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Le api
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Le api
La favola delle api, scritta da Bernard de Mandeville all’inizio del Settecento,
racconta di una società in cui avidità ed egoismo sono l’ingrediente necessario per la prosperità economica; quando le api, prese dal disgusto per la
propria miseria esistenziale, decidono di diventare oneste e sociali, la società
si impoverisce e si disgrega.
La morale della favola, che aveva come sottotitolo Vizi privati e pubbliche virtù,
ha attraversato i secoli fino a divenire, tramite la metafora della ‘mano invisibile’, l’idea portante della teoria economica per la quale i meccanismi del
mercato avrebbero la proprietà di risolvere l’egoismo individuale nella pubblica prosperità. L’esperienza più recente ci mostra invece che un’economia
basata sul perseguimento dell’interesse privato a scapito del benessere collettivo impoverisce e disgrega la società, e che la cooperazione è un ingrediente essenziale per il progresso economico, oltre che scientifico e civile.
I volumi proposti in questa collana seguono un’impostazione di ricerca orientata a mostrare che oggi, per salvaguardare e ampliare le nostre conquiste
materiali, è necessaria una visione dell’economia e dei rapporti sociali che,
superando l’antropologia dell’uomo economico, porti ‘le api’ verso l’idea di
un benessere che abbia come fondamento la naturale socialità umana.
Q
Quale crescita
La teoria economica
alla prova della crisi
a cura di
Anna Pettini
Andrea Ventura
© 2014 L’Asino d’oro edizioni s.r.l.
Via Saturnia 14, 00183 Roma
www.lasinodoroedizioni.it
e-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6443-239-7
ISBN ePub 978-88-6443-240-3
ISBN pdf 978-88-6443-241-0
[I] grandi passi avanti della scienza non sono dovuti
alla scoperta di soluzioni nuove a problemi ben posti.
Sono dovuti alla scoperta che il problema era mal posto.
C. Rovelli, Che cos’è la scienza.
La rivoluzione di Anassimandro
Indice
Introduzione di Anna Pettini e Andrea Ventura
XIII
Comprare da soli. Come l’infelicità degli americani si è trasformata
nella crisi economica attuale di Stefano Bartolini
1. Introduzione
2. Prologo: il formidabile consumatore americano
(nonostante tutto)
3. Il formidabile debito del consumatore americano
4. Perché gli americani si sono indebitati sempre più?
5. Comprare da soli: il capitalismo Neg
6. Che cosa causa il declino delle relazioni?
7. Il capitalismo Neg in America
8. E l’Europa?
9. Perché l’America è il tempio del capitalismo Neg?
10. Epilogo: l’implosione del capitalismo Neg
11. Bolle speculative e sogni di ricchezza
12. Sommario: il baratro davanti, il deserto dietro
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Finito o non finito? I bisogni umani tra l’ipotesi di non sazietà
e la teoria dell’adattamento di Anna Pettini
1. La sfida di Keynes
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2.
3.
4.
5.
I bisogni divengono insaziabili nella teoria economica
La non sazietà resiste nel tempo
In psicologia l’insaziabilità non è naturale
Nella psicologia applicata all’economia l’insaziabilità
diviene adattamento
6. La non sazietà non è fisiologica
7. Osservazioni conclusive
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I bisogni nella teoria economica e oltre: note di lettura
di Ernesto Longobardi
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6.
7.
8.
9.
Premessa
Il vuoto interiore dei nipoti di Keynes
La teoria dei bisogni di Marx nella lettura di Ágnes Heller
La società futura per Marx e Keynes: assonanze
e problemi
La centralità e insieme l’irrilevanza del concetto
di bisogno nella teoria economica
Heller vent’anni dopo: la rivisitazione della teoria
dei bisogni
L’impossibilità della soddisfazione dei bisogni sociali
nel capitalismo: Giorgio Lunghini
Bisogni ed esigenze nella teoria di Massimo Fagioli
L’economia tra bisogni ed esigenze
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Sul senso tragico dei bisogni di Vincenzo Patrizii
1.
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5.
6.
7.
Introduzione
Bisogni individuali e obblighi collettivi
Giustificare è negare i bisogni
La teoria economica e la spirale dei bisogni
Religione e bisogni
La tecnica: da strumento a fine
Ancora sul patto di Faust
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Il problema del tempo libero nell’ambito della civiltà del capitale
di Nicolò Bellanca e Hervé Baron
1. L’ambivalenza della diade lavoro/non lavoro
2. Il bisogno di trovare significati: le passioni
3. Basic income come primo passo verso la liberazione
dal lavoro?
4. Come limitare l’accumulazione di capitale
e il lavoro eteronomo
5. Conclusione: diritto alla piena occupazione come
rivendicazione anticapitalista, diritto al tempo libero
come costruzione politica
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Il capitalismo, la crescita e la natura della moneta di Andrea Ventura
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3.
4.
5.
6.
7.
Nodi da sciogliere
Cenni storici: la fiat money
«Essi sanno come contare, ma non sanno cosa»
Moneta e reddito
Il principio della liquidità
La moneta e l’accumulazione capitalistica
Elementi per una diversa costituzione monetaria
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Keynes e il lavoro degli economisti: non solo ‘tecnica’
di Claudio Gnesutta
1.
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3.
4.
Visione e tecnica nel lavoro dell’economista
La società e la storia: uno o molteplici futuri
La ‘nuova’ realtà: Keynes ci può essere ancora di aiuto?
Procedere ‘oltre’
Gli autori
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Introduzione
Anna Pettini, Andrea Ventura
La grande crisi che ha investito l’Occidente sta mutando i connotati fondamentali dei nostri sistemi economici: i debiti pubblici
dei paesi avanzati sono esplosi, nel Sud dell’Europa la disoccupazione corrode la stabilità sociale, l’euro e l’intero progetto europeo sono sottoposti a tensioni difficilmente riassorbibili, un’iniqua
distribuzione del reddito penalizza in misura sempre crescente i
ceti più disagiati. Quest’ultimo fenomeno, in particolare, appare
del tutto in linea con una tendenza affermatasi dagli anni Ottanta
del secolo scorso, mentre numerosi sono i segnali del fatto che,
sia in Europa sia negli Stati Uniti, i timidi cenni di ripresa generati
da politiche monetarie espansive senza precedenti sembrano
favorire solo i ceti più abbienti. Nell’insieme è anche dubbio che
la parola crisi sia la più adatta a descrivere questa fase del nostro
sviluppo economico e civile, essendo le crisi fenomeni che fanno
in qualche modo parte del normale funzionamento delle economie capitalistiche: più probabilmente siamo oggi di fronte a un
passaggio di portata storica dove è in discussione nelle sue fondamenta il rapporto tra economia e società per come è stato finora
concepito.
La teoria economica dominante sembra impermeabile a tutto
questo. A fronte della radicalità dei fenomeni in atto, gli schemi
teorici fondamentali a cui in quell’ambito ci si riferisce, infatti, sono quelli tradizionali neoclassici, vecchi ormai di centocinquanta
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Quale crescita
anni. Privatizzazioni, liberalizzazioni, riduzione dei diritti economici e sociali, attacco all’idea che gli Stati possano svolgere funzioni dirette di controllo dei processi economici, i dogmi cioè che
hanno dominato i decenni precedenti allo scoppio della crisi, sono
riproposti oggi come se la crisi fosse stata provocata da un meteorite e non fosse invece il risultato di una cultura, di una teoria
e di definite strutture di potere.
A questa concezione teorica – che costituisce, appunto, il quadro all’interno del quale vengono definite le politiche poste in
essere in Europa – si contrappone il tentativo di recuperare una
concezione keynesiana del funzionamento dell’economia. Quest’ultima, in particolare, sottolinea giustamente che le politiche di
austerità attuate con l’obiettivo di ristabilire le condizioni basilari
per la crescita al contrario impediscono che essa abbia luogo. Al
contempo si mettono in rilievo gli effetti devastanti sulla crescita
e sulla stabilità di quei processi che, in tutto l’Occidente, hanno
visto aumentare l’inuguaglianza distributiva, come anche gli effetti
destabilizzanti della deregolamentazione finanziaria. La teoria
keynesiana suggerisce come cura, accanto a politiche espansive e
redistributive, una nuova presenza pubblica nell’economia, lasciando però, a nostro avviso, inevasa la questione se la crescita
possa ancora costituirsi come obiettivo finale per i nostri sistemi
economici.
Forse anche a causa dell’impellenza dei problemi che si presentano, ‘quale crescita’ si debba perseguire, in sostanza, è una
domanda che raramente compare nel dibattito in corso: del tutto
assente nell’ambito della teoria mainstream, essa si combina in
modo problematico anche con le politiche macroeconomiche suggerite dell’economia critica a quella dominante. Eppure molti sono
i fattori che indicherebbero questa domanda come preliminare alle scelte delle politiche necessarie ad affrontare la fase attuale. Volendo collocare la crisi attuale nel più ampio contesto dello sviluppo economico e sociale dei paesi industrialmente avanzati,
infatti, numerosi sono gli elementi che indicano che una fase dello
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Introduzione
sviluppo umano basato sulla crescita esponenziale dei consumi
ha compiuto il suo ciclo.
Anzitutto, dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, il
legame tra crescita del Pil e aumento della speranza di vita alla
nascita si è interrotto. Come notò agli inizi degli anni Novanta
Giorgio Fuà, nei paesi ricchi la speranza di vita alla nascita ha raggiunto un tetto in corrispondenza del quale ulteriori aumenti di
reddito non sono più associati ad aumenti della stessa. La vita
media comunque continua ad aumentare, cosicché questo tetto si
sposta verso l’alto ma in modo indipendente dalla crescita e dal
livello raggiunto dal Pil. Per la prima volta nella storia dell’uomo,
dunque, circa un miliardo di persone vive in paesi all’interno dei
quali il benessere fisico, fatte salve specifiche sacche di povertà e
di sofferenza non ancora eliminate, non è più condizionato dalla
disponibilità di beni materiali. L’enormità di questo risultato non
può essere trascurata.
In secondo luogo, a partire dal lavoro pionieristico di Richard
Easterlin degli anni Settanta del secolo scorso, molti studi suggeriscono che, considerando indicatori di benessere più articolati,
comprensivi cioè della soddisfazione che i singoli ricavano dalla
disponibilità di beni di consumo, nei paesi a più vecchia industrializzazione la percezione che le persone esprimono del proprio benessere è sempre più legata a variabili non riconducibili al reddito.
Questi due temi, presenti nel dibattito economico da alcuni
decenni, indicherebbero perciò che da tempo l’economia nei paesi
avanzati perde progressivamente la capacità di generare benessere: è legittimo domandarsi, dunque, se le stridenti contraddizioni
che stanno attraversando i nostri sistemi economici non possano
essere ricondotte almeno in parte all’esaurimento di un modello
di sviluppo basato sulla crescita quantitativa, e se dunque sia legittimo prospettare il superamento della fase attuale di crisi soltanto riavviando le condizioni basilari per la crescita.
A tutto questo è necessario aggiungere le sempre più diffuse
preoccupazioni, o meglio i veri e propri allarmi, che provengono
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Quale crescita
dalla comunità scientifica sulla sostenibilità ambientale di un modello economico che continua a consumare risorse naturali a tassi
esponenziali e ad alterare gli equilibri ecologici. Oggi, infatti, i sei
settimi dell’umanità che fino a pochi decenni fa erano esclusi dal
benessere materiale stanno ripercorrendo il nostro percorso di
crescita, cosicché il modello sociale ed economico che negli ultimi
due secoli si è imposto in Occidente si va affermando come modello unico su scala mondiale. Le contraddizioni di un sistema
economico globale che vede nel concetto di crescita quantitativa
il presupposto del benessere appaiono perciò, anche sotto questo
profilo, una questione di rilevanza assoluta.
I punti qui sommariamente richiamati, alcuni dei quali saranno
discussi anche nei contributi che seguono, a nostro avviso richiedono che se ne rintracci l’elemento comune. Più in particolare va
individuata la ragione ultima del fatto che, nonostante le sue evidenti contraddizioni, la crescita continui a costituirsi come obiettivo in sé, come collante sociale condiviso e indiscusso, quasi potesse assolvere la funzione di elemento risolutore dei nodi non
solo economici ma anche sociali che la crisi presenta. Qui, al di là
delle problematiche a carattere economico, troviamo una questione culturale: in assenza di una ricerca su quali siano gli elementi
che consentano la realizzazione del benessere delle persone, la
crescita viene vista, infatti, come terreno sul quale si misura direttamente il benessere stesso, a dispetto di distorsioni, squilibri, crisi,
ingiustizie che essa genera. Questo modello di sviluppo si ritorce
così contro la nostra stessa civiltà. Al fondo, dunque, vi è una questione che riguarda non tanto questo o quel tema – l’ambiente, il
benessere, oppure la distribuzione delle ricchezze – ma, per riprendere un’espressione di Karl Polanyi, la posizione dell’economia nella società. Prima di un modello di politica economica è in
questione, cioè, quello che chiediamo all’economia: quali sono i
bisogni che possono essere soddisfatti sul piano economico, come
soddisfarli, come rispondere a problemi che appaiono sempre più
come problemi collettivi, che rapporto gli interessi economici sta-
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Introduzione
biliscono con la democrazia, con la giustizia sociale, con l’ambiente, con la qualità del lavoro e della nostra stessa esistenza. Questioni culturali e collettive, che nel mondo della teoria economica
neoclassica non possono neanche essere poste, nella misura in cui
questa, sulla scia di Lionel Robbins, identifica il problema economico non con quello della soddisfazione dei bisogni ma con quello
della scelta individuale.
Quanto sopra ricordato si sta formando come senso comune
sia tra una parte crescente degli economisti, sia nella sfera politica,
sia nelle fasce più informate dell’opinione pubblica. Cresce, in altri
termini, la consapevolezza che sia superata la fase dello sviluppo
umano per la quale era assolutamente centrale disporre di beni
per alleviare le sofferenze materiali, come anche avere un sistema
di garanzie e di sicurezza sociale, accedere ai servizi di base per
l’istruzione, la sanità, la cultura. Paradossalmente la crisi sta mettendo a repentaglio tutto questo ed è dunque assolutamente necessario salvaguardarlo, ma questo terreno, che è un terreno in
sostanza difensivo, non sembra sufficiente: oggi, proprio per
un’efficace difesa di quello che storicamente rappresenta il massimo dello sviluppo umano sul piano del benessere materiale, il
cosiddetto ‘modello sociale europeo’, è necessario sviluppare una
ricerca sia nella direzione dell’individuazione dei nodi critici dello
sviluppo per come si è presentato finora, sia nella direzione di
un’idea più completa e articolata del benessere delle persone,
dunque di ciò che un sistema economico può offrire al benessere
umano e di ciò che invece deve essere cercato su altri terreni.
Un primo confronto tra gli economisti che successivamente
hanno contribuito a costruire il presente volume fu costituito da
un convegno tenutosi presso la Scuola di Scienze politiche “Cesare Alfieri” di Firenze il 12 aprile 2013. Per quell’occasione fu scelto come testo base di discussione il noto saggio di Keynes Possibilità economiche per i nostri nipoti. In quel lavoro del 1930, Keynes
vedeva, a dispetto della recentissima crisi economica di allora, i
segni di una possibile soluzione del problema economico: l’enor-
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Quale crescita
me tasso di crescita delle economie occidentali avrebbe a suo avviso portato l’umanità, nel giro di cento anni, ad affrancarsi dalla
lotta per la sopravvivenza.
Nonostante Keynes centrasse tutto il suo ragionamento sull’Occidente e trascurasse i popoli rimasti fuori dall’industrializzazione, il suo saggio coglie un punto importante: cosa comporta il
fatto che la lotta per la sopravvivenza, sempre pressante per la nostra specie, possa un giorno essere risolta, e che l’umanità si ritrovi
priva del suo obiettivo più tradizionale? «Sarebbe un bene?», si
chiede Keynes. «Per la prima volta dalla creazione, l’uomo si troverà ad affrontare il problema più serio [...] come sfruttare la libertà dai bisogni economici, come occupare il tempo libero».
È chiaro che affrontare una questione di tale portata implica
una ricerca che investe problematiche prima culturali e ‘antropologiche’, e solo in seguito economiche e di politica economica. Eppure, quel problema è stato sollevato da un economista. Oggi gli
economisti del mainstream – che si sono formati sulla base di una
serie di presupposti, spesso impliciti, quali l’individualismo metodologico, l’antropologia dell’homo œconomicus e l’idea per la
quale le scienze economiche devono ricalcare il modello di scienza
che si è affermato nelle scienze della natura – rifuggono dall’affrontare problematiche di questa portata. Eppure, oggi più che allora, nonostante i quesiti posti da quel saggio di Keynes appaiano
ineludibili e impellenti, essi trovano difficoltà anche ad avere un
luogo dove essere discussi: non riguardano l’economia dominante, che non trova un linguaggio diverso da quello della logica del
profitto e dei meccanismi del libero mercato; non investono i centri di potere economico e finanziario; non trovano spazio nella politica, priva di strumenti culturali in grado di contrastare quella logica e quei meccanismi.
Gli autori di questo volume sono accumunati dall’idea che
questi temi siano centrali per la ricerca in economia e che i vari
approcci disciplinari debbano creare un terreno di ricerca che rifletta ed evidenzi la complessità delle questioni in esame; esse,
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Introduzione
all’opposto, se considerate isolatamente, forniscono una prospettiva di ricerca alterata o fuorviante.
Apre il volume il saggio di Stefano Bartolini, che mostra come
il consumismo che contraddistingue la società americana e che ha
sostenuto il suo alto tasso di crescita si associ alla distruzione dei
beni relazionali. Oltre a mettere in evidenza gli squilibri macroeconomici che questo modello provoca, l’autore illustra quanto esso sia scisso dal benessere effettivo delle persone e trovi invece
sostegno su più terreni: dal modo in cui le città sono concepite a
una cultura veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, alla
pubblicità.
Il secondo saggio prende in esame un principio basilare della
teoria microeconomica: l’assioma di non sazietà delle preferenze.
Nella misura in cui la teoria economica assume acriticamente questo principio come proprio fondamento, esso da un lato giustifica
un modello di crescita quantitativa come condizione sufficiente
allo sviluppo, dall’altro si costituisce come base per comportamenti individuali e collettivi che non generano benessere. Il saggio si
concentra sulla differenza nel modo in cui la non sazietà è trattata
dalla teoria economica, da una parte, e dalla psicologia e dalla psichiatria, dall’altra: mentre la prima la presuppone come un’idea
antropologica auto-evidente, le seconde individuano in essa una
fonte di malessere o di vera e propria patologia.
Nel saggio di Longobardi si ripercorrono i tratti salienti del dibattito che a partire dagli anni Settanta del secolo scorso è stato
sollevato da un celebre volume di Ágnes Heller. Il saggio evidenzia
il nesso che sussiste tra le affermazioni di Keynes sopra ricordate
e la questione dei bisogni nella prospettiva del superamento dell’alienazione in Marx e in alcuni importanti autori che al marxismo
si sono riferiti. Si discute, infine, dell’evoluzione della posizione
della stessa Heller e di come il tema dei bisogni è stato affrontato
in alcuni recenti sviluppi della psichiatria.
Nel saggio successivo, ripercorrendo una vasta letteratura politica e filosofica, Vincenzo Patrizii evidenzia l’intreccio tra dimen-
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Quale crescita
sione individuale dei bisogni e dimensione collettiva, mettendo
in luce che il bisogno non può essere ricondotto alla dimensione
del sostentamento ma investe una questione legata al senso dell’esistenza. In assenza di risposte consapevoli su questo terreno,
osserva l’autore, i nodi essenziali del nostro modello di sviluppo
– da quelli dell’ambiente alle questioni della solidarietà e della
giustizia sociale – non potranno trovare soluzione alcuna.
Il saggio di Bellanca e Baron prosegue sulla linea della critica
alla concezione dell’essere umano della teoria economica neoclassica concentrandosi sul tema del lavoro e del tempo libero nella società capitalistica. Anche richiamandosi alle utopie di John
Roemer e André Gorz, mette in evidenza come il superamento
dell’attuale modello di sviluppo non possa prescindere dall’immaginare una forma diversa di società, dove le persone possano
riappropriarsi del tempo libero, superando al contempo l’alienazione nel produrre e nel consumare.
Il tema della moneta nella società capitalistica, già presente nel
saggio appena riassunto, è ripreso nel contributo successivo. Qui,
a partire da una ricostruzione a carattere storico dell’evoluzione
delle forme monetarie, si mostra come da un lato il sistema finanziario spinga verso la crescita, dall’altro, per le sue interne contraddizioni, non sia in grado di garantirla. Ciò implica che, volendo
mettere in discussione la crescita come obiettivo finale delle politiche economiche, risulta necessario un ripensamento della concezione stessa della moneta e dei modi di funzionamento dei mercati finanziari.
Nell’ultimo saggio, Claudio Gnesutta propone una riflessione
sul senso del lavoro degli economisti e sulla necessità che questo
si articoli rispettando sia il piano della tecnica che quello dei risvolti politici. In contrapposizione a una teoria dominante che per
sua costituzione prescinde dalla storia e si costituisce sulla base
di una presunta ‘neutralità scientifica’, vengono qui richiamati i
cardini metodologici dell’impostazione di Keynes. In Keynes, infatti, la metodologia e la tecnica della ricerca economica si pre-
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Introduzione
sentano come strettamente intrecciate a problemi sociali storicamente determinati, cosicché emerge con chiarezza quanto sia oggi
necessario un radicale cambiamento di prospettiva per restituire
alla disciplina la capacità di costituirsi come parte attiva per un
reale progresso sociale.
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