le anomalie di funzionamento possono derivare da un’intercettazione abusiva realizzata in modo rudimentale attraverso un circuito di derivazione poi rimosso. Forniscono poi una descrizione precisa dell’operaio e lo riconoscono sia fotograficamente che di persona, nel corso del dibattimento, come Pietro Scotto, che lavora in qualità di dipendente della ditta Elte spa. Scarantino viene rinchiuso nel carcere di Pianosa, i suoi familiari e lui stesso raccontano che in carcere viene torturato perché la polizia vuole costringerlo a pentirsi. E il 24 giugno del 1994, due anni dopo la strage, Scarantino “salta il fosso”, “decide” di collaborare e il depistaggio è bello e concluso. Vengono rinviati a giudizio Vincenzo Scarantino, Giuseppe Orofino, Salvatore Profeta e Pietro Scotto. Il primo processo per la strage di via D’Amelio si conclude il 26 gennaio del 1996: la Corte d’assise presieduta da Renato Di Natale condanna all’ergastolo Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto, mentre Vincenzo Scarantino viene condannato a diciotto anni. La condanna di Scarantino è diventata definitiva in quanto la sentenza, stranamente, non viene appellata dall’imputato. Il pentito ammette di aver partecipato alla strage e poi ritratta più volte. Nel 1998 Scarantino decide di fare un altro “dietro front” e in aula dichiara di «aver accusato solo innocenti» e di essersi 50 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 51 inventato le accuse «spinto da magistrati e investigatori». La Procura nissena ordina il suo arresto revocandogli il programma di protezione. I giudici del primo processo di appello rimettono in discussione l’impianto accusatorio, assolvendo Pietro Scotto e Giuseppe Orofino, condannati all’ergastolo in primo grado. Il primo era considerato il tecnico che dispose l’intercettazione sulla linea della madre del magistrato, il secondo era il titolare dell’autocarrozzeria nella quale la 126 venne imbottita di tritolo. Questa è la storia del processo cosiddetto “Borsellino primo”, il processo contro i manovali della strage. Ma il primo febbraio del 2002, nel corso del processo d’appello del cosiddetto “Borsellino bis” con un altro colpo di scena Scarantino cambia di nuovo versione: «Ho ritrattato perché mi hanno minacciato, la verità è quella che ho detto nel processo di primo grado» confessa. La ritrattazione, secondo Scarantino, fu determinata da una serie di segnali mandati da Cosa nostra e poi da precise indicazioni di Antonio, nipote di Pietro Scotto, il presunto telefonista dell’agguato, assolto nel processo di primo grado. Antonio chiacchierava e l’altro parlava dei pentiti e diceva: «Sono morti che camminano… A un certo punto» racconta Scarantino, «incominciai a vedere Tonino anche davanti alla scuola dei bambini e davanti casa, spesso mi chiedeva come stavano, come crescevano. Così un giorno andai a Modena da mio fratello e gli dissi che volevo ritrattare, lui doveva diffondere la voce a Palermo. E così fece». Tonino allora gli svelò che 51 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 52 sapeva tutto: «“Ancora non l’hai capito” – mi disse – “io lo so che tu sei Scarantino, so tutto quello che fai. Cerca di ritrattare, devi dire che sono stati la polizia e i magistrati che ti hanno fatto fare quelle dichiarazioni. Tu puoi uscirne fuori, ti facciamo dare l’infermità mentale, c’è una nuova legge, ti fissiamo un appuntamento con gli avvocati…”» Scarantino però non torna indietro e conferma nuovamente le accuse nei confronti di innocenti che sono ancora in galera. E dunque oltre al processo sugli esecutori, dalla strage di via D’Amelio prendono il via altri processi: il processo Borsellino bis, il processo a diciotto mafiosi, tra cui i boss Totò Riina e Pietro Aglieri, accusati di avere ordinato la strage del 19 luglio ’92. Per il processo d’appello del Borsellino bis, viene riaperta l’istruttoria dibattimentale dopo l’ulteriore ritrattazione di Vincenzo Scarantino, Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi. Il 18 marzo 2002 la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta infligge tredici ergastoli nei confronti dei presunti mandanti ed esecutori della strage: Totò Riina, Salvatore Biondino, Pietro Aglieri, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia. L’ergastolo viene inflitto anche a Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso e Gaetano Murana, che erano stati invece assolti in primo grado. Dieci anni di reclusione per associazione mafiosa, sentenza confermata, vengono inflitti a Giuseppe Calascibetta e Salvatore Vitale, otto anni e sei mesi a Salvatore 52 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 53 Tomaselli e otto anni ad Antonio Gambino. Poi c’è un altro processo, il Borsellino ter, in questo dibattimento sono imputati altri ventisei boss, tra cui Mariano Agate e Benedetto Santapaola, accusati di essere responsabili a vario titolo della strage. Nove ergastoli vengono confermati e altri due vengono inflitti dalla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, nel processo Borsellino ter. Confermate le condanne per i boss Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Domenico Ganci. Condannati al carcere a vita Francesco Madonia, Giuseppe Montalto, Filippo Graviano, Cristoforo Cannella, Salvatore Biondo di quarantasette anni e Salvatore Biondo (omonimo) di quarantacinque anni. Ma tutti questi processi non risolvono nulla. La verità è ancora tutta da scoprire. Sulla strage di via D’Amelio la Procura di Caltanissetta avvia un quarto troncone d’indagine, quello sui mandanti occulti e che riguarda gli intrecci tra mafia, imprenditoria e uomini politici e, soprattutto, la presenza di agenti dei servizi segreti italiani e stranieri, sempre presenti in queste stragi. Sin dal fallito attentato dell’Addaura al giudice Giovanni Falcone, alla strage di Capaci dove Falcone poi morì e alla strage di via D’Amelio e quelle nel “continente”, Roma, Milano e Firenze. Presenze anomale che per anni hanno partecipato ai depistaggi e, come emerge proprio dalle ultime indagini di Caltanissetta, anche alle stragi. Non solo Cosa nostra, dunque, ma anche 53 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 54 “convergenze” parallele esterne di apparati deviati che per vari motivi hanno condizionato la democrazia italiana. Presenze che adesso sono state denunciate anche da due personaggi che hanno movimentato le inchieste sulla “trattativa” e sulle stragi: Massimo Ciancimino, figlio di Don Vito, il defunto ex sindaco mafioso di Palermo, e il pentito Gaspare Spatuzza. 54 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 55 Il testamento di Ciancimino junior di Francesco Viviano Sia Ciancimino che Spatuzza hanno dichiarato a verbale di avere avuto rapporti o di avere visto appartenenti ai servizi segreti che, a vario titolo, parteciparono alla “trattativa” e, addirittura, alla preparazione della strage di via D’Amelio. Ciancimino ha anche fatto il nome di questo “agente” speciale, non si sa ancora di quale Stato, che si faceva chiamare “signor Franco”. Il suo nome, come viene documentato in questo libro che pubblica un manoscritto di Vito Ciancimino con il nome del “signor Franco”, sarebbe Keller Gross. Compare in una lista insieme a ex alti commissari per la lotta alla mafia, ex capi della polizia, ex dirigenti del Sisde. E, sempre questo «signor Franco», secondo quanto dichiarato da Massimo Ciancimino, sarebbe stato l’anello di congiunzione tra Cosa nostra e alcune istituzioni italiane, in particolare servizi segreti e alcuni politici che ancora oggi tacciono o ricordano vagamente. Il signor Franco è anche il personaggio che per oltre vent’anni avrebbe “protetto” Vito 55 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 56 In questo manoscritto inedito di Vito Ciciancimino viene rivelata per la prima volta l’identità del signor Franco, alias Keller Gross. Il nome di quest’uomo, probabilmente appartenente ai servizi segreti, appare in una lista insieme a personaggi dell’ex Alto Commissariato dell’epoca per la lotta alla mafia. mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 57 Ciancimino e il suo amico “padrino”, Bernardo Provenzano. E, come documenta una lettera consegnata nell’aprile del 2004 a chi scrive, poco prima dell’arresto di Provenzano, Massimo Ciancimino viene avvertito proprio dal “signor Franco”. E a quel punto Massimo Ciancimino comincia ad avere paura di essere ucciso perché Bernardo Provenzano era l’uomo che aveva sempre protetto Don Vito Ciancimino con il quale aveva fatto anche affari e deciso le strategie politiche non solo siciliane per oltre un ventennio. È il 3 aprile del 2009 e Ciancimino junior consegna la sua lettera-testamento nel caso di una sua “prematura scomparsa” autorizzando chi scrive, nel caso in cui questa “prematura scomparsa” fosse avvenuta, di prelevare presso un avvocato romano tutti i documenti di Vito Ciancimino che erano custoditi da Massimo. Il rampollo di Don Vito scrive: Io sottoscritto Massimo Ciancimino, nato a Palermo il 16-02-1963, residente in Roma, via San Sebastianello nr. 9, con la presente autorizzo l’avvocato…, mio legale di fiducia, a consegnare il manoscritto di mio padre e relativi allegati e titolato A Vito Ciancimino, in ipotesi di mia prematura scomparsa e a farlo consultare in sua presenza a farne copia di parti che riterrà più opportuno, al sig. Francesco Viviano, nato a Palermo il 26-021949, unica persona di mia fiducia oltre al mio legale. Certo di un corretto uso del materiale relativo alle vicissitudini di mio padre e agli anni ed episodi descritti nello stesso. Il sottoscritto avvocato… dichiara di ben conosce- mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 58 re il luogo dove è custodito il detto manoscritto e di eseguire la volontà dello stesso essendo l’unico autorizzato alla gestione dello stesso. In fede, Massimo Ciancimino. Il documento in cui Massimo Ciancimino, ipotizzando la sua prematura scomparsa, nomina Francesco Viviano depositario del suo testamento. E per ben quattro anni ho conservato in luogo segreto questo “testamento” che mi era stato consegnato dopo le promesse di Massimo Ciancimino, che seguivo costantemente, di consegnarmi l’ormai noto Papello, le richieste di 58 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 59 Cosa nostra allo Stato durante le fasi della “trattativa” tra le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Per quattro anni ho tenuto segreto questo “testamento”, avendo tuttavia informato i vertici del mio giornale perché il mio scopo era quello di ottenere copia del Papello e di altri documenti che Vito Ciancimino aveva consegnato al figlio prima della sua morte. Ma le cose precipitano di lì a qualche giorno. Subito dopo la consegna del “testamento” Massimo Ciancimino incontra un uomo del “signor Franco” che lo invita ad allontanarsi da Palermo perché sarebbe accaduto qualcosa di molto eclatante. Massimo Ciancimino si fida ciecamente del “signor Franco”, è sempre stato lui il “garante” della sopravvivenza del padre, custode di moltissimi segreti italiani, e dello stesso Massimo che, in fretta e furia, lascia Palermo per una “vacanza” non programmata, in Egitto. Va via con la moglie Carlotta e il figlio Vito Andrea portandosi appresso anche uno dei suoi avvocati, Roberto Mangano. Da Sharm El Sheikh Massimo telefona due o tre volte al giorno, chiede se ci sono novità a Palermo. La “novità” c’è, come previsto dal “signor Franco” qualche giorno dopo l’11 aprile dello stesso 2006, sette giorni dopo che Massimo Ciancimino consegna il suo “testamento” e tre giorni prima da quando il “signor Franco” gli suggerisce di cambiare aria e di allontanarsi da Palermo. Semplici coincidenze? Ed è da quel momento che Massimo Ciancimino comincia a vuotare il sacco. Comincia a raccontare alle Procure di Palermo e 59 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 60 di Caltanissetta quel che sa, quel che ha appreso dal padre con il quale aveva vissuto intensamente gli ultimi quindici anni perché, da quando Vito Cinciamino finì in galera, Massimo Ciancimino diventò di fatto il suo “assistente”. E fu a lui che Vito Ciancimino affidò i suoi beni, i suoi soldi, ma anche tutte le carte di molti segreti italiani. Massimo Ciancimino probabilmente decide di vuotare il sacco perché ormai non ha più garanzie, Bernardo Provenzano è agli arresti ed era l’unico capomafia che poteva forse ancora proteggerlo. Così inizia la nuova epopea di Ciancimino junior che, a spizzichi e bocconi, consegna ai magistrati che indagano sulla “trattativa” e sulle stragi di Capaci e via D’Amelio, documenti riservati del padre che aveva custodito per anni e che aveva messo a disposizione nel caso di sua “prematura scomparsa”. Consegna anche il Papello, le condizioni poste da Cosa nostra che voleva l’abolizione del 41 bis, la legge sulla confisca dei beni ai mafiosi, e tanti altri vantaggi in cambio della “pace”, promettendo che la mafia avrebbe abbandonato la strategia stragista. Vere o false che siano le cose dette da Massimo Ciancimino, e le “carte” del padre che adesso sono quasi tutte nelle mani dei magistrati di Palermo e Caltanissetta, l’unico fatto positivo è che Ciancimino junior sia stato ascoltato. Così non era avvenuto per il padre che più volte e con lettere scritte alla Commissione parlamentare d’inchiesta – come dimostra il documento pubblicato in questo libro – aveva chiesto di essere 60 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 61 sentito. Ma nessuno lo volle mai ascoltare. Come Paolo Borsellino nessuno lo interrogò mai. L’ultima richiesta avanzata da Vito Ciancimino alla Commissione parlamentare antimafia porta la data del 29 ottobre del 1992. Attenzione a questa data, 29 ottobre 1992, soltanto pochi mesi dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Era chiaro che Vito Ciancimino qualcosa sapeva, qualcosa poteva dirlo considerato che era stato il protagonista della “trattativa” tra Cosa nostra e lo Stato proprio nel periodo a cavallo delle due stragi. Perché non venne sentito? Nessuno aveva la curiosità di sapere quel che voleva dire Vito Ciancimino? Forse si temeva quel che Ciancimino poteva sapere e dire? Ecco il testo dalla lettera inviata dall’ex sindaco mafioso di Palermo alla Commissione antimafia che porta il protocollo numero 0356 e la data del 29 ottobre 1992. On. Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Palazzo San Macuto Roma La Commissione Parlamentare Antimafia, prima versione, senza mai ascoltarmi, nonostante da me sollecitata sin dal 1970, mi ha condannato “irrevocabilmente” e le sue “sentenze” sono diventate la “prova” delle mie presunte colpe, davanti alla pubblica opinione e alla magistratura. Il 27 luglio 1990 mi misi a disposizione della Commissione Antimafia su richiesta del suo 61 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 62 Presidente, onorevole Chiaromonte, per essere ascoltato. Chiesi però che l’audizione avvenisse pubblicamente e in diretta televisiva, non per fare spettacolo, ma perché volevo che l’opinione pubblica potesse giudicarmi direttamente e non per interposta persona, cioè per il tramite dei giornalisti a volte imprecisi, spesso sintetici e superficiali e quasi sempre obbedienti al sistema politico-finanziario interessato non alla verità ma alla difesa di certe posizioni. Non avendo ottenuto la diretta televisiva, ritenni di dovere rinunziare all’audizione. Continuo a ritenere che sarebbe giusto offrire alla pubblica opinione la possibilità di un giudizio non mediato ma oggi, dopo le clamorose iniziative giudiziarie della settimana scorsa, non ne faccio – della diretta televisiva – una “conditio sine qua non”. Lascio alla Commissione Antimafia la valutazione del problema. Il “delitto Lima” (l’europarlamentare ed ex segretario della Dc in Sicilia, nonché capo della corrente andreottiana nell’isola ucciso nel marzo del ’92, nda) non può essere liquidato con ipotesi semplicistiche sul suo movente. L’omicidio dell’onorevole Lima è di quelli che vanno oltre la persona della vittima e puntano in alto, un avvertimento, come si suol dire. Sono stato per molti anni, testimone e in parte protagonista di un certo contesto politico. Sono convinto che questo delitto faccia parte di un disegno più vasto. Un disegno che potrebbe spiegare altre cose, molte altre cose. Ancora oggi sono, pertanto, a disposizione di codesta Commissione Antimafia se vorrà ascoltarmi. Vito Ciancimino 62 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 63 La lettera inviata da Vito Ciancimino alla Commissione Parlamentare Antimafia il 29 ottobre 1992 in cui l’ex sindaco di Palermo chiede nuovamente di essere ascoltato in merito all’omicidio dell’onorevole Lima. mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 64 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 65 Il caso Scarantino Presidente di quella Commissione parlamentare antimafia era l’onorevole Luciano Violante. Ma nessuno volle ascoltarlo. Nessuno volle sapere qual era il “disegno più vasto” che poteva «spiegare altre cose, molte altre cose». Nessuno ebbe curiosità di quelle gravissime affermazioni e denunce di Vito Ciancimino che, come detto, non era un signor nessuno. Era un personaggio che per anni aveva influenzato la vita politica siciliana e nazionale e che aveva un rapporto diretto con Bernardo Provenzano. E che aveva fatto da intermediario nella “trattativa” tra Stato e Cosa nostra. Perché? Adesso si ascolta invece Massimo Ciancimino che però può rivelare soltanto de relato quel che gli aveva raccontato in vita suo padre Don Vito e che ha aperto nuovi interrogativi e nuove piste investigative, anche sulle stragi del ’92. Ed è in questo contesto che si inseriscono anche le recentissime rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza che aveva chiamato in causa Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sostenendo mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 66 di avere appreso dai fratelli boss Giuseppe e Filippo Graviano che i due politici erano i nuovi “referenti” di Cosa nostra. Soltanto un sentito dire. Ma quello che non ha sentito dire, e che ha fatto lui personalmente, è svelare il drammatico retroscena della strage di via D’Amelio. Verità incontrovertibili, verificate e riscontrare dai magistrati di Caltanissetta che hanno riaperto l’inchiesta sulla strage iscrivendo nel registro degli indagati i poliziotti che coordinarono quell’indagine che portò all’arresto, e al successivo pentimento, di Vincenzo Scarantino. Un bugiardo e sulle cui bugie i pm di Caltanissetta, e tra questi Anna Maria Palma, attualmente capo di gabinetto del presidente del Senato, Renato Schifani, chiesero e ottennero la condanna di molti innocenti. Adesso quel processo è tutto da rifare e gli innocenti che già hanno scontato oltre quindici anni di galera usciranno dal carcere perché Spatuzza ha raccontato un’altra verità. E cioè che fu lui, e non Vincenzo Scarantino, a rubare e preparare la Fiat 126 che fu utilizzata per la strage di via D’Amelio. E così nel 2009, dopo anni di silenzi e depistaggi, Gaspare Spatuzza decide di parlare e di raccontare, finalmente, la verità sulla strage in cui morì il giudice Paolo Borsellino. E per la prima volta si scopre che nelle fasi preparatorie dell’attentato del 19 luglio del ’92 contro il giudice Borsellino era presente anche uno “sconosciuto”, lo stesso personaggio, non mafioso e appartenente all’epoca al Sisde, riconosciuto anche da Massimo Ciancimino. 66 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 67 Lo fa la prima volta con i magistrati di Firenze che indagano sulle stragi di Roma, Firenze e Milano del ’93 e racconta anche come e quando Cosa nostra si procurò l’esplosivo per utilizzarlo nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. Dice delle verità che rimettono tutto in discussione. Rivela che l’esplosivo per la strage di via D’Amelio fu addirittura prelevato prima di quella di Capaci. Racconta Spatuzza: L’esplosivo doveva arrivare da fuori e fu ancora prima di Capaci. Io ebbi modo di maneggiarlo perché in quel periodo io ero “attivo” nella famiglia mafiosa di Brancaccio (quella dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, nda) e l’esplosivo lo andammo a prelevare a Porticello (un paese marinaro a venticinque chilometri da Palermo, nda). L’esplosivo era arrivato a bordo di un peschereccio ed era stato «nascosto» dentro robusti sacchi di tela e plastica sospesi sott’acqua sulla paratia dell’imbarcazione. Quel fatto Spatuzza lo ricorda benissimo perché quando prelevarono l’esplosivo e lo caricarono su un’automobile rischiarono di essere fermati a un posto di blocco dei carabinieri. E a quel punto Spatuzza rivela che quando l’esplosivo fu piazzato dentro la Fiat 126 utilizzata per la strage, in quel garage era presente anche uno “sconosciuto”. «Ma nell’ambito di queste strategie di Cosa nostra, di contatti, di relazioni con ambienti fuori di Cosa nostra, ha contezza?» chiedono i pm fiorentini a Spatuzza. E il pentito ricorda: 67 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 68 C’è una questione su via D’Amelio che io c’ho una figura di persona che io non avevo mai visto e che non conosco. E quando io consegno la Fiat 126 a Renzino Tinnirello in questo garage c’è questa persona che io sconosco, non avevo mai visto. Quindi se era una persona a me vicina, sicuramente io l’avrei riconosciuta Ma era uno che non avevo mai visto. Quindi c’è questa figura che rimane in sospeso. Ora, siccome tutti gli attentati che noi abbiamo fatto con il telecomando grazie a Dio sono tutti falliti, ne abbiamo discusso, ma in via D’Amelio disgraziatamente, è riuscito tutto. Come a dire che per gli altri attentati falliti, per esempio quello che era stato progettato allo stadio Olimpico di Roma contro i carabinieri, quello di via D’Amelio e di Capaci riuscirono perché erano coinvolti personaggi “esterni” e soprattutto “esperti”. E uno di questi personaggi Spatuzza lo riconosce in una delle foto di agenti dei servizi segreti che i pm di Caltanissetta gli mostrano durante un interrogatorio. Questo 007, lo stesso incontrato altre volte da Massimo Ciancimino, adesso è iscritto nel registro degli indagati della Procura di Caltanissetta. Spatuzza dunque, per quanto riguarda la parte operativa della strage, è più che convincente e, soprattutto, porta riscontri oggettivi non smentibili e che faranno riaprire il processo sulla strage di via D’Amelio. Non solo Spatuzza ha confermato e raccontato queste cose anche durante i confronti avuti con i principali “pentiti” della strage Borsellino, primo fra tutti Vincenzo Scarantino. 68 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 69 Due si sono messi a piangere e hanno chiesto «perdono» confessando di avere rilasciato false dichiarazioni nell’inchiesta sulla strage Borsellino, perché «pressati» dagli investigatori. Il terzo, il «pentito» Vincenzo Scarantino, le cui affermazioni hanno sostanziato tre processi e numerose condanne all’ergastolo per la strage di via D’Amelio, ha chiesto la sospensione del confronto perché davanti alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, è entrato in tilt, non sapendo più cosa controbattere. I drammatici confronti tra Spatuzza, Vincenzo Scarantino e gli altri pentiti di via D’Amelio, sono stati fatti a Caltanissetta sul finire del 2009. Spatuzza ha smontato pezzo per pezzo il castello di accuse di Scarantino. La Procura di Caltanissetta ritiene credibile la versione resa da Spatuzza nei suoi confronti, ed è ora orientata a chiedere la revisione del processo per la strage che costò la vita a Paolo Borsellino e agli uomini della sua scorta. «Li ho sbugiardati su via D’Amelio» racconta Spatuzza ai pm di Firenze Crini e Nicolosi. Questi confronti (con Scarantino, Francesco Andriotta e Salvatore Candura, ndr) li ho chiesti io, innanzitutto. Sono arrivato a Caltanissetta e ho avuto questi colloqui. Che problema c’è: sono entrato e ho fatto il primo confronto con Francesco Trombetta, (un manovale della cosca di Brancaccio, ndr), che come mi vede mi abbraccia e si mette a piangere e mi chiede perdono. Non poteva fare altro che chiedermi perdono. 69 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 70 Poi seguono altri due confronti con Salvatore Candura e Francesco Andriotta. Il primo si è autoaccusato di avere rubato, per conto di Scarantino, la Fiat 126 che fu imbottita di tritolo ed esplosa in via D’Amelio nel momento in cui il giudice Borsellino stava per entrare nel palazzo dove abitava la madre. Pure Candura, messo alle strette, perché la 126 fu rubata da Gaspare Spatuzza, cosa che è stata accertata dai pm di Caltanissetta che hanno trovato riscontri «inoppugnabili», comincia a piangere e confessa di avere detto bugie perché «pressato» dagli investigatori della polizia. Poi c’è il confronto con Scarantino che con le sue dichiarazioni, oltre agli esponenti della Cupola di Cosa nostra, condannati all’ergastolo come mandanti, ha anche accusato incensurati che sono stati processati e condannati al carcere a vita e che adesso, alla luce delle rivelazioni di Gaspare Spatuzza, risultano completamente estranei alla strage di via D’Amelio. Tra questi Gaetano Morana, Cosimo Vernengo, Francesco Urso e altri pregiudicati, Salvatore Profeta (cognato di Scarantino), Giuseppe La Mattina e Natale Gambino. «E dopo il confronto con Candura – racconta sempre Spatuzza – mi trovo davanti Vincenzo Scarantino. Diceva bugie, raccontava falsità e quando l’ho messo davanti alle evidenze, Scarantino ha chiesto la sospensione del confronto con me e sono felice di avere fatto questi confronti». Ai magistrati di Caltanissetta e di Firenze Gaspare Spatuzza ha anche raccontato che fu pro70 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 71 prio lui, incaricato dal suo capo, Giuseppe Graviano (condannato all’ergastolo anche per la strage Borsellino, non per le accuse di Scarantino ma per quelle di altri pentiti e per i tabulati telefonici che hanno dimostrato che il giorno della strage Graviano si trovava proprio in via D’Amelio), a procurare l’esplosivo utilizzato per imbottire la Fiat 126 da lui stesso rubata. Esplosivo che fu procurato prima ancora della strage del giudice Falcone avvenuta il 23 maggio del ’92. Ma ci voleva Spatuzza per smentire le clamorose bugie di Vincenzo Scarantino e i depistaggi di chi condusse all’epoca quelle indagini? Assolutamente no. Chi scrive ha assistito ad alcuni confronti durante le fasi dei processi per la strage di via D’Amelio tra pentiti storici di Cosa nostra e Vincenzo Scarantino. Tutti lo trattavano a pesci in faccia. Lo deridevano, lo sbugiardavano, lo hanno considerato sempre una nullità, un personaggio mandato da chissà chi e perché. Non si trattava di pentiti di basso o medio calibro, ma di collaboratori di giustizia di grande peso che nelle stragi avevano avuto un ruolo di primo piano. Come Giovanni Brusca che premette il telecomando per la strage di Capaci, Salvatore Cancemi e Mario Santo Di Matteo, padre di quel bambino che fu sciolto nell’acido da Giovani Brusca perché si era pentito. Ecco il confronto tra Salvatore Cancemi e Vicenzo Scarantino. Basta leggerlo per capire chi sia Scarantino e chiedersi come sia stato possibile che gli abbiano creduto. 71 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 72 L’anno 1995 addì 13 del mese di gennaio alle ore 10.30 davanti al pm Anna Maria Palma, Carmelo Petralia, Antonino Di Matteo. L’interrogatorio si svolge all’interno della caserma dei Ros di Roma dov’è presente anche l’allora maggiore Mauro Obinu. Cancemi si rivolge subito a Scarantino e gli dice: «Guarda, Guardami! Ti posso dare del tu? Perché io non ti conosco, non ti ho mai visto nella mia vita…» Scarantino: «Io lo conosco». Cancemi: «Guardi dottor Petralia, io gentilmente vorrei cominciare così, voglio invitare questo signore che io nella mia vita non l’ho mai visto, questa è la prima volta. Di ricordarsi bene… io posso attendere due minuti, cinque minuti, se non si ricorda bene, lo invito a ricordarsi bene. Ma tu sei uomo d’onore? Sai che significa, che vuol dire uomo d’onore? Che intendi tu? Spiega che significa uomo d’onore. Tu non lo sai cosa significa uomo d’onore, tu sei un bugiardo. Chi è che t’ha detto questa lezione? Chi te l’ha fatta questa lezione? Dicci la verità, devi dire la verità, ma chi ti conosce, ma chi sei? Ma questa lezione chi te l’ha fatta? Ascoltami, ascoltami, io t’invito a dire la verità qua, in presenza di questi signori giudici, chi ti ha fatto questa lezione? Chi ti ha detto di dire queste cose? Chi ti ha messo queste parole in bocca? Tu se sei veramente una persona seria… Chi te l’ha detto? Dici la verità. Qua se tu hai coraggio, se sei uomo d’onore, perché tu nemmeno sai che significa la parola uomo d’onore. Tu non hai fatto parte mai di nessuna organizzazione chiamata Cosa nostra? Tu, assolutamente, ma 72 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 73 tu chi sei? Chi ti ha fatto questa lezione?» Scarantino sostiene di conoscere Cancemi e di essere un uomo d’onore riservato e poi snocciola un’altra serie di storie che non hanno né capo né coda e Cancemi perde la pazienza e sbotta: Ma a questo come gli date ascolto? Nossignori, già sto perdendo la pazienza, ma veramente date ascolto a questo individuo? Signori giudici, questo (Scarantino, nda) sta offendendo l’Italia, tutta l’Italia sta offendendo costui! Ma chi è questo? Questo nemmeno sa che significa uomo d’onore! L’avete sentito “uomo d’onore”? Non mi ha saputo nemmeno rispondere a questa domanda, questo nemmeno sa il significato di uomo d’onore. Questo non l’ho mai visto nella mia vita… Scarantino insiste sostenendo di conoscerlo e di averlo visto con i baffi. Cancemi lo smentisce e gli dice che ci sono anche riprese televisive dei carabinieri che lo sbugiardano e che i baffi se li fece crescere quando si diede alla latitanza e si consegnò ai carabinieri. Cancemi si rivolge ai magistrati: Attenzione, state attenti è falso, non credete nemmeno a una virgola di quello che vi sta dicendo, perché non so chi è, non lo conosco, io sono convinto, io sono convintissimo… che a questo qua (Scarantino, ndr) queste parole gliele hanno messe in bocca, gli hanno fatto una lezione e ora la sta ripetendo, perché io dico questo, attenzione, perché mi costa a me! Io sono sicuro che non è vero. 73 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 74 Non ho mai portato baffi nella mia vita, a chi vendi queste bugie? A chi le vendi? Queste (i magistrati, ndr) vedi che sono persone intelligenti e ti capiscono abbastanza bene che tu sei un falso, hai capito?… Chi ti ha fatto questa lezione? Tu eri persona riservata? A te di dovevano “riservare” a te? Ma chi sei? Vedi a chi dovevano riservare! Poi Scarantino parla delle riunioni a casa Calascibetta dove c’erano Totò Riina e altri capi mandamenti compreso Cancemi, Di Matteo Giovanni Brusca. Ma Cancemi lo smentisce su tutto il fronte e alla fine conclude così: Io voglio concludere, dottor Petralia, io sono felice, contentissimo di potere dare, come ho dato, alla Giustizia, alla parte onesta dello Stato, quello che ho dato. Voglio continuare sempre a darlo però questo confronto (con Scarantino, ndr) per me è stato offensivo, offensivo, ve lo ripeto di nuovo. Il boss Cancemi dunque, che aveva avuto una parte attiva nella strage di via D’Amelio, intuisce subito che Vincenzo Scarantino «è mandato» da qualcuno che gli ha anche fatto «la lezione» da ripetere ai magistrati. Lo dice più volte e avverte anche i giudici che lo interrogano: «State attenti questo è falso, qualcuno gli ha messo quelle storie in bocca». Che qualcuno possa avere imbeccato Vincenzo Scarantino e l’abbia convinto a raccontare storie inventate di sana pianta per depistare ormai è stato accertato. E si sta tentando anche di decifrare un documento che vi proponiamo in queste 74 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 75 pagine. Si tratta di appunti scritti a mano allegati, e venuti fuori per caso, in uno degli interrogatori di Scarantino. Appunti che lasciano molto perplessi perché è come se si trattasse di suggerimenti e correzioni da apportare alle dichiarazioni già rese da Scarantino, anche sui motivi che avevano provocato il suo pentimento. «Quali motivazioni dare alla decisione di collaborare?» sta scritto, tra l’altro, in questi appunti scritti a mano. Appunti allegati all’interrogatorio di Scarantino il 24 giugno 1994 4) Chiarimenti riconoscimento Ganci Raffaele (prima riconosciuto – poi no – infine riconosciuto nuovamente) Chiarimenti perché Graviano prima c’era e poi non c’era, infine era presente al garage. 2) Tomasello & trasporto 126 (chi guidava!) – Giustificare il riconoscimento di Sbeglia. Occasione in cui ha visto Ganci Raffaele. Nel “caricamento”. Non citati Pino La Mattina – Di Matteo & Graviano. Furto 126 (la macchina non era già “pronta”) Consegna 126 (via Roma non piazza Guadagna) Non è citata l’opposizione di Ganci alla riunione. 75 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 76 7) Nominati quali componenti alla riunione Di Matteo, Cancemi, La Barbera, Ganci, zu Di Maggio. Confusione riconoscimento foto. 15) Data riunione. Giovanni Brusca alla riunione. – Al garage c’era Di Matteo. Riguardo dichiarazioni di Prestero Carmela come giustificare la sua asserita “buona condotta” verso Scarantino che lo inquietava continuamente. In merito all’accusa di essere gay può citare l’episodio dell’avvocato Petronio. Può citare il particolare del “falso pentito”. Alla fine della testimonianza al processo può rivolgere alcune osservazioni all’avv. Petronio? Motivazioni del pentimento (cosa deve dire?). Posso citare altri episodi al dibattimento? (non inerenti alla strage ma concernenti episodi di cui è a conoscenza). Immoralità – tradimenti coniugali. – Come giustificare le dichiarazioni contrastanti riguardanti i quotidiani (in alcuni verbali dichiara che li leggeva, in altri dichiara il contrario). 76 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 77 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 78 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 79 In queste pagine le annotazioni in allegato agli atti sulle stragi in cui sono elencati i punti da dettare a Scarantino per la verità che il “falso” pentito doveva raccontare su via D’Amelio. Eppure non succede nulla. Scarantino, un signor nessuno, smentito da un mafioso, anzi da un capo mafia componente della Cupola, viene creduto. La sua “verità” è quella che più convince e che spedisce in carcere gente innocente. Anche nel confronto con Santo Di Matteo la musica non cambia. È il 13 gennaio del 1995. I due sono faccia a faccia in un’aula di giustizia. Scarantino dice di conoscerlo e Di Matteo: Questa è la prima volta che lo vedo, io non so come risponderti perché io prima di tutto a Marino Mannoia che tu stai citando lo conosco per via della televisione. E quando ti vedo di nuovo è la prima volta, per me tutto quello che stai a dire qua, per me è tutto falso. Io non sono stato in nessuna riunione con Giovanni Brusca né con Pietro Aglieri, né con Totò Riina, questa è la verità è inutile che dico. Io non so da dove hai preso tutte que79 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 80 ste cose perché secondo me tu non sai quello che dici. Io non so come tu stai collaborando, stai dicendo un sacco di cazzate che neanche te lo immagini. Io non ho niente da dire perché questo qua (Scarantino, ndr) sta dicendo talmente delle cazzate che… Io non so come fai a dire che hai partecipato alla strage Borsellino… Ma oltre a Santo Di Matteo ancora un altro pentito di rango, Giovanni Brusca, messo davanti a quello “sconosciuto” di Vincenzo Scarantino, rivolgendosi ai magistrati dice: «Ma chi è questo?» E lo deride anche quando Scarantino sostiene di essere un uomo d’onore “riservato”. «Riservato di che?» Brusca, come Cancemi, avverte i magistrati: guardate che questo è un bugiardo, non sa nulla e inventa tutto. E Brusca svela anche che Paolo Borsellino fu ucciso perché aveva saputo della “trattativa” tra Stato e mafia e si era opposto a questo disegno. Il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino, venne ammazzato perché voleva fermare la trattativa tra pezzi dello Stato e i corleonesi avviata dopo la strage di Capaci. Cosa nostra fu informata da una «talpa» e «accelerò» la morte del magistrato. Per questo, a soli cinquantasette giorni dalla strage di Capaci, la mafia fu “costretta” a un altro attentato libanese. È una dichiarazione che segna la clamorosa svolta nelle indagini sui mandanti occulti delle stragi che arriva nove anni dopo, dalle ultime rivelazioni del “pentito” Giovanni Brusca supersecretate dai magistrati delle Procure di Palermo e Firenze. «Il giudice Paolo Borsellino 80 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 81 era contrario alla trattativa che Riina aveva intrapreso con lo Stato e rappresentava quindi un ostacolo, per questo è stato assassinato». Brusca, che poi ripete in un’udienza questa vicenda, non fa il nome del presunto interlocutore politico di Totò Riina nella trattativa. «Non lo so con certezza», poi però quel nome lo fa, è quello di Nicola Mancino, allora ministro degli Interni, lo stesso nome che Gaspare Mutolo rivela dopo la morte del magistrato. Resta comunque il fatto che il boss di San Giuseppe Jato, l’uomo che premette il telecomando nella strage di Capaci e che ordinò di sciogliere nell’acido il figlio dodicenne del pentito Santo Di Matteo, ruppe ogni indugio decidendo di vuotare completamente il sacco. Brusca ha raccontato ai magistrati che l’uccisione di Paolo Borsellino, che era in progetto da anni «subì un’improvvisa accelerazione» subito dopo la strage di Capaci. «Dopo Falcone, Riina – ha raccontato Brusca – aveva programmato di uccidere l’ex ministro Dc, Calogero Mannino, dandomi l’incarico di eseguirlo. Improvvisamente cambiò decisione, e mi disse che c’era un lavoro più urgente da fare, l’assassinio del giudice Paolo Borsellino». L’«accelerazione» dell’attentato a Paolo Borsellino è stata confermata anche da un altro capomafia pentito, Salvatore Cancemi, che era a conoscenza dei segreti di Totò Riina. Brusca ha rivelato di avere appreso della “trattativa” direttamente da Totò Riina che aveva preparato un “Papello” (richieste allo Stato, nda) per 81 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 82 interrompere la strategia stragista in cambio di vantaggi per i mafiosi. E di questo si parlò durante una riunione ristretta della “Commissione” alla quale parteciparono anche Salvatore Cancemi e Salvatore Biondino, braccio destro di Riina. «In quell’occasione» racconta Brusca, «Biondino fece vedere a Totò Riina i verbali di un interrogatorio del pentito Gaspare Mutolo che era stato ascoltato dal giudice Paolo Borsellino due giorni prima della strage dicendo: “Quando Mutolo dice le cose vere nessuno gli crede”». In quell’interrogatorio Gaspare Mutolo raccontava che prima della strage di via D’Amelio, si era incontrato con il magistrato a Roma perché aveva deciso di pentirsi. Raccontò Gaspare Mutolo dopo la strage di via D’Amelio: Io dissi al giudice Borsellino che non volevo verbalizzare niente su quello che sapevo su alcuni giudici e su alcuni funzionari dello Stato collusi, se prima non parlavo della mafia. E mentre m’interrogava Borsellino interruppe la conversazione e mi disse: «Sai Gaspare, debbo smettere perché mi ha telefonato il ministro, manco una mezz’oretta e ritorno». E quando il giudice ritornò era tutto arrabbiato, agitato, preoccupato, fumava così distrattamente che aveva due sigarette accese in mano. Gli chiesi cosa avesse e il giudice Borsellino mi rispose dicendo che invece d’incontrare il ministro si era incontrato con il dottor Parisi (il defunto capo della Polizia) e con il dottor Contrada (l’ex funzionario del Sisde accusato di mafia e assolto nel processo di secondo grado, ndr) e mi disse di mettere subito a verbale quello che gli avevo detto. 82 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 83 Brusca mette in relazione quell’incontro al Ministero con la “trattativa”. L’incontro fu smentito dal senatore Nicola Mancino che s’era insediato al Ministero dell’Interno proprio quel giorno anche se, interrogato dai magistrati di Caltanissetta, disse che forse lo aveva incontrato ma non gli aveva parlato. Ma nell’Agenda di Paolo Borsellino, sparita subito dopo la strage di via D’Amelio e ritrovata qualche tempo dopo, il magistrato aveva scritto che il primo luglio del 1992, alle ore 19.30, aveva avuto un incontro con il ministro dell’Interno, una visita della durata di trenta minuti. È tutto finito Borsellino morì diciotto giorni dopo dilaniato dall’autobomba. E quando l’indomani il suo “padre” spirituale, Antonino Caponnetto, finalmente raggiunse Palermo per i funerali, davanti a quella bara, davanti alla moglie e ai figli del magistrato ucciso, davanti a tanti colleghi e tanta parte di Palermo, si lasciò andare a un tragico sconforto che commosse tutti gli italiani. E attraverso i microfoni della Rai, intercettato per pochi secondi dal giornalista Gianfranco D’Anna, disse: «È TUTTO FINITO». Quella frase, «è tutto finito», era diventata un peso pronunciata in un momento di grande dolore e scoramento. E prendendo la parola lesse una «preghiera laica ma fervente» per Giovanni e Paolo: Queste sono le parole di un vecchio ex magistrato 83 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 84 che è venuto nello spazio di due mesi due volte a Palermo con il cuore a pezzi a portare l’ultimo saluto ai suoi figli, fratelli e amici con i quali ho diviso anni di lavoro, di sacrificio, di gioia, anche di amarezza. Soltanto poche parole per un ricordo, per un doveroso atto di contrizione che poi vi dirò e per una preghiera laica ma fervente. Il ricordo è per l’amico Paolo, per la sua generosità, per la sua umanità, per il coraggio con cui ha affrontato la vita e con cui è andato incontro alla morte annunciata, per la sua radicata fede cattolica, per il suo amore immenso portato alla famiglia e agli amici tutti. Era un dono naturale che Paolo aveva, di spargere attorno a sé amore. Mi ricordo ancora il suo appassionato e incessante lavoro, divenuto frenetico negli ultimi tempi, quasi che egli sentisse incombere la fine. Ognuno di noi, e non solo lo Stato, gli è debitore; a ognuno di noi egli ha donato qualcosa di prezioso e di raro che tutti conserveremo in fondo al cuore, e a me in particolare mancheranno terribilmente quelle sue telefonate che invariabilmente concludeva con le parole: «Ti voglio bene Antonio» e io replicavo: «Anche io ti voglio bene Paolo». C’è un altro peso che ancora mi opprime ed è il rimorso per quell’attimo di sconforto e di debolezza da cui sono stato colto dopo avere posato l’ultimo bacio sul viso ormai gelido, ma ancora sereno, di Paolo. Nessuno di noi, e io meno di chiunque altro, può dire che ormai tutto è finito. Pensavo in quel momento di desistere dalla lotta contro la delinquenza mafiosa, mi sembrava che con la morte dell’amico fraterno tutto fosse finito. Ma in un momento simile, in un momento come questo, coltivare un pensiero del genere, e me ne sono subito convinto, equivale a tradire la memo84 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 85 ria di Paolo come pure quella di Giovanni e di Francesca. In questi pochi giorni di dolore trascorsi a Palermo che io vi confesso non vorrei lasciare più, ho sentito in gran parte della popolazione la voglia di liberarsi da questa barbara e sanguinosa oppressione che ne cancella i diritti più elementari e ne vanifica la speranza di rinascita. E da qui nasce la mia preghiera dicevo laica ma fervente e la rivolgo a te, presidente, che da tanto tempo mi onori della tua amicizia, che è stata sempre ricambiata con ammirazione infinita. La gente di Palermo e dell’intera Sicilia, ti ama presidente, ti rispetta, e soprattutto ha fiducia nella tua saggezza e nella tua fermezza. Paolo è morto servendo lo Stato in cui credeva così come prima di lui Giovanni e Francesca. Ma ora questo stesso Stato che essi hanno servito fino al sacrificio, deve dimostrare di essere veramente presente in tutte le sue articolazioni, sia con la sua forza sia con i suoi servizi. È giunto il tempo, mi sembra, delle grandi decisioni e delle scelte di fondo, non è più l’ora delle collusioni, degli attendismi, dei compromessi e delle furberie, e dovranno essere, presidente, dovranno essere uomini credibili, onesti, dai politici ai magistrati, a gestire con le tue illuminate direttive questa fase necessaria di rinascita morale: è questo a mio avviso il primo e fondamentale problema preliminare a una vera e decisa lotta alla barbarie mafiosa. Io ho apprezzato le tue parole, noi tutti le abbiamo apprezzate, le tue parole molto ferme al Csm dove hai parlato di una nuova rinascita che è quella che noi tutti aspettiamo, e laddove anche con la fermezza che ti conosco hai giustamente condannato, censurato, quegli errori che hanno condotto martedì pomeriggio a disordini che altrimenti non sarebbero accaduti perché nessuno voleva che accadessero. 85 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 86 Solo così, attraverso questa rigenerazione collettiva, questa rinascita morale, non resteranno inutili i sacrifici di Giovanni, di Francesca, di Paolo e di otto agenti di servizio. Anche a quegli agenti che hanno seguito i loro protetti fino alla morte va il nostro pensiero, la nostra riconoscenza, il nostro tributo di ammirazione. Tra i tanti fiori che ho visto in questi giorni lasciati da persone che spesso non firmavano nemmeno il biglietto come è stato in questo caso, ho visto un bellissimo lilium, splendido fiore il lilium, e sotto c’erano queste poche parole senza firma: «Un solo grande fiore per un grande uomo solo». Mi ha colpito, presidente, questa frase che mi è rimasta nel cuore e credo che mi rimarrà per sempre. Ma io vorrei dire a questo grande uomo, diletto amico, che non è solo, che accanto a lui batte il cuore di tutta Palermo, batte il cuore dei familiari, degli amici, di tutta la Nazione. Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto fino al sacrificio dovrà diventare e diventerà la lotta di ciascuno di noi, questa è una promessa che ti faccio solenne come un giuramento. Antonino Caponnetto 86 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 87 GASPARE MUTOLO «BORSELLINO? IO L’AVEVO AVVISATO»* di Francesco Viviano L’incontro con Mutolo avviene in un luogo segreto. Lui, per Cosa nostra, resta un pentito e la legge non scritta ma rispettata rigorosamente, prevede sempre la pena di morte. Ancora sotto protezione Mutolo sa però che nessuna protezione potrà fornirgli garanzie se i killer di Cosa nostra decidessero di eliminarlo. Insieme a Tommaso Buscetta, Giuseppe Calderone, Francesco Marino Mannoia e Totuccio Contorno, Gaspare Mutolo ha contribuito a smantellare dalle fondamenta Cosa nostra. L’organizzazione grazie proprio alle dichiarazioni di questi pentiti è allo sbando. Restano ancora degli adepti, ma non hanno la potenza di una volta. C’è ancora in giro qualche capo mafia vero, ma i mammasantissima, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Pietro Aglieri, Mariano Agate, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, sono ormai in galera da molti anni e difficilmente potranno ritornare in libertà. C’è ancora in giro qualche capo mafia, come Matteo Messina * Per una scelta editoriale l’intervista riporta fedelmente le parole e le espressioni di Gaspare Mutolo. 87 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 88 Denaro, ma è troppo solo per rimettere in piedi una organizzazione come Cosa nostra che era la società criminale più forte al mondo. Di Gaspare Mutolo ne avevo sempre sentito parlare. Per i cosiddetti “casi della vita” anch’io, come Gaspare Mutolo vivevo nel quartiere dove dominava la sua “famiglia” mafiosa, quella compresa tra Pallavicino e Partanna Mondello. Lo conoscevo di fama, lui non faceva parte del “giro” di ragazzi che frequentavo io ma che poi erano diventati mafiosi anche loro, come i fratelli Totino e Michele Micalizzi, come Totò Davi e qualche altro con i quali avevo uno strettissimo rapporto. Giocavamo assieme all’oratorio del Villaggio Ruffini, andavamo a ballare assieme, facevamo tante cose assieme. Ma il destino, per me fortunato, per loro molto meno, ha voluto che a un certo punto della nostra vita, le strade si separassero. Io adesso, purtroppo scrivo di loro, ma molti di loro non ci sono più, sono stati ammazzati o finiti in galera a vita. Erano mafiosi e accusati di essere dei killer a disposizione del grande capo Rosario Riccobono. Anche Gaspare Mutolo faceva parte di quel gruppo di fuoco. Ed è quantomeno singolare che proprio quando Gaspare Mutolo decide di parlare, chiedendo di incontrare il giudice Giovanni Falcone e poi Paolo Borsellino, che i due magistrati vengono assassinati. Mutolo era stato il primo pentito che stava svelando gli intrecci tra mafia e politica, tra mafia e apparati deviati dei servizi segreti. Falcone non poteva più interrogarlo perché non era più un pubblico ministero, poiché in quel 88 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 89 momento era diventato direttore degli affari penali al ministero di Grazia e giustizia e indicò a Mutolo di parlare con Paolo Borsellino. E dopo questi incontri, entrambi furono trucidati. FRANCESCO VIVIANO: Signor Gaspare Mutolo, lei è stato un mafioso, un uomo d’onore. È stato anche un assassino, è stato un killer, ha compiuto molti omicidi, tanti omicidi. Ha conosciuto Riina, ha conosciuto Provenzano, ha conosciuto il suo capo, Saro Riccobono, ha conosciuto tanti mafiosi, con alcuni dei quali ha ucciso anche altre persone. Poi quando la sua vita è cambiata ha conosciuto altre persone “diverse”, una di queste era Giovanni Falcone. L’altra, quando lui è morto, Paolo Borsellino. Entrambi assassinati in due agguati, due stragi, in cui sono morti anche poliziotti, gli autisti, la moglie del giudice Falcone, che era pure lei un magistrato, sulle quali c’è sempre stata l’ombra di qualcosa anche estranea a Cosa nostra. Non sarebbe stata soltanto Cosa nostra a compiere queste due stragi. Lo stesso Totò Riina recentemente ha detto pubblicamente: «Perché non cercano dentro casa loro?» intendendo dire: «Li hanno ammazzati anche loro». “Anche loro” vuol dire elementi estranei a Cosa nostra, quindi personaggi, entità, chiamiamole così, diverse dalla mafia che potrebbero essere appartenenti a, chiamiamole per facilità, per comodità, servizi deviati, che hanno avuto un interesse a eliminare questi due personaggi che tanto male alla mafia avevano fatto. Ecco, quando Riina dice: «Li hanno ammazzati loro», quando Riina pubblicamente dice in aula a Firenze ai magistrati che lo interrogano sulle stragi del ’93 in via dei Georgofili: «Perché non 89 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 90 interrogate il senatore Mancino, perché non interrogate il figlio di Vito Ciancimino, Massimo Ciancimino?» Tutto ciò cosa le fa pensare, che vuol dire, c’è qualcosa di strano in queste due stragi? GASPARE MUTOLO: Guardi, io faccio una piccola premessa, cioè io quando ci sono state le stragi ero in galera, quindi non partecipo fortunatamente – diciamo – a queste stragi mafiose che non erano opera soltanto della mafia. Dico non soltanto della mafia, perché io ho avuto la fortuna e la sfortuna, chiamiamola fortuna, perché se non entravo in Cosa nostra sicuramente sarei stato eliminato come tanti altri giovani, malavitosi palermitani, insomma che non erano mafiosi venivano eliminati. Però io ho avuto quella fortuna, diciamo, che sono entrato in Cosa nostra quando si stava ricomponendo l’organizzazione mafiosa reduce da un attacco allo Stato con le Giuliette al tritolo che furono fatte esplodere nel 1963 a Ciaculli dove morirono molti carabinieri. Lo Stato allora reagì ma fece la sciocchezza di mandare questi mafiosi fuori dalla Sicilia ed è stato peggio. Anche i processi furono fatti “fuori” come quello ai centoquattordici mafiosi che fu celebrato a Catanzaro. No, no ma io non parlo soltanto del processo 114, io parlo anche… di altri processi, per esempio il processo ai corleonesi quando ci fu la guerra tra i vecchio capo mafia Michele Navarra e gli altri corleonesi che facevano allora capo a 90 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 91 Luciano Liggio. Purtroppo i giudici non conoscevano la realtà mafiosa perché intorno agli anni Ottanta ancora c’era anche qualche magistrato che metteva in dubbio se la mafia esistesse o meno. Quindi io ho avuto questa “fortuna” dopo il 1973, ho conosciuto, diciamo, personaggi, i più importanti mafiosi palermitani e siciliani e qualcuno anche al di fuori della Sicilia, personaggi che facevano parte di questa organizzazione. Cioè questa organizzazione non era soltanto malavitosa ma c’erano dei personaggi che erano al di fuori del contesto mafioso. Per esempio c’erano contatti con delle persone della P2, c’erano contatti con dei politici ma questi, i politici o gli appartenenti alla P2 non erano “operativi”, non uccidevano le persone, ma erano dei cuscinetti che ai mafiosi interessavano molto. Infatti ci fu un periodo in cui nel Palermitano c’erano associazioni criminali perché c’era un patto, diciamo, tra Cosa nostra e questi personaggi importantissimi… Un patto tra la politica, la P2… Sì, e i mafiosi... E infatti, siamo intorno al ’74’75, diciamo questo patto dura fino a poco prima che i corleonesi invadessero Palermo e la Sicilia, fino a quando non arriva il giudice Chinnici… Rocco Chinnici, il magistrato capo dell’ufficio istruzione che fu ucciso nel 1982 con un’autobomba piazzata sotto la sua abitazione. 91 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 92 Sì, proprio lui, Rocco Chinnici che come altri personaggi della polizia e dei carabinieri che non potevano sopportare questa invadenza, perché allora i mafiosi, diciamo, avevamo una sorta di lasciapassare. Insomma… Eravate i padroni della città... Eravamo i padroni, diciamo, ma i padroni nel vero senso della parola, cioè c’era il rispetto della polizia, dei carabinieri, insomma… le cose cambiano, le cose cambiano perché effettivamente il dottor Chinnici aveva capito che c’era questa connivenza e che non potevano fare così e comincia con un gruppetto di poliziotti e carabinieri a indagare su Cosa nostra e spuntano i primi rapporti di polizia sulla mafia. Cosa nostra lo viene a sapere perché aveva “contatti” dappertutto. Cioè delle “talpe” a servizio della mafia? Sì c’erano delle talpe, allora era normale c’era anche chi “tifava” per la mafia perché la mafia era anche un supporto che teneva a bada, diciamo, anche la città, diciamo, dei delinquenti, dei terroristi, insomma di tutte queste persone che potevano darle fastidio. Quindi si comincia a sapere anche perché, diciamo, Salvatore Riina, sia per fattori che c’erano dei politici che ci interessava, ci interessavano l’edilizia, le costruzioni, perché io, per come ho parlato vent’anni fa conoscevo un 92 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 93 certo Graziano che costruiva… è quello che ha costruito l’albergo Politeama, ha fatto a Mondello, diciamo, tutto quel villaggio dove non si poteva costruire. Io ero in buoni rapporti con lui tanto che dopo che l’hanno arrestato, perché io ho dichiarato che m’aveva dato un appartamento e quindi lo hanno accusato… quindi c’erano questi contatti e questo Graziano lavorava per il segretario provinciale della Dc Michele Reina che è stato poi ucciso. Michele Reina... Sì, Michele Reina. Quindi, allora questi impicci, questi interessi, che vengono fuori ora in modo molto più specifico delle dichiarazioni che fa Massimo Ciancimino, diciamo che c’erano personaggi politici che erano negli appalti, nei grossi appalti, nei grossi affari... Sì, politici e mafiosi... Quindi che cosa succede? Comincia, diciamo, l’invasione da parte dei corleonesi di Salvatore Riina che non rispetta più alcune regole e quindi comincia, di nuovo, loro, a uccidere personaggi, diciamo, magistrati, politici… anche se i contatti con i politici c’erano sempre perché ogni personaggio mafioso aveva il suo politico di riferimento. Anche nella magistratura… 93 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 94 Sì, anche nella magistratura ma anche nella nobiltà palermitana perché la mafia non è soltanto, diciamo, “manovalanza”, per esempio c’era il “Principe” di San Vincenzo che era… Vanni Calvello… ...Vanni Calvello che io ho conosciuto e che come altre persone importanti erano accanto alla mafia, ma non tanto magari perché erano, volevano bene alla mafia, perché la storia, la cultura com’era… … ci dovevano convivere… … ci dovevano convivere. Quindi io mi ricordo perfettamente che nel 1980, quando ci sono i terroristi in Italia, e a Palermo ce n’erano pochissimi, diciamo, in qualche processo importantissimo gli avvocati che hanno un ruolo molto importante anche nel volere, diciamo, liberare, cioè, la città di Palermo dalla mafia mentre ce n’erano altri che erano molto vicini a Cosa nostra. Allora che succedeva? Che molti di questi personaggi… chi conosceva all’ispettore, chi il colonnello, chi il politico, quindi questa convivenza c’è stata sempre e ci sarà fino a quando il governo non dirà basta perché tutto sta al governo, perché fin quando il governo capirà che sia per le votazioni (elezioni, nda), sia per qualche altra cosa, diciamo, ci fa comodo mantenere questi ruoli politici nel governo, la mafia, la camorra, la ’ndrangheta sicuramente non finirà mai. E quindi ritornando 94 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 95 a Palermo all’inizio degli anni Ottanta, c’è questo magistrato, Rocco Chinnici, che vuole cambiare le cose perché ormai la cosa è veramente vergognosa ma uccidono anche lui. Ma con Chinnici, nell’ufficio istruzione di Palermo c’era anche Giovanni Falcone e tutti quei rapporti di polizia e carabinieri su Cosa nostra, li riuniscono tutti e diventa il grande rapporto che porta al primo maxiprocesso alla mafia. Però io mi ricordo che già si vociferava che c’erano mafiosi, ancora prima addirittura di Buscetta, c’era qualche personaggio mafioso parente di Michele Greco che passava qualche notizia ai carabinieri e alla polizia. Ma le talpe ci avvertivano sempre perché l’ingranaggio era talmente oliato che questo connubio tra i mafiosi e i personaggi dello Stato, c’era sempre. C’erano dei personaggi apparentemente puliti perché se lei pensa per esempio gli esattori Ignazio e Nino Salvo che erano i personaggi economicamente più ricchi della Sicilia. Se personaggi politici come Lima, Matta, Di Fresco – qualche persona è ancora viva – che avevano questi stretti contatti con i mafiosi, quindi qualsiasi cosa esce sempre ma non è magari perché si rendevano conto, ma perché il mafioso pulito, diciamo, si informava con questi personaggi e quella persona che non aveva sicuramente nessun problema nel senso che non era mafioso, magistrati e i politici tutti personaggi di fiducia, che parlavano con i mafiosi. Io mi ricordo piccolino, per esempio, sono cresciuto a Villa Caravella, diciamo là c’erano tutti mafiosi, erano tutti personaggi, diciamo, notabili. Che succede? 95 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 96 Che dopo, nel 1983-1984, questo giudice Falcone i mafiosi lo individuano come il personaggio più pericoloso perché si era fatto una cultura su Cosa nostra e metteva paura, perché quando ce ne siamo accorti, allora anche io purtroppo ero mafioso, noi che vedevamo che il dottor Falcone ogni persona che arrestava, o che fermava, lui subito individuava in quale famiglia era, e allora non è che c’erano i computer... Quindi era a conoscenza del sistema… … io non lo so, si era fatto una cultura che, quando ricordo c’è stato il maxiprocesso, che vedevamo, diciamo, quasi trecento detenuti in due sezioni, parlavamo, io per esempio conobbi il fratello di Provenzano, conobbi Luciano Liggio, un certo Rizzuto, Mariano Agate, cioè personaggi… Importantissimi… ... importantissimi della mafia. Cioè quando si parlava di Falcone, si parlava sempre, diciamo, come di un personaggio mistico che era però destinato a morire. Poteva fare male a Cosa nostra… Faceva male, tanto faceva male che, questo mi dispiace dirlo, anche allora c’erano diversi magistrati, diversi giudici che non lo vedevano di buon occhio, perché magari questi avevano delle 96 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 97 amicizie con i mafiosi che magari non si rendevano conto che erano mafiosi, per essere buoni. Lei è troppo buono. No no, io non sono buono, cerco di giustificare un sistema in cui, diciamo, in cui io ho condiviso e ho capito e spero, e spero con tutto il cuore che non ci siano più questi legami perché sarebbe veramente una cosa aberrante per quelli che crescono, però allora si veniva, così, da un mondo, diciamo, diverso. Lo Stato era a Roma e non interessava, la Sicilia, Palermo, eravamo noi, eravamo noi (La mafia, nda) che pensavamo a fare lavorare le persone nell’edilizia, nelle fabbriche mentre noi facevamo i nostri affari, noi facevamo le sigarette, facevamo il contrabbando, le rapine, andavamo al Nord a fare i sequestri di persona. La Sicilia era la Sicilia; Roma, anzi i romani, i milanesi per noi erano fonte di guadagno perché si partiva… … e si facevano i sequestri… … si facevano i sequestri… Quindi, diciamo, questo connubio tra la mafia e le istituzioni c’è stato sempre tranquillo in una maniera molto... Io mi sono trovato, diciamo, nel 1978-1979-1980 nel carcere di Teramo e ho avuto modo di conoscere, diciamo, questo Fabbri dei servizi segreti. L’ho conosciuto tramite un certo Gasperini che era amico del direttore del carcere di Roma, però a questi non ci interessavano i mafiosi, anzi i 97 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 98 mafiosi eravamo persone perbene. Io pensavo che l’amicizia con questo Fabbri fosse una cosa tranquilla, cioè a me interessava e io l’avevo fatto presente ai mafiosi a Palermo che avevo questo amico nei servizi segreti… Ricapitolando: lei aveva un uomo dei servizi segreti che si chiamava Fabbri, che lo contatta e quindi lei comincia ad avere dei rapporti con questo uomo dei servizi segreti. Lei però per proteggersi informa i vertici di Cosa nostra che ha rapporti con i servizi segreti. E i vertici di Cosa nostra, e in questo caso Riina, Riccobono e altri le dicono di coltivare questa amicizia. Di coltivarla sì, ma addirittura, che io l’ho dichiarato e se fanno un censimento la trovano, la mamma di Riccobono, mentre Riccobono è latitante fa una domanda di grazia per il figlio perché ci doveva essere un interessamento di questo Fabbri… … dei servizi segreti. Sì, dei servizi segreti. Dopo la cosa non si fa perché Saro Riccobono viene ucciso e questo Fabbri, non lo so, forse questa mia conoscenza gli è pesata. Fatto sta che quando il giudice Falcone lo interroga, questo Fabbri gli dice che io possedevo un Kalashnikov, un mitra AK-47… Un Kalashnikov… 98 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 99 … un Kalashnikov, e siccome Dalla Chiesa e altre persone erano state uccise con questo fucile, quindi sicuramente il fucile ce l’avevo io, anzi addirittura ci dice che l’avevo io quello che... E invece non era vero... … invece non era vero. C’è sempre stato un interesse da parte dei servizi segreti di servirsi della mafia, di utilizzare la mafia e di cercare contatti con i mafiosi… … con i mafiosi, con i terroristi, con la malavita. Con la malavita in genere. Lei poi, a un certo punto, diceva di Falcone che era un uomo che dava fastidio e che quindi già negli anni Ottanta si era deciso di ammazzarlo. Quando lei incontra Falcone, perché lo fa? Allora io mi trovavo nel carcere di Spoleto, incontro Falcone il 15 dicembre, credo del 1991, prima che, insomma, gli succeda quella disgrazia. Però prima gli avevo mandato un avvocato mio, in via Giulia, per dirgli che volevo parlargli. E il 15 dicembre del 1991 me lo vedo arrivare. Viene con il suo collega che era anche magistrato… … al Ministero di Grazia e giustizia... 99 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 100 … mi viene a trovare, vengono a Spoleto, lui ha l’accortezza di venire quando tutti i detenuti si erano ritirati, quindi non c’erano detenuti. Io ci vado, mi presento con le stampelle, mezzo ammalato, lui in maniera scherzosa mi dice: «Ancora con le stampelle?» e io me le tolgo. Insomma c’era dialogo, un certo feeling fra noi perché mentre io, faccio un passo indietro, mentre io mi trovo a Trapani, durante il maxiprocesso, quindi siamo nel 1986-’87 e sono con Mangano, con Vittorio Mangano ci fu un cognato mio, un certo Enzo, che non è mafioso questo però, siccome avevano arrestato il figlio insieme a me per associazione, per traffico di droga, questo si preoccupò e a un certo punto va dal giudice Falcone e si mette a dire: «Quello è mafioso, quello è mafioso». Qualche mafioso c’era, qualche mafioso non c’era ma comunque, io quando sento questo vado a Trapani, vado all’ufficio matricola e vado a dire che volevo presenziare al processo. Quindi in fretta e furia da Trapani organizzano la scorta per portarmi a Palermo. Lui, il giudice Falcone, diciamo, ha la delicatezza, io almeno ho capito questo, di avvisare gli avvocati. Io ero… e la scorta mi porta nell’ufficio di Giovanni Falcone che già mi conosceva per altri processi per droga, che avevano sequestrato una nave, insomma. Però sempre in una maniera gentile, insomma, anzi, molto cortese, perché non inveiva mai contro le persone che erano fuori dal contesto mafioso, altrimenti doveva arrestarmi con tutta la famiglia, invece lui se la prendeva con me perché capiva… 100 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 101 … che solo lei era mafioso… … che ero io soltanto il mafioso. Vado là, quindi lui mi dice «ma per forza a Palermo dobbiamo andare», perché lui si preoccupava che mi potesse succedere qualche cosa, perché mio cognato, insomma, aveva detto queste cose, allora io c’ho detto: «No, io desidero ritornare in mezzo ai miei compagni perché mio cognato non è mafioso per come non lo sono io e, anzi, la prego di farmi ritornare nella sezione in cui io ero». Perché a Palermo c’era già una sezione, la seconda, in cui c’erano quelli che un pochettino si preoccupavano di essere sotto corrente e se ne andavano un po’ isolati, non era una sezione di isolamento, però, era, diciamo, una sezione, poco guardata. E io dissi: «Mi faccia la cortesia, mi porti nella sezione da dove io sono partito» altrimenti i mafiosi potevano pensare che io avessi collaborato. Abbiamo parlato, diciamo, di quello che avevano detto mio cognato, mio fratello, e altre persone che erano implicate, diciamo, in questo processo e io automaticamente ho negato, ho detto: «Non è vero niente». Ho detto: «Questi non capiscono niente…» quindi io ho avuto anche, diciamo, questi momenti, diciamo, anche se siamo lui di là e io di qua che lui è una persona molto gentile, molto cortese... E soprattutto capisce… … e soprattutto comprende, perché prima di andarmene mi dice: «Deve andare per forza nella 101 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 102 tana del lupo?», e io gli ho detto: «Guardi, io... che non ho fatto niente quindi...» e fu buono perché quando tornai in cella vidi Pippo Calò e altri della Commissione di Cosa nostra e un cugino di Salvatore Riina, vedendomi rientrare nella loro stessa sezione del carcere, dice: «No Gaspare lo stesso fatto che è qua è una garanzia per noi, ora vediamo come rintracciare il cognato». Quindi lei conosce Falcone in questa prima occasione… Io l’avevo conosciuto che mi aveva interrogato quando sequestrarono un carico di droga e mi chiedevo come mai Falcone riusciva a capire che c’ero implicato anch’io. Perché ero stato detenuto nel carcere a Teramo e a Teramo era detenuto anche Fioravanti Palestini, quello che col martello faceva la pubblicità alla Plasmon. E Fioravanti era sulla nave insieme ad altri sette greci che furono tutti arrestati. E Falcone mi dice: «Come mai un abruzzese solo in una nave con sette greci?» Guarda, scopre che io ero stato… … in carcere… È qua la chiave, lui capisce che quel carico di droga era gestito da me attraverso Fioravanti Palestini. Falcone mi dice che la nave era stata sequestrata, e io gli dico: «A me che mi interessa? Io non sono l’armatore». Conoscevo questo lato buono del giudice Falcone. Quindi quando io lo 102 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 103 vado… lui mi viene a trovare e siamo al 15 dicembre del 1991 che già ci sono i mafiosi in subbuglio perché, diciamo, grazie alla notizia che il maxiprocesso non sarà “aggiustato” perché il giudice Carnevale era stato tolto, perché i figli del generale Dalla Chiesa con Falcone si erano impuntati e avevano fatto un macello a Roma. Io mi vedo con Gambino Giacomo Giuseppe che era il capo mandamento nella zona di San Lorenzo Colli e mi dice: «L’ultimo tentativo noi l’abbiamo fatto», riferendosi all’uccisione del giudice Scopelliti che era stato nominato per presiedere il primo maxiprocesso. Quindi decido di parlare con il giudice Giovanni Falcone. Ho pensato che avevo quattro figli, una moglie, avevo una posizione economica, cioè io a Palermo avevo delle società che lavoravano bene, però è vero che ormai la storia dei mafiosi era quella o di finire in galera oppure di finire ammazzato senza sapere il perché. Perché ormai c’era, diciamo, questa presa di posizione di Salvatore Riina con i suoi compagni di distruggere tutto. Quindi a un certo punto io ci vado e la prima cosa che gli dico è: «Guardi, io voglio parlare perché la voglio fare finita con i mafiosi, però non voglio andare in America, io voglio rimanere, non dico in Sicilia, ma in Italia». E lui con molta franchezza mi dice: «Guardi, io sono venuto però non sono più un giudice, faccio un altro lavoro». In quel momento mi sono visto crollare il mondo addosso perché non mi fidavo di nessuno, soltanto di Giovanni Falcone. 103 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 104 In quel momento il giudice Falcone era al Ministero di Grazia e giustizia e non era più un pubblico ministero e quindi non poteva interrogarlo. Però lui, per come dopo si è scoperto, cioè aveva scritto nel suo computer che mi riteneva una persona importante e quindi si era disturbato per sentire… infatti anche se lui mi dice che non poteva fare niente gli dico che nel suo ufficio c’erano personaggi, diciamo, magistrati come Domenico Signorino e qualche altro che erano in contatto con i mafiosi, c’erano personaggi… Quindi già in quel momento, al primo incontro con Falcone gli comunica che dentro al palazzo di Giustizia c’erano dei magistrati che erano in contatto con la mafia e fa il nome del giudice Domenico Signorino… … e del dottor Contrada… … e di Bruno Contrada che allora era il numero uno del Sisde a Palermo. … era la persona più importante che… ma questo non è che lo dico io che dopo rintracciano queste cose nel computer del giudice Falcone, nelle cose che lui scriveva per non… non lo so come… so che queste cose… Quindi accade questo: gli comunica, gli fa questo accenno a questo connubio tra mafia, servizi e magi104 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 105 strati collusi e il giudice Falcone che fa? Interrompe la conversazione… … interrompe no, lui fa opera di persuasione, mi dice: «Gaspare, guarda che abbiamo un ministro, finalmente ho un ministro, Martelli, che si sta adoperando molto, che è molto sensibile a questa lotta alla mafia, che sta facendo tanto. Lo Stato magari fa dieci leggi contro alla mafia, dopo ne fa una a favore dei mafiosi che quindi non è…» … non succede niente. Invece lui era convinto che… … Martelli… … il ministro Martelli era una persona, e l’ha detto senza, dice… guarda, dice… cioè, dice… «Aspettiamo, anche perché abbiamo avuto delle difficoltà con i collaboratori, questo ministro sta facendo in modo che i collaboratori» dice, «siano più cautelati, più protetti, più…» Perché io non è che voglio andare in America. Io in America non ci vado, comunque siamo rimasti che avrei parlato con il giudice Paolo Borsellino. Succede però la “disgrazia” (la strage di Capaci, nda) al giudice Falcone… … sei mesi dopo, a maggio del 1992. Io mi ricordo che mi venne a trovare al carcere 105 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 106 di Pisa il dottor Gianni De Gennaro e mi dice: «Se vuoi continuare», cioè… … a collaborare… … «A collaborare, se non hai ancora cambiato idea». No, io gli ho detto che quando prendo una decisione non è che cambio idea, però devo vedere con chi devo parlare. E credo che gli faccio il primo accenno che volevo il giudice Borsellino… Quindi lei parla con De Gennaro e in quell’occasione gli dice: «Vorrei parlare col giudice Paolo Borsellino». Sì, anche perché il giudice Borsellino l’avevo avuto in diversi processi, contro, e lo ritenevo anche a lui una persona corretta che aveva mandato al confino molti mafiosi, soprattutto quelli che avevano ucciso il capitano dei carabinieri Emanuele Basile intorno all’81-’82, e in carcere con i Madonia, Bagarella, Bonanno, che erano tutti mafiosi, si parlava di Borsellino e già c’era il fruscio che anche il giudice Borsellino era uno… … che dava fastidio… Esatto, che dava fastidio, no no, ma addirittura che… … doveva essere eliminato… 106 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 107 … Se non cambiava doveva essere eliminato. Quindi, a questo punto, la mia attenzione corre su Borsellino. Mi ricordo che con una scusa, poi ci fu un processo che io ho avuto a Livorno, mi viene a trovare di nuovo De Gennaro, con Franco Gratteri (attuale capo della polizia per la sezione criminalità organizzata, nda) e mi dicono di nuovo: «Sei sempre disposto…», «Sì io sono sempre disposto, però dobbiamo vedere, però ovviamente», io ovviamente non è che posso andare cioè… … in mano a… … in mano a chiunque. Lei vuole parlare con il giudice Paolo Borsellino subito dopo la morte di Giovanni Falcone. Sì e infatti il primo luglio, se non sbaglio, mi viene a interrogare. Il primo luglio del ’92, quindi diciotto giorni prima di essere ammazzato nella strage di via D’Amelio. Sì, perché noi abbiamo avuto tre colloqui, l’ultimo il 17, due giorni prima… Il 17 luglio del 1992… … e il 19 luglio succede la disgrazia. Quindi ricordo che stavamo parlando perché per me la cosa più importante qual era? Intanto eliminare, 107 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 108 arrestare in qualche modo il gruppo di fuoco perché se noi guardiamo nel ’91 quasi tutti i mafiosi sono fuori. Torniamo a Borsellino, lei dice che viene per la prima volta? Per la prima volta viene, credo, credo che viene il primo luglio del 1992. Parliamo, io gli spiego che a me non è tanto che interessavano i processi in corso, il problema era che c’era fuori il gruppo di fuoco che faceva quello che faceva… Avevano commesso omicidi, avevano compiuto la strage di Falcone… Sì, e le dico pure sicuramente, sicuramente cioè se non si prendono questi, sicuramente faranno altre stragi. Altre stragi… Faranno delle stragi pure perché ricordo, nel 1973 già si era parlato, per fare attirare l’attenzione dello Stato su altri personaggi – per esempio che allora c’erano i terroristi – i mafiosi si stavano organizzando per mettere delle bombe nelle banche… … fuori della Sicilia. … fuori della Sicilia. 108 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 109 Quindi veniva meno l’attenzione dello Stato sulla mafia in Sicilia, la mafia aveva deciso di fare degli attentati fuori della Sicilia… Sì, fuori della Sicilia. … quindi in Centro Italia e Nord Italia, per distrarre l’attenzione delle forze di polizia… Sì, però noi teniamo sempre presente, diciamo, i mafiosi hanno questi contatti con i personaggi della P2, i politici, quindi nei posti dei tribunali c’è qualche cosa che si sta muovendo e quindi… Quel giorno già avverte il giudice Paolo Borsellino. Sì, sì ci sono dei verbali scritti e la prima volta che incontro il giudice Paolo Borsellino, io gli dico: «Guardi lei vuole combattere la mafia, ma stia attento perché ci sono poliziotti, magistrati, politici sono tutti collusi con la mafia, personaggi di altissimo livello, industriali». Cioè c’è l’economia, cioè la mafia non è soltanto un discorso di criminalità. È anche un fattore politico. Quindi lei già allora dice questo, e Borsellino che faccia ha fatto? E Borsellino ascoltava, rimaneva addirittura meravigliato. E poi mentre parlavamo è successa una cosa incredibile. Il giudice Paolo Borsellino riceve una telefonata dal ministro degli Interni (all’epoca dei fatti il ministro degli Interni era 109 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 110 Nicola Mancino, nda) e mi dice: «Gaspare debbo interrompere perché mi ha chiamato il ministro e debbo andare…» … quale ministro? Eh, non lo so. È il ministro Mancino. Allora c’era Mancino. Allora, che succede? Ritorna e ritorna dopo qualche ora, un’ora e mezza, ma ritorna tutto sconvolto, addirittura, io noto – dopo l’ho dovuto mettere anche a verbale – e lui era talmente arrabbiato, agitato, disgustato che aveva due sigarette, una in mano e una in bocca… E lui un po’ stupito, un po’ addolorato, molto addolorato mi disse: «Io non capisco come mai» dice, «queste persone sanno che io ero qua a interrogare a lei. Ho incontrato con il ministro anche il dottor Contrada che mi ha detto: “Lei dica a Mutolo se gli occorre qualche cosa io sono a disposizione”». Cioè, l’incontro tra lei e Borsellino era assolutamente segretissimo, supersegreto. Borsellino riceve una telefonata dal Ministero. Va al Ministero… … e c’era Contrada, c’era il capo della polizia allora che non vedevo da mesi… … Parisi. 110 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 111 … Il dottor Parisi. Le dice anche di avere incontrato Mancino? Eh sì, lui quando andò via ha detto: «Debbo andare al Ministero a parlare col ministro». Io non mi ricordo se ha detto Mancino o qualche altro. Mi disse esplicitamente che Contrada era lì e gli disse che… «se a Mutolo occorre qualche cosa, io sono a disposizione». Quindi lui mi dichiarava come mai, insomma, che si vedeva che era stupito, stizzito perché logicamente il nostro contatto era blindato, ma già Contrada sapeva che avevo fatto il suo nome … Quando Paolo Borsellino interrompe l’interrogatorio con lei perché viene chiamato dal Ministero, e va al Ministero degli Interni e rientra e le racconta appunto di aver incontrato Contrada e di essere molto arrabbiato… ecco perché era arrabbiato? Quindi quando lei ha fatto i nomi di Andreotti e di Contrada… lui ha preso gli appunti e li ha messi lì? Esatto, qualche cosa, le cose più importanti lui le scriveva in quell’agenda… Sì, ma io, per esempio, stavamo otto ore assieme, nove ore assieme, un’ora si verbalizzava, sette ore noi parlavamo. Ma ce lo dicevo io che a me non interessava tanto, diciamo, verbalizzare, perché c’era tempo per verbalizzare, va bene? Ma a me mi interessava, diciamo, prendere quelle precauzioni che io ritenevo in quel momento molto importanti, molto delicate per come è successo, perché insomma… 111 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 112 Questa Agenda Rossa quindi lei l’ha vista? Sì, ma io… era di dominio pubblico… Tutte le persone che conoscevano la buonanima del giudice Borsellino, insomma… Torniamo ai rapporti tra Contrada e il suo capo, Rosario Riccobono… Lei ha fatto un’accusa a Contrada, per le sue dichiarazioni Contrada è stato condannato anche in secondo grado, anche in Cassazione per mafia. Lei lo ha conosciuto personalmente? Guardi, io l’ho conosciuto, ma da tantissimo tempo, anche perché tra l’altro lui mi aveva notificato dei mandati di cattura, quindi lo conoscevo abbastanza bene. Però c’è questo che, quando io esco dal carcere nel 1981, diciamo trovo una situazione un pochettino anomala, perché le cose dentro gli investigatori e la polizia stavano cambiando in peggio per noi. E Cosa Nostra aveva preso delle decisioni di uccidere alcune persone, anche dei poliziotti. E mi ricordo che in quel periodo avevo pedinato sia il dottor Contrada sia il dottor De Luca, che il commissario Boris Giuliano. … Boris Giuliano? Quel poliziotto era una bravissima persona, l’ho conosciuto anche personalmente. Ripeto, quando io dopo riesco dal carcere nel 1981 e mi trovo a parlare con Riccobono, trovo una cosa un 112 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 113 pochettino anomala, cioè nel senso che il dottor Giuliano era stato ucciso, il dottor De Luca, non so i motivi quali siano stati, se ne era andato dalla Sicilia, altrimenti avrebbe fatto una fine anche più brutta, invece il dottor Contrada era bello tranquillo a Palermo, tanto che mi ricordo che un giorno il Riccobono mi dice: «Gaspare, se per caso ti dovessero fermare tu devi chiedere subito del dottor Contrada» e quindi, stupito da questo fatto, chiesi: «Scusi ma come mai?» E lui mi racconta che erano in buoni rapporti. Il dottor Contrada mi dice che addirittura ci portava delle battute (informazioni, nda) facendo sapere a Riccobono che lo stavano per arrestare. E Riccobono voleva sapere da Contrada chi lo voleva arrestare ma lui non glielo disse: «Non te lo dico – avrebbe detto Contrada a Riccobono – perché se te lo dico è come se ti dicessi: “Vallo ad ammazzare”». Ripeta, perché non ho capito bene. Cioè, qualcuno aveva detto… Allora, cioè, siccome più di una volta Riccobono l’avevano avvisato tramite il dottor Contrada, non so qual era la frase, di andarsene… … perché c’era una retata… Sì, perché c’erano delle retate oppure che dovevano andare completamente a prendere a lui, a un certo punto lui chiama al dottor Contrada e ci dice esplicitamente: «Mi deve dire 113 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 114 chi è che mi vuole fare arrestare», perché lui aveva il sospetto che una persona, che a me l’ha detto però, siccome non ci sono prove, io non l’ho detto mai… E va be’, una persona che voleva arrestarlo, quindi lo può fare il nome. Guardi, lui pensava che era un certo, quello che ha fatto uccidere alla figlia… Ah, il mafioso! Sì, era un mafioso della famiglia, della (…). Sì sì, ho capito chi è… Non mi ricordo in questo momento, Lo Piccolo… No, non era Lo Piccolo… Comunque, e però Contrada c’ha detto: «No, non te lo dico, perché se te lo dico…» Però, sapevo già che lui era in buoni rapporti non soltanto con il Riccobono, ma anche con altre persone. Cioè con chi? Ma guardi, lui dopo s’è sentito dire che era anche in buoni rapporti con Salvatore Riina, con Filippo Marchese, e con altre persone che, insomma, son cose vecchie. Onestamente, io non ho 114 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 115 niente contro il dottor Contrada. Io come ho detto non ho parlato soltanto del dottor Contrada, ho parlato del giudice Signorino, del senatore Andreotti e di qualche politico. E sono sempre convinto che fin quando la mafia ha questi rapporti con questi personaggi importanti, diciamo, sempre a Palermo ci sarà qualche cosa che li legherà e io sono convinto che ancora oggi qualcuno è in contatto con i mafiosi, altrimenti… Qualcuno della politica? Della politica, delle istituzioni… Io penso di sì, forse non si rendono conto, che non è che debbono, capiscono che quello è mafioso. Cioè, penso, io, che mi ricordo, per esempio quando si doveva andare a parlare con il presidente Aiello, non è che si andava a parlare con il presidente Aiello, si andava a parlare con Antonio Mineo, con altre persone che erano amici del giudice. Sì, è logico. Quelli magari ci parlavano, poi (…) che la polizia si era comportata in una maniera errata. Cioè non è che il mafioso affronta i poliziotti… … direttamente. No, è difficile. Cioè, io non ho detto mai che un giudice era corrotto perché veniva pagato. Cioè, un giudice favoriva la mafia perché la mafia ha i tentacoli lunghi che aveva (…). Soltanto il giudice Signorino, e mi dispiace perché se io avessi saputo che avrebbe fatto quella fine, nemmeno l’avrei nominato perché non c’era bisogno. Avrei 115 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 116 preferito che si comporterebbero come Mannino, come altri politici siciliani importanti che dicono: «Non è vero». Dopo dieci anni la Cassazione li butta storti e a me fa piacere perché sono magari persone che non si rendono conto del male che fanno, e quindi il discorso è questo. E Andreotti, invece? Ma guardi, Andreotti, c’erano personaggi completamente… io ora, sono queste persone quasi tutte morte, che mi dispiace parlarne. Andreotti era l’uomo importante che noi politicamente abbiamo incontrato. Era uno dei capifila della Dc, in cui c’era l’onorevole Lima che era… cioè il suo delfino. C’erano i cugini Salvo che erano i personaggi più importanti. E io, mi ricordo, in un’occasione che ci vediamo con Ignazio Salvo al villino del Riccobono, in cui c’è un processo in Cassazione dell’agente Cappiello, questo Ignazio Salvo c’ha detto: «State tranquilli che tutto andrà bene. Io in questi giorni mi debbo vedere a Roma con l’onorevole Andreotti» e quindi è di quello che parlavano. Io non è che posso mettere la mano sul fuoco a dire… Dice che la persona che era in contatto col giudice Carnevale era, insomma, l’onorevole Andreotti. Che tramite questi politici importanti cercavano di favorire a questi personaggi… … di aggiustare i processi. Ma ovvio, perché è tutto là, insomma. 116 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 117 Soltanto, vede, quando c’è stato l’omicidio del capitano Basile, per esempio – riporto un paragone – noi eravamo sicuri che qualche giudice veniva ucciso, perché, diciamo, avevano arrestato a tre delfini, che uno era il compare di Salvatore Riina, Nino Madonia, l’altro era Puccio e l’altro era Armando Bonanno. Noi commentavamo: «Questa è una patata bollente, vediamo chi la deve sbucciare». Infatti i giudici, diciamo quelli un pochettino paurosi, hanno cercato sempre i cavilli o buttando a sorte o con il chiedere perizie. Diciamo il giudice che ha avuto quel coraggio, va bene, che non aveva paura della mafia e che ha condannato a queste persone, guardi hanno ucciso sia a lui che al figlio, insomma. Se non sbaglio era il giudice Saetta. Quindi questo rapporto, io mi ricordo che, per esempio, una volta ci mettevamo a ridere che c’era un certo Mario Martello. Viene preso in una cabina telefonica mentre sta telefonando a uno di Monreale a cui avevano sequestrato il nipote, non mi ricordo in questo momento… … Quartuccio. No Quartuccio, un altro. Madonia, allora si chiamava Madonia pure questo. Credo che fosse il Madonia, però lo zio era un (…), un personaggio importante. Cioè, i carabinieri arrivano mentre questo sta telefonando, però arrivano i militari e lui prende il numero di 117 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 118 telefono che aveva scritto sui fiammiferi, sulla… e lo butta a terra. Esatto. Lo prendono completamente con la cornetta in mano, perché c’era stata la collaborazione di questa persona, che dopo ai parenti di questi l’ammazzano a Bologna, che avevano un’azienda agricola, insomma… Quindi i carabinieri fermano questa persona e non fanno niente? Esatto. Questo se è andato assolto, perché questo era competente, un personaggio della famiglia di San Giuseppe anche se apparteneva, diciamo, come rione, a un’altra borgata, Mario Matteo era della famiglia di San Giuseppe. Signor Mutolo, proprio nei giorni scorsi la commissione che giudica, che concede o non concede, il programma di protezione ha rifiutato la protezione a Spatuzza, a Gaspare Spatuzza. Che ne pensa lei di questa decisione, chiamiamola “politica”? Ma guardi, io penso questo. Io non è che mi posso intromettere su quello che fa la commissione, io posso dare un parere, diciamo, di quello che penso io, di quello che ho vissuto io. Le posso chiedere un giudizio? 118 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 119 Un giudizio, sì. Almeno di quello che ho letto io sui giornali, che tre Procure, Firenze, Caltanissetta e Palermo, è una cosa che sicuramente i giudici della commissione sicuramente cercheranno di rivedere, perché si vede che c’è una legge in cui si dice che i collaboratori debbono parlare entro centottanta giorni, ma si sa, insomma, il collaboratore, diciamo, non viene molestato, non viene minacciato, non viene impaurito quando non tocca politici. Al momento che tocca politici, il discorso… Io delle volte quando, per esempio, ho parlato, io che mi ricordo è che nel mese di agosto – siamo quindi dopo pochissimi mesi – la commissione ha dato il mio programma di protezione. Insomma, io credo il 26, il 27 agosto del 1992 io avevo già il programma di protezione. Quindi il programma di protezione qual è? È l’incoraggiamento, diciamo, la persona effettivamente vede che lo Stato, diciamo, si affida, perché noi almeno… io ora leggendo qualche giornale, e leggo che ci sono persone che a Palermo, diciamo, senza avere commesso reati sono andate dalla polizia e stanno collaborando, diciamo questa è una cosa che fa sperare che Palermo, la Sicilia, veramente bisogna essere incoraggiati, cioè, perché è il primo, noi è il secondo, perché mi ricordo che il primo è stato un certo Ferro… Sì, di Alcamo. Un certo Ferro di Alcamo, quando ha sentito che Milazzo era stato strangolato con la fidanza119 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 120 ta incinta di quattro mesi, c’è venuta la pelle d’oca – era un medico, andò dai carabinieri e disse: «Io mi schifo d’essere mafioso». Io conoscevo al padre, Beppe Ferro, che era un’abilissima persona, un mafioso però uno bravissimo. Questo ha dovuto seguire le orme del figlio, perché (…). Quindi ma già son passati quindici anni, questo incoraggiamento che c’è stato ora con questo Giordano, lo so, può darsi che qualche persona dica: «Ma lo Stato non ci vuole più aiutare» perché effettivamente chi collabora, anche se lo Stato ci aiuta, però abbiamo tanti punti in cui ci rimane una ferita sempre sanguinante, insomma che non possiamo andare in Sicilia, abbiamo tanti parenti che non vediamo più, ci dimentichiamo degli amici, dell’infanzia, di tutti i ricordi. Quindi, lo Stato sì… ci potrebbero essere altre cose per far capire, che magari… non lo so, ma se un collaboratore parla e sa una cosa, perché io ho letto delle dichiarazioni che ha fatto anche Ciancimino… cioè, io sono sicuro che al novantanove per cento quello che dice Ciancimino è vero, ma Spatuzza quale motivo avrebbe di dire una cosa che non è vera? Io credo che anche Spatuzza… anzi si può dimenticare qualche cosa perché un collaboratore… Per esempio io che è vent’anni che collaboro, quasi vent’anni, mi posso dimenticare qualche cosa, è logico. Ma io direi è umano, cioè non è che io posso aver in mente tutto quello che ho fatto, perché se uno fa un reato, dice vabbè uno fa un reato, porta i particolari… ma un uomo che è un mafioso e vive in quel contesto, dicevo, ha da 120 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 121 raccontare un sacco di cose. Quindi io non voglio dare un giudizio, anche perché a me la commissione, lo Stato, i carabinieri, la polizia, i giudici, mi hanno tutti aiutato a inserirmi in questa nuova realtà, però debbo dire questo, che per quanto riguarda Spatuzza io non lo so, la cosa è un pochettino preoccupante. Sono sicuro che però con il tempo si aggiusterà. 121 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 122 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 123 E SPUNTA LA TALPA: «C’ERA UN CERTO TERESI…» Tornando a Contrada e al suo incontro con Borsellino, per sapere degli spostamenti del giudice sicuramente dev’esserci stata una talpa… Qualcuno ci faceva sapere queste cose. Ma lei in quel momento lì, lei aveva già fatto il nome di Contrada a Borsellino? Sì, addirittura io già c’avevo fatto il nome di Contrada, ma altrimenti non c’era motivo di arrabbiarsi, insomma, c’avevo detto del discorso dei giudici della Cassazione, c’avevo detto dei politici che erano in contatto con i mafiosi, cioè c’avevo parlato, ma a me interessava di più fermare il gruppo di fuoco: «Dovete fare arrestare il gruppo di fuoco, perché hanno un gruppo di fuoco agguerrito in grado di farsi l’arsenale che hanno sequestrato in Sicilia, una volta ho letto su una rivista che erano, per esempio, tutti i fucili, le bombe che avevano, i missili potevano respingere un’invasione militare per un giorno, pote- mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 124 vano fare fuoco con chiunque, insomma hanno trovato tante di quelle armi… E quindi io in quell’occasione racconto – non mi ricordo se ce l’ho detto dopo ai vecchi giudici ma sicuramente lo hanno a verbale – che nel 1984 era già pronto un primo attacco della mafia al giudice Giovanni Falcone, lo volevano eliminare a Mondello (località balneare di Palermo, nda) proprio dove c’era il locale La Sirenetta, e quello che portava le battute (che spiava i movimenti di Falcone, nda) era un certo Teresi, che aveva una pizzeria là vicino. Segnalava gli spostamenti. Ma addirittura già i palermitani si erano procurati un lanciamissili chiamato Katiuscia, che ci aveva regalato Santapaola e questo serviva per… fare questo attentato. … uccidere Falcone. Avevano scelto prima il parco della Favorita, perché la Favorita è lunga sette chilometri e volevano fare l’attacco là. Però dopo hanno pensato che siccome la polizia con l’elicottero poteva circondare, per non creare dispersione di uomini aspettavano, ma già… … già era stato programmato. Era già programmato, che io l’ho detto insomma… nei verbali. 124 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 125 In quanto all’ultimo incontro avuto con Borsellino, lei nella sostanza gli ha detto che anche lui era nel mirino, anche lui poteva essere ammazzato. Lui non è che aveva bisogno di ciò che gli dicevo io, lui se lo sentiva, perché io vedevo quando mi ascoltava, quando mi ascoltava con interesse, non è che aveva premura, mentre dopo gli altri giudici, quando è morto, dopo di lui volevano mettere a verbale. Però ho cambiato strategia perché avevo sentito delle intercettazioni, quindi erano più preoccupati di quello che io stavo dicendo. La mia strategia era quella di fare collaborare tutti gli altri personaggi, quindi lui, Borsellino, non è che aveva premura di scrivere, no no, io però quando sapevo che veniva lui già ci andavo con delle cartine scritte, con dei promemoria e gli dicevo: «Questo giudice, questo giudice, questo in Cassazione ci sono così, i poliziotti collusi» insomma, e lui ascoltava meravigliato. Mi ricordo che, una volta mentre stavamo parlando, ci fu la sentenza con la quale era stato assolto Benedetto Santapaola e Mariano Agate e a Giovanni Leone per l’omicidio del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari. Sì, a Mazara del Vallo. Nonostante fossero stati fermati con le armi in pugno. Sì, e io c’ho detto: «Guardi, io sentendo questa sentenza mi alzerei e me ne andrei. Cioè non è possibile». E lui mi ha detto: «Gaspare, dieci anni fa c’erano altre mentalità. Bisogna avere pazien125 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 126 za e fiducia. Con la speranza che di qua a dieci anni le cose cambino ancora meglio…» la collusione che c’era pure di un colonnello dei carabinieri che aveva detto che erano stati a caccia e quindi il guanto di paraffina era positivo per questo. Poi quel giorno ci lasciammo perché mi disse che doveva andare a prendere una sua figlia che era andata in vacanza. Disse: «Ci vediamo domani o dopodomani». Dopo è successo, diciamo, quello che è successo e… Quindi dopo quell’ultimo appuntamento voi vi eravate detti che vi sareste rivisti. No, dopo qualche giorno… Dopo qualche giorno lui invece è saltato in aria… Lei che ha pensato quando hanno ammazzato il giudice Borsellino? Guardi, io ho pensato quello che era giusto pensare, che se lo Stato, se i servizi segreti, se gli apparati dello Stato avevano interesse a non farci succedere niente a Borsellino, certamente non lasciavano una strada che potevano mettere un’automobile imbottita di esplosivo. Se noi abbiamo… se noi abbiamo delle strade in cui chiudono due o tre posti, che riservano il parcheggio agli invalidi, persone tranquille non prendono precauzioni per un magistrato che lottava le cosche mafiose? E non si prende nessuna protezione… 126 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 127 Ma gli si leggeva in viso che lui era molto preoccupato, cioè più mi ascoltava… Cioè era un morto che camminava… … più sentiva le cose che io ci raccontavo e più rimaneva allibito, perché lui aveva fiducia nei suoi compagni, nel suo lavoro… Lei stava dicendo che quando dice a Borsellino: «Se lei vuole sconfiggere la mafia, bisogna eliminare tutte le collusioni, gli intrighi politici, degli imprenditori, degli industriali». E quando lei lo vede l’ultima volta, stava dicendo che lo vede preoccupato. Ma, lo vedo preoccupato. Guardi, lui era preoccupato perché, diciamo, tutti questi intrighi, quando io gli (…) del conte Cassina per esempio – e le dico: un personaggio come il conte Cassina, ha come persona di sua fiducia il sottocapo della “famiglia” di Santa Maria di Gesù, di Stefano Bontate. Quando gli dico: dell’imprenditore Vassallo che gestiva anche la società per la raccolta dell’immondizia a Palermo e che tutti i “capi zona” (sorveglianti dei netturbini, nda) erano tutti mafiosi. Cioè tutti i controllori degli operatori ecologici… Sì, ma quando gli dico della famiglia Costanzo Di Catania che io ero amico di un certo Condorelli… 127 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 128 Di Catania. E l’hanno ucciso perché non mi ha voluto tradire questo, va bene, e gli dico che il Condorelli era una delle persone di fiducia del Cavaliere Costanzo, una delle quattro, delle cinque persone più potenti della Sicilia, cioè lui capiva che c’era qualche cosa che non va, quindi era preoccupato. Secondo me, lui, il dottor Borsellino, capiva che doveva morire, era come un morto che camminava però non ha saputo… Lui pensava che con le parole poteva smuovere gli animi e i cuori delle persone, però lui secondo me doveva reagire diversamente, doveva essere cattivo, siccome lui era un uomo buono, e che è assurdo che nella strada della mamma che faceva ogni quindici giorni, ogni settimana, e vabbè ci fanno fare quella fine che deve fare. Assurdo che… Quindi lei diceva che era un morto che camminava perché capiva che doveva morire? Capiva, lui lo sentiva, lui se lo sentiva che c’era qualche cosa che ci sfuggiva dalle mani, secondo me, perché io che ci parlavo – e ci parlavo sempre di questi personaggi importanti collusi con la mafia… Per esempio? Faccia qualche altro nome oltre a Vassallo, oltre Cassina. Ci parlò dei cugini di Salemi. 128 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 129 Dei cugini Ignazio e Nino Salvo? Altri personaggi di cui qualcuno è morto, dei Semilia costruttori. C’erano quasi tutti i Semilia che pagavano. Semilia? E uno per esempio importante, Ottavio, credo, non ha voluto pagare e l’hanno ucciso. Quindi c’era ormai questo groviglio che effettivamente lo Stato era impotente, ma era impotente secondo me perché non voleva cioè… là per esempio c’era l’onorevole Lima che era amico di Andreotti, Andreotti che era amico dei giudici Carnevale, che a me fa piacere che il giudice Carnevale dopo dieci anni sono stati assolti e se è andata per come l’onorevole Mannino, come… ma io avrei pregato che anche il giudice Domenico Signorino venisse assolto perché poteva dire: «Mutolo è falso, Mutolo non sta dicendo niente» va bene? E non si suicidava, invece quello era secondo me un uomo sensibile, un uomo onesto, per non avere la sfacciataggine di dire «non è vero, è tutto falso» ha fatto quel gesto, che per me è stato un gesto bruttissimo, che è l’unica colpa che mi porto dietro… è questa. È il suicidio del magistrato. È il suicidio del magistrato. Perché ho detto: perché? Cioè io non è che ho fatto solo il nome di Signorino, io ho fatto i nomi anche di un’altra 129 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 130 decina di magistrati collusi con la mafia. Ho fatto anche i nomi dei giudici che si occuparono del processo per l’uccisione del capitano Basile, un processo infinito fatto tante volte perché nessuno voleva decidere, emettere la sentenza perché avevano paura dei Madonia. 130 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 131 IN CELLA CON RIINA Tornando a Riina, lei che rapporti ha avuto con lui? Io a Totò Riina l’ho conosciuto nel lontano 1964-’65, in galera, e siamo entrati subito in simpatia, a me mi affascinava questo personaggio giovane. C’erano tutti quelli, diciamo, più anziani di lui, e facevano a gara per salutarlo, per consigliarlo, ma era il periodo in cui io ero là e conoscevo tanti mafiosi. Con lui ho avuto la fortuna di essere in cella, il brigadiere mi ha messo in cella con lui. Fortuna come mafioso. Eeh, fortuna come mafioso perché onestamente che debbo dire? In un certo senso la sua conoscenza mi ha agevolato perché c’è stato un periodo in cui io avevo fatto delle, diciamo, “marachelle”… diciamo che sono entrato un pochino in contrasto con Riccobono, e io gli detto: «Guarda che io ti debbo portare i saluti di Salvatore Riina, che siamo stati...» Ma Totò Riina 131 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 132 fu quello che portò alla distruzione di Cosa nostra. Quindi Totò Riina è la persona che distrugge la Cosa nostra… Nooo, Totò Riina è la persona che dopo l’omicidio di Michele Cavataio si vuole imporre con forza a Palermo, e s’impone perché diciamo lui ha un debito con il cognato Leoluca Bagarella perché quando uccidono Cavataio muore un fratello di Bagarella. E quindi lui con forza entra a Palermo. Anche se in quel periodo comandavano tre persone, il famoso triumvirato: Bontate, Liggio e Badalamenti. Ma lo scopo dei corleonesi e in particolare quello di Totò Riina era quello di diventare il dittatore di Cosa nostra… Già in quel periodo lui era predestinato, aveva un percorso da fare: quindi voleva eliminare i palermitani che erano stati amici di Cavataio, e Gaetano Badalamenti e Stefano Bontate. Lei chi ha ucciso per conto di Totò Riina? Ma guardi, io per conto di Totò Riina ho ucciso uno che lavorava in via Libertà, che praticamente in quel periodo non è morto. C’ero andato io Riccobono, Gambino Giacomo Giuseppe e Carmelo Pedone. Questo fortunatamente è rimasto vivo, anche con la corda al collo. Questo era uno che… riuscì a vivere perché sopra c’era una finestra di quelle delle guardie notturne che ha 132 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 133 sentito dei lamenti, forse l’hanno visto a terra e l’hanno subito… e si liberò… L’hanno subito salvato. E poi altre persone. Diciamo con Riccobono, per esempio, abbiamo ucciso Joe Imperiale un mafioso importantissimo. Sì, l’americano. Insomma altre persone, ora i nominativi non me li ricordo bene. Io pensavo… ma lei dorme la notte pensando a questi omicidi? Guardi io dormo perché c’è una giustificazione, non è che c’era, almeno per quanto concerneva me, non c’era un interesse personale, io… Lei faceva il soldato… Io per interesse personale ho salvato delle persone, mai mi sono approfittato di quell’autorità che avevo. Non è vero quel che dicono le altre persone che uno che uccide una persona viene ricompensato con dei soldi, ma non è vero niente. Uno fa una cosa, commette un omicidio, uno rischia la galera, rischia la vita perché a volte si rischia anche la vita, questa era una ricompensa a quel pretesto di autorità che il mafioso pretendeva. Perché diceva: «Se io rischio, per uccidere 133 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 134 un uomo, di andare in galera e tu stai qui, comando io quindi chi ha l’esercizio deve pagare, chi fa una cosa me lo deve dire». Però c’era sempre un limite. Lei perché, a un certo punto, decide di abbandonare Cosa nostra e di pentirsi? Decido di abbandonare Cosa nostra, e fortemente ora ne sono più convinto, fortemente ora a distanza di venti anni sono convintissimo che lo dovrebbero fare tante persone per liberare Palermo da Cosa nostra. Primo, io non vedevo più un avvenire per i miei figli. Io avevo quattro figli che stavano crescendo e mi chiedevo: “Che fine faranno? Verranno uccisi o andranno in galera?” per come io avevo passato gli anni più belli, in galera pensavo questo. E poi vedevo che, a parte i giovani che venivano uccisi così, senza motivo, da Cosa nostra, ma quando si sentiva che veniva ucciso un bambino o una donna era una cosa che ci ripugnava. Il fatto stesso che uccidano tre donne perché il fratello, il figlio, il nipote stava collaborando… Parliamo dei parenti di Francesco Marino Mannoia? Sì. Ma non si usava che si faceva un agguato a tre donne inermi che stanno andando a fare la spesa, o stanno andando a dormire, arriva uno e ci scarica dieci fucilate. Quando, io che mi ricordo – e l’ho detto diverse volte e continuerò a 134 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 135 dirlo diverse volte – che quando è stata sequestrata Graziella Mandalà a Monreale e l’hanno liberata a Partanna Mondello, la persona che la sorvegliava era una donna, come regola questa donna bisognava ucciderla subito. Graziella Mandalà è stata liberata, se ne andò a casa sua e poverino il marito dopo è stato arrestato – Giuseppe Quartuccio, che gli contavano sei-sette omicidi – la donna che era moglie di un certo Vittorio Manno che vendeva copertoni, cerchioni… l’hanno fatta andare a casa. Gaetano Badalamenti ha detto: «C’è la regola che chi fa un sequestro deve essere ucciso, però questa è donna. Se c’è qualcuno che si sente di ucciderla, lo può fare». Questa donna non è stata toccata. Quando si è sentito dire che quel ragazzino, a San Lorenzo, è stato sparato, Domino mi pare… Claudio Domino. È una cosa che faceva male. Cioè non si poteva pensare che come dopo hanno detto, che le indagini, dicevano che… Ma lì Cosa nostra, in quell’occasione, prese posizione proprio nell’aula bunker dove era in corso il maxiprocesso: il fratello di Bontate, Giovanni Bontate, si alzò e prese le distanze da questo omicidio. Prese le distanze perché capiva che da subito le indagini portavano verso noi mafiosi. Perché io sono là, perché il padre di questo ragazzo aveva un’agenzia, un’impresa di pulizia all’aula bun135 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 136 ker che non so che cosa ci hanno detto. Prima la mafia chiedeva e bisognava obbedire, non è che uno diceva: «Non lo posso fare perché se no vado in galera». Non lo fai? Ti ammazzo. Perché ancora c’era quella sensibilità, che magari potevano cadere tutti i mafiosi, potevano rimanere male. Ma se noi guardiamo le date, e siamo dopo il 1986-’87 ci sono tanti omicidi di bambini che sono in braccio al padre, in braccio alla madre, nella macchina, uccidono padre madre, figlio… E lei non si riconosce più in queste cose? No. Parlando del sequestro di Graziella Mandalà, ma lei ha partecipato anche a un progetto di sequestro? Io ho fatto due sequestri, a Milano. E quelli che leggeranno questa mia intervista si ricorderanno di me perché quando li custodivo e li guardavo mi dicevano: «Lei è il buono». Io non so perché mi dicessero così, però io mi ci sedevo accanto, li rassicuravo, li tranquillizzavo. L’unico problema era che gli dicevo di non farmi fare qualche fesseria, cioè «non cercate di scappare, non gridate…» Chi erano questi due? Uno era un industriale di Lodi, e l’altro un concessionario della Mercedes di Milano. Dopo dovevamo effettuare un terzo sequestro di per136 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 137 sona, quello che aveva costruito Milano 2, che stava costruendo Milano 2… che dopo capisco che era il nostro attuale presidente, Silvio Berlusconi: eravamo là tutti pronti per sequestrare questa persona ma dopo, inaspettatamente, c’è stato l’ordine di ritirarci, di ritornare a Palermo. Voi eravate tutti lì, già a Milano. Noi eravamo tutti là, avevamo gli appartamenti pronti. Eravamo pronti a prenderlo. Poi arriva l’ordine e siamo scesi giù a Palermo e non se ne parlò più. Poi negli anni a venire avevamo capito che dopo Vittorio Mangano che era della famiglia di Pippo Calò, fu assunto da Berlusconi come guardiano… Lo stalliere. Ma tornando a quei tempi a Totò Riina penso che il signor Riina Salvatore ha fatto morire in carcere il suo capo, Luciano Liggio, perché non si era dimenticato che nel 1974 Liggio aveva detto di non dire più niente a Riina di rivolgersi a Provenzano. Questo Riina non gliel’ha mai perdonato. Io, quando ho fatto la mia scelta, non mi è interessato niente. Ho detto tutto quello che sapevo e la mia strategia era quella non di stare fuori, di uscire, ma di convincerli e capire. Noi mafiosi, purtroppo, siamo tutti “buoni”, perché siamo delle persone umane, ma siamo tutti degli assas137 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 138 sini che abbiamo fatto del male, ed è giusto che si debba pagare per liberare questa terra da questo male, per amare le mogli, i figli, la mamma, la sorella non c’è bisogno di essere mafiosi. Ci sono altri valori che ho scoperto grazie allo Stato, con la mia collaborazione. E sono sicuro che, con l’andare del tempo, le mogli, le donne, le mamme di questi mafiosi che ancora ci sono, le scelte sono due: o muoiono, o vanno in galera. Quindi se vogliono vivere questa vita, che ne abbiamo solo una, non due-tre, dobbiamo comportarci come è giusto comportarsi, come dice lo Stato. Se lo Stato vuole sconfiggere la mafia, non c’è bisogno che gareggi contro. Chi collabora con la mafia deve seguire le stesse rotte del mafioso. Quindi il politico, se ci sono delle prove che è colluso col mafioso, deve subire la stessa sorte del mafioso. Gli devono sequestrare i beni, lo devono togliere da dove comanda. Quando ero mafioso mi arrestavano per un omicidio sapevo che dopo diciotto mesi ero fuori. Seguivo il processo, mi prendevo un avvocato, il miglior avvocato. Quindi se rimane questa mentalità che dici: “Vabbè, io sono mafioso anche se mi arrestano…” ma ora le leggi sono cambiate. Ora un mafioso non prende più diciotto mesi… lo Stato ora ha i mezzi per combatterli. Quindi io rinnovo questa preghiera ai palermitani e agli altri che sono sempre in tempo per potersi godere le proprie famiglie. 138 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 139 «BRONZINI E I QUADRI DI LIGGIO FATTI DA NOI» Lei in carcere ha avuto anche un cambiamento, al di là del fatto che lei aveva deciso di collaborare, però prima di collaborare, diciamo, una “collaborazione con la vita” lei la ha avuta con la pittura. Lei in carcere ha imparato a dipingere, era insieme a un altro killer che si chiama Alessandro Bronzini, che dipingeva anche lui. Tutti e due siete stati in cella insieme a Luciano Liggio. Si dice che Luciano Liggio avesse fatto dei quadri. Lei invece sostiene il contrario. Qual è la verità? Allora, io di questo Bronzini Alessandro c’ho dei quadri, ma perché io lo conoscevo non dalla galera, di fuori, e lo conoscevo, dicevo, come un pittore e come, diciamo, un giovane – sa, ci sono quei giovani innamorati dei mafiosi; lui, basta perché è morto (…) soltanto lui non è mafioso, perché il padre era un poliziotto, non so… (…) un maresciallo. Altrimenti lui sarebbe stato, diciamo, un mafioso al livello di Scarpuzzedda, perché anche Scarpuzzedda – che è morto – era un killer spietato, ma era un mafioso di quelli… 139 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 140 cioè ci sono persone che nascono con quella malattia, per come l’avevo io, e dopo io mi sono curato. Quindi il Bronzini era uno innamorato di Cosa nostra. Dopo, quando c’è stato il maxiprocesso, che hanno riunito diversi processi, io (…) che lui era imputato pure con un certo Zanga, perché ci imputavano degli omicidi, insomma, a Milano… e quindi subito l’ho riconosciuto, perché ero là e abbiamo parlato di… che addirittura è nato il progetto, che io ci dico al nipote di Luciano Liggio: «Ma perché lui non impara a dipingere…» e così noi organizziamo una stanza sociale per dipingere. E dipingevamo io, il Bronzini e Liggio sulla carta. Però Liggio mai aveva comprato un pennello, mai un colore, mai una tela. C’era questo progetto che anche al direttore Varano c’è piaciuto, quindi abbiamo fatto, diciamo, quest’istanza, il Ministero ce lo consente. Però dopo succede che l’avvocato di Luciano Liggio… L’avvocato Traina? L’avvocato Traina – che lo conosco benissimo, per come lui conosce me – appena ha sentito che ci poteva essere odore dei soldi, ci prende una scusa e ci dice: «No, non la facete la mostra assieme». Ma il discorso qual era? Che già appena Liggio faceva finta di dipingere qualche cosa, che Liggio insomma aveva un’età e non aveva toccato mai un pennello, soltanto si è fatto quello per fare la mostra, per guadagnare un po’ di soldi, e Liggio per avere qualche beneficio. Però all’ulti140 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 141 mo momento c’erano già alcuni mafiosi come Mariano Agate, per esempio, che ci dice: «(…) voglio un quadro». E lui a noi dice: «Guarda che i miei quadri minimo costeranno dieci milioni l’uno». E lui: «E a me che m’interessa?» Quindi erano tutte persone che i soldi ce li avevano. Quindi così, all’ultimo momento, a malincuore Liggio ci ha detto: «Guardate ragazzi, non la possiamo fare, perché (…)». Non la potete fare assieme, la fa soltanto lui. La fa soltanto lui. Quindi noi allora ci mettiamo d’accordo, io e Bronzini: «Non facciamoci più quadri». Siccome Luciano Liggio era una persona molto (…), questo lo capì e quando ha fatto la mostra e ha venduto i quadri, li ha venduti con una carta scritta che, quando lui doveva fare qualche mostra, poteva richiedere i quadri, perché ha fatto come procuratore, diciamo, a questo avvocato con l’obbligo, se lei si comprava un quadro, e lui tra un anno doveva farne una mostra, le diceva: «Dammi il quadro», perché lui non era in grado di insomma… ma logicamente abbiamo fatto i quadri io e Bronzini. Quindi Luciano Liggio non ha mai fatto un quadro. I quadri di Liggio erano i vostri. Erano sia miei che di Bronzini. Ma Alessandro Bronzini, ripeto, allora lui era il vero maestro. Anche se erano tanti anni che dipingevo e in galera io ho venduto tantissimi quadri. Insomma 141 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 142 io vendevo, perché c’erano altri mafiosi che mi davano trecentomila, quattrocentomila… allora insomma ogni quadro era… ma Luciano Liggio non è che aveva questa possibilità. O Bronzini se faceva un quadro, o lo usciva, perché lui faceva le mostre che era un pittore buono. Quindi però non è che mi potessi paragonare a Bronzini, perché Bronzini… onestamente io quando non sapevo cos’erano i colori o i pennelli, lui già era un pittore. Insomma, io attualmente ho qualche quadro di Bronzini ancora in cui ci sono, insomma, delle nature morte, persone con delle spade, insomma… ce ne ho due-tre insomma… 142 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 143 LA TESTIMONIANZA DEL GIUDICE TESCAROLI «ERA GIÀ TUTTO SCRITTO» Era già «tutto scritto». Lo sa bene Luca Tescaroli, oggi sostituto procuratore a Roma, che andò via dalla Procura di Caltanissetta nove anni fa sentendosi delegittimato e amareggiato dalle indiscrezioni venute fuori dal suo ufficio. Indiscrezioni che avevano rivelato il suo rifiuto a firmare la richiesta di archiviazione per Berlusconi e Dell’Utri nell’indagine sui mandanti esterni delle stragi. E oggi, ascoltando illustri colleghi, da Piero Grasso a Pierluigi Vigna, affermare che non fu solo Cosa nostra a gestire la campagna stragista del ’92’93, Tescaroli dice: È da lì che bisogna ripartire, da quella richiesta di archiviazione, punto di arrivo dei processi sugli esecutori materiali e punto di partenza per nuove indagini. Voglio precisarlo oggi: anch’io redassi una richiesta d’archiviazione che non fu condivisa dai vertici dell’ufficio, che al gip ne presentarono un’altra ben diversa che mi rifiutai di firmare. A me dissero che non bisognava lasciare un marchio infamante sul nome degli indagati che furono poi 143 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 144 avvertiti della richiesta d’archiviazione ancor prima del suo deposito. Che la finalità della stagione delle bombe fosse «un progetto di aggressione allo Stato per incidere sugli assetti di potere e creare le premesse per l’affermazione di una nuova aggregazione politica» stava scritto in quegli atti firmati da Luca Tescaroli già nel 2001. Dice il magistrato: Ma allora fui lasciato solo e sovraesposto, oggi c’è un positivo ritorno di attenzione che dà voce a una sete di giustizia e una seria determinazione negli uffici giudiziari a dare un nome e un volto a quegli uomini deviati delle istituzioni grazie anche alle indicazioni che arrivano da nuovi collaboratori e testimoni. Il collasso investigativo degli ultimi anni è dovuto anche al fatto che non ci sono state più collaborazioni di alto livello, probabilmente anche a causa della nuova legge sui pentiti che ha di fatto rallentato le collaborazioni. La chiave di lettura per riprendere il filo interrotto allora, secondo Tescaroli, è una sola: una lettura unitaria di una stagione cominciata con l’attentato all’Addaura e finita con quello allo stadio Olimpico mai messo in atto. «A due domande bisogna rispondere su tutte: perché l’accelerazione della strage di via D’Amelio? E poi, c’è una relazione tra la cessazione improvvisa dello stragismo e l’entrata in campo della nuova formazione politica?» Domande da riproporre a Luca Tescaroli in una nuova luce dopo che le recentissime dichia144 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 145 razioni del pentito Gaspare Spatuzza e i primi riscontri ordinati dall’autorità giudiziaria sembrano accreditare l’ipotesi del depistaggio di Stato. FRANCESCO VIVIANO: Lei ha condotto le indagini sulle stragi, su Falcone, sull’Addaura, su via D’Amelio. Che idea si è fatto a distanza di tanto tempo, alla luce di quello che sta venendo fuori adesso? LUCA TESCAROLI: Be’, posso dire questo innanzitutto: che l’atteggiamento di Riina non è in linea con il comportamento dell’“uomo d’onore” che riveste un ruolo in seno all’organizzazione Cosa nostra. Riina decide di parlare e di prendere le distanze, in modo assolutamente non credibile rispetto alle sue responsabilità, però parlando lancia dei messaggi e fa chiaramente riferimento a un coinvolgimento di altre persone nell’organizzazione delle stragi commesse nel biennio ’92-’93. E richiama indicazioni che sono già emerse nel processo e che hanno indotto a ipotizzare, a intravedere che, unitamente alla partecipazione di Cosa nostra a queste stragi, ci sia stata una convergenza d’interessi da parte di altre persone, appartenenti ad ambiti diversi da quelli di Cosa nostra. Possiamo definirle organizzazioni istituzionali o paraistituzionali… Istituzionali o paraistituzionali o soggetti appartenenti al mondo politico, imprenditoriale 145 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 146 e finanziario. Nel corso dei processi sono emerse le indicazioni citate da Riina, così in particolare le indicazioni di uno, due, collaboratori di giustizia. Il primo Francesco Di Carlo, il quale ha riferito che nel corso del 1990, quindi dopo il fallito attentato dell’Addaura ma prima della strage di Capaci, ha avuto un colloquio nel carcere dove era detenuto con un tale Mizar, personaggio ritenuto in contatto con i servizi segreti siriani, che avrebbero partecipato anche a un attentato terrorista. Un soggetto che insieme ad altri esponenti dei servizi segreti gli avrebbe chiesto un aiuto per eseguire un attentato ai danni di Giovanni Falcone. E, racconta Di Carlo, davanti a questa sollecitazione, nutrendo lui dei rancori verso Falcone, indicò la persona di Antonino Gioè. Che poi effettivamente risultò aver cooperato per l’esecuzione della strage di Capaci, e che morì suicida il 29 luglio del 1993 nel carcere di Rebibbia a Roma, in circostanze non del tutto chiare, lasciando peraltro una lettera-testamento nella quale faceva dei riferimenti ai servizi segreti. Altro collaboratore di giustizia è Gaspare Mutolo, che manifestò il proposito di collaborare con Giovanni Falcone, quando Giovanni Falcone aveva lasciato il bunker di Palermo dove aveva lavorato per il suo processo. Proposito che Giovanni Falcone veicola poi al suo amico, Paolo Borsellino, che interrogò Mutolo fino a due giorni prima di morire. Queste sono delle circostanze, sono indizi, elementi che inducono a pensare che anche in ambienti diversi da Cosa nostra ci fossero interessi per portare avanti la campagna 146 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 147 stragista. Aggiungo anche un altro elemento di carattere obiettivo: nel corso del sopralluogo effettuato subito dopo la strage di Capaci, venne trovato un bigliettino, nell’area prossima al cratere, con su riportato un nome di una società riconducibile al Sisde e un numero di telefono in uso a un funzionario del Sisde. Dato che in qualche modo si ricollega all’attentato di via Fauro nel maggio del ’93. Anche questo induce a riflettere e consente di ipotizzare che ci siano state partecipazioni esterne a Cosa nostra in questa stagione stragista. Ed è un’ipotesi di lavoro che è stata percorsa durante le investigazioni e che avrebbe dovuto essere approfondita. Era un settore sul quale stavo lavorando: se fossi rimasto a Caltanissetta quella è certamente una delle piste che avrei approfondito. E perché non è stato fatto? Io devo fare una riflessione, questa. Sono stati ottenuti risultati straordinari in riferimento alle stragi commesse nel ’92-’93, un impegno significativo che si è registrato in maniera coesa subito dopo gli attentati e che ha consentito di individuare i responsabili appartenenti agli organi di comando di Cosa nostra, commissione regionale e commissione provinciale di Cosa nostra, sia per la strage di Capaci che per quella di via D’Amelio. E sono stati raggiunti risultati analoghi anche per altre stragi. È un traguardo molto importante, soprattutto se si pensa che, nel nostro Paese, le stragi e i delitti eccellenti rimangono avvolti dal 147 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 148 mistero e non si scoprono i responsabili, non hanno un volto. E per poter consolidare i risultati si è dovuto attendere a lungo. Faccio un riferimento alla strage di Capaci, sono stati condannati trentasette appartenenti a Cosa nostra e il consolidamento di questi risultati, vale a dire la sentenza definitiva della Corte di Cassazione, è arrivata solo il 18 novembre 2008. Sono stati necessari sedici anni per arrivare a una sentenza definitiva per la strage di Capaci. Per l’attentato all’Addaura sono stati necessari diciotto anni perché per la sentenza che ha consolidato le ultime due pronunce di condanna sono sette i soggetti responsabili, sei per la strage e uno per aver fornito l’esplosivo. Si è dovuti arrivare al 2007. Superando, con riferimento all’Addaura, problemi di non poco conto, perché non era riconosciuto neanche che fosse un attentato, si riteneva che si fosse trattato di una minaccia, sebbene la cosa appaia assurda, minacciare Falcone quando già da tantissimi anni aveva ricevuto minacce, non aveva senso. Però c’era ancora chi lo credeva. In dibattimento ho ascoltato uomini, autorevoli esponenti delle istituzioni che hanno manifestato questa convinzione. E perché alcuni membri delle istituzioni, al processo, interrogati, sostenevano che si trattava di una semplice minaccia e non di un vero attentato? Lei ha fatto sorgere dei dubbi e soprattutto adesso, con tutto quello che sta emergendo sul coinvolgimento di personaggi, chiamiamoli “strani”, appartenenti ai cosiddetti servizi privati. Tutto ciò non può avere un collegamento? 148 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 149 Ma questo atteggiamento inevitabilmente alimenta il sospetto che non fosse casuale questa tesi ma che fosse invece funzionale ad allontanare i sospetti su determinati ambienti: però da magistrato ho l’obbligo di precisare che per affermare con certezza una responsabilità, una tesi, ci vogliono prove inconfutabili. È ovvio che come cittadino questi dati non possono non sorprendere e non fare riflettere. Il punto è sempre questo: perché determinati atteggiamenti sono stati mantenuti? E poi perché, addirittura, in quel periodo del tutto particolare e unico, credo, nella storia del contrasto a Cosa nostra, sono state divulgate lettere anonime infamanti che accusavano Falcone e altri appartenenti alle istituzioni, quelli che erano più impegnati sul fronte antimafia? Venivano accusati di utilizzare i collaboratori di giustizia e il pentito Totuccio Contorno in particolare per scopi non istituzionali, per dare la caccia ai Corleonesi, per individuarli. Perché Falcone è stato accusato di essersi organizzato da solo, addirittura, l’attentato all’Addaura? Sono singolari queste vicende, e devono far riflettere. Certamente la provenienza di quelle lettere è istituzionale, i contenuti di quegli anonimi devono essere oggetto di riflessione. Erano dodici pagine, fitte fitte che contenevano indicazioni e previsioni di quello che sarebbe accaduto… Quello fu solo l’assaggio di ciò che sarebbe accaduto in seguito? Non solo, ma anche in epoca precedente alla 149 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 150 strage di Capaci venne diffuso un anonimo che conteneva delle previsioni che in larga misura si sarebbero poi avverate. E quel che è certo che accadde nel biennio ’92-’93 è un qualcosa che nel passato Cosa nostra non aveva mai posto in essere, aveva sempre compiuto delle attività selettive nei confronti di obiettivi mirati. Invece negli anni Novanta c’è stato un attacco frontale nei confronti dello Stato. Un attacco frontale al quale non potevano non ricollegarsi delle conseguenze gravissime. I vertici di Cosa nostra uccidono Falcone con una strage eclatante, con un’azione che non ha avuto precedenti. Un fatto di questo tipo, e dopo poco più di cinquanta giorni e nella stessa città, una strage dello stesso tipo, non era mai accaduto! E quindi, i vertici di Cosa nostra, non potevano non mettere in conto che ci sarebbero state delle conseguenze, come ci furono. Ricordiamo infatti che il giorno stesso in cui avviene la strage di Capaci, trecento boss vengono mandati nelle carceri dell’Asinara e di Pianosa, viene varato il 41 bis, quindi conseguenze pesanti per Cosa nostra. Ma, evidentemente, avevano ricevuto delle assicurazioni. Nel senso che quelle conseguenze che dovevano essere ampiamente previste potevano in qualche misura essere neutralizzate. Poi, ancora, quella strategia che venne concepita fu una strategia terroristico-eversiva elaborata sul finire del ’91. Cosa accadde in quel preciso momento storico? Sul finire del ’91 viene pianificato un progetto 150 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 151 criminale terroristico-eversivo che trae spunto dalla televisione. Il maxiprocesso aveva avuto un esito infausto per Cosa nostra e quindi decidono, i vertici dell’organizzazione, di eliminare gli acerrimi nemici e gli amici che avevano tradito e che avevano dimostrato di non riuscire a far fronte alle aspettative che Cosa nostra nutriva dai tradizionali referenti. Per questo vengono uccisi Falcone e Borsellino acerrimi nemici, e vengono assassinati Ignazio Salvo e Salvatore Lima. Si progetta di eliminare anche Claudio Martelli, si progetta di uccidere l’onorevole Calogero Mannino, vengono colpiti, sempre nel ’92, alcuni obiettivi simbolo, rappresentanti della democrazia locale in Sicilia. Che erano, fino a quel momento, i tradizionali referenti di Cosa nostra? Esatto, la decisione presa dopo il maxiprocesso era quella di recidere i rapporti con i tradizionali referenti. Questa strategia viene attuata con la prospettiva di creare le premesse per consentire che nuove forze politiche possano subentrare ai tradizionali referenti. Contemporaneamente a queste attività stragiste vengono avviate delle trattative con esponenti delle istituzioni. Perché è stato accertato che mentre lo Stato era impegnato a contrastare Cosa nostra, altri esponenti dello stesso Stato avevano iniziato a trattare con la mafia. Dando vita a una situazione apparentemente contraddittoria. Da qui la prosecuzione del progetto criminale che si estende fino a colpi151 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 152 re degli obiettivi inusuali per Cosa nostra, e mi riferisco al patrimonio storico-artistico e monumentale della nazione, un progetto che affiora fin dal 1992, e che viene partorito proprio dalla mente di due mafiosi del calibro di Antonino Gioè e Giovanni Brusca. Ma è un altro personaggio, Paolo Bellini, che dice: «Pensate che succederebbe se il giorno dopo il Paese si svegliasse e la torre di Pisa crollasse». Bisogna dire però chi era questo Bellini. Bellini è un personaggio un po’ particolare che asserisce di essere venuto in Sicilia con lo scopo di riscuotere dei crediti per conto di una società. In realtà è un uomo dei servizi. A cavallo fra criminalità e servizi segreti. … che porta avanti un’attività finalizzata a recuperare delle opere d’arte trafugate. Bellini intavola una trattativa con Cosa nostra e i vertici dell’organizzazione per far fronte a quest’aspettativa di recuperare delle opere provenienti dai furti e in cambio chiede dei benefici carcerari per i boss. Alcuni si trovavano in carcere, e chiede per loro o gli arresti domiciliari o quelli ospedalieri. Questa trattativa viene portata avanti e l’idea che nasce di colpire il patrimonio artistico, a quanto ci dicono i collaboratori di giustizia, è stata elaborata in questo momento storico. Ma partoriscono anche altre strategie senza precedenti per Cosa nostra: pensano di disseminare 152 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 153 alcune spiagge molto frequentate con siringhe infette, pensano di avvelenare delle merendine vendute nei supermercati… ma il primo atto concreto risale all’autunno del 1992, quando viene collocata una bomba nel giardino Pitti a Firenze. In quell’occasione ci fu anche una rivendicazione da parte di un esponente dell’organizzazione. L’idea di colpire il patrimonio storico della nazione si concretizza, si perfeziona, l’anno seguente, dopo una riunione tecnico-operativa nell’aprile del 1993. In quel momento si decide di passare all’azione vera e propria. Dopo aver tentato di colpire Maurizio Costanzo, il 27 maggio ’93 si assiste alla strage di via dei Georgofili, a Firenze, e la notte tra il 27 e il 28 luglio del ’93 vengono compiuti due attentati ai danni di due chiese simbolo della cristianità a Roma e viene colpito il Padiglione di arte contemporanea a Milano. Viene colpito un qualcosa che non ha nulla a che fare, almeno apparentemente, con Cosa nostra. Allora per quale motivo si colpiscono quegli obiettivi? Ci sono molte domande che attendono ancora risposte. Ma proprio in quel momento in cui Cosa nostra cambia strategia e fa attacchi diretti ed eclatanti allo Stato, distruggendo monumenti, beni artistici, chiese, mietendo vittime innocenti in tutto il Paese, contemporaneamente ci sarebbe stata un’altra, ulteriore trattativa alla ricerca di nuovi referenti politici, che avrebbero avuto un qualche ruolo come mandanti esterni delle stragi. Fu proprio lei, quando lavorava a Caltanissetta, a indagare “Alfa” e “Beta”. Che altri 153 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 154 non erano se non Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Poi scagionati e archiviati, in maniera un po’ polemica… Per il magistrato rimane comunque l’obbligo del segreto ma di quello che è emerso dai processi si può e si deve parlare perché rappresenta un punto di arrivo per l’accertamento della verità ma anche un momento di partenza per ulteriori verifiche. Ci fu un’ulteriore trattativa che inizia in un momento molto particolare della stagione stragista: tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. Questo è molto significativo e deve far riflettere per varie ragioni. Proprio in quel periodo i vertici dell’organizzazione decidono di accantonare i progetti d’omicidio già deliberati, ad esempio quello dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino, un progetto a cui avevano già cominciato a lavorare. E viene invece accelerata l’esecuzione di una strage già decisa volta a colpire Borsellino. Allora il punto è: perché ci fu questa accelerazione? Come mai si decide di accantonare il progetto di colpire Mannino? E c’è un legame tra la nascita di questa trattativa, l’uccisione di Borsellino e in particolare questa accelerazione? Qualche indicazione nel tempo è stata data. Giovanni Brusca ha detto che l’uccisione di Borsellino fu accelerata proprio perché lui aveva saputo della trattativa, e si sarebbe opposto. E nei mesi scorsi, la vedova, la signora Agnese, ha dichiarato ai pm di Caltanissetta che il marito, alcuni giorni prima di 154 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 155 essere ammazzato, aveva incontrato un ufficiale dei carabinieri, un generale e le avrebbe detto: «Ho visto la mafia in faccia». È un punto che resta ancora oscuro, sono indizi che devono porre degli interrogativi. Certamente, se Paolo Borsellino fosse venuto a conoscenza dell’esistenza della trattativa, con la quale i vertici dell’organizzazione miravano a ottenere, in cambio della cessazione delle stragi, una politica legislativa favorevole, certamente se Borsellino fosse venuto a conoscenza di un’iniziativa di questo tipo, anche solo di una sorta di avvio di un rapporto con i mafiosi, ovviamente si sarebbe opposto a questa attività e la sua eliminazione avrebbe potuto rispondere all’esigenza di togliere un ostacolo a questa trattativa. Però è solo un’ipotesi. Ma c’è anche un altro dato importante che suscita altri interrogativi. La trattativa, sulla base di quanto è emerso dai processi, comunque viene portata avanti nel 1993, dopo che c’è stato l’arresto di Salvatore Riina con tutte le anomalie che lo hanno caratterizzato, e mi riferisco alla mancata perquisizione della casa dove abitava con la famiglia. Dopo questo passaggio accade che viene pianificato, secondo più voci provenienti dall’interno di Cosa nostra, l’attentato che avrebbe dovuto essere il più devastante di quella stagione stragista, cioè l’attentato allo Stadio Olimpico di Roma, con l’obiettivo di colpire più persone possibili. Quell’attentato non riuscì, fortunatamente, perché il telecomando non funzionò. Ma quello che è anomalo e che 155 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 156 deve far riflettere è questo: per quale motivo quell’attentato che poteva essere replicato non venne più eseguito? Certamente non perché Cosa nostra non avesse le risorse, aveva certamente la capacità di compiere un delitto di quel tipo. Ma improvvisamente c’è una cessazione della campagna stragista, e avviene proprio quando muta lo scenario politico e istituzionale che è stato colpito da una duplice azione: da un lato da Cosa nostra con le stragi, e dall’altro dalle indagini di Tangentopoli. Quindi una classe politica viene azzerata e quando viene generato un nuovo assetto di potere, nuove forze subentrano, le stragi cessano. Questo è un dato oggettivo. Quindi bisognerebbe capire se e quale rapporto sia sussistito tra la trattativa, il nuovo assetto di potere e lo stop della campagna stragista. Si tratta di quesiti irrisolti ma importanti per conoscere la storia della nostra democrazia, in un passaggio estremamente complicato. Per tornare al tema originario dell’esistenza di depistaggi, e di molte anomalie nella campagna stragista, questi sono momenti importanti che richiederebbero, oltre all’impegno dei magistrati e degli investigatori, che stanno lavorando su tutto, anche una rinnovata sensibilità da parte della società civile, che ha il diritto di conoscere cos’è avvenuto e le responsabilità che hanno ruotato attorno a questo disegno criminale che ha caratterizzato il nostro Paese. Torniamo a Totò Riina: il boss manda sicuramente dei messaggi, non nega spudoratamente di aver parte156 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 157 cipato alle stragi, ma nega le sue responsabilità per gli attentati del ’93 e chiama in causa i politici, i servizi, Ciancimino e recentemente ha detto: «Cercate a casa vostra» cioè all’interno dello Stato per poi concludere: «Io sono una vittima della trattativa». Sono delle dichiarazioni che vanno lette e interpretate con attenzione. Certamente Riina è stata una vittima della trattativa perché lui è stato catturato proprio durante la trattativa stessa. Quindi ha ragione quando dice questo. Probabilmente si duole del fatto che altri abbiano ottenuto dei benefici. E in questa prospettiva possono essere lette le sue esternazioni, che sembrano contenere delle minacce comprensibili chiaramente ai destinatari. È un modo di porsi in linea con la società siciliana, con la filosofia corleonese… Poi c’è un’altra vicenda che sta emergendo, appunto, quella dei depistaggi, già in parte accertati nelle indagini sulla strage di via D’Amelio con il pentito Enzo Scarantino che depista, che manda in carcere delle persone, alcune delle quali a questo punto forse innocenti. Rivela, ritratta, poi spunta un altro pentito, Gaspare Spatuzza e questo processo sembra certamente destinato ad andare verso la revisione. Ma secondo lei, Scarantino era manovrato? E da chi? La vicenda di Scarantino è piuttosto particolare. E se vi sarà una revisione, dovrà certo valutare le nuove risultanze che sono state acquisite. Certo che ci muoviamo su un terreno difficile, un 157 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 158 campo minato, perché per un verso abbiamo delle dichiarazioni di Scarantino la cui credibilità, già nei processi celebrati per la strage di via D’Amelio, è stata compromessa. La credibilità è parziale per Scarantino. Le sue dichiarazioni si rivolgono principalmente a quattro imputati. Se dovesse essere dichiarato inattendibile questo riguarderebbe la posizione di quattro imputati. Un altro aspetto su cui riflettere è come mai Spatuzza, dopo un lungo periodo di detenzione, decide di collaborare. Probabilmente sono stati commessi degli errori, bisogna andare a rileggere e interpretare ciò che è accaduto sin dall’inizio della gestione del pentito o forse c’è stato qualcosa di più e di diverso. Ma questo sarà stabilito dalle indagini svolte dai colleghi di Caltanissetta che, seriamente, stanno lavorando per cercare di capire quello che è accaduto. mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 159 Ringraziamenti I nostri più sentiti ringraziamenti a Gaspare Mutolo, al dottor Luca Tescaroli, Miriam, Francesco, Edo e Alba. mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 160 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 161 Indice 9 Introduzione Le troppe verità ignorate 17 Le rivelazioni di Riina: «Borsellino? L’ammazzarono loro…» 25 La sentenza di morte contro Falcone 37 Antonino Caponnetto, il “padre spirituale” di Falcone 55 Il testamento di Ciancimino junior 65 Il caso Scarantino 87 Gaspare Mutolo «Borsellino? Io l’avevo avvisato 123 E spunta la talpa: «C’era un certo Teresi…» 131 In cella con Riina 139 «Bronzini e i quadri di Liggio fatti da noi» 143 La testimonianza del giudice Tescaroli «Era già tutto scritto» 159 Ringraziamenti mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 162 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 163 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 164 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 165 Questa parte di albero è diventata libro sotto i moderni torchi di Grafica Veneta, Trebaseleghe (PD) nel mese di luglio 2010. Possa un giorno dopo aver compiuto il suo ciclo presso gli uomini desiderosi di conoscenza ritornare alla terra e diventare nuovo albero. mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 166 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 167 mutolo 12-07-2010 15:43 Pagina 168