000prime_pagine_copscola_000copscola

Transcript

000prime_pagine_copscola_000copscola
Il volume contiene scritti di: Gian Piero Brunetta, Orio Caldiron, Anna Camaiti Hostert,
Gianni Canova, Valerio Caprara, Stefania Carpiceci, Rossella Cinquina, Maria Coletti,
Paolo D’Agostini, Luciano De Giusti, Laura Delli Colli, Pier Marco De Santi, Roberto
Ellero, Alessandra Fagioli, Jean A. Gili, Pasquale Iaccio, Stefano Masi, Roy Menarini,
Lino Miccichè, Franco Montini, Giuliana Muscio, Roberto Nepoti, Diego Novelli,
Ivelise Perniola, Veronica Pravadelli, Eugenio Premuda, Roberto Provenzano, Gianni
Rondolino, Paolo Russo, Giorgio Van Straten, Vito Zagarrio.
In copertina: un disegno di Ettore Scola.
Nuovocinema
Trevico - Cinecittà
L’avventuroso viaggio
di Ettore Scola
a cura di Vito Zagarrio
Trevico - Cinecittà
Questo volume nasce nell’ambito del consueto “Evento speciale”, manifestazione parallela alla Mostra di Pesaro, giunta ormai alla sedicesima edizione. Uno sguardo particolare e affezionato, anche quando critico, sul cinema italiano, che ha permesso di indagare
interi decenni della nostra cinematografia o di ripercorrere l’opera di attori, sceneggiatori, registi. Non poteva mancare, in questa galleria cinematografica italiana, Ettore
Scola, non solo uno degli autori italiani più prolifici, ma anche un noto sceneggiatore che
ha legato il suo nome a registi come Pietrangeli, Risi, Bolognini, Loy, Steno, Camerini,
Lizzani, Zampa.
Scola sceneggiatore, dunque – che con Ruggero Maccari costituisce una delle più famose coppie cinematografiche –, Scola regista, ed anche Scola produttore – sia dei propri
film, sia di giovani autori – è un filo rosso con cui si può percorrere la storia d’Italia dall’inizio degli anni Cinquanta a oggi. L’attività di Ettore Scola è poliedrica: disegnatore
raffinato e vignettista, sceneggiatore, soggettista, collaboratore ai dialoghi altrui, creatore di idee in coppia e in team, regista di cinema di profondità e d’arte, documentarista
militante, intellettuale engagé, mentore di giovani cineasti, produttore di nuovi talenti,
“ministro ombra”. L’impressione è che ci si trovi di fronte a un intellettuale a tutto
tondo, grande scrittore di cinema, cineasta raffinato anche quando, paradossalmente,
adotta le chiavi del cattivo gusto, metteur en scène di grande talento anche se mette la
grammatica filmica al servizio della narrazione; ma al tempo stesso fine oratore, appassionato politico, promotore di un’idea di cinema per le generazioni più giovani.
Sono tante le immagini memorabili del cinema di Ettore Scola, ma l’“autorialità” di questo regista va oltre le sequenze dei film più noti; sta nelle pieghe della narrazione, nelle
invenzioni della messa in scena, nei collanti comuni ai suoi testi (comprese le sceneggiature per altri), nelle tracce di stile ripercorribili nella sua filmografia. E dunque il cinema di Scola, che non ha certo bisogno di rivalutazioni o di riscoperte, merita però una
nuova visione, una nuova lettura. La lettura, ad esempio, da parte di una nuova generazione di studiosi che hanno in questo volume la possibilità di analizzare Scola senza preconcetti; o la rilettura da parte dei critici più “esperti”, gli specialisti del suo cinema o
quelli che ne hanno indagato, con vari metodi, testi e poetiche.
Saggi Marsilio
SAGGI MARSILIO
NUOVOCINEMA/PESARO N. 55
Quaderni della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
TREVICO - CINECITTÀ
L’avventuroso viaggio di Ettore Scola
a cura di Vito Zagarrio
Marsilio Editori
INDICE
© 2002 BY MARSILIO EDITORI® S.P.A. IN VENEZIA
Il presente volume viene pubblicato in occasione del XVI Evento Speciale, manifestazione
parallela alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, organizzato in collaborazione con la
Fondazione Scuola Nazionale di Cinema / Cineteca Nazionale e con il Dipartimento della
Comunicazione Letteraria e dello Spettacolo dell’Università degli Studi di Roma Tre.
La redazione del volume è di Francesco Crispino
9
19
Se permettete, parliamo di Scola. Introduzione di Vito Zagarrio
Il cinema non cambia il mondo ma può farci riflettere. Una conversazione con
Ettore Scola
di Lino Miccichè
SCOLA DALL’IDEAZIONE ALLA PRODUZIONE
43
51
59
69
77
88
92
Le giornate particolari di Ettore Scola. Un profilo critico di Gianni Rondolino
Un mestiere come un altro. Scola sceneggiatore di Giuliana Muscio
Prove d’autore in piena commedia. Il primo Scola di Roberto Ellero
Il dominio della popolarità. Scola e la commedia all’italiana di Valerio Caprara
La disgregazione del fuoricampo. Gli anni Novanta di Gianni Canova
La fabbrica dei talenti. Scola produttore di Laura Delli Colli
La fortuna di Scola in Francia di Jean A. Gili
COMPAGNI DI VIAGGIO
105 Come lo “Splendor” ha illuminato il mio buio in sala di Gian Piero Brunetta
116 Il caso “Trevico-Torino” di Diego Novelli
STORIA E STORIE
Prima edizione: giugno 2002
123 Il “comunista” di Paolo D’Agostini
133 «Non ti piace la fine del XX secolo?». La storia nei film di Scola
di Pasquale Iaccio
146 Il tempo della storia: «Il mondo nuovo» di Orio Caldiron
7
INDICE
GENERI E GENDER
157
165
173
184
Voci del maschile, corpi del femminile di Veronica Pravadelli
L’identità in sottrazione di Anna Camaiti Hostert
I labirinti dell’anima nello spazio-tempo familiare di Stefania Carpiceci
Alla ricerca dell’innocenza perduta. “Riusciranno i nostri eroi...?”
di Maria Coletti
TIPOLOGIE
193
197
205
211
218
223
I “tipi” di Scola di Giorgio Van Straten
Famiglie, terrazze, cene: i film “corali” di Roberto Nepoti
Gli episodi, o la poetica del frammento di Roy Menarini
Brutto, sporco e cattivo (gusto). L’ideologia del kitsch di Paolo Russo
La Roma di Scola di Franco Montini
Tra Studio e Kammerspiel. Tracce di teatro di Alessandra Fagioli
LA MESSA IN SCENA
233 Il mondo in cornice. La regia di Scola di Eugenio Premuda
244 Il mestiere di scrittore. Dalla sceneggiatura presunta alla sceneggiatura desunta
di Ivelise Perniola
255 L’arte di essere semplici. Il binomio Scola-Trovaioli di Pier Marco De Santi
266 I viandanti del teatro di posa. Il viaggio di capitan Luciano e Madame Odette
di Stefano Masi
276 La lunga durata di “Una giornata particolare” di Luciano De Giusti
284 L’interpellazione come principio strutturante. “Dramma della gelosia”
di Roberto Provenzano
STRUMENTI
a cura di Rossella Cinquina
299 Profilo biografico
303 Filmografia
330 Bibliografia essenziale
8
VITO ZAGARRIO
SE PERMETTETE, PARLIAMO DI SCOLA
Introduzione
Questo volume nasce nell’ambito del consueto “Evento speciale”
della Mostra di Pesaro, giunto ormai alla sedicesima edizione. Uno
sguardo particolare e affezionato, anche quando critico, sul cinema
italiano, che ha permesso di indagare interi decenni della nostra cinematografia (l’esempio più recente, da me curato nel 2000, dedicato
agli anni Novanta), o di ripercorrere l’opera di attori (come il compianto Gassman), sceneggiatori (il caso di Age e Scarpelli), registi: il
modello più vicino è quello di Monicelli, di cui è stata ricostruita l’ampia filmografia.
Vorrei partire proprio da quest’ultimo caso di analisi (e di godibile spettacolo per il pubblico) per presentare l’omaggio che quest’anno l’“Evento” fa a Ettore Scola. Alla tavola rotonda sulla sua “opera”, infatti, Monicelli, “grande vecchio” (in realtà mentalmente giovanissimo) del cinema italiano, si schermiva di fronte all’etichetta di
“autore” e rivendicava la nozione di “artigiano”. Ma artigiano nel senso più alto, nel senso delle “botteghe” rinascimentali in cui un “maestro” produceva opere d’arte, magari per un committente, per un
patron, attorniato da una squadra di collaboratori e da un gruppo di
discepoli. La parola “bottega” torna anche con Scola, quando parla
della sua scelta di produrre film di giovani con la sua EL: «Ho fatto
un lavoro simile a quello che facevano i grandi artigiani del passato
con i loro ragazzi di bottega: ho evitato loro di cadere in alcuni errori, ho spiegato le regole del gioco, li ho protetti da qualche ingenuità,
gli ho regalato il privilegio di poter rifare una sequenza venuta male»1.
9
VITO ZAGARRIO
SE PERMETTETE, PARLIAMO DI SCOLA
Grande artigiano o Autore? E cosa poi vuol dire “autore”, nell’epoca in cui l’opera d’arte ha perso la sua “aura”, nel momento in cui
Foucault ne ha decretato la (simbolica) “morte”, in un universo iconico ormai fatto di schegge e di contaminazioni, di commistioni e di
remake? La riflessione si pone di nuovo nel momento in cui ci accingiamo ad analizzare un uomo poliedrico come Ettore Scola: disegnatore raffinato e vignettista, sceneggiatore, soggettista, collaboratore ai
dialoghi altrui, creatore di idee in coppia e in team, regista di cinema
di profondità e d’arte, documentarista militante, intellettuale engagé,
mentore di giovani cineasti, produttore di nuovi talenti, “ministro
ombra”, ecc.
L’impressione è che ci si trovi di fronte a un intellettuale a tutto
tondo, grande scrittore di cinema, cineasta raffinato anche quando,
paradossalmente, adotta le chiavi del “cattivo gusto”, metteur en scène di grande talento anche se mette la grammatica filmica al servizio
della narrazione; ma al tempo stesso fine oratore, appassionato politico, promotore di un’idea di cinema per le generazioni più giovani.
Forse anche Scola si schermisce, si difende da etichette pesanti: “Ettore il modesto”, lo chiama Ellero nel “castoro” a lui dedicato2. Ora,
non so se Ettore Scola sia modesto, ma sono certo che il suo cinema
ha la continuità, la dignità, lo sviluppo di un’“opera” le cui cifre stilistiche sono riconoscibili e identificabili. Del resto il cinema di Scola non ha bisogno (rispetto, ad esempio, a quello di un Risi o dello
stesso Monicelli) di essere “rivalutato”. Alcuni suoi film sono universalmente riconosciuti dei capolavori (basti pensare a C’eravamo
tanto amati o a La terrazza), la sua fama all’estero è pari a quella dei
padri fondatori del nostro cinema (si veda il rapporto di Scola con la
Francia), alcune sequenze delle sue opere restano nella memoria collettiva e sono diventate patrimonio della cultura nazionale (faccio solo
l’esempio di Una giornata particolare, su cui tutti i collaboratori di
questo volume avrebbero voluto parlare).
Penso al piano sequenza iniziale (l’inquadratura n. 3, dopo i materiali di repertorio) di quest’ultimo film, quando la macchina da presa panoramica sul condominio popolare, poi sale in dolly e penetra,
senza soluzione di continuità, nell’appartamento della protagonista
(Sofia Loren), “pedinandola” poi a lungo dentro le stanze. Penso ai
piani sequenza di Ballando ballando, dove la mdp viene usata con un
virtuosismo che non scivola mai nel narcisismo registico. Penso all’inquadratura finale di Maccheroni, dove una immaginaria campanella
suona sui volti commossi di Jack Lemmon e compagni. Penso all’umorismo sarcastico de La terrazza, quando ad esempio il dirigente
televisivo Reggiani si vede ristretta la propria stanza in un incubo claustrofobico. Penso all’omaggio al Fellini de La dolce vita, alla scena di
“Lascia o raddoppia”, allo sguardo attonito dei vecchi amici di fronte alla villa con piscina di Gassman in C’eravamo tanto amati. Penso
ai lunghi carrelli de La famiglia, che ripercorrono, insieme ai corridoi
della casa, l’incedere della Storia. Sono tante le immagini memorabili del cinema di Ettore Scola.
Ma l’“autorialità” di questo regista dalla «molteplice e multiforme
attività» (sono parole di Gianni Rondolino nel profilo critico che apre
questo volume) va oltre le sequenze dei film più noti. Sta nelle pieghe
della narrazione, nelle invenzioni della messa in scena, nei collanti
comuni ai suoi testi (comprese le sceneggiature per altri), nelle tracce
di stile ripercorribili nella sua filmografia. E dunque il cinema di Scola, che non ha certo bisogno di rivalutazioni o di riscoperte, merita
però una nuova visione, una nuova lettura. Quella, ad esempio, di una
nuova generazione di studiosi che hanno in questo volume la possibilità di analizzare Scola senza preconcetti; o la rilettura da parte dei critici più “esperti”, gli specialisti del suo cinema o quelli che ne hanno
indagato testi e poetiche. Perché un film cambia a ogni visione, cambia con lo stato d’animo dello spettatore, con lo spirito dei tempi, con
il mutamento della società e del costume. «Rivedere vuol dire dunque
vedere in modo diverso, sfuggire all’obbligo della fascinazione, all’influenza del film» – scrive Michel Marie3 – «Si può anche, come faceva
spesso Jean-Luc Godard critico, vedere per spezzoni, uscire dalla sala
e poi vedere di nuovo un altro estratto, etc.».
Ecco allora che una retrospettiva completa dei film di Scola (documentari compresi), e una scelta dei film di cui Scola è stato sceneggiatore (quella che, insieme a questo libro, costituisce l’“Evento speciale” di Pesaro 2002) offre la possibilità di addentrarsi in un universo poetico variegato e al tempo stesso omogeneo, che va rivisitato con
curiosità. E anche questo volume intende accostarsi a Scola fuori degli
stereotipi o dei giudizi acquisiti, rimappandone la filmografia per
grandi temi e grandi nuclei trasversali.
Il volume unisce una struttura sincronica a una diacronica: apre
con un blocco di analisi sulle varie fasi della carriera di Scola e sui
suoi ruoli nell’industria cinematografica (il saggio generale di Rondolino, la ricostruzione, fatta dalla Muscio, dello Scola sceneggiato-
10
11
VITO ZAGARRIO
SE PERMETTETE, PARLIAMO DI SCOLA
re, l’analisi di Caprara sul rapporto fondante con la commedia “all’italiana”, il primo e l’ultimo Scola, rispettivamente di Ellero e di Canova). Si muove poi per accostamenti logici: le testimonianze di due
intellettuali di estrazione diversa che hanno fatto un pezzo di strada
col regista, Brunetta che ha collaborato a Splendor, e Novelli che ha
partecipato a Trevico-Torino. Il “viaggio nel Fiat Nam” ci porta allo
Scola “politico” (che D’Agostini ripercorre attraverso i film), al rapporto di Scola con la Storia (analizzato dallo specialista di “cinema &
storia” Iaccio); ma “politico” è anche il privato, hanno a che fare con
l’ideologia il gender (di cui parla la Pravadelli), la “famiglia” (Carpiceci) e il problema dell’identità (Camaiti). Si apre poi l’altro blocco
sulla regia in senso più proprio, che coglie tematiche (la Roma di Scola rintracciata da Montini), esplicita relazioni (Scola & Trovaioli, Scola & Ricceri – rispettivamente De Santi e Masi), affronta nodi teorici
(il lavoro di sceneggiatura – Perniola –, la grammatica filmica – Premuda –, l’impianto corale – Nepoti –, il rapporto col teatro – Fagioli –, il “cattivo gusto” – Russo), affida a uno scrittore che ben si intende di cinema, Van Straten, l’analisi di alcune tipologie dei personaggi. Il libro si sofferma poi su alcuni case studies importanti: Il mondo
nuovo (Caldiron), Dramma della gelosia (Provenzano), e naturalmente Una giornata particolare (De Giusti).
C’è molta carne al fuoco, ovviamente, e starà anche al lettore farsi il proprio percorso in mezzo alle tante “passeggiate critiche” (per
dirla alla Eco) offerte.
Aggiungo di mio che, dopo aver lavorato diversi mesi su Scola,
dopo aver discusso e letto i saggi di questo libro, dopo aver visto film
che non conoscevo o non ricordavo o che mi premeva di rivedere
(magari per spezzoni e per frammenti, alla Godard), riemergo dalla
full immersion con la sensazione di un regista “ricco”: di suggestioni,
di emozioni, di invenzioni. Un regista (e diciamolo senza paura, un
“autore”) capace di offrire allo spettatore qualcosa di nuovo e sorprendente anche quando il film non è un capolavoro, non è completamente risolto. D’altra parte, mi pare sia proprio dei nostri tempi l’opera non armonica, in cui l’“arte” emerge a tratti, per indizi, per picchi emotivi e narrativi.
Provo a dire intanto alcuni altri corpi tematici in cui il cinema di
Scola potrebbe essere organizzato. Temi e nodi cruciali cui i film non
riescono a essere incasellati, ma cui appartengono trasversalmente.
Ad esempio:
a) Il viaggio. Il sottotitolo di questo volume vi ammicca volutamente: il viaggio in Africa di Alberto Sordi e Bernard Blier in Riusciranno i
nostri eroi…?, il fatale viaggio a Chicago di Mastroianni in «Permette?
Rocco Papaleo»; il sopracitato viaggio “nel Fiat-Nam” (per usare un
gioco di parole alla Gianni Toti) di Trevico-Torino, il viaggio nella notte di Varennes de Il mondo nuovo, Il viaggio di Capitan Fracassa. Ma
anche il viaggio nella Storia di Ballando ballando, La famiglia, Splendor.
b) La Storia. Si intreccia col viaggio, come abbiamo visto. Vi rientrano lo Scola più ideologico, da Trevico-Torino a Mario, Maria e
Mario, oppure quello più distaccato e “scientifico”: ne Il mondo nuovo l’autore adotta addirittura una sorta di “note a piè di pagina” per
spiegare allo spettatore un dettaglio o una parola (ad esempio quando descrive una carrozza a un posto o il porto di Cherbourg). La storia fa da sfondo a tutti i film di Scola: è l’incipit e l’ossessione narrativa di C’eravamo tanto amati; è ovviamente il tema stesso di Concorrenza sleale e la cornice di Una giornata particolare, con quell’insistenza sul materiale di repertorio “puro” all’inizio del film. Ma fa da
“rumore di fondo” anche alle commedie o a film difficili da classificare, tra genere e trasgressione del genere, come Il commissario Pepe.
In questo film, l’attenzione allo sfondo sociale arricchisce di toni
“politici” il graffiante ritratto di provincia; in «Permette? Rocco Papaleo» la miniera emerge a tratti come un incubo, e incubica è la rappresentazione della way of life americana; persino in Dramma della
gelosia il materiale di repertorio e il documentario sociale si mescolano improvvisamente con la fiction, quando si descrive l’incontro tra
Mastroianni e Giannini. È il filo rosso che sottende tutta la vicenda
in C’eravamo tanto amati, Le Bal, La famiglia.
c) Il gender. La famiglia, dicevo. La famiglia, i ruoli maschile/femminile, la sessualità, la donna, sono un altro grande tema di Scola. Se permettete, parliamo di donne, si intitola non a caso il suo primo film firmato da regista. Ma il tema del femminile (e della sua ambiguità) domina in tutta la sua filmografia: Il commissario Pepe è una –
anche metaforica – indagine nelle complessità dell’universo femminile, un po’ angelo un po’ puttana come la donna segretamente amata da Tognazzi; in C’eravamo tanto amati la donna è il motore della
vicenda, e Stefania Sandrelli e Giovanna Ralli offrono interpretazioni memorabili; non parliamo di Una giornata particolare che fa del
gender (la donna, la sessualità, l’omosessualità), dell’identità e del rapporto con la “diversità” il suo fulcro emotivo. Passione d’amore è un
12
13
VITO ZAGARRIO
SE PERMETTETE, PARLIAMO DI SCOLA
altro esempio lampante di storia basata su una variante del femminile e del desiderio; Il mondo nuovo mette al centro del viaggio la figura eterea – quasi un ologramma – di Hanna Schygulla; in Ballando
ballando la reciproca seduzione tra uomo e donna è l’incipit della storia ma anche il motivo che tende lo spettacolo della vita. E poi pensiamo alle figure femminili de La terrazza, di Mario, Maria e Mario,
ma anche a tanti formidabili personaggi femminili che Scola ha fatto
vivere sulla pagina, anche quando non li ha diretti: tutti i film di Pietrangeli, il film a episodi di Risi, con la Vitti nel ruolo centrale, Noi
donne siamo fatte così, ecc.
d) Il metalinguaggio. Il cinema di Scola è profondamente metalinguistico. Lo è apertamente nel film summa della cinefilia scoliana,
Splendor, in cui il regista ha modo di ripercorrere i capolavori della storia del cinema attraverso la storia di una sala (cito tra i tanti Metropolis, Miracolo a Milano, La grande guerra, Il sorpasso – questa è anche
un’autocitazione, visto che ne ha cofirmato la sceneggiatura –, Effetto
notte, I pugni in tasca, Amarcord, Il cacciatore, Padre padrone, La vita è
meravigliosa). Rispetto al famoso film di Capra, anzi, Scola si dilunga
in una sequenza (per me, studioso di Capra, particolarmente toccante) in cui Mastroianni si commuove di fronte all’inevitabile finale in cui
James Stewart torna ad essere vivo e ad apprezzare le sue piccole cose
quotidiane. Qui non soltanto si attiva un meccanismo autoreferenziale, ma il regista gioca con uno specchio di emozioni, tentando di riprodurre nel suo film le emozioni che il pubblico prova – suo malgrado –
di fronte alla macchina narrativa di Capra. Si tratta di una scena insistita su cui varrebbe la pena soffermarsi più a lungo dal punto di vista
teorico. Lo schema metalinguistico è dichiarato anche in C’eravamo
tanto amati (le scene sopra citate de La dolce vita, con Fellini nei panni di se stesso, e di “Lascia o raddoppia”), nella regia collettiva di Signore e signori, buonanotte (l’episodio sul mezzobusto televisivo). Ma la
presenza di un discorso autoriflessivo è presente in tanti altri film di
Scola, magari in modo sottile, ma su cui vale la pena di soffermarsi.
Parto da Il mondo nuovo, in cui tutto il film è compreso tra le due scene in cui protagonista è il precinema (il “mondo nuovo”, appunto, la
macchina attraverso cui si può “spiare” la storia), e dunque il desiderio del cinema ancora prima della sua invenzione. Nella scena finale,
tra l’altro, quando Jean-Louis Barrault esce dal quai de la Seine della
Parigi fine Settecento ed emerge in quella degli anni Ottanta, c’è forse
un omaggio al Ferreri di Non toccare la donna bianca (quella indimen-
ticabile scena del buco delle Halles). Il mondo nuovo, tra l’altro, è pieno di (inconsci?) omaggi cinematografici: specie durante il viaggio,
vengono in mente il trasferimento a Donnafugata de Il gattopardo, o le
scene nella diligenza di Ombre rosse. Il cinegiornale Luce di Una giornata particolare mi porta a pensare ai tanti spezzoni di documentario,
rubati dalla cronaca, interpolati con la fiction, o ai brani televisivi che
Scola usa nei suoi film: ad esempio in «Permette? Rocco Papaleo» e ne
Il commissario Pepe, o in Riusciranno i nostri eroi…? (gustosissimo e
intelligente il gag di Sordi, vestito da safari, che filma l’Africa turistica,
a sua volta ripreso da un nero che lo vede come un fenomeno da baraccone). Ma soprattutto Dramma della gelosia è, da questo punto di vista,
uno dei casi più interessanti. Il film sul triangolo amoroso tra Vitti,
Mastroianni e Giannini, infatti, è una complessa riflessione sull’arte
del narrare: nella storia le strutture narrative si mescolano. La ricostruzione del delitto si fonde con l’indagine giudiziaria, il presente
entra dentro il flashback con continue invenzioni registiche (e conseguentemente con l’uso dello sguardo in macchina che giustamente sottolinea uno dei saggi di questo volume). Attorno alla struttura della
sceneggiatura, già fortemente metalinguistica, Scola sembra divertirsi
a innestare altre tracce autoreferenziali: lo spezzone di (finto) repertorio, le diapositive (con il maggiordomo che si pone nel fascio della luce
del proiettore, inquadrato attraverso uno specchio tondo come fosse
un occhio di bue!), le parodie cinematografiche (Mastroianni e la Vitti che amoreggiano sulla spiaggia sono disturbati da un finto sbarco
degli americani, come fosse un film di guerra…). L’indizio di questa
(auto)ironia (auto)riflessiva è già dichiarato all’inizio del film, quando
Mastroianni, Giannini e un povero maresciallo mimano, quasi “alla
moviola”, il delitto avvenuto. Torna la capacity of playing della commedia classica americana, dove il concetto del play assume il doppio
senso di “gioco” e di “recitazione”4.
e) La messa in scena. Anche alla luce del discorso sul metalinguaggio, mi accorgo che ri-vedere i film di Scola significa apprezzare
il suo talento registico, cogliere dettagli sfuggiti della sua capacità di
dominio della macchina da presa e del linguaggio filmico. Non è la
cosa che gli interessa di più, dice nella bella conversazione con Lino
Miccichè che apre questo libro: ciò che gli preme – dice – sono il racconto, la scrittura, la storia, da buon sceneggiatore; il resto viene da
sé, è un modo naturale di scrivere per immagini. Ma un’attenta analisi dei testi dimostra il suo naturale talento, l’uso cosciente dei movi-
14
15
VITO ZAGARRIO
SE PERMETTETE, PARLIAMO DI SCOLA
menti di macchina, degli obiettivi, della “retorica” filmica, al di là della – pur splendida – capacità di far recitare gli attori. L’aspetto più
puramente tecnico del cinema di Scola, infatti, la sfera più pertinente alla messa in scena e al linguaggio filmico, meriterebbero maggiore attenzione. È da studiare frame by frame, ad esempio, il già citato
pianosequenza iniziale di Una giornata particolare, una inquadratura
che non si riesce a capire come sia stata realizzata, visto che siamo in
un’epoca pre-steadicam. E allora, come ha fatto la mdp a salire in dolly, poi avanzare verso il balcone, scavalcare il davanzale della finestra,
entrare dentro l’appartamento e seguire la Loren? Oggi si farebbe con
un operatore steady appollaiato sopra una gru, che salta dentro la finestra e prosegue la sua ripresa lungo le stanze. Ma allora? Il piccolo
segreto me lo svela Scola stesso, che mi racconta come abbia usato un
ascensore, collegato con un ponteggio su cui è stato sistemato il carrello. Quando questo arriva davanti alla finestra, il davanzale viene
aperto dai macchinisti (tipo il finale di Professione reporter) per consentire l’ingresso della mdp; la quale prosegue poi a riprendere, grazie a una serie di carrelli circolari che entrano nelle varie stanze. È
un’esibizione di talento senza autocompiacimento funzionale alla storia. Non male, come invenzione registica, per uno che dichiara di essere soprattutto sceneggiatore. A dimostrazione del fatto che lo Scola
metteur en scène debba essere analizzato nei suoi dettagli grammaticali e sintattici, dove il linguaggio si coniuga con lo stile e con la morale. Anche Ballando ballando è una continua sperimentazione sul terreno della retorica del cinema (sguardi in macchina, sguardo allo
specchio, soggettive, fermi immagine, ecc.); Il mondo nuovo dà a Scola la possibilità di lavorare sulle masse e sullo spazio, enfatizzato dall’uso sistematico del grandangolo; Dramma della gelosia è pieno di
trovate registiche poco appariscenti ma estremamente significative:
un movimento di macchina, ad esempio, ricorrente anche in altri film,
è una panoramica obliqua che decentra l’attore inquadrato e crea un
effetto di spiazzamento; interessanti poi le soggettive “disturbate”,
come quella di Mastroianni che sviene, o quella della Vitti sulla giostra. Anche in Riusciranno i nostri eroi…? si trova l’uso della soggettiva “malata”, ad esempio nel finale in cui Sordi sta per gettarsi in
acqua dietro a Manfredi ma viene travolto da un malessere dello
sguardo, e se ne esce con un’interessante confessione di dubbio: «Non
ho le idee chiare…». Il repertorio potrebbe evidentemente continuare a lungo, e semmai rimando in questo senso a un saggio speci-
ficamente dedicato alla messa in scena. Ma voglio finire con Il commisario Pepe, dove emerge soprattutto la capacità del cinema di creare fantasie e di imporle5. Le immaginazioni semi-realistiche di Tognazzi in quel film esplicitano il desiderio di quegli anni (siamo nel 1969)
di fare andare la fantasia al potere; una fantasia repressa dal Sistema
(per citare il vecchio Marcuse), nel caso dell’indagine di Pepe, ma che
vince nella macchina fantasmatica del cinema.
Molti altri potrebbero essere i blocchi tematici su cui organizzare
una rilettura di Scola: cito brevemente: f) la letteratura (quanti film
tratti o liberamente ispirati a romanzi, da Il commissario Pepe, appunto, a La più bella serata della mia vita, da Passione d’amore a Il viaggio di Capitan Fracassa, sino a Ballando ballando, che viene non da un
testo letterario ma da un testo teatrale); g) gli attori, che arrivano a
costituire con Scola uno star system all’italiana che non riesce a molti altri registi suoi contemporamei (basta pensare alla emblematica
foto ricordo de La famiglia, che è una foto ricordo di più generazioni di attori italiani); h) i collaboratori, che formano un team fisso (Maccari, Scarpelli, Ricceri, Nicoletti, Trovaioli) e che impongono una
riflessione sul cinema come “arte collettiva”; i) i caratteristi, che popolano naturalmente l’universo della commedia ma assumono a volte
anche il peso di protagonisti “morali” (penso al barbone di «Permette? Rocco Papaleo» o al mutilato incazzato de Il commissario Pepe); l)
il kitsch, che Scola sposa, con ironia e leggerezza ma anche con consapevolezza “politica”: Brutti sporchi e cattivi, Ballando ballando,
Dramma della gelosia, I nuovi mostri, Maccheroni; m) il corpo, che a
volte si intreccia col cattivo gusto, spesso col gender, tema teorico di
viva attualità. E così via, il lettore si faccia il proprio “viaggio” all’interno dei molteplici viaggi che Scola offre e suggerisce.
Perché rileggere questo autore vuol dire scoprire una vivacità culturale, un’inventiva, e anche (last but not least) una disponibilità umana, una voglia continua (ancora oggi, che si “sporca le mani” con i
documentari su Genova e su Porto Alegre) di “ingaggiarsi”, di mettersi in gioco, che lo pone tra gli intellettuali più interessanti in circolazione. Voglio finire con un’immagine del finale de La cena: i due
personaggi che volano a cavallo di una scopa, ma immortalati dall’immaginazione di un ragazzino giapponese e inseriti (novelli Tron
scoliani) nei codici grafici di un videogame un po’ naïf (vedi anche i
saggi di Canova e Nepoti). È un’immagine di pura utopia, un desiderio di fantasia al potere (quella del commissario Pepe aggiornata
16
17
VITO ZAGARRIO
agli anni Novanta) che coniuga le scope di Miracolo a Milano con le
tecnologie digitali, il Neorealismo con la PlayStation. È un’immagine
che combina tradizione e (Post)modernità, che viaggia back to the
future mescolando, con un saggio mix, un’acuta osservazione sociale
con un pizzico di “poesia”.
Da un’intervista concessa da Scola a «La Stampa», 27 gennaio 1988.
R. Ellero, Ettore Scola, Milano, Il Castoro Cinema, 1995.
3
M. Marie, Description/analyse, in «Ça Cinéma», n. 7/8, pp. 141-151.
4
Cfr. ad esempio R. Carney, American Vision, The Films of Frank Capra, Cambridge, New
York, Cambridge University Press, 1986.
5
A proposito de Il commissario Pepe, voglio citare l’analisi di Miccichè in L. Miccichè, Cinema italiano degli anni ‘70, Venezia, Marsilio, 1980, p. 41.
1
2
18
LINO MICCICHÈ
IL CINEMA NON CAMBIA IL MONDO
MA PUÒ FARCI RIFLETTERE
Una conversazione con Ettore Scola
Il Neorealismo cinematografico italiano fu un fenomeno complesso e
sotto molti aspetti evanescente e dai confini poco chiari per i suoi stessi
protagonisti. Tuttavia la tua generazione vi ci si trovò immersa e tutto il
cinema italiano, non solo i maestri del movimento ma anche gli artigiani più corrivi, ne trassero qualcosa. Mi piacerebbe sapere quale fu specificamente il tuo rapporto con quella dinamica, che cosa ne hai tratto, cosa
ti è rimasto del clima di quegli anni, in cosa il fenomeno ti colpì.
Innanzitutto esercitò su di me una grande fascinazione. Mi ricordo l’incanto per questo mestiere, anche prima di cominciare a operare nel cinema. Ora è sparito, forse perché non c’è più gente da
ammirare. Ma per me i miti erano gli stessi di quel periodo, ovvero
De Sica e Rossellini, ma anche Age e Scarpelli, anche Monicelli e Steno, Zavattini e Amidei. Metz e Marchesi erano due miti per me: erano gli autori dei film di Totò, ma anche delle commedie di Macario e
Tino Scotti. Anche loro venivano dal «Marc’Aurelio», dove lavoravo
io. Quindi c’era questa voglia d’imitazione: «Se potessi essere come
Steno!», era quella l’ambizione.
Se non fosse esistito il Neorealismo credo che il cinema italiano
avrebbe continuato così, come quello ungherese, a produrre delle
commedie. Comunque non avrebbe affascinato le generazioni di
quelli che cominciavano a fare questo lavoro.
Il mio percorso verso il cinema è cominciato col «Marc’Aurelio».
Sapevamo che in quel giornale erano passati tutti: Fellini, Steno, Metz
19
UNA CONVERSAZIONE CON ETTORE SCOLA DI LINO MICCICHÈ
IL CINEMA NON CAMBIA IL MONDO MA PUÒ FARCI RIFLETTERE
e Marchesi, Campanile, e quindi era una specie d’accademia. Io vi
entrai come garzone di redazione: mi mandavano a comprare delle
cose, assistevo alle riunioni… avevo quindici anni. Poi a sedici, diciassette anni cominciai a fare dei disegni, a scrivere delle rubriche. Mi
sentivo già soddisfatto. Più di come lo sarei stato negli anni successivi. Forse, anzi, è il mio periodo di maggior soddisfazione.
meca risuonano gli echi del Neorealismo. Ne ho parlato tempo fa con
Muccino, un ragazzo molto intelligente che merita sincerità. Quando
mi ha chiesto un parere sul suo celebratissimo L’ultimo bacio, gli ho
risposto che ho apprezzato le sue capacità di regista ma mi sembrava
un mezzo film. Si vuole rappresentare una generazione: c’è una parte di quella generazione che si occupa dell’amore, del bacio, della scopata, della fidanzata, della responsabilità per il figlio. Però è una generazione che non è attraversata da nessun problema reale, neanche da
quello del traffico. Sono tutti già sistemati, hanno la Volvo, lavorano:
è il ritratto di una generazione totalmente priva di problemi che non
siano esistenziali o amorosi. Credo che negli anni Cinquanta non
sarebbe stato possibile un film come questo. Sarebbe stato una commedia molto più leggera, alla Pane, amore e fantasia. Muccino si è
posto il problema di indagare una generazione, ma nell’ultimo film
ha abbandonato totalmente la tematica collettiva. Si è definito al
microscopio, ha isolato certi microbi dell’amore, dell’esistenza, ignorando tutto il resto. Questo il Neorealismo non lo permetteva, perché era diventato un tessuto connettivo che prendeva anche film di
secondo ordine, che volevano essere drammatici, forti e non riuscivano magari a esserlo perché mancavano delle qualità. Ma non c’era
mai questa vacanza dai problemi tipica di oggi.
Prima parlavi di Metz e Marchesi, di Steno, ma anche di De Sica e
Zavattini. Hai ragione, perché gli uni spregiati, gli altri esaltati dalla critica, facevano tutti parte di un medesimo clima. Tuttavia una profonda
differenza c’è, e consiste nell’atteggiamento nei confronti del cinema. Il
cinema di Rossellini, De Sica, Visconti, De Santis intendeva contribuire a maturare le coscienze; mentre in Metz, Marchesi, Steno c’era una
visione del cinema come spettacolo e divertimento. Erano chiare alla
tua generazione queste differenze e, soprattutto, quella dell’impegno etico neorealista, il solo elemento comune a tutti, perché poi i registi erano uno diverso dall’altro?
In astratto non ricordo. In concreto ricordo invece che un tramite tra queste due anime del cinema italiano dell’epoca fu sicuramente Zavattini. Io ho conosciuto Zavattini come scrittore sui giornali: il
«Marc’Aurelio», ma anche «Settimo giorno» e «Il tempo illustrato».
Zavattini era un punto di riferimento, però, non sul piano etico, ma
sul piano dell’immersione nella fantasia, figlia del realismo magico di
Bontempelli, vicina a noi liceali. Quindi Zavattini era un mito ancora prima del cinema.
Credo comunque che il Neorealismo non si limitasse soltanto al
cinema. Era un sentire etico comune a tanti ambienti: pittura, politica, letteratura erano molto legate.
Questo rinnovamento è venuto da Vittorini, da Pavese, da Guttuso, Baj, Turcato. Di qui la forza del Neorealismo che non è stato
soltanto una scuola di cinema ma è stato un’etica, una visione della
vita subito dopo il fascismo, subito dopo la guerra. È quello che ha
fabbricato la nostra generazione e non solo.
Pensi ci sia rimasto qualcosa, oggi, se non della lezione estetica, almeno della lezione etica del Neorealismo?
Credo che qualcosa sia rimasto. Sicuramente in Giordana, in Sci20
In quella stagione scrivi una cinquantina di sceneggiature prima di
passare alla regia. C’è un primo periodo in cui il tuo regista principe –
che anch’io, d’altronde, apprezzo – è Domenico Paolella, per cui scrivi
Canzoni di mezzo secolo, Canzoni, canzoni, canzoni, Amori di mezzo secolo, tre film godibilissimi e dignitosissimi. Però poi scrivi anche
Due notti con Cleopatra.
Sì, lavoro per Mattoli, per Corbucci, per Steno, per Simonelli, per
Bianchi…
Non credi che questi onesti e talora eccellenti artigiani avessero –
come dire? – una visione totalmente aproblematica della realtà e,
comunque, certamente del proprio cinema?
Certo, totalmente.
Ecco, allora, la curiosità che ne consegue. Negli anni Sessanta tu
21
UNA CONVERSAZIONE CON ETTORE SCOLA DI LINO MICCICHÈ
IL CINEMA NON CAMBIA IL MONDO MA PUÒ FARCI RIFLETTERE
sei, assieme a Maccari, uno sceneggiatore di grande qualità, molto
diverso da quello degli anni Cinquanta. Che differenza c’è – almeno a
tua esperienza – tra i due decenni, nel pur costante mestiere di sceneggiatore?
i suoi film, tranne il primo e l’ultimo (perché ero in Africa a fare un
film con Sordi, Riusciranno i nostri eroi…?).
Dovendo pensare a una “bottega” che mi ha formato sicuramente penso ad Antonio, perché a parte le sue radici di critico, aveva interessi letterari. Era diverso da tutti gli altri uomini di cinema con cui
lavoravo. Inoltre aveva cara la tematica femminile che all’epoca non
esisteva nel cinema italiano, né nel Neorealismo, dove la figura della
donna è quella della Magnani in Roma città aperta. La donna era generalmente un’appendice dell’uomo: o mamma o puttana o infermiera,
non aveva mai l’onore dell’indagine psicologica. I protagonisti erano
tutti attori, non c’erano attrici protagoniste in quel momento, e quindi le inventava lui. La Sandrelli aveva già lavorato con Germi, ma il
personaggio di Io la conoscevo bene credo che rappresenti non soltanto la carriera di Stefania, ma anche la prima vera attenzione psicologica al personaggio femminile di tutto il cinema italiano.
C’era molta cialtroneria da dopoguerra. Ricordo che Carlo Infascelli, genio dell’improvvisazione, aveva un grande appartamento con
tanti tavoli come una redazione e il maestro che passava da un tavolo all’altro era Vinicio Marinucci, che leggeva le nostre pagine come
un professore.
Si trattava, a partire dai testi delle canzoni, di tirare fuori una storiella dalla canzone: l’ispirazione era data da Sanremo, dalla canzonetta. C’era un po’ di cialtroneria, però quella cialtroneria che ha fatto grande in futuro il cinema italiano perché si sono praticati in quell’epoca tutti i generi: il cinema italiano è stato un cinema di genere
molto più di tante altre cinematografie. Abbiamo avuto l’antica
Roma, il Medioevo, lo storico, il finto-storico, qualche punta anche
verso la fantascienza. Veramente si tentavano tutti i generi…
Forse sarebbe meglio dire tutti i filoni: i generi veri e propri non erano molto codificati e sovente apparivano mescolati tra di loro…
Sì, ma, sia pure in quel caos dilettantesco, va individuata lì la definizione dei generi originali del cinema italiano: in Inghilterrra, in Germania, in Francia non ci sono stati tutti questi generi. Una cinematografia è grande quando può proporre tutti i generi. E l’Italia per un
periodo l’ha fatto.
In queste stagioni c’è un tuo incontro importante, certamente il più
importante di questo tuo primo decennio e destinato, d’altronde, a produrre quasi ogni volta un risultato egregio. Si tratta di Pietrangeli. Io
amo molto Pietrangeli, e tu farai delle bellissime sceneggiature con lui
negli anni Sessanta; ma anche quelle degli anni Cinquanta…
Pietrangeli l’ho conosciuto grazie a Infascelli. Mentre facevamo le
canzonette qualche volta venne anche lui. Ma Antonio era serio, non
era adatto a quel tipo di sceneggiature. Aveva già diretto il suo primo
film, Il sole negli occhi. Fece un episodio di Amori di mezzo secolo che
gli scrissi io e da allora cominciammo a frequentarci: ho scritto tutti
22
Se c’è Pietrangeli negli anni Cinquanta (e oltre), c’è poi Dino Risi
negli anni Sessanta, a partire da Il mattatore…
Risi è l’opposto di Pietrangeli. Pietrangeli era pignolo, puntiglioso, voleva andare sempre in profondità. Risi invece aveva la grande
dote della leggerezza, che si vede nei suoi film: credo che Il sorpasso
se lo avesse girato un regista più attento, più puntiglioso, sarebbe stato un film pesante. Antonio era più solido, non partiva neanche per
una scena se non era convinto fino in fondo di tutto. E invece Risi era
del genere “garibaldino”, più spontaneo, fiducioso. Più ottimista, e
questo in fondo si vede nei suoi film.
Il gaucho invece fu un’esperienza bellissima. Io e Maccari pensammo in una settimana al soggetto. Poi io sono andato in Argentina
con la troupe e la sceneggiatura è stata scritta giorno per giorno in un
albergo: “Alvear”, si chiamava. La sera vedevo Dino, che mi raccontava quello che aveva girato e mi diceva quello di cui aveva bisogno
il giorno dopo. Io la notte scrivevo e la mattina loro andavano a girare e io mi mettevo a letto. Insomma, è stata una strana esperienza quella di questo film, che ha parecchi difetti di approssimazione e di cialtroneria, però nonostante tutto ha un’anima.
Ho appena riletto una tua dichiarazione in cui tratti molto male la commedia all’italiana: sostieni che era un gran pasticcio e un po’ reazionaria.
23
UNA CONVERSAZIONE CON ETTORE SCOLA DI LINO MICCICHÈ
IL CINEMA NON CAMBIA IL MONDO MA PUÒ FARCI RIFLETTERE
Molto reazionaria… era paesana. Somigliava a certa televisione di
oggi
ché qualche volta c’è un incontrollato compiacimento verso il personaggio, la celebrazione, quasi, di certi difetti dell’italiano.
Scrivi: «La commedia all’italiana è stata la figlia degenere del Neorealismo, una sorta di reazione un po’ reazionaria in quanto nata come
pacificatoria, testimone di un’Italia consolata, grassoccia e paesana dai
pochi riferimenti con la realtà». Adesso, rivedendo la commedia all’italiana, scopriamo invece che è piena di riferimenti agli umori dell’epoca, anche se si tratta di riferimenti per così dire rovesciati, che presuppongono la conoscenza della storia per essere chiaramente percepiti. Eppure tu, con Maccari e alcuni altri, sei uno degli inventori di questo macrogenere.
Ne Il sorpasso il personaggio di Gassman era un personaggio critico, ma a sua volta si proponeva come un modello in battute, atteggiamenti, comportamenti. Certo non poteva fungere da modello il personaggio di Trintignant, che per di più moriva di “perbenismo”.
Credo che mi si possano dare tutte le colpe. Maccari ancora di più
perché ha cominciato prima di me sceneggiando i film di Macario,
che sono gli “zii” della commedia all’italiana, insieme a quelli con
Tino Scotti, Billi e Riva.
Credo però che a un certo punto sia scattato qualcosa, grazie a
Monicelli, a Age e Scarpelli e un po’ anche grazie a me. La commedia all’italiana iniziale era abbastanza abietta perché si poneva al di
fuori da ogni problematica. Anche quei “Pane e amore” sono delle
falsità, sono dei ritratti di un’Italia abbastanza improbabile: sapevamo che in quegli stessi paesetti c’erano la mafia, la fame, c’erano mille problemi… e invece era tutto così: la bersagliera, il ciuchino, la
banda del paese. Era un camuffamento di eredità fascista: la realtà
lasciamola da parte, l’Agenzia Stefani passa solo le notizie che vanno lette…
Questo è vero per la commedia italiana di mezzo, perché la commedia “all’italiana” vera e propria, quella degli anni Sessanta, cerca di graffiare un po’ di più. Il punto è, semmai, che lo fa con una tale dose di
compiaciuto cinismo (che forse, all’origine, voleva essere un cinismo
mimetico, adeguato alla cattiveria dei tempi; ma che in realtà diventa
la chiave portante dei film) che sovente il personaggio negativo – quello i cui vizi il film vorrebbe teoricamente denunciare – risulta anche il
più irresistibilmente simpatico, l’accattivante “fijo de mignotta” da perdonare, se non il modello da imitare.
Sì, c’è nascosto anche qualche pericolo, in quella commedia, per24
Sì, quello di Gassman era un personaggio vero e reale ma d’altra
parte poteva nascondere qualche pericolo di piccola celebrazione.
A proposito del tuo esordio, Se permettete, parliamo di donne era
molto più vicino a questo “cinismo” generalizzato che alla scuola Pietrangeli.
Ho cominciato a fare il regista non per mia colpa. Fui obbligato
da Gassman per il quale avevo già scritto delle scene. Se permettete,
parliamo di donne era un copione pronto che doveva girare un altro
regista. E Gassman mi convinse a dirigerlo. Quindi fui regista per
caso, e poi ci sono rimasto. Certo le prime opere con Gassman appartengono più a quella commedia all’italiana che io criticavo che a quella che volevo fare. Io sino a L’arcidiavolo sapevo quello che facevo,
sapevo che non era quello che volevo fare: non era quello che facevo
già per Pietrangeli e per Risi, che erano più avanti. Per esempio mentre scrivevo Io la conoscevo bene preparavo Se permettete, parliamo di
donne, laddove forse avrei preferito dirigere Io la conoscevo bene e
non il mio film.
Noi critici fummo alquanto stupefatti dai tuoi esordi. Sapevamo,
infatti, che tu e Maccari eravate gli sceneggiatori anche di Pietrangeli e
di un paio di film di Risi di grande qualità: questo tuo esordio andava
benissimo da un punto di vista professionale, ma in esso non vi era traccia né di quel mondo complesso, e finemente delineato, che invece c’era in Io la conoscevo bene, né di quella ragguardevole capacità di riflettere lo Zeitgeist, dandone così un efficace quadro sintomatico, che caratterizzava Il sorpasso.
C’era, in quei miei primi film, esattamente quello che io prima rimproveravo a Muccino; anzi in più con l’obbligo di far ridere, che all’e25
UNA CONVERSAZIONE CON ETTORE SCOLA DI LINO MICCICHÈ
IL CINEMA NON CAMBIA IL MONDO MA PUÒ FARCI RIFLETTERE
poca era una parola d’ordine da cui non scappavi. L’unica domanda
che ti faceva un produttore era: «Ma fa ridere?». Del resto non gliene fregava niente, se il film costava o no, se era morale o immorale,
se era fine o volgare.
tuo film, invece, Pepe è una sorta di protagonista assoluto. E poi il personaggio offre il destro a una bellissima interpretazione di un grande
Tognazzi.
Forse potremmo concordare sul fatto che il grande limite operativo
della “commedia all’italiana” degli anni Sessanta è che quel cinema si
sottraeva costantemente e sistematicamente alla rappresentazione della complessità.
Era assolutamente unidimensionale.
Va anche detto che la realtà del periodo, specie quella degli avanzati anni Sessanta, era più complessa della realtà guardata dal Neorealismo. Così come la realtà di oggi è enormemente più complessa di quella degli anni Sessanta. Ma già allora, forse, “mostrare” il reale (come
aveva fatto, ad esempio, Rossellini con le rovine di Berlino) non significava più necessariamente farlo capire. Laddove oggi limitarsi a
“mostrare” il reale visibile significa automaticamente mistificarlo. Fatto sta che la “commedia all’italiana” si situa oggettivamente quando il
reale comincia a divenire irrappresentabile.
Le realtà è nascosta. Non c’è commedia all’italiana in mezzo a una
tragedia.
A parte, dunque, quei tuoi discutibili esordi, si suole in genere stabilire una svolta, nel tuo cinema, con Il commissario Pepe, che a me
pare invece piuttosto un film-ponte verso la vera svolta costituita da
Dramma della gelosia, dove la presenza di Age e Scarpelli finisce per
avere anche una feconda funzione dialettica nei confronti della tua
regia.
C’è anche qualche ricerca di linguaggio in più che ne Il commissario Pepe. Questo film ha invece un merito-demerito: di proporre il
primo commissario nel cinema italiano.
Sì, è vero che c’è prima l’Ingravallo di Germi (Un maledetto imbroglio), ma nel bel film germiano il commissario Ingravallo, pur essendo
il protagonista, è l’epicentro della vicenda, non il suo motore primo. Nel
26
Un grande Tognazzi e una provincia chiusa, cattolica. Ecco, qui è
già presente quella seconda dimensione di cui parlavamo. In Dramma della gelosia invece c’era la presunzione di far vedere che l’alienazione può essere anche proletaria, mentre Antonioni aveva fatto
film stupendi sull’alienazione borghese.
Fino a Il commissario Pepe abbiamo film con protagonisti. A partire da Dramma della gelosia si inseriscono nella tua filmografia due
elementi destinati a restarvi a lungo. Da una parte c’è il gruppo: non c’è
più un singolo protagonista, anzi lo si esclude proprio, puntando piuttosto a un’aggregazione di personaggi (una famiglia, un cenacolo di sinistra, un gruppo di emarginati, ecc). Dall’altra c’è la dimensione del tempo, delle stagioni e delle generazioni, ovvero la dimensione della Storia, che inizia con C’eravamo tanto amati. Dunque il Gruppo e la Storia sono i due elementi innovativi nella tua filmografia.
Sì, il ritratto monografico di un personaggio mi stava stretto, volevo avere più punti di vista, più angolazioni. In C’eravamo tanto amati ci sono tre classi sociali, tre morali diverse, anche tre destini politici diversi.
E, sopra tutto, la Storia che scorre, vedi La famiglia, oppure La terrazza: il gruppo si modifica, i rapporti si intrecciano, gli eventi modificano i sentimenti. Il tuo diventa improvvisamente un sollevarsi sopra
le cose e sopra i personaggi, per cercare di capire il rapporto, misterioso
e profondo, fra cronaca e Storia.
La cronaca e la Storia sono pallini che avevo fin da bambino: il
nonno era cieco e mi obbligava a leggere per lui. Spesso non capivo
nulla perché mi faceva leggere Lamartine e Montesquieu. Ma tutti i
testi della rivoluzione francese, da Michelet a Mathiez a Thorez mi
sono rimasti dentro. Il Capitan Fracassa, invece, mi ha colpito perché
lo lessi quando avevo nove anni.
In verità il cinema italiano frequenta poco la Storia, e il Neoreali27
UNA CONVERSAZIONE CON ETTORE SCOLA DI LINO MICCICHÈ
IL CINEMA NON CAMBIA IL MONDO MA PUÒ FARCI RIFLETTERE
smo, così attento al presente, ha contribuito ad allontanarlo ancora di
più (con le debite eccezioni, si capisce: penso ad esempio a Visconti). Tu
sei uno dei pochi registi che costringe i propri personaggi a fare sempre
i conti con la Storia, con la pluriennalità del divenire storico, con il succedersi di divise, bandiere, slogan, costumi (penso a Ballando ballando); oppure anche, come in Una giornata particolare, a stabilire un contrappunto fra uno o due destini individuali e un momento storico, bloccato nella sua distanza fra il clamore della Storia e l’umile silenzio di
una vita. Come nasce questa tua attitudine che non è né neorealistica
né della commedia, e che forse è la tua caratteristica principale? Forse
anche dalla tua vocazione a narrare. Rossellini diceva: «L’obiettivo dei
miei film è l’attesa»; invece l’obiettivo dei tuoi film è il narrare. E con
la Storia si narra meglio, la vicenda assume un altro spessore.
per la verità, sono più modificati dal mondo di quanto non lo modifichino…
Questo è sicuramente vero, ma si tratta anche di un desiderio di
capire quello che succede anche attraverso il passato. Durante il fascismo, il giorno che Hitler venne a Roma andai in quella che allora si
chiamava via dell’Impero vestito da balilla. Sono ricordi precisi di
immagini, di atmosfere che poi ho messo in Una giornata particolare
e in Concorrenza sleale: non si può dire che siano autobiografici perché nel 1938 avevo sette anni, ma sicuramente si può parlare di umori, di radici, ed è qualcosa che sento vibrare subito.
Tra i tanti film che volevo fare e non ho fatto c’era un film sul cinema a Venezia nel 1943-1944 e un altro film su Porta San Paolo. Insomma, è un periodo storico che ho vissuto quando avevo tra i sette e i
dieci anni ma che è stato quello che mi ha sicuramente marcato di
più.
In C’eravamo tanto amati uno dei personaggi lo denuncia: «Volevamo cambiare il mondo e il mondo ha cambiato noi», dice Satta-Flores. D’altronde è ovvio, visto che si tratta sempre di piccoli personaggi. E questo continuo mettere in contatto la Storia con personaggi piccoli e non protagonisti della storia, credo che – per la parte che
riguarda i personaggi – sia proprio neorealistico. Se di novità si può
parlare, è che qui abbiamo un cinema neorealista con piccoli personaggi della vita quotidiana pedinati nel loro cammino ma con questo
sfondo, con questo scenario, con questo background che è la Storia.
Penso, ad esempio, che La famiglia sia un racconto neorealistico dove
alcuni personaggi vengono pedinati nel confronto che essi hanno con
le epoche che passano e mutano non solo l’età e i personaggi, ma il
loro costume, la loro mentalità, i loro umori, le loro idee sulla vita e
sul mondo.
Un esempio più recente è Concorrenza sleale, dove lo sforzo poetico sta nel partire da una quotidianità “neorealistica” per immettervi la
Storia, la tragedia, il dramma.
È vero, credo che in Concorrenza sleale la descrizione della vita dei
personaggi, dei loro affetti, dei loro malumori, dei loro sogni, delle
loro rivalità, sia neorealistica.
È per questo che credo che la tua ispirazione sia molto personale,
perché se c’è un terreno manchevole nel cinema italiano, è – ripeto –
proprio la dimensione della Storia, cioè il vedere con le lenti anamorfiche il flusso che lega i personaggi al vivere collettivo, il modo in
cui essi modificano il mondo e ne sono modificati. I tuoi personaggi,
A proposito di Neorealismo, quello che a me pare tuttora insuperato non è certamente l’insieme delle estetiche e delle poetiche che esso
perseguì, d’altronde tutte abbondantemente diverse fra loro; ma quella
che io ho definito un’“etica dell’estetica”, ovvero la consapevolezza della responsabilità “morale” che si assume chiunque maneggi un mezzo
di espressione rivolto al pubblico. È, mi pare, la maggiore carenza del
giovane cinema odierno: quella che fa sì che, spesso, davanti ai film dei
giovani registi ci si chieda – senza sapere rispondere o individuare una
risposta nell’opera – quale è la ragione del film, ciò che ha spinto l’autore a scegliere quel soggetto, quei personaggi, quel linguaggio. Insomma non mi importa tanto che il film sia “bello”, quanto che sia “motivato”. E spesso, nel giovane cinema, e con tutte le necessarie eccezioni,
questa motivazione non c’è. Credo che invece tu sia rimasto legato a
28
29
Tu cerchi di leggere la quotidianità della Storia, ovvero il dipanarsi
dei destini individuali sullo sfondo dei destini collettivi…
Nomino a protagonista la piccola gente che non ha partecipato a
nessuna decisione storica.
UNA CONVERSAZIONE CON ETTORE SCOLA DI LINO MICCICHÈ
quell’“etica dell’ estetica” che fu delle “nouvelles vagues”, dal Neorealismo al cinema cileno. Mi pare che, per ognuno dei tuoi recenti film tu
possa invece rispondere perché l’hai fatto, cosa avevi dentro che ti ha
spinto a farlo, che cosa, facendolo, intendevi dire allo spettatore.
Ho fatto film non riusciti, ma anche in quelli brutti e negativi c’era
sempre voglia di dire una cosa... Ecco, averlo fatto per averlo fatto non
mi pare di poterlo dire di nessun film, tranne forse di quei due o tre primi film con cui ho esordito. Ma forse era la temperie dell’epoca, il successo di Gassman... il successo di un attore diventava una sorta di esigenza morale. Ma già dall’Africa (Riusciranno i nostri eroi?) c’erano
quei dieci minuti di quello che mi piaceva, di quello per cui facevo i
film e cioè il rapporto dei coloni con i negri, il cambiamento di un piccolo Berlusconi durante questo viaggio. Su Berlusconi ho fatto un altro
film, cioè La più bella serata della mia vita, ispirato a La panne di Dürrenmatt, dove c’era un Berlusconi che arrivava in questo castello in cui
dei giudici in pensione lo giudicano e lo condannano a morte.
IL CINEMA NON CAMBIA IL MONDO MA PUÒ FARCI RIFLETTERE
Perché c’è un protagonista… che attraversa le epoche.
C’è un protagonista la cui bella interpretazione tu controlli e temperi abbastanza o che riesce a temperarsi, insomma un Gassman misurato, che non strafà, non fa il profeta; e conferma la fama che hai di gran
direttore di attori.
Anzi, Gassman gioca all’understatement. E comunque fa leva sui
toni smorzati, sulle pause, sui silenzi. È uno che si abbassa, che non
prende decisioni, che rinuncia tutta la vita: rinuncia all’amore e sposa la sorella di quella che ama; rinuncia alla politica, si mette nella nicchia di professore per non prendere parte alla vita. È insomma un
antieroe.
C’è un film che secondo me hai fatto con molto trasporto, con molta passione e che a non tutti è piaciuto dalla parte a cui ti rivolgevi. So
che questo ti ha anche amareggiato. È Mario, Maria e Mario. A ripensarci, dove vedi il nodo di questo film?
Quale di questi film degli anni Settanta-Ottanta senti più tuo?
Faccio fatica a dirlo. C’è spesso un pezzo di film a cui sono molto
attaccato, da cui forse alla fine sarebbe interessante fare un film di tre
ore. Ma non ne trovo nessuno che mi sia riuscito al 100%.
Una giornata particolare mi sembra sia riuscito in una percentuale
molto vicina al 100%.
Sì, però era più facile perché aveva meno dimensioni. C’era la
dimensione neorealistica dei due personaggi, poi c’è la radio, c’è
Hitler; non so… è stato il film che ho fatto più facilmente sia come
sceneggiatura che come riprese; è quello che mi è durato meno, ma a
volte ciò è vantaggioso.
Forse perché la svolta del Partito Comunista è un evento che è
dispiaciuto a tanta gente, ha determinato la fine di un’ideologia che non
è stata poi sostituita da nulla, è forse un film un po’ antipatico. Anche
Mario, Maria e Mario rientra secondo me in quel discorso sul Neorealismo. Certi eventi che sembrano distaccati, che sembrano appartenere
solo alla cronaca alta, ai giornali, alla televisione, invece entrano nella
vita di una coppia, nei loro sentimenti: addirittura finisce che si separano. Dalla politica credo non si possa prescindere perché fa parte del tuo
modo di vivere associato, di vivere con gli altri, di vivere nella polis.
Nessuno può astenersi dal fare politica. Perfino il film di Muccino è politico perché politicamente dice che questa generazione di giovani può fare a meno di ideali, può fare a meno di utopie. Invece io
credo che se non c’è l’utopia te la devi inventare perché l’uomo senza utopia non è niente.
Forse La terrazza, o La famiglia?
Già di più, anche lì ci sono alcune zone in cui mi riconosco di più.
Per la verità non so quanto volontariamente, ma questi giovani
appaiono dei minus habentes…
Capisco che questo avvenga per La terrazza che ha degli alti e bassi
data la miriade dei personaggi, però La famiglia è più compatto…
Sì, forse proprio perché non hanno più utopia, né l’utopia è sostituita da qualcos’altro.
30
31
UNA CONVERSAZIONE CON ETTORE SCOLA DI LINO MICCICHÈ
IL CINEMA NON CAMBIA IL MONDO MA PUÒ FARCI RIFLETTERE
Denunciano però tutti un’inquietudine misteriosa. Che è poi il tema
costante di questo giovane cinema: in parte, ma solo in parte, è un’inquietudine erotica, che investe cioè la vita di relazione: e quindi si prendono, si lasciano, si riprendono, si rilasciano. Come da sempre gli umani, ma qui con maggiore pena. In parte è un’inquietudine più sottile:
viaggiare, scappare, rompere, andare altrove, afflitti da precoci nostalgie, precoci rimpianti, precoci rinunce...
ricchezza di umori, di sentimenti che, se riesci a tirarglieli fuori, è sicuramente meglio di quello che ti può dare un’altra attrice.
Sì, tutte manifestazioni di un vuoto generazionale, di una storica
mancanza di speranza, di un’assenza totale di un “dover essere”, di
un progetto, di un’utopia ripeto.
Ritorniamo ora al tuo cinema. Se io dovessi definirlo, lo definirei
come un cinema di prosa, dove non mancano momenti di alta tensione
ma sono rarissimi i momenti di abbandono lirico. Però ci sono molti di
questi momenti, assolutamente deliziosi, ne Il viaggio di Capitan Fracassa. Ti riconosci in questa eccezione?
Ciò è dovuto sia alla tenerezza di certe immagini di Gautier, sia a
Massimo Troisi. Troisi aveva una sua gentilezza, una sua poesia interna che dava a chi lo avvicinava l’esigenza di rappresentare questa sua
qualità, questa sua dolce tristezza, questa sua solitudine.
E, in parte, anche all’uso molto particolare che fai di Ornella Muti.
Veniamo al tuo cinema e alla modernità. C’è oggi anche una lettura
moderna del tuo cinema, di uno Scola meno politico ma ugualmente
ideologico. In alcuni dei saggi su di te contenuti in questo libro ad esempio, si parla di gender: la donna, la femminilità, la sessualità. C’è una
possibile lettura moderna in questo senso del tuo cinema, dei tuoi personaggi?
La lettura moderna dipende da chi la fa… non è che l’autore ci
metta qualcosa che possa essere letto in modo più moderno. È una
cosa inavvertita e non premeditata. Sicuramente è vera quest’attenzione al piccolo uomo, alla piccola donna, quest’interesse per la donna, per l’amore, per i sentimenti, per gli equivoci dell’animo. Ma tutto questo c’era anche in film più vecchi ed è probabile che sia la lettura modernamente angolata a scoprire ciò che prima rimaneva
occulto.
Credo tu abbia ragione: c’è da un lato la modernità di un testo, dall’altro la modernità di una lettura. E non sempre le due cose sono concomitanti, anzi. C’è comunque, nei tuoi film recenti, una insolita pariteticità dei protagonisti maschili e femminili. Forse anche perché il tuo
uso degli attori è molto particolare. Pensavo, a tale proposito, che forse
non è giusto dire che Il viaggio di Capitan Fracassa è l’unico film in cui
hai dei momenti lirici. Ricordo, ad esempio, un paio di incontri molto
intensi tra Fanny Ardant e Gassman ne La famiglia. Lì è Fanny Ardant
che ha dentro di sé un po’ di quel mistero, quella fascinazione, quegli
stupori senza risposte che aveva Troisi.
Credo che certe cose che tu stai notando vengono quando già esistono dentro gli attori che usi. Io, dopo la maledizione (faccio per
dire) di Gassman, ho sempre fatto dei film con grandissimi attori che
avevano fatto ognuno cento film prima di lavorare con me. Quindi
avevo voglia di utilizzare quegli attori in controtendenza, ad esempio
facendo di Mastroianni, questo simbolo del latin lover, un omosessuale, o di un monumento di prorompenza, di presunzione e di orgoglio come Gassman, uno che non sa veramente che pesci prendere.
Oppure cerco dentro di loro certe note, come in Troisi che aveva
dentro di sé questa tristezza da resistente, o in Ornella che è una strana attrice; anche lei ha questa melanconia, questa paura dell’invecchiamento, già da dieci, quindici anni quando queste paure non doveva avere. Lo stesso è accaduto con Stefania Sandrelli che ha dentro
di sé non delle attitudini da attrice eccezionali, ma sicuramente una
Fanny Ardant è una donna non solo intelligente, ma sensitiva:
avverte tutto. Vuole capire tutto, vuole capire i quadri. In questa casa
vorrebbe capire Picasso, perché Miccichè ha un Picasso. E come mai
quello e non un altro. È una donna piena di curiosità, e questa vivacità incessante viene fuori anche quando recita, sotto specie di una
recitazione tutta particolare. Lo stesso vale per l’introspezione di
Massimo Troisi, che non era un filosofo, anzi era del tutto incolto, del
tutto naturale, però aveva questa attitudine al guardarsi dentro, ad
essere sempre in allarme per qualcosa che non è avvertibile.
32
33
UNA CONVERSAZIONE CON ETTORE SCOLA DI LINO MICCICHÈ
Era anche, mutatis mutandis, una delle grandi virtù di Mastroianni.
Marcello ne aveva più d’una. Anche lui partiva senza bagaglio culturale – era il primo a dichiararlo – ma aveva tante curiosità, e aveva
questi abbandoni, queste depressioni: era ricco come attore perché
era ricco come uomo. Perciò gli stava molto stretta la definizione di
latin lover. Non era così, e anche con le donne era tutt’altro che così:
era timido, era a disagio, era imbarazzato…
Tu hai provato a fare un incontro tra questi attori del profondo, mettendo accanto Troisi a Mastroianni in Che ora è.
Che ora è fu uno sfortunato film che ho girato, appunto, con loro
due. Osservandoli, ma anche nelle pause, notai che si era stabilito tra
loro un rapporto padre-figlio, dove il padre era naturalmente Massimo Troisi e il figlio era Marcello… Questo rapporto naturale si era
creato tra loro con due nature in fondo simili: tutti e due paesani, tutti e due di piccola provincia, di piccoli piaceri perseguiti infantilmente, senza mai esibire nulla anzi con una tendenza meridionale alla
melanconia. Vedendoli vicini, vedendoli insieme mi era venuta l’idea
di fare Splendor. E poi mi venne quella di metterli ancora più vicini,
l’uno e l’altro in Che ora è.
IL CINEMA NON CAMBIA IL MONDO MA PUÒ FARCI RIFLETTERE
Come infatti accade in paesi che, cinematograficamente parlando,
sono anche meno strutturati del nostro. Pensa alla fiorescenza del
cinema iraniano e a qualche bellissimo film di Teheran fatto con mezzi tecnici e finanziari irrisori…
E non c’è solo il caso del cinema iraniano. Insomma io ritorno al mio
dubbio. Non credi che la grande carenza del cinema italiano sia che non
ci sono più le ideologie, che non c’è più la politica, che i partiti sono scomparsi, che gli intellettuali vanno a briglia sciolta e campano alla giornata,
che non ci vediamo più, e tutto il resto che sappiamo; ma, nel caso del
cinema, una delle ragioni del disastro stia nel fatto che – contrariamente
a quanto accade alla tua generazione e ancora a te nei tuoi film – molti
giovani cineasti non si pongono minimamente il problema di perché fanno i film? Ci sono grandi e piccoli film del passato che hanno arricchito
la mia coscienza. Io sono più intelligente e più bravo e più colto grazie a
un film che ho visto. Viaggio in Italia, L’avventura, Rocco e i suoi fratelli 8 1/2 mi hanno reso migliore. Ma quale film odierno parla alla nostra
coscienza? Forse Il mestiere delle armi di Olmi, ma è un’isolata eccezione che conferma la regola. Perché questa norma per cui i film al massimo
divertono, ma non arricchiscono più i loro spettatori?
Cosa pensi che manchi al cinema italiano oggi? Certo, c’è un mercato ridotto a meno di un quinto di venticinque anni fa con una quota
di incassi italiani che oscilla attorno a un quindicesimo di quelle ultime
stagioni felici; e poi non ci sono soldi, le leggi sono incerte, il finanziamento insicuro, c’è la televisione dappertutto e, se non c’è la televisione, non riesci a chiudere il film… Molti dicono che “la colpa è tutta delle strutture”. Tuttavia manca anche qualcos’altro. È ad esempio un fatto che non sono più in giro dei Rossellini o dei Visconti, ovvero cineasti che le “strutture” non riuscirono a condannare al silenzio e che fecero capolavori in condizioni anche peggiori delle nostre attuali.
Perché oggi credo sia più importante fare il film. È più importante fare il film che interrogarsi su che cosa voler dire con il film che si
fa. Non si interroga più nessuno, non ci si guarda più neanche tanto
intorno. Capisco che la realtà degli anni duemila non è affascinante,
non è bella in Italia. Non soltanto politicamente, ma proprio come
filosofia, come ideologie, come programma di vita. D’altronde il problema non è solo italiano. Accade anche in Francia. In Francia c’è forse qualche commedia in più, ma non parlerei di un grande cinema
francese in questo momento. Sì, ci sono forse dei giovani più attenti,
ricercano un po’ di più, ma anche tra i giovani cineasti francesi quello che manca è forse dovuto alla disaffezione al posto e al tempo in
cui vivono. È una disaffezione al reale che si riflette nella rappresentazione del reale: sul quale non ci si fa più domande. Tutti i giovani
registi italiani, tranne qualche eccezione come Giordana, Scimeca e
pochi altri, che vorrebbero capire qualcosa di più del loro momento,
non hanno questa curiosità.
Per fortuna è passata la tendenza che c’era negli anni OttantaNovanta: la nostra realtà è brutta, quindi facciamo dei film alla Taran-
34
35
Ricordo che giravi a Civitavecchia …
E i civitavecchiesi si sono offesi. Mi ha telefonato il sindaco e sono
dovuto andare a fare una proiezione d’ammenda a Civitavecchia, perché la città è presentata come la più squallida d’Italia…
UNA CONVERSAZIONE CON ETTORE SCOLA DI LINO MICCICHÈ
IL CINEMA NON CAMBIA IL MONDO MA PUÒ FARCI RIFLETTERE
tino, dei film all’insegna del brutto, facciamo dei film di altra ispirazione. Per fortuna questo è passato e mi pare che i giovani ricomincino a parlare di loro stessi piuttosto che dell’America.
tare dei filmati fatti a Porto Alegre: 220 ore di filmato e ne ho fatto
un’ora. Perché non c’è limite e dove non c’è limite non c’è scelta, non
c’è moralità. Questo è un discorso sicuramente da vecchio, forse
retrogrado. Però è vero che queste macchinette hanno creato dei problemi che non sono stati risolti, problemi psicologici, problemi di
scrittura.
Ne è passata anche un’altra. C’è stato un lungo periodo, gli anni
Ottanta, in cui i giovani esordivano a venticinque anni rimpiangendo i
propri quindici anni: un tormentone su quando si era bambini, quando
c’erano le caramelle, quando papà e mammà ti davano la sicurezza,
quando non sapevi il male di vivere, e così via rimpiangendo in chiave
autobiografica.
Tanti autobiografi alla Hemingway. Ma nessuno ha la vita di
Hemingway, quindi nessuno ha qualcosa da raccontare. Poi non
dimentichiamo anche la lezione televisiva. Forse questo per colpa
nostra, per colpa del cinema, perché la televisione è stata disprezzata da tutti i cineasti, tranne Fellini che ha fatto delle bellissime cose,
e Gregoretti che ha inventato qualcosa per la televisione. Ma del linguaggio televisivo non se ne cura nessuno.
Secondo te la televisione ha solo preso dal cinema o ha anche dato
qualcosa?
Secondo me ha dato, però purtroppo ha dato negatività. Adesso
alcuni film che si vedono anche nelle sale sono di natura televisiva. Il
cinema ha una dimensione che pretende qualcosa di diverso, forse
esige quella seconda dimensione di cui si parlava, forse esige una posizione etica, per cui non basta fare Distretto di Polizia. In televisione
lo puoi fare, anche perchè non ci sono alternative; non essendoci controproposte il cinema si affievolisce, diventa televisivo. In questo credo che i giovani stiano mancando, nella affezione e nella curiosità.
Tu pensi che la moltiplicazione degli strumenti di scrittura abbia
allentato le problematiche di scrittura?
Non si scrive più: si pensa che il cinema non si scrive. Si generano anche equivoci, come credere che il Neorealismo facesse così. Rossellini ha avuto delle liti con Amidei di mesi e mesi, e comunque il
contesto era diverso: magari Rossellini non stava lì a sceneggiare ma
incontrava Vittorini, Antonello Trombadori, Togliatti, Turcato...
insomma, c’era una complicità di mezzi di espressione che oggi non
c’è più. Ognuno isolato fa la sua tela, e non si accettano reclami una
volta uscita dalla cassa.
Sono cosciente di fare discorsi “vecchi”, ma il problema della scrittura è alla base di ogni film. Ai tempi dei tempi, il film non partiva se
non si era sicuri della sceneggiatura, se non la si era discussa e riscritta
più volte, anche sentendo il parere di chi non stimavi, dei produttori
grossolani che ti facevano le loro osservazioni: non è che gli credessi,
ma riscrivevi la sceneggiatura. A volte si è arrivati a dei curiosi meccanismi: finita la sceneggiatura si toglievano alcune scene e la si dava al
produttore che faceva delle osservazioni. Poi si rimettevano le scene
che avevamo scritto e che avevamo tolto prima di consegnare e il produttore accettava soddisfatto. C’era una cura e un’attenzione alla scrittura perché il cinema nasce come narrazione, nasce come novella,
come romanzo. Oggi invece è come se si trattasse di un romanzo che
non viene scritto… “io vado e giro, tanto non costa niente…”
E tu pensi che sia un risultato anche della televisione?
Tu prima eri uno sceneggiatore. Come consideri il rapporto tra sceneggiatura e regia adesso che sei passato dall’altra parte? Sempre come
un rapporto necessario?
Penso di sì, anche perché è più facile fare un film per la televisione che fare un film per il cinema. Anche queste macchine che ci stanno inquadrando sicuramente sono, rispetto a vent’anni fa, un passo
avanti non soltanto nella tecnologia ma nella mentalità del regista che
gira, che non ha limiti di pellicola. Qui ci sono delle cassette che costano come un pacchetto di sigarette. Io mi sono trovato adesso a mon-
Anzi, da quando ho cominciato a fare il regista ho ancora più allungato i tempi di sceneggiatura. Questa è la mia formazione. Io non sono
mai andato sul set di Pietrangeli, di Risi, mentre altri come Rosi inve-
36
37
UNA CONVERSAZIONE CON ETTORE SCOLA DI LINO MICCICHÈ
IL CINEMA NON CAMBIA IL MONDO MA PUÒ FARCI RIFLETTERE
ce venivano dal set, avevano fatto gli aiuti e quindi hanno dato maggior importanza al fare la regia. Io più che alla regia ho sempre pensato alla pagina scritta, forse perché la prima ambizione era quella di
fare lo scrittore. Credo che al cinema di oggi manchi proprio questo,
l’amore per la scrittura, perché se ami quello che scrivi ti chiedi sempre cosa stai scrivendo, perché e cosa vuoi dire.
personaggi e sfondi italiani e dà lavoro a maestranze italiane. Ciò non
toglie che siano girati così come tu dici. C’è una telecamera davanti che
è un mero registratore di eventi che si svolgono tutti nel profilmico, e
questo è davvero la negazione della scrittura cinematografica. È come
se il regista fosse un semplice addetto alla registrazione del profilmico,
privo di qualsiasi autorità. A proposito di regia: sul set, tu sei il regista
“con gli stivali” o il regista direttore d’orchestra?
Tu parli di scrittura nel doppio senso: scrivere la sceneggiatura e scrivere col cinema. Il cinema è una scrittura e a volte viene trattato semplicemente come un buco attraverso il quale passano le immagini. E
anche sulla regia vorrei sentirti: tu sei famoso anche per l’uso dei movimenti di macchina, i piani sequenza, i dolly… pur essendo partito tecnicamente da zero. Vedi Se permettete, parliamo di donne che è semplicissimo nel suo ordinato succedersi di campi e controcampi…
Sì, è vero. Anche se c’è un carrello circolare che fece molto preoccupare i macchinisti perché dovevano smontare delle cose mentre
girava la macchina.
Però qui si tratta della punteggiatura: come per lo scrittore, che
sceglie il flusso interiore senza nessun punto e virgola, come fa Joyce, oppure va a capo, oppure fa un ricordo, che in letteratura corrisponde al flashback.
La sceneggiatura, già l’ho detto più volte, la ritengo una fase assolutamente essenziale. Quanto alla cosiddetta tecnica cinematografica,
essa non mi ha mai creato nessun problema. Problemi me ne ha creati
il senso: cosa sto dicendo, perché voglio raccontare questa cosa? La
voglio raccontare, per esempio, perché ho notato che anche ieri, parlando con della gente, ho visto che non sapeva nulla di questo, che era
un problema non interessante per loro, quindi forse il cinema ha una
funzione. Certo il cinema non cambia il mondo, però può invitare a
una riflessione. Allora cerchiamo di farla questa riflessione! Ma la devi
avere prima chiara tu, altrimenti come la comunichi?
Ecco, queste credo che siano preoccupazioni che non ci sono più.
Se Commesse fa dieci milioni di spettatori è segno che a dieci milioni
di spettatori va bene questa mancanza di scrittura.
Io sono un grande fan di questi sceneggiati italiani perché preferisco
la paccottiglia italiana a quella americana che mi pare diseducativa da
tutti i punti di vista. Questa lo è altrettanto, ma per lo meno tratta di
38
Gli stivali credo non li usi più nessuno, e per fortuna neanche il
megafono. È rimasto solo negli sketches televisivi, quando rappresentano un regista, che ha la visierina, il megafono e gli stivali. Credo
però che ci voglia un minimo di autorità, parlerei di idee chiare assolutamente necessarie se si vuole guidare una troupe. Guai se i collaboratori del film si accorgono che non hai le idee chiare. Allora ognuno è autorizzato ad avere la sua idea e ognuno è autorizzato a consigliare. Non è che io sia contrario ai consigli, ma temo tutto quello che
è improvvisazione. Non credo nell’improvvisazione, non credo nelle
folgorazioni dell’ultimo momento. Quando impieghi un anno a scrivere una sceneggiatura le improvvisazioni sono già previste. Quindi
non accetto consigli né da attori né da altri. Però prima delle riprese
collaboro con scenografi, operatori, musicisti. Io amo, per esempio,
girare avendo già la colonna sonora del film, sia pure non definitiva:
penso che la musica (se credi nel senso del linguaggio della musica
nel film) mentre giri non sia una cosa staccata, credo che la musica
aiuti non soltanto l’attore, non soltanto il regista ma perfino il macchinista che spinge un carrello: se ha la musica che lo accompagna
farà quel movimento in modo più sentito, più umano.
Perché, tu fai eseguire la musica nel corso delle riprese?
Sì. Trovaioli legge la sceneggiatura, scrive più volte le stesse musiche. Quando c’è una musica che io trovo giusta per quello che voglio
dire allora lui la esegue e la registra con un pianoforte e un altro strumento, che poi io ho sul set quando giro. Finito il film, è chiaro che
la colonna la fa l’orchestra.
Ma il set ti offre mai nulla che ti fa cambiare?
Sì, l’atmosfera, che non puoi prevedere perché devi fare i conti
39
UNA CONVERSAZIONE CON ETTORE SCOLA DI LINO MICCICHÈ
con molte cose, col tuo umore di quel giorno, col mal di testa dell’attore, con il tempo atmosferico, con certi oggetti che t’hanno messo e che ti piacciono oppure che ti sono ostili e quindi li fai togliere.
Questo il set ti determina, appunto, l’atmosfera, ma non le azioni, né
la scrittura, né il dialogo.
Quindi, che tipo di regista sono? Disposto a grandi collaborazioni,
ma prima di cominciare. Non sul set. Ripeto, non si parla di autorità
perché non c’entra niente. È stupido, i registi alla Stroheim credo che
non esistano più. Però devi dimostrare che hai le idee chiare e sai quello che vuoi fare, altrimenti hai la peggio. Questo è il cinema.
40