IL PRESIDENTE, LA TIGRE E LA STREGA DI KEYNES
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IL PRESIDENTE, LA TIGRE E LA STREGA DI KEYNES
ANNO XII NUMERO 188 - PAG III di IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 10 AGOSTO 2007 un tempo; questa definizione, nondimeno, darà al lettore inglese un’idea abbastanza chiara del presidente” (p.47). “In realtà il Presidente non aveva elaborato un bel nulla: venendo all’atto pratico, le sue idee erano nebulose e lacunose. Egli non aveva nessun piano, nessun progetto, non idee costruttive di sorta per rivestire di carne viva i comandamenti che aveva tuonato dalla Casa Bianca. Avrebbe potuto fare un sermone su ognuno di essi o rivolgere all’Onnipotente una solenne preghiera per il loro adempimento; ma non era in grado di formulare la loro concreta applicazione allo stato effettivo dell’Europa” (p. 48). Giorgio La Malfa I l 27 giugno 1919, a pochi mesi dalla fine della Prima guerra mondiale, fu firmato a Versailles il Trattato di pace fra la Germania e i paesi vincitori. Sei mesi dopo, nel dicembre del 1919, John Maynard Keynes pubblicava “Le conseguenze economiche della pace” che Adelphi ha meritoriamente riproposto in questi giorni in una bella traduzione di Franco Salvatorelli. Il libro ebbe un successo folgorante. Nel giro di pochi mesi ne furono vendute oltre centomila copie; fu tradotto immediatamente in moltissime lingue e assicurò all’autore una fama internazionale che costituì poi la premessa dell’attenzione che avrebbero ricevuto i suoi scritti successivi e in particolare “La teoria generale dell’occupazione interesse e moneta” del 1936, il più importante libro di economia del secolo XX. Nel 1919 Keynes aveva 36 anni; era fellow del King’s College ed era pressoché sconosciuto fuori dalla cerchia degli economisti dell’Università di Cambridge. Durante la guerra aveva collaborato con il Tesoro inglese e in questa veste partecipò alla Conferenza della pace come principale rappresentante del governo per le questioni finanziarie. Fin dall’inizio fu accompagnato dalla convinzione profonda che l’impostazione punitiva degli Alleati nei confronti della Germania fosse del tutto sbagliata e che essa non avrebbe potuto produrre altro che disastri. Al suo amico Duncan Grant aveva scritto il 14 maggio: “Da molte settimane sono assolutamente depresso dal male che mi circonda. La pace è vergognosa e impossibile e non può produrre altro che guai… Grazie a Dio ne sarò fuori presto perché ho chiesto al Tesoro di lasciarmi libero a fine maggio o al massimo entro il 15 di giugno”. Alla madre aveva scritto nello stesso periodo lamentando di aver dovuto essere “complice di tutta questa malvagità e follia” e il 5 giugno, nel rassegnare le dimissioni dall’incarico, aveva scritto al primo ministro Lloyd George: “Debbo informarla che sa- Decise di scrivere un commento al Trattato. Venne fuori un saggio polemico contro la follia della “pace cartaginese” imposta alla Germania bato scivolo via dalla scena di questo incubo… Ho sperato anche in queste ultime orribili settimane che lei potesse riuscire a fare del Trattato un documento giusto e utile… Ma ora a quanto pare è tardi. La battaglia è persa. Lascio ai gemelli (si riferisce a Wilson e a Clemenceau, ndr) di godersi la devastazione dell’Europa…”. Con queste premesse Keynes decise di scrivere un commento al Trattato di pace. Ne venne fuori un saggio aspramente polemico contro la follia della “pace cartaginese” che i vincitori avevano voluto imporre alla Germania. Scrive Keynes: “Non si può rimettere indietro l’orologio. Non si può riportare l’Europa centrale al 1870 senza creare nella struttura europea tensioni tali e scatenare tali forze umane e spirituali da travolgere, oltrepassando frontiere e razze, non solo noi e le nostre ‘garanzie’ ma le nostre istituzioni e l’ordine esistente della nostra società” (p. 44). Nel saggio si affermava che le ingenti riparazioni per i danni di guerra imposte alla Germania dal Trattato di pace, costituivano una violazione grossolana sia dei termini dell’Armistizio sia dei 14 punti che il presidente degli Stati Uniti, Wilson, aveva proclamato solennemente davanti al Congresso americano prima dell’inizio della Conferenza. Le riparazioni – sosteneva Keynes attraverso un esame attento del potenziale economico della Germania dopo la sconfitta – avevano un onere economico che andava ben oltre le possibilità di quel paese. Da questa analisi discendeva una conclusione che aveva la forma di una terribile profezia: “Se mireremo deliberatamente a impoverire l’Europa centrale, la vendetta – oso predire – non si farà attendere. Niente potrà allora ritardare a lungo quella finale guerra civile fra le forze della reazione e le convulsioni disperate della rivoluzione, rispetto alla quale gli orrori della passata guerra tedesca svaniranno nel nulla”. La parte finale del saggio delineava un’impostazione diversa della sistemazione postbellica. Keynes sosteneva che fosse necessario soddisfare i bisogni alimentari più immediati della Germania, che il volume delle riparazioni dovesse essere stabilito in misura assai più modesta e infine che gli Stati Uniti dovessero condonare gli ingenti crediti maturati nel corso della guerra verso gli alleati con la conseguente possibilità per questi ultimi di ridurre le proprie pretese nei confronti della Germania. Che si trattasse di una visione lungimirante è dimostrato non solo dal realizzarsi della profezia di Keynes, ma anche dal fatto che la strada che venne scelta al termine della Seconda guerra mondiale – a cominciare dalla istituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale per la Ricostruzione e lo Sviluppo e dal lancio da parte degli Stati Uniti del Piano Marshall – George Clemenceau e Lloyd George lasciano il Trianon Palace Hotel a Versailles durante la conferenza di pace del 1919 a Parigi IL PRESIDENTE, LA TIGRE E LA STREGA DI KEYNES Antologia di ritratti feroci di Clemenceau, Wilson e Lloyd George scritti dall’economista (profetico) ha avuto esattamente gli effetti positivi che Keynes aveva delineato nel suo libro. “Le conseguenze economiche della pace” meritano quindi ancora oggi di essere lette e meditate. E non soltanto come la manifestazione di una straordinaria forza di pensiero e del coraggio di esprimere opinioni nettamente controcorrente rispetto alle idee predominanti, ma anche per uno stile letterario di una vivacità sorprendente. Lo testimoniano i ritratti che Keynes dedica ai tre protagonisti principali della Conferenza, cioè a Clemenceau, a Lloyd George e a Wilson. Al quarto, cioè a Vittorio Emanuele Orlando, Keynes non dedica che poche righe accompagnate dal racconto, in un saggio che pubblicò qualche anno dopo, di una seduta del Consiglio della pace all’indomani della decisione italiana di abbandonare (provvisoriamente) il tavolo della Conferenza, del misto di ironia e di fastidio con cui i tre rimasti si riferiscono al presidente del Consiglio italiano. “Si poteva solo pensarla diversamente” Il ritratto più duro è quello che Keynes dedica a Clemenceau, il più impietoso è quello di Wilson, il più sarcastico quello di Lloyd George, in parte espunto dal testo e ripubblicato integralmente qualche anno dopo. Di Clemenceau si legge: “Clemenceau era il membro di gran lunga più eminente del Consiglio dei Quattro e aveva soppesato i colleghi. Solo lui aveva un’idea, e insieme ne aveva considerate tutte le conseguenze. La sua età, il carattere, l’ingegno, l’aspetto Clemenceau, nel Consiglio dei Quattro, portava una giubba a tagliere di buon panno nero e alle mani, mai scoperte, guanti grigi si combinavano nel dargli oggettività e un profilo definito in un ambiente di confusione. Non si poteva disprezzare Clemenceau né detestarlo, ma solo pensarla diversamente circa la natura dell’uomo civile, o nutrire, almeno, una diversa speranza. L’aspetto e il contegno di Clemenceau sono universalmente noti. Nel Consiglio dei Quattro egli portava una giubba a tagliere di buon panno nero, e alle mani, che non erano mai scoperte, guanti grigi di pelle scamosciata; le scarpe erano di grosso cuoio nero, ottime, ma di foggia campagnola, e a volte fermate sul davanti, curiosamente, da una fibbia invece dei lacci. Nella sala della casa del presidente Wilson in cui si tenevano le riunioni regolari del Consiglio dei Quattro (distinte dalle conferenze private, senza assistenti, in una saletta più piccola al piano di sotto), Clemenceau sedeva su una seggiola quadrata, rivestita di broccato, nel mezzo del semicerchio davanti al caminetto, con alla sua sinistra il primo ministro italiano Orlando e, accanto al caminetto, il presidente Wilson, e alla sua destra, dirimpetto a Wilson, il premier britannico Lloyd George. Non aveva con sé carte né portafogli e non era assistito da un segretario personale, ma vari ministri e funzionari francesi confacenti all’argomento in esame erano presenti intorno a lui. Il suo passo, la mano e la voce non mancavano di vigore; nondimeno, specialmente dopo l’attentato di cui era stato oggetto, aveva l’aspetto di un uomo molto vecchio, che riservava le sue forze per le occasioni importanti. Parlava di rado, lasciando l’esposizione iniziale del punto di vista francese ai suoi ministri o funzionari; spesso chiudeva gli occhi e se ne stava rilasciato sulla sedia con un viso impassibile di cartapecora, le mani guantate di grigio intrecciate in grembo. Una breve frase, recisa o cinica, era in genere sufficiente, una domanda, una sconfessione netta dei suoi ministri senza salvarne la faccia, o un’impuntatura caparbia rafforzata da qualche parola in un inglese dalla pronuncia asprigna. Ma eloquenza e fervore non mancavano quando ce n’era bisogno, e l’improvvisa eruzione verbale, spesso seguita da un accesso di tosse cavernosa, produceva il suo effetto piuttosto col vigore e la sorpresa che con la persuasione” (pp. 38-40). “Clemenceau pensava della Francia quello che Pericle pensava di Atene: essa era per lui un valore senza pari, e nient’altro importava. Ma la sua teoria della politica era quella di Bismarck. Aveva una sola illusione, la Francia; e una sola delusione, l’umanità, inclusi i francesi e non ultimi i suoi colleghi. Esporre i suoi principi per la pace è abbastanza semplice. Anzitutto egli aderiva fermamente, in fatto di psicologia tedesca, all’opinione secondo la quale il tedesco capisce ed è in grado di capire soltanto l’intimidazione; è privo di generosità e di scrupoli nel negoziare, pronto ad approfittare di qualunque vantaggio contro di te, disposto a ogni bassezza che gli torni utile; senza onore, senza orgoglio, senza misericordia. Quindi non bisogna mai negoziare con un tedesco o blandirlo: bisogna comandargli. A nessun altro patto egli ti rispetterà, o gli impedirai di imbrogliarti. Ma è dubbio fino a che punto Clemenceau ritenesse queste caratteristiche peculiari della Germania, e se la sua schietta opinione di alcune altre nazioni fosse fondamentalmente diversa. La sua filosofia, perciò, non ammetteva ‘sentimentalismi’ nelle relazioni internazionali. Le nazioni sono entità reali: ne ami una, e provi per le altre indifferenza, o odio” (p. 41). “Per quanto possibile, perciò, era intento della politica francese rimettere indietro l’orologio e annullare i progressi compiuti dalla Germania dopo il 1870. Con le perdite territoriali e altre misure si doveva ridurre la sua popolazione; ma soprattutto bisognava distruggere il sistema economico su cui si basava la sua novella forza, la vasta struttura edificata sul ferro, il carbone e i trasporti. Se la Francia poteva impadronirsi, sia pure in parte, di ciò che la Germania era costretta a cedere, alla disuguaglianza di forze tra i due paesi rivaleggianti per l’egemonia europea si sarebbe posto rimedio per molte generazioni” (p.43). “Che grand’uomo giunse in Europa” Altrettanto impietoso è il ritratto che Keynes dedica al presidente degli Stati Uniti, Wilson: “Quale posto aveva il presidente nei cuori e nelle speranze del mondo quando salpò alla nostra volta sulla George Washington! Che grand’uomo giunse in Europa in quei primi giorni della nostra vittoria! Nel novembre 1918 le armate di Foch e le parole di Wilson ci avevano portato un repentino scampo da un conflitto che stava inghiottendo tutto ciò che ci era caro. Le circostanze sembravano favorevoli al di là di ogni aspettativa. La vittoria era talmente completa da non richiedere che il timore avesse parte alcuna nella sistemazione finale. Il nemico aveva deposto le armi confidando in un patto solenne circa il carattere della pace, un patto i cui termini sembravano garantire una soluzione giusta e magnanima e buone speranze di ripristino del corso infranto della vita. A maggior garanzia, il presidente veniva di persona a suggellare la propria opera. Alla partenza da Washington il presidente Wilson godeva in tutto il mondo di un prestigio e di una influenza morale senza eguali nella storia. Le sue parole coraggiose e misurate arrivavano ai popoli europei al di sopra e al di là delle voci dei loro uomini politici. I popoli nemici confidavano che egli avrebbe adempiuto al patto che aveva stretto con loro; e i popoli alleati lo riconoscevano non solo come vincitore ma quasi come un profeta” (pp. 44-45). “Mai un filosofo aveva avuto armi tali per vincolare i principi di questo mondo. Come si accalcavano intorno alla vettura del presidente le folle delle capitali europee! Con quanta curiosità, ansia, speranza, cercavamo di cogliere un barlume delle fattezze e del contegno dell’uomo del destino, venuto dall’occidente, che avrebbe sanato le ferite dell’antica genitrice della sua civiltà e gettato le fondamenta del nostro futuro! La delusione fu così totale che alcuni di coloro i quali più avevano nutrito fiducia quasi non osavano parlarne. Possibile che fosse vero? chiedevano a chi tornava da Parigi. Il Trattato era proprio così cattivo come sembrava? Che cosa era accaduto al presidente? Quale debolezza o quale sventura aveva portato a un tradimento tanto straordinario, tanto inaspettato? Eppure le cause erano molto ordinarie, molto umane. Il presidente non era un eroe o un profeta; non era nemmeno un filosofo; bensì un uomo di generose intenzioni, con molte delle debolezze degli altri esseri umani, e privo dei dominanti mezzi intellettuali che sarebbero stati necessari per contrastare, faccia a faccia in consiglio, gli scaltri e pericolosi incantatori che un tremendo urto di forze e di personalità aveva portato al vertice quali trionfanti maestri dell’agile gioco delle concessioni reciproche: un gioco di cui egli non aveva esperienza alcuna. Del presidente avevamo invero un’idea tutta sbagliata. Lo sapevamo solitario e distaccato, e lo credevamo uomo di ferrea volontà e ostinazione. Non ce lo figuravamo attento ai minuti dettagli: ma la chiarezza con cui si era impadronito di certe idee essenziali, unita alla sua tenacia, lo avrebbe messo in grado, pensavamo, di travolgere insidie e raggiri. Oltre a queste qualità gli aveva di certo l’obiettività, la cultura, il vasto sapere dello studioso. La grande finezza di linguaggio che aveva contrassegnato le sue celebri note sembrava denotare un’alta e possente immaginazione” (pp. 45-46). “La prima impressione di Wilson visto da vicino intaccava alcune di queste illusioni, ma non tutte. La testa e i lineamenti erano ben modellati, e corrispondevano perfettamente alle fotografie; i muscoli del collo e il portamento del capo erano molto distinti. Ma, come Odisseo, il presidente appariva più saggio da seduto; e le sue ma- “Il presidente assomigliava a un pastore non conformista, diciamo un presbiteriano. Il suo pensiero e il suo temperamento erano teologici” ni, sebbene capaci e abbastanza forti, difettavano di sensibilità e di finezza. Una prima occhiata suggeriva non solo che l’indole del presidente, quale che fosse, non era principalmente quella dello studioso o dell’uomo di pensiero, ma che egli scarseggiava anche di quella cultura mondana che distingue un Clemenceau e un Balfour come squisiti esemplari della loro classe e generazione” (p. 46). “Ma se il presidente non era il re filosofo, che cos’era?… Il bandolo, una volta trovato, era illuminante. Il presidente assomigliava a un pastore nonconformista, diciamo un presbiteriano. Il suo pensiero e il suo temperamento erano essenzialmente teologici, non intellettuali, con tutta la forza e la debolezza di quel modo di pensare, di sentire e di esprimersi. E un tipo umano di cui oggi non ci sono in Inghilterra e in Scozia i magnifici esemplari di “Elemento femminile dell’intrigo triangolare” Quanto a Lloyd George, come si è detto, Keynes espunse dal suo libro i giudizi più aspri, anche se qualche anno dopo li incluse negli “Essays in Biography” del 1933 (Mr. Lloyd George a Fragment in The Collected Writings of John Maynard Keynes, vol. X, Macmillan, Cambridge, 1972, pp 20-26). Questo è il ritratto: “Il presidente, la Tigre e la strega gallese vennero chiusi insieme in una stanza per sei mesi e fu da questo che ne venne fuori il Trattato. Sì, la strega gallese – perché il primo ministro inglese costituiva l’elemento femminile in questo intrigo triangolare. Ho definito il signor Wilson un prelato nonconformista. Il lettore si figuri Lloyd George come una femme fatale. Un vecchio uomo di mondo, una femme fatale e un prelato non conformista sono i protagonisti di questo dramma. Vorrei descrivere ora la scopa (della strega) mentre volava nella penombra di Parigi… La devozione di Lloyd George al dovere nella Conferenza di Parigi era un esempio per tutti… Ma in quel test del carattere che Parigi forniva, i buoni istinti naturali del primo ministro, la sua laboriosità, la sua inesauribile vitalità nervosa non servivano a nulla. In quella fornace erano necessarie altre qualità… Se Lloyd Gorge non avesse buone qualità, fascino,visioni, non sarebbe pericoloso. Se non fosse una sirena non dovremmo temere i gorghi d’acqua. Ma non è giusto applicare a lui gli standard Spunta a un certo punto una figura positiva ed è sorprendentemente quella di uno dei vinti, il dr. Melchior ordinari. Come potrei rendere al lettore, che non lo conosce, un’impressione veritiera di questa figura straordinaria del nostro tempo, questa sirena, questo bardo dal piede caprino, questo visitatore semiumano dei nostri tempi proveniente dalla magia piena di streghe e dai boschi incantati dell’antichità celtica? In sua compagnia si gusta il sapore di irresponsabilità assoluta, di esistenza estranea alle nostre concezioni sassoni del bene e del male, unita con l’astuzia, la mancanza di scrupoli, l’irresponsabilità intima, l’amore del potere attraverso i quali i maghi del folklore nordico, affascinano, soggiogano e terrorizzano”. “Un gruppo assai triste erano essi” In questa serie di ritratti impietosi spunta a un certo punto una figura positiva ed è sorprendentemente quella di uno dei vinti, il dr. Melchior con il quale Keynes collaborò strettamente per cercare di aggirare il divieto francese di fornire aiuti alimentari alla Germania. Il ritratto, anch’esso contenuto negli Essays in Biography (pp. 389-429), è molto diverso da quello dei tre vincitori. Keynes così descrive un incontro a Trevi degli alleati con i rappresentanti finanziari tedeschi: “Un gruppo assai triste erano essi in quei giorni, con volti tirati, cadenti ed occhi stanchi e spalancati, con gente reduce da una batosta in Borsa. Ma da in mezzo a loro venne avanti un uomo molto piccolo, squisitamente pulito, vestito bene e in modo molto accurato, con un colletto duro che sembrava più pulito e più bianco di un colletto normale. La testa tonda coperta da capelli crespi tagliati corti fino al punto da sembrare il tessuto di un tappeto, la linea dove terminavano i capelli che segnava la fronte con una curva ben netta e piuttosto nobile, gli occhi luccicanti rivolti verso di noi pieni di un dolore straordinario, come un animale in gabbia. Questi era dunque quello con cui nei mesi successivi io avrei avuto una delle più curiose intimità, ed alcune strane esperienze il dottor Melchior” (p. 395). Come scrive Robert Skidelsky nel primo volume della bellissima biografia di Keynes (Hopes Betrayed 1883-1920, Macmillan, Londra 1983): “Dalla prospettiva di oggi potrebbe sembrare che (nelle Conseguenze economiche della pace, ndr) Keynes fosse troppo pessimista. Gli elementi di precarietà dell’ordine capitalistico erano troppo accentuati, la resistenza del sistema sottovalutata. E tuttavia bisogna ricordare che un senso di precarietà era sempre presente nella generazione di Keynes… La paura di Keynes nel dopoguerra circa il destino del capitalismo era profondamente influenzata dalla paura dell’età vittoriana di una società senza dio… Il resto della sua vita fu speso nello sforzo di difendere le prospettiva e di ricostruire le basi della civiltà” (p. 402).