L`eredità femminile - Biblioteca Provinciale di Foggia La Magna

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L`eredità femminile - Biblioteca Provinciale di Foggia La Magna
Rosa Porcu
Non di tesori eredità, ma liberal esempio
Ugo Foscolo, I Sepolcri, v. 150
L’eredità femminile
di Rosa Porcu
Mi è stata chiesta una riflessione sui trent’anni di femminismo e a me sembra
giusto, prima di iniziare, collocarmi, dire cioè da quale osservatorio io tenterò di
guardare questi trent’anni. Il mio è, infatti, un punto di vista singolare per due ragioni. Perché scelgo di fare la mia riflessione a partire da me, quindi anche dalla mia
esistenza soggettiva. La mia, dunque, più che una riflessione collettiva, vuole essere
una testimonianza. La seconda ragione attiene alla mia condizione particolare: io
sono sarda trapiantata in Puglia. Il mio punto di vista quindi, necessariamente, si
colloca al confine tra la mia appartenenza alla storia di questa terra e la mia lontananza, anche se solo di un passo, da essa.
Arrivai in Puglia proprio trent’anni fa. Mi ero appena laureata in filosofia
all’università di Roma e avevo già un figlio. Venire qui non fu solo una scelta personale (il padre di mio figlio lavorava nel Gargano) ma anche politica. Il Meridione
appariva infatti allora, a me e ai compagni con i quali avevo iniziato a fare attività
politica all’università, il luogo in cui investire il nostro impegno.
L’esperienza del ’68 era stata anche una rivoluzione culturale che si era saldata
con la mia formazione cattolica. Sentivo molto forte il bisogno di mettere il mio sapere al servizio di chi ne aveva di meno. Ero però consapevole che, per farlo diventare
strumento reale di libertà e giustizia sociale, dovevo sottoporlo a re\visione.
Così la mia prima scelta, in Puglia, fu di tipo culturale. Mi offrirono la cattedra al Liceo Scientifico di Vieste e la rifiutai. La filosofia che avevo studiato mi
appariva infatti, lontana da ciò che mi sembrava vivo ed essenziale nella realtà sociale. Soprattutto mi sembrava lontana dalla mia vita. Come avrei potuto insegnare
quel sapere che sentivo astratto e sterile perché non risuonava più dentro di me?
Così decisi di insegnare letteratura perché la sentivo più vera.
1. L’emancipazione
Lo stesso anno incominciai anche a fare lavoro politico organizzato a Vico
del Gargano dove risiedevo con la mia famiglia. Il mio primo impegno fu nel sinda101
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cato braccianti. Dovevo tenere riunioni e discutere con uomini molto più grandi di
me che nella Camera del Lavoro cercavano il riscatto dal presente brutale che erano
costretti a vivere. Quella esperienza fu per me il primo corso di politica vera! Quegli uomini, sempre stanchi la sera, mi hanno insegnato infatti a scegliere, a dire solo
ciò che è essenziale, in un contesto politico.
Quella esperienza mi ha dato misura politica nel senso che ha posto il limite
al mio radicalismo intellettuale (che io chiamavo allora ideale). Con quei braccianti
ho condiviso l’orgoglio di trovare mediazioni alte quando i miei ideali si incontravano con i loro bisogni. Con loro ho vissuto la gioia della politica come servizio e
come dono.
Così è iniziato il cammino vero della mia emancipazione.
L’emancipazione femminile infatti, per la mia generazione, è avvenuta soprattutto nei luoghi politici misti in cui moltissime donne hanno prestato, negli anni ’70,
la loro opera. ‘Prestato’ è il termine giusto perché ci siamo inserite in un ordine già
dato dove le regole e il simbolico dominante, per buona parte, ci erano estranei. Mi
ricordo che era bello preparare il discorso e cercare di dire la verità sulla mancanza dei
diritti essenziali in quel paese feudo del signorotto democristiano di turno. La mia
sete di giustizia si saziava in parte mentre scrivevo. Dovevo però fare uno sforzo
immane per trovare frasi adatte a un comizio, ma, soprattutto, per prendere la parola
in quel contesto. Ricordo che ero costretta a prendermi un mezzo Tavor per placare
l’ansia e riuscire a dire tutto con la veemenza necessaria.
I miei compagni invece parevano proprio a loro agio col microfono in mano
e tutta la folla sotto il palco. Anni dopo ho capito che la mia ansia dipendeva dal
fatto che in quei palchi avevo superato il confine: avevo infranto lingua e codici
appresi da mia madre. Dunque, non potevo fare altro che ‘intostarmi’ per sostenere quella prova.
Il mio impegno politico però, era in conflitto soprattutto col mio essere madre. Ho cresciuto il mio bambino con enormi sensi di colpa perché i tempi della
politica erano (e continuano ad essere) disumani.
La norma delle riunioni dei direttivi, comitati federali (frequentissimi allora
perché ‘la base’ democratica aveva maggior peso e spessore) era fare le 22.00 e poi
bisognava arrivare a casa perché queste riunioni si tenevano quasi sempre a Foggia.
I compagni apparivano invece tranquilli e si attardavano spesso in lunghi discorsi,
a volte solo per mostrare la loro visibilità politica.
Non voglio con questo parlar male dei miei compagni. Con loro ho fatto battaglie appassionanti! E, in quelle battaglie comuni, in cui ci si spendeva generosamente, in cui ci si metteva a rischio, quasi sempre senza rete sotto, ho sentito spesso Dio
molto più vicino che non in venti anni di frequentazione di chiesa. Voglio dire solamente che la guerra erano sempre i compagni a dichiararla e le strategie erano già
configurate nel loro ordine di senso. A noi donne toccava solo schierarci.
Io mi schieravo con i migliori o meglio con quelli che ritenevo i migliori.
Portavo un bicchiere colmo, a volte una bottiglia, alla loro riserva d’acqua le cui
chiavi però io non ho mai posseduto.
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Non era questa una colpa dei compagni, era una mia responsabilità. Li avevo
seguiti senza possedere la mappa del viaggio.
2. Dall’emancipazione alla libertà femminile
Se una donna entra nel mondo, in una realtà già codificata, avverte prima o
poi lo scacco di “voler essere e non poter essere”. Si rende conto infatti, all’inizio a
flash, poi via via sempre più chiaramente, di essere ecc\edente, estranea perché non
com\presa nel simbolico dominante. Si sente fuori misura perché è portatrice di
una dis\misura non essendo il mondo fatto a sua misura. Così nei luoghi misti,
prima o poi, tutte siamo arrivate a vedere “la nostra invisibilità politica”. Mi ricordo ancora il mio intervento allo storico congresso del P.C.I. di Capitanata presieduto da Enrico Berlinguer. Mi chiedevo e chiedevo a tutti e a tutte quanta parte di
Rosa potessi spendere in quel partito (che pure mi sembrava il migliore) e mi rispondevo che poteva essere al massimo il 20%. Tutte prima o poi abbiamo sperimentato sulla nostra pelle l’uso strumentale della forza femminile quando, quella
privilegiata di noi, spesso invidiata dalle altre compagne, arrivava tutt’al più ad essere ‘la prima dei non eletti’. Certo, noi donne abbiamo problemi con il potere, ma
ci è risultato sempre più difficile accettare certe mediazioni via via di respiro politico più corto, basate, quasi sempre, su accordi di potere tra soli uomini.
Così, chi prima e chi dopo, deluse, noi donne siamo andate via dai partiti e
dai sindacati.
Abbiamo smesso di fare politica nei luoghi misti.
La crisi però non è stata solo negativa.
Era duro accettare le sconfitte ma, nell’elaborazione dello scacco subito nei
luoghi misti della politica, ci è apparso con chiarezza l’inganno dell’emancipazione
e abbiamo incominciato a sentire il respiro della libertà femminile. Abbiamo incominciato a vedere il mondo con occhi grandi di donna.
Costrette a deviare dalla strada precedente abbiamo trovato, nella ricerca, un
percorso originale a partire dalla nostra esperienza di essere donne.
In questa crisi io ho incontrato il pensiero della differenza. Pensare il mondo
restando fedele alla mia esperienza di vita mi ha affascinata da subito. Fu amore a
prima vista. Come un tornare alle radici, abbeverarsi ad una fonte sorgiva. Ancora
oggi nelle riunioni del Centro “Ricerca Donna” di Foggia sento ogni volta, insieme
alla responsabilità politica una forte emozione. Anche l’elaborazione con gli uomini era stata per me affascinante, ma adesso era diverso, le energie spese, mi riportavano a me. Lo studio e l’elaborazione del pensiero femminile mi hanno permesso di
fare finalmente la pace con la filosofia. Così, dopo averne ri\scoperto la fecondità,
ho deciso di dedicare gli anni più maturi all’insegnamento di questa disciplina.
Dopo la crisi, per un po’, noi donne ci siamo separate dagli uomini e abbiamo
spostato l’asse dell’interlocuzione verso le nostre simili. Cercavamo specchi più
fedeli per capire chi siamo, quali sono i nostri bisogni, i nostri desideri. Molte, in
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questa fase, hanno fatto anche scelte soggettive dolorose, radicali come entrare in
analisi, separarsi dal proprio compagno o riconoscere pubblicamente il proprio essere lesbica.
All’inizio ci sentivamo tutte sorelle perché compagne nella strada della ricerca dell’identità femminile. Poi abbiamo scoperto le differenze e sono iniziati i conflitti. Conflitti che ci hanno coinvolte fino all’anima perché in quelle controversie
ognuna di noi si giocava la vita, cioè il senso stesso del proprio stare al mondo.
Nei conflitti è emerso un nodo essenziale: la difficoltà a vedere il di più di
un’altra donna, a ri\conoscere in lei la grandezza femminile che ognuna di noi ha
già conosciuto nella propria madre.
Oggi, mi pare, le donne si dividano fondamentalmente tra le più giovani che,
anche grazie al pezzo di strada fatto da noi, pensano, sperano di poter essere vincenti
nel mondo e le donne della mia generazione che, a partire dallo scacco, hanno elaborato pensiero, fanno azioni tentando di trovare misura femminile dello stare al mondo Esse costruiscono senso, goccia a goccia, con un lavorio incessante ma quasi sempre invisibile socialmente. L’opera femminile forse è proprio così, ci dice la Comunità
filosofica “Diotima” di Verona. Si presenta in forma carsica, appare e scompare nella
storia. O meglio lavora in forma sotterranea ed emerge socialmente quando e nei
luoghi in cui il senso di essa viene accolto. Perché l’opera femminile si presenta sempre come un imprevisto e dunque, diventa visibile solo se è ri\conosciuto.
Certo però, è inutile negarlo, il nostro è stato un arretramento rispetto alla
visibilità politica che viene riconosciuta soprattutto a livello istituzionale e organizzato. Molti compagni, che mi stimano e mi vogliono bene, con i quali ho militato per molti anni, mi rimproverano spesso di essere sparita perché non faccio più
attività politica nelle organizzazioni di sinistra. Io sento disagio e rabbia davanti
alla loro richiesta perché avverto che non sono in ascolto. Avverto la loro lontananza che è dovuta al nostro collocarci ancora in maniera diversa nella realtà.
Le donne infatti, non sono sparite, hanno da sempre abitato e segnato la
storia benché siano escluse e si escludano da essa. Sono presenti nel tessuto sociale più diffuso e più vitale. Siamo nella scuola, nelle chiese, nelle associazioni, dove
la politica si intreccia fortemente con la vita quotidiana in cui noi donne mettiamo più passione e troviamo senso. Le donne non sono fuori della politica, sono
nel primo livello, nella ‘politica prima’ e se la politica istituzionale, che è ‘politica
seconda’, non vorrà ridursi a essere solo vuoto esercizio di potere, è da qui che
dovrà prendere il nutrimento simbolico per recepire i bisogni veri di uomini e
donne.
3. Il rapporto con gli uomini e la famiglia
Io penso che la mia sia la prima generazione di donne che ha realizzato il
primo incontro vero con l’uomo. Fino ad allora le donne avevano vissuto separate
dai mariti, dai padri, dai fratelli. Questa dimensione, del resto, è diffusa nella cultu104
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ra popolare dove il rapporto tra i sessi è ancora contrassegnato da rigide divisioni di
ruoli , di ambiti spaziali e temporali.
La mia è dunque la prima generazione di donne che si è veramente contaminata con gli uomini.
Li abbiamo amati, scandagliati, analizzati, psicanalizzati forsennatamente. Li
abbiamo imitati, invidiati, odiati con tutte noi stesse. ‘L’incontro ravvicinato di 3°
tipo’ ha prodotto grandi amori, passioni inaudite, elaborazioni culturali e politiche
alte, ma anche scontri furiosi, in cui abbiamo preso atto che non è ancora possibile
“realizzare il vero matrimonio”, come dice Luce Irigaray, “tra uomo e donna”.
Perché nel mondo esistono due generi, maschile e femminile, ma non sono ancora
fondati due soggetti.
È stato l’inganno dell’emancipazione a darci l’illusione dell’incontro vero
con l’uomo. È stato il respiro della libertà che ci ha permesso di rischiare tutto nel
rapporto d’amore. Insieme al nostro corpo abbiamo offerto soprattutto la nostra
anima. Molte volte ho pensato a questo atto di donazione suprema da parte delle
donne della mia generazione il cui senso però, non è stato riconosciuto dai nostri
compagni.
Anzi molti si sono terrorizzati perché non hanno confidenza con le dimensioni dell’anima. I più si sono sottratti per cercare dimensioni d’amore più semplici
e meno paurose.
A noi è toccato a quel punto separarci da loro che già si erano allontanati o
disinvestire dall’amore per soffrire di meno.
Questa sconfitta ha permesso però di trasportare energie “dal tu al me”. Nell’analisi collettiva e personale, infatti, le donne hanno scoperto l’amore di sé. È nata
in questi trent’anni una donna nuova consapevole di sé e della potenza femminile.
Questo spostamento ha causato spesso una rivoluzione dei ruoli codificati nella
famiglia. Col nostro nuovo senso di essere abbiamo messo in discussione, (a volte
anche alla sbarra con la violenza dell’assolutizzazione) i nostri compagni. Con la
nostra capacità di iniziativa abbiamo posto loro il senso del limite e questo è stato
spesso vissuto come annullamento. È presto per fare bilanci, non mi pare però, che
il conflitto tra i sessi, aperto dalla mia generazione, sia stato fecondo di un rapporto
diverso tra uomo e donna nella nostra realtà. Sento, anche attorno a me, ancora
molta fatica e molto dolore. È ad esempio vero che qui da noi la famiglia è ancora
un valore solido e saldo rispetto alla realtà delle grandi metropoli. La gran parte
delle coppie della mia generazione, infatti, è, nonostante le tempeste, rimasta insieme. Qui da noi sono molto poche le coppie che si sono separate ma, sia gli uomini
che le donne, in generale, non stanno bene. Mi pare addirittura che il sentimento
più diffuso nella maggioranza delle coppie stabili, sia il rancore. E questo non credo
sia, in ogni caso, un segno di buona salute.
Non è stato facile crescere i figli. Dopo aver negato i modelli dei nostri genitori infatti, siamo andate in mare aperto, quasi sempre contro corrente, a trovarne
dei nuovi. Così, spesso, ci è capitato di essere come ‘barchette in mezzo al mare’
senza una bussola. Anche perché la gran parte di noi, i figli, li ha tirati su da sola. I
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nostri compagni infatti, erano troppo impegnati nelle loro imprese professionali e
politiche. Oppure sono rimasti esclusi o stritolati nel rapporto privilegiato che i
figli, soprattutto i maschi, avevano con noi, o nei nostri conflitti di coppia. Insomma i padri si sono sottratti sempre di più all’impegno di crescere i figli e questi, nel
bene e nel male, sono rimasti fondamentalmente affare nostro.
Certamente sono enormi i cambiamenti avvenuti nella nuova famiglia formata dalle donne e dagli uomini della mia generazione. Spesso è andato sottosopra
il senso precedente di essere mariti e mogli, padri e madri. Ma, nel disordine, nel
capovolgimento dei ruoli precedenti, io vedo il tentativo positivo di creare un nuovo ordine di relazioni più sane benché sia stato e sia ancora molto faticoso reggerlo
e significarlo.
Non è stato facile educare i figli, soprattutto inserire loro nella diversa visione del mondo per affermare la quale la mia generazione ha fatto tante battaglie.
A pensarci bene, per me, è sempre stata una lotta col senso comune i cui
valori spesso erano in contrasto con quelli che cercavo di comunicare a mio figlio.
È stato molto faticoso crescerlo in questa realtà dove è ancora molto diffusa
una mentalità innervata da maschilismo e familismo. È stato difficile comunicargli
insieme il valore di essere uomo senza per questo detrarlo all’essere donna. È stato
difficile fargli riconoscere il mio diritto a fare politica e ricerca in una realtà in cui
l’azione più grande che può compiere una mamma è servire il proprio figlio. È stato
impossibile educarlo alla cooperazione familiare perché gli amici lo deridevano chiamandolo ‘femminella’. È stato duro fargli accettare che è immorale chiedere favori
in una realtà dove, i genitori, soprattutto quelli che contano, continuano a scegliere
i docenti e i corsi in cui inserire i propri figli. È stato difficile insegnargli che l’amore
non è un bene materiale in una realtà in cui la modalità di amare i figli si misura
dagli oggetti che i genitori acquistano per loro.
Mio figlio mi rimprovera spesso di averlo fatto vivere in una situazione economica poco florida a causa del mio forte impegno politico e sociale che ha distolto
le mie energie dal perseguire una maggiore stabilità. Ha ragione naturalmente, ma
la mia è una scelta consapevole. Sono convinta, infatti, che i figli non abbiano bisogno di agiatezza economica, ma soprattutto di testimonianza, da parte dei genitori,
di una vita il più possibile libera e ricca di qualche passione inesauribile che dà il
fiato per resistere anche nelle fasi più dure. Questa è, a mio avviso, l’eredità diversa,
il di più rispetto alle nostre madri, che noi donne nuove possiamo lasciare ai nostri
figli e alle nostre figlie. La nostra maggiore libertà unita alla forza simbolica delle
nostre madri cioè l’autorità femminile.
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