PANe, PANico e PANdemonio - ACU

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PANe, PANico e PANdemonio:
gli OGM a cavallo della crisi alimentare
Luca Colombo Fondazione Diritti Genetici
Fra il 2007 e il 2008 il mondo è tornato ad accorgersi dell’importanza del cibo e dell’agricoltura che lo
produce e immette in commercio. Dopo lustri di disinteresse, l’impennata dei prezzi scatenatasi in ogni
angolo del pianeta ha costretto istituzioni, media, imprese e ricerca scientifica a dedicare nuovamente
attenzione e priorità ai sistemi agroalimentari.
Il panico dettato dalle difficoltà di accedere alla nutrizione da parte di fasce sempre più ampie di popolazione
ha a sua volta generato un panico politico ed economico, non ultimo a causa di tumulti registrati in circa 40
Paesi del mondo e di tensioni estesesi anche fra i ceti medi dei Paesi benestanti i cui redditi sono divenuti
progressivamente inadeguati a soddisfare gli stessi bisogni essenziali, quali quelli alimentari.
Rivolte per il pane (o per il riso, certo non per le brioche) hanno contrassegnato la storia, deposto sovrani e
dato vita a nuove forme di democrazia o di terrore. Un pandemonio che oggi si accompagna allo scompiglio
degli assetti di governo e di potere intorno al cibo e all’agricoltura che lo fomenta, al caos climatico, al
subbuglio economico e finanziario. Insomma, uno scompaginamento sistemico che offre pertugi dove
provare a infilare ricette –o meri ingredienti- che non hanno saputo trovare posto nelle cucine e nelle tavole
del pianeta.
Nel corso della crisi alimentare, gli OGM sono stati sovente invocati quali panacea di una presunta carestia
globale. Nessuna carestia si è però abbattuta sul pianeta (e sugli indigenti che lo abitano) tanto che il 2007 e il
2008 (anni nel corso dei quali i prezzi delle derrate agricole e degli alimenti sugli scaffali dei mercati sono
esplosi) hanno fatto registrare il record produttivo di cereali, base alimentare dei popoli. Sul mondo (del cibo)
si sono invece abbattuti l’impazzimento degli agrocarburanti che per sanare la sete delle automobili hanno
contribuito ad aggravare la fame di uomini e donne e un’ondata di speculazione finanziaria senza precedenti
nella storia agroalimentare.
Speculazione che continua, almeno nella forma di battage propagandistico sulla traiettoria umanitaria delle
colture transgeniche.
----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Il PANe è il nostro cibo, nutrimento essenziale del corpo e dello spirito
Il PANico (‘del Dio Pan’, che incuteva timore nei viandanti) è il ‘timore repentino che annulla la ragione e
rende impossibile ogni reazione logica’ (Dizionario Zingarelli)
Il PANdemonio identifica una ‘riunione di persone per scopi malvagi’ (Wikipedia), richiamando al contempo
un ‘insieme di rumori assordanti e confusi’, ma anche un ‘insieme di reazioni e proteste molto vivaci’
(Dizionario De Mauro)
*
Il presente documento conclude il trittico dedicato alla liaison tra (in)sicurezza alimentare e colture transgeniche completando
le analisi prodotte in PANe, PANdora e PANacea: fame e OGM (2004) e PANe, PANgea e PANtagruel. Grano, fame e OGM
(2006)
Il cibo in crisi
Crisi è la parola che accompagna il cammino del pianeta da alcuni mesi: prima la crisi alimentare ed
energetica, poi la crisi finanziaria e infine la crisi economica. Come sfondo la crisi climatica.
La crisi multifattoriale che il mondo sta affrontando è uno stato perdurante originato dal concatenamento di
politiche ideologiche dominate dal primato dell’economia, dal consumo onnivoro di risorse e
dall’onnipotenza delle tecnologie.
Ne è perfetto esempio lo shock dei prezzi delle derrate alimentari che ha conosciuto il suo apice a cavallo del
2007 e 2008, anni che hanno fatto registrare due consecutivi record produttivi sul fronte dei cereali, cespiti
cardinali della dieta del pianeta. Dagli anni ’70 la disponibilità pro-capite annua di cereali si attesta fra i 300 e i
350 kg, poco meno di un chilo di cereali al giorno per ogni essere umano, crescendo produttivamente in
sostanziale parallelo alla curva demografica planetaria, tanto che Jean Ziegler, nelle sue passate vesti di
Relatore Speciale delle Nazioni Unite sul Diritto al Cibo, citando dati FAO, ha indicato sufficiente a sfamare
12 miliardi di individui 1 .
Eppure sulla risorsa alimentare le attenzioni sono molteplici e multiformi: nel caso dei cereali –la base
alimentare di ogni popolazione- su 2.232 milioni di tonnellate prodotte nel mondo nel 2008 meno della metà
è destinata a sfamare direttamente gli esseri umani in quanto la quota destinata a tale consumo è stimata nel
2008 in 1.006 milioni di tonnellate. Che fine fa il resto? Ad esclusione degli scarti e dell’aliquota destinata alla
produzione di semente circa la metà del consumo mondiale di cereali viene dirottato verso mangiatoie
animali e utilizzi industriali (traducibili in gran parte in carburanti vegetali). Se la quota destinata alla
produzione di mangimi raggiungerà nel 2008 i 756 milioni di tonnellate, il 2% in più dell’anno precedente, gli
usi industriali fanno registrare una “forte crescita questa stagione e l’espansione riflette principalmente la
crescita rapida nell’uso di granaglie quale materia prima per la produzione di biocarburanti. (…) Nel 2007/’08
gli Stati Uniti dovrebbero usare almeno 81 milioni di tonnellate di mais per la produzione di etanolo, il 37%
in più rispetto al 2006/’07” 2 .
È dunque in atto una competizione feroce sul destino della risorsa alimentare, competizione denominata in
inglese food-feed-fuel, ossia una contesa sul prodotto agricolo fra diretto consumo umano degli alimenti, uso
mangimistico in zootecnia o come carburante per le automobili. L’imporsi nel ‘900 di sistemi di allevamento
‘industriali’ (basati sull’alta concentrazione del bestiame in spazi ristretti, su forti integrazioni mangimistiche,
sull’uso intensivo di farmacopea veterinaria e sulla selezione di poche razze a maggiore produttività) ha
completamente alterato il rapporto virtuoso fra attività agricola e zootecnica, rendendo quest’ultima
energivora, inquinante e spesso dispensatrice di alimenti insani quando non direttamente nocivi. Si tratta di
problemi che – more solito - traggono origine nei Paesi sviluppati per poi contagiare quelli in via di sviluppo
investiti, a partire dalla fine del secolo scorso, da quella che è stata chiamata la ‘rivoluzione zootecnica’ 3 . Se è
vero che il Sud del mondo ha fame di proteine nobili e che le classi medie di alcuni grandi Paesi stanno
spingendo i consumi di prodotti zootecnici, la capacità del settore mangimistico di ‘mangiarsi’ risorsa
alimentare sottratta agli stomaci di esseri umani è storicamente ‘alimentata’ da pantagruelici consumi carnei
dell’occidente: gli statunitensi hanno stabilizzato i propri consumi di carne che nel 2003 si attestavano su 123
kg a testa a fronte dei 5 kg pro capite degli indiani 4 , mentre gli europei, soprattutto quelli continentali, si
attestano su valori che si aggirano intorno ai 100 kg, con l’aggravante che in buona parte questi consumi
occidentali riguardano carni rosse, più esose di cereali e proteine vegetali nella loro produzione rispetto a
pollame e suini maggiormente consumati ad oriente.
Ad aggravare e a rendere immorale lo sperpero di risorsa alimentare nel pianeta, da alcuni anni una nuova
United Nations General Assembly (10 gennaio 2008) Promotion and protection of all human rights, civil, political, economic,
social and cultural rights, including the right to development. Report of the Special Rapporteur on the right to food, Jean Ziegler;
A/HRC/7/5
2 FAO (aprile 2008) Crop prospects and food situation; FAO
3 Christopher Delgado et al. (1999) Livestock to 2020. The next food revolution; IFPRI, FAO, ILRI
1
4
FAO (2006) Livestock’s long shadow
voce di consumo di alimenti resi indisponibili per le tavole degli affamati si è affacciata con prepotenza sul
mercato agroalimentari: gli agrocarburanti, i combustibili di origine vegetale. Nel 2007 il loro mercato
mondiale era caratterizzato da una produzione complessiva di bioetanolo (un alcol ottenuto mediante un
processo di fermentazione di prodotti agricoli ricchi di carboidrati e zuccheri) e di biodiesel (ottenuto dalla
raffinazione di oli vegetali) di 52 e 10 miliardi di litri, un mercato capeggiato dagli USA con più di 28 miliardi
di litri, seguiti dal Brasile con più di 19 miliardi (in entrambi i Paesi quasi esclusivamente rappresentati da
bioetanolo), dall’Unione Europea con 8,3 miliardi (dove invece tre quarti degli agrocarburanti sono dati da
biodiesel), dalla Cina e dal Canada con 2 e 1 miliardi rispettivamente (di nuovo quasi esclusivamente
bioetanolo) 5 .
L’Europa è, insieme agli USA, uno dei poli di maggiore sviluppo dell’industria degli agrocarburanti grazie
all’incentivazione offerta al settore sotto forma di sussidi e tariffe agevolate all’importazione
o agli obiettivi normativi sulla miscelazione di biocarburanti nei combustibili petroliferi. Spinti dal falso
pretesto che darebbero un importante contributo alla lotta ai cambiamenti climatici, gli agrocarburanti hanno
così mandato le automobili a sbattere sulle tavole di tutto il mondo, contribuendo all’innalzamento dei prezzi
dei beni alimentari.
La vicenda degli agrocarburanti ci aiuta a riflettere sulla presunta parabola umanitaria delle colture
transgeniche e su chi se ne vuole fare paladino. Monsanto e altre imprese biotecnologiche hanno investito
molto nel proiettare le coltivazioni OGM verso le produzioni di agrocarburanti e infatti, per dirla con le
esplicite parole di una rivista di settore statunitense, “le colture transgeniche e i biocarburanti sono fatti l’uno
per l’altra” 6 . Una cosa che appare vera anche quando si guarda alla questione con gli occhi delle Ambasciate
USA: “un possibile, positivo sviluppo per l’introduzione delle colture biotech in Italia è la questione
bioenergetica”, si leggeva nel rapporto sulle biotecnologie in Italia curato dai servizi esteri del Dipartimento
dell’Agricoltura degli Stati Uniti 7 . In effetti molti fautori delle colture transgeniche guardano agli
agrocarburanti come apripista per un successivo sfondamento degli OGM nei mercati alimentari che si
dimostrano recalcitranti alla tecnologia. E che l‘appetito biotecnologico persista in questa direzione è
dimostrato anche da una delle ultime acquisizioni di ditte sementiere operato dalla Monsanto, quella di Aly
Participaçoes, il gruppo brasiliano specializzato in canna da zucchero, la coltura a maggiore efficienza di
conversione energetica per la realizzazione di carburante 8 .
La vicenda degli agrocarburanti magnifica il processo di industrializzazione dell’agricoltura, aprendo così un
nuovo florido mercato per i prodotti destinati a coltivatori e allevatori estesosi geograficamente e
temporalmente in funzione dell’espansione nel pianeta del progetto di modernizzazione dell’attività primaria.
Le industrie che se ne avvantaggiano operano storicamente nel settore (agro)chimico e, a partire dalla fine
degli anni’80, ampliano l’area di business anche a quello sementiero completando quel cambio di staffetta fra
chimica e biologia che contraddistingue il passaggio di secolo. I giganti che oggi agiscono sul mercato di
sementi e pesticidi rispondono ai nomi di Monsanto, Syngenta, DuPont, Basf, Bayer, Dow, aziende cresciute
in dimensioni industriali, fatturato e portfolio di prodotti in seguito a uno dei processi di fusioni e
acquisizioni più grandi che la storia industriale abbia mai conosciuto, realizzatosi –nella sua massa critica- nel
corso di una quindicina di anni e che ha avuto negli anni ’90 il suo periodo più intenso. La ONG canadese
ETC realizza un periodico aggiornamento del livello di concentrazione dell’industria delle sementi e dei
pesticidi:nel mercato del seme, nel 2007 la statunitense Monsanto figurava di gran lunga al primo posto con
quasi 5 miliardi di dollari di vendite, seguita da DuPont (USA; 3,3), Syngenta (CH; 2,0), Limagrain (Francia;
1,2), per un valore complessivo delle vendite delle prime tre aziende equivalente al 47% del mercato
commerciale delle sementi, mentre le prime 10 multinazionali del settore arrivano a 14,8 miliardi di dollari e
al 67% delle vendite mondiali, in salita rispetto al 49% di soli due anni prima o al 37% del 1996, quando la
Monsanto non appariva neanche nella lista 9 . Un livello di concentrazione preoccupante non solo per chi ha a
cuore le sorti dei sistemi agrari e alimentari del pianeta, ma anche per i tifosi del libero mercato e della
concorrenza. Mercato formale però, si ricordi, perché le sementi che si utilizzano nelle agricolture di tutto il
pianeta solo in parte, e minoritaria, derivano da un mercato formale e da sementi industriali.
5
FAO (2008) The state of food and agriculture. Biofuels: prospects, risks and opportunties; FAO
Jon Evans (1 agosto 2008) GM crops and biofuels Ethanol Producer Magazine, USA
7
USDA-FAS (19 luglio 2007) Italy, biotechnology 2007; GAIN report n° IT7016
8
CercleFinance (3 novembre 2008) Monsanto: acquiert le brésilien Aly Participacoes.
9
ETC Group (novembre 2008) Who owns nature? Corporate power and the final frontier in the commodification of life
6
I nomi delle aziende oligopolistiche sul mercato delle sementi sono gli stessi che controllano anche il mercato
dei pesticidi (sostanzialmente erbicidi, fungicidi e insetticidi): i dati relativi al 2008 elaborati sempre da ETC 10 ,
riportano Bayer in prima posizione con 7,5 miliardi di dollari di vendite e il 19% del mercato, seguita da
Syngenta (7,3; 19%), Basf (4,3; 11%), Dow (3,8; 10%), Monsanto (3,6; 9%) e DuPont (2,4; 6%), per un
mercato complessivo che raggiungeva nel 2007 i 38,6 miliardi di dollari controllato dalle prime 6
multinazionali per il 74% e dalle prime 10 per l’89%.
Grazie alla vicenda OGM il rapporto fra agrochimica e semi assume una nuova importanza: si pensi alla
Monsanto, azienda leader nel mercato agrobiotecnologico. Nel 2000, la Monsanto ha ottenuto quasi metà del
suo introito agrario dal glifosate (commercializzato con il nome Roundup), l’erbicida più venduto al mondo.
Il brevetto statunitense della Monsanto sul Roundup è però scaduto nel 2000 e la prospettiva di perdere la
grande entrata determinata dalla vendita di questo erbicida, da quell’anno commercializzabile anche da altre
aziende, ha contribuito alla decisione della Monsanto di ingegnerizzare le piante per tollerarne l’applicazione
e imporre contrattualmente l’acquisto congiunto di seme transgenico (venduto con il marchio Roundup
Ready) ed erbicida 11 . La multinazionale ha introdotto sul mercato il glifosate a partire dal 1976,
rappresentando un successo commerciale straordinario con vendite cresciute del 20% all’anno, facendo
registrare 9 miliardi di dollari di vendite nel 1995 e la metà dei 985 milioni di dollari di utili dell’impresa 12 ,
tanto che da allora la strategia industriale della multinazionale è stata costruita intorno a questo prodotto.
Non è quindi un caso che la gran parte della superficie transgenica coltivata nel mondo sia ricoperta di piante
ingegnerizzate per tollerare erbicidi, di cui quelle Roundup Ready sono le prevalenti.
La crisi alimentare e l’impennata dei prezzi hanno rappresentato una manna per queste multinazionali i cui
utili sono enormemente aumentati: Monsanto ha visto crescere i profitti del 44% nel 2007 (il suo seme di
mais ha fatto registrare un impennata nell’ultimo quarto del 2007 da 360 milioni di dollari a 467 come il suo
erbicida principe, il Roundup, da 649 milioni di dollari a 1 miliardo 13 ), DuPont del 19% nel solo ramo delle
sementi e Syngenta ha incrementato gli utili del 28% nel primo trimestre 2008 14 . Altre aziende sementiere
sono state ulteriormente acquisite con il molteplice scopo di conquistare fette di mercato, attività di ricerca,
valore azionario, brevetti e linee varietali. Aumenti progrediti cavalcando la crisi alimentare fino all’alba di
quella finanziaria quando gli andamenti dei listini azionari hanno cominciato l’inversione e la tendenza al
ribasso. È infatti interessante confrontare i dati azionari di queste aziende nei due momenti cruciali che
hanno caratterizzato il 2008: crisi alimentare e crisi finanziaria. Comparando l’andamento azionario
dell’ultimo anno si può osservare che Monsanto è passata dai circa 115 dollari di metà dicembre 2007 ai 73
dello stesso periodo dell’anno successivo, ma superando il picco di 140 a metà giugno; Bayer passava dai 62
ai 39, toccando i 65 dollari di febbraio 2008; Basf si manteneva costante fra i 40 e i 50 dollari fino a giugno
quando cominciava il crollo che la portava ai 20 di fine ottobre; Syngenta dai 290 di dicembre 2007, un anno
dopo si attestava sui 200, ma sfiorando i 350 a giugno 15 . La crisi alimentare, che ha raggiunto il suo picco
all’inizio dell’estate del 2008, è stata una manna per gli azionisti di queste imprese fino a che non si è
abbattuta la scure della crisi finanziaria calata pesantemente su un settore caratterizzato da consistenti
indebitamenti.
La saldatura di interessi fra diverse aree produttive attraverso l’incorporazione di più settori, agrochimico e
farmaceutico, rappresenta dunque una caratteristica della dinamica finanziaria recente: l’obiettivo che i gruppi
multinazionali perseguono è di costruire economie di scala nella ricerca e nella produzione di nuovi pacchetti
tecnologici, giocare con i valori azionari e con le strategie di rafforzamento selettivo di rami d’impresa, oltre
che consolidare il controllo di mercati dal valore e potenziale diversi. Strategie che non si traducono
necessariamente in competizione all’interno dei singoli comparti e di autonomia lungo la filiera: se nel primo
caso gli accordi fra i colossi multinazionali si stanno diffondendo (due esempi: Monsanto ha un accordo di
licenza d’uso della sua tecnologia transgenica con Syngenta 16 , la Basf ha annunciato una collaborazione con la
10
ETC Group (novembre 2008) Who owns nature? Corporate power and the final frontier in the commodification of life
Cfr. i termini dell’eufemistico “accordo sull’uso della tecnologia”: http://www.percyschmeiser.com/TUA.pdf
12
Hervé Kempf (2003) La guerre secrète des OGM; Seuil
13
Matt Daily (3 gennaio 2008) Monsanto profit jumps, raises 2008 forecast; Reuters
14
Grain (aprile 2008) Making a killing from hunger; Against the Grain
15
Nostre elaborazioni a partire dal database di Yahoo finanza: http://it.finance.yahoo.com/; (aggiornamento a dicembre 2008)
16
Anonimo (23 maggio 2008) Monsanto and Syngenta reach royalty-bearing licesing agreement on Roundup ready 2 yield
soybean technology; PRNewswire
11
stessa Monsanto 17 ), nel secondo le alleanze strategiche fra diversi segmenti della filiera si intensificano
soprattutto fra le industrie a monte e a valle dell’attività agricola. Il volume edito dalla FAO World agriculture:
towards 2015/2030 – an FAO perspective, sottolinea questa tendenza alla concentrazione in un’unica industria
degli interessi agrochimici e sementieri, con l’assorbimento di aziende produttrici di sementi da parte di
multinazionali della chimica, ma si spinge anche oltre evidenziando che “le aziende chimiche hanno ricercato
partners nel settore sementiero per proteggere il valore dei propri diritti di proprietà intellettuale sugli erbicidi brevettati. Il
processo di consolidamento fra l’industria agrochimica e sementiera si sta ora estendendo a un terzo livello, in quanto le life
science companies ampliano la propria sfera di influenza attraverso alleanze strategiche con le principali aziende di
intermediazione commerciale quali Cargill o Archer Daniels Midland” 18 . In effetti, è l’intero sistema agroalimentare
soggetto al tentativo di controllo oligopolistico derivante da un’integrazione non solo commerciale, ma anche
produttiva, un processo che rende il commercio agricolo più vulnerabile alla manipolazione dei prezzi e dei
mercati.
Una considerazione da non relegare a invettiva no-global: “lo scopo essenziale del cibo, nutrire le persone, è stato
subordinato agli obiettivi economici di una manciata di corporation multinazionali che monopolizzano tutti gli aspetti della
produzione alimentare, dai semi alle maggiori catene di distribuzione, e sono loro i primi beneficiari della crisi mondiale. Uno
sguardo ai dati del 2007, quando è iniziata la crisi alimentare, mostra che corporation quali Monsanto e Cargill, che
controllano il mercato dei cereali, hanno visto i loro profitti crescere del 45 e 60% rispettivamente, mentre la società leader del
mercato dei fertilizzanti, la Mosaic Corporation, filiale di Cargill, ha raddoppiato i suoi profitti in un solo anno” 19 . Si tratta
di un passaggio del discorso di Miguel d'Escoto Brockmann, Presidente dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite, tenuto nel corso della cerimonia di apertura del dibattito del Palazzo di Vetro dedicato agli
Obiettivi di Sviluppo del Millennio.
La crisi alimentare costituisce naturalmente una ghiotta occasione per ostentare la necessità impellente di una
nuova spinta alla produttività del settore primario: si occulta intenzionalmente lo sperpero di risorsa
alimentare per sostenere allevamenti intensivi e autotrazione, si fa finta di non sentire FAO e Relatore
Speciale dell’ONU sul Diritto al Cibo quando ricordano che c’è da mangiare per 12 miliardi di individui, si
ignorano le buone prassi agroecologiche che si diffondono nel mondo dimostrando capacità produttiva nel
rispetto dell’ambiente e del clima e si rispolvera il decrepito paradigma della rivoluzione verde, volto
all’intensificazione tecnologica e al soggiacimento degli agricoltori alla filiera industriale.
La rivoluzione verde, che ha dispiegato il suo potenziale negli anni ’60 e ’70 aumentando la produttività e la
disponibilità generale di cibo nelle regioni che ne furono primariamente investite (sud ed est asiatico e
Messico in particolare), era caratterizzata dal trasferimento alle comunità rurali di un ‘pacchetto tecnologico’
composto da fertilizzanti chimici, pesticidi chimici, sementi ‘migliorate’ e irrigazione, volto a facilitare la
trasformazione strutturale dell’attività produttiva. Tale modello ha manifestato alla lunga conseguenze
negative sul piano sociale ed ecologico e si è dimostrato nel tempo inadeguato a garantire benefici per i più
poveri fra i poveri per i quali la trasformazione non si è mai concretizzata. Molti studi e autorevoli valutazioni
hanno ad esempio evidenziato come il costo del ‘pacchetto tecnologico’ ha generato per gli agricoltori
gravissimi indebitamenti, spesso insostenibili, e come questi fenomeni si stiano aggravando ed estendendo in
tempi recenti: valga come testimonianza autorevole quanto recentemente denunciato dal Comitato
Economico e Sociale delle Nazioni Unite: “il Comitato è profondamente angustiato che la difficoltà estrema vissuta dai
contadini ha portato a un’aumentata incidenza di suicidi fra gli agricoltori stessi nel corso dello scorso decennio. Il Comitato è
particolarmente preoccupato che la povertà estrema fra i piccoli contadini poveri causata dalla mancanza di terra, accesso al
credito e ad adeguate infrastrutture rurali, sia esacerbata dall’introduzione di sementi geneticamente modificate da parte di
corporation multinazionali e dalla conseguente escalation dei prezzi di sementi, fertilizzanti e pesticidi, particolarmente nella
filiera del cotone” 20 . Nella sola India 17.060 suicidi di contadini sono riportati per il 2006 nell’annuario statistico
17
BASF e Monsanto (21 marzo 2007) BASF and Monsanto announce R&D and commercialization collaboration agreement
in plant biotechnology; comunicato stampa congiunto BASF and Monsanto
18
J. Bruinsma (2003) World agriculture: towards 2015/2030 – an FAO perspective; FAO and Earthscan
19
Miguel d'Escoto Brockmann (25 settembre 2008) Opening remarks - United Nations High-level Event on the Millennium
Development Goals
20
UN Economic and Social Council - Committee on Economic, Social and Cultural Rights - fortieth session (28 aprile - 16
maggio 2008) Consideration of reports submitted by states parties under articles 16 and 17 of the covenant; Concluding
Observations of the Committee on Economic, Social and Cultural Rights: India
nazionale 21 , la gran parte verificatisi negli stati del Maharashtra e dell’Andra Pradesh dove il fallimento
agronomico delle coltivazioni di cotone transgenico è stato più significativo che in altri stati del
subcontinente.
La rivoluzione verde non è dunque sopravvissuta all’usura del tempo come dimostrato – agronomicamentedal rallentamento produttivo registrato a partire dagli anni ’80 e – concettualmente- dal manifestarsi di un
impatto ambientale prima sottovalutato e oggi al centro delle preoccupazioni planetarie in relazione al
degrado delle risorse naturali, alla dispersione di molecole tossiche e persistenti, all’erosione delle risorse
genetiche e alle emissioni di gas climalteranti. Nonostante questi elementi siano ormai assunti dalla letteratura
scientifica e politica 22 , la rivoluzione verde mantiene però un suo fascino malthusiano che la recente crisi
alimentare ha rilanciato: troppe bocche da sfamare, fra uomini e animali, scontando un’inadeguatezza del
sistema di produzione degli alimenti cui si può tener testa solo con una modernizzazione dei sistemi
produttivi e un nuovo impulso tecnologico, secondo una logica per la quale la quantità della produzione è
totemica e la qualità del consumo (cosa? a chi?) è accessoria.
La FAO stima in 963 milioni gli uomini, donne e bambini in condizioni di insicurezza alimentare 23 , tre quarti
dei quali popolano quelle campagne dove gli alimenti sono coltivati, allevati, raccolti, pescati e poi immessi
nel sistema di consumo 24 . Gran parte del quasi miliardo di persone esposte alla fame sono dunque produttori
di cibo o loro famigliari: è anche da questi che ci si aspetta un contributo al raggiungimento dell’obiettivo di
aumentare le produzioni di alimenti del 50% al 2030, menzionato nel corso dei lavori della Conferenza FAO
del giugno 2008 25 . Un obiettivo, in verità, non impossibile da perseguire se è vero che comporta un aumento
della produttività complessiva intorno al 2% l’anno, tendenzialmente in linea con gli incrementi di resa che si
sono ottenuti nel corso degli ultimi decenni. Resta da capire come questa dinamica si debba realizzare e quali
usi si intenda fare di una risorsa alimentare così potenziata: si potrà anche fortemente incentivare e sostenere
la spinta produttiva, ma se il cibo verrà sottratto dalle mense delle popolazioni affamate per favorire consumi
di lusso delle popolazioni abbienti e viziate, per sfamare ipertrofici allevamenti o per far correre i SUV, ben
poco progresso si sarà fatto.
Il rilancio di una nuova rivoluzione verde fa dunque leva su un paradigma datato e miope, già testato e alla
lunga inefficace e controproducente, secondo un approccio universalistico e riduzionista applicato
all’agricoltura e fondato sul trasferimento top-down a larga scala delle tecnologie. Per quanto nel corso della
rivoluzione verde gli incrementi di produttività siano stati notevoli nelle condizioni ottimali e idonee ad
approfittare di questo processo di intensificazione (aziende con buona dotazione fondiaria e di capitali e con
accesso ai mercati dei fattori di produzione e dei prodotti), nel passato lontano e recente la gran parte del
mondo contadino, e non solo gli agricoltori di sussistenza, è stata marginalizzata e incentivata ad
abbandonare le terre per urbanizzarsi alla ricerca di impiego. Uno sviluppo centrato sulla crescita, infatti,
pone inevitabilmente l’enfasi sull’aumentato valore della produzione piuttosto che sull’inclusione sociale e
sulla compatibilità ecologica dei sistemi produttivi: fare i conti con l’instabilità dei mercati o del caos
climatico richiede invece grande flessibilità nella gestione delle risorse, adattamento, autonomia, diversità che
il rimanere serrati dentro un pacchetto tecnologico o integrati nell’apparato agroindustriale non permette.
Al dispiegamento della strategia della nuova rivoluzione verde sono chiamate a concorrere le iniziative
21
Profile of Suicide Victims Classified According to Profession—2006 (All India) http://ncrb.nic.in/ADSI2006/Table2.6.pdf
Richard Manning (2001) Food's Frontier: The Next Green Revolution; Paperback; Cary Fowler and Pat Mooney (1993)
Biodiversità e futuro dell’alimentazione; Red edizioni; Vandana Shiva (1991) The Violence of the Green Revolution: Third
World Agriculture, Ecology, and Politics; Zed Books
23
FAO (9 dicembre 2008) Number of hungry people rise to 963 million. High food prices to blame-economic crisis could
compound woes; FAO
24
FAO (2004) The state of food insecurity in the world 2004
25
FAO (3-5 giugno 2008) Soaring food prices: facts, perspectives, impacts and actions required; FAO High-level conference
on world food security: the challenges of climate change and bioenergy
22
filantropiche, da alcuni financo appellate come altruistiche, quali quelle promosse dalle fondazioni Gates e
Syngenta. Il loro intervento serve a dar gambe a un partenariato pubblicoprivato, attori profit e ricerca
sostenuta dall’erario che non è però un banale consorzio fra soggetti di buona volontà, ma una strategia di
capitalizzazione di una rendita di posizione che le corporation hanno maturato nel settore della ricerca agricola,
in un quadro di progressive fusioni e acquisizioni che ha profondamente modificato le gerarchie all’interno
dei vari mercati, concentrando il potere decisionale e il controllo degli asset industriali.
“Degli OGM ci riempiam la bocca” Piaccia o meno, gli organismi transgenici sono assurti a passaggio
obbligato nel ragionamento sul futuro del cibo e della ricerca agricola che ne deve assicurare la prospettiva
futura. In pochi anni gli OGM sono divenuti uno degli acronimi più commentati, osannati e dannati che
ricorrono nei ragionamenti che incrociano cibo, agricoltura, ambiente, salute, economia, politica, diritti. 125
milioni di ettari sono coltivati a OGM nel mondo nel 2008, secondo le sole stime disponibili, diffuse
annualmente dall’ISAAA 26 (International Service for the Acquisition of Agri-biotech Applications, organizzazione volta
a promuovere i benefici delle agrobiotecnologie e sostenuta dalle principali industrie del settore, come recita
il suo stesso sito web), con una diffusione geografica decisamente asimmetrica e in massima parte confinata
al continente americano (89% delle superfici transgeniche mondiali e 50% appannaggio dei soli Stati Uniti),
circoscritta in termini agricoli e botanici a quattro colture (soia, mais, cotone e colza) e tecnologicamente
limitata a due soli caratteri chiamati a rispondere a obiettivi agronomici, la tolleranza di erbicidi –contenuta
nell’85% delle piante transgeniche coltivate- e la resistenza a insetti. Una offerta di sementi transgeniche
identica a quella che la caratterizzava ai suoi albori commerciali nella metà degli anni ’90, che si spiega con
due ragioni complementari: da una parte l’esigenza di remunerare gli onerosi costi di ricerca&sviluppo
connessi con il portare una varietà transgenica sul mercato (stimati financo in alcune centinaia di milioni di
dollari 27 ), che costringono le aziende a concentrarsi su modifiche genetiche che intercettino il consenso di
una platea di agricoltori solvibili; dall’altra l’atteggiamento largamente ostile dei consumatori verso gli alimenti
transgenici che ha nei fatti circoscritto il paniere OGM a poche commodity prevalentemente destinate alla
mangimistica animale o al tessile. È così che prodotti principalmente destinati a un consumo umano diretto
come frumento*, riso, pomodori o patate geneticamente modificati, che pur si sono avvicinati al mercato,
hanno dovuto fare un rapido dietrofront per l’assenza di prospettive commerciali. Analogamente annunciate,
ma mai materializzatisi in commercio, piante tolleranti siccità o salinità, più resistenti ai patogeni o più
nutrienti.
L’agricoltura transgenica, nonostante il salto tecnologico rappresentato dal trasferimento genico, si presenta
così in perfetta continuità concettuale con l’agricoltura produttivista che l’ha preceduta e, in parte, concepita:
forte dipendenza da fattori produttivi esterni all’azienda agraria e al sistema agroecologico, semplificazione
delle operazioni colturali che minimizzano la componente lavoro e la vigilanza umana sul sistema colturale,
forte capitalizzazione (e, in caso di mancanza di liquidità, indebitamento) a sostegno degli investimenti
tecnologici, produzione agricola standardizzata e funzionale alla successiva fase di trasformazione industriale,
filiera lunga e lunghissima in termini geografici, di generazione di valore aggiunto, di numero e varietà di
soggetti economici che entrano in gioco. I criteri fondativi dell’agricoltura transgenica non mutano dunque
rispetto alla ratio agroindustriale conosciuta negli ultimi decenni e messa in seria discussione –va ricordatoper i suoi impatti ecologici e sanitari, oltre che travolta da vari e gravi scandali.
A fronte degli elementi di continuità, l’agrobiotecnologia porta però con sé alcuni elementi innovativi che
accrescono le inquietudini sulle sorti del cibo e del diritto all’alimentazione: il contract farming (il meccanismo
che lega l’agricoltore alle aziende dell’agribusiness relativamente a quantità, tempi e qualità delle forniture),
affermatosi per rispondere alle esigenze della grande distribuzione, viene potenziato con il transgenico
attraverso una contrattualistica sull’uso della semente che rappresenta il complemento naturale del diritto a
brevettare le piante transgeniche introdotto nella legislazione di molti Paesi e da disciplinare a livello
internazionale attraverso il WTO.
Di sovente il dibattito sugli OGM incrocia quello sulla fame nel mondo cercando di delinearne una parabola
sociale. Ma gli OGM sfameranno i poveri? Di certo vi è che gli OGM oggi coltivati non sono stati concepiti
26
Clive James (2009) Global Status of Commercialized Biotech/GM Crops: 2008; ISAAA Brief No. 39. ISAAA
Graff G.D. and Newcomb J. (2003) Agricultural biotechnology at the crossroads; Bio Economic Research Associates
* Si può approfondire la vicenda del fallito tentativo di introdurre in commercio il frumento transgenico in Luca
Colombo (2006) Grano o grane; Manni ed.
27
per rispondere a questa esigenza: non producono più cibo, non costano meno e soprattutto sono
prevalentemente destinati a sfamare il bestiame più che gli uomini. La tesi spesso ripetuta di un necessario
potenziamento ‘ipertecnologico’ nell’aumentare le rese colturali non risulta sufficientemente fondata e anche
qualora vi fosse bisogno di un aumento di produttività e gli OGM riuscissero ad aumentare l’offerta globale
di alimenti (la qual cosa non è ad oggi supportata dall’evidenza), le condizioni di accesso al cibo non
sarebbero adeguatamente garantite, non venendo rimosse le ineguaglianze sociali, politiche ed economiche
che causano l’insicurezza alimentare e la povertà. Nel mondo rurale, che ospita la gran parte delle persone
affamate, non è solo l’accesso al cibo l’elemento deficitario, ma è l’accesso alle risorse con cui produrlo a
generare ineguaglianze e miseria: terra, acqua, energia, credito, assistenza tecnica, educazione primaria e
specialistica, mercati locali, magazzini, infrastrutture e – non ultime – sementi (ossia risorse genetiche) sono
dotazioni e disponibilità limitate e limitanti. Venendo meno queste indispensabili precondizioni della
produzione agricola, la fame si rende cronica proprio laddove gli alimenti dovrebbero essere prodotti e
immessi sui mercati impedendo, inoltre, la valorizzazione di un eventuale contributo tecnologico virtuoso 28 .
Povera Africa… L’Africa è investita del ruolo di testimonial pro-OGM, in ragione della fame del continente,
di un’idea tecnicista del suo sviluppo rurale e di tanta propaganda: ne sia esempio la retorica propagandistica
con cui l’ISAAA informa dell’ingresso nel club dei ‘Paesi transgenici’ di Egitto e Burkina Faso, ad affiancare
la storica militanza in questo fronte del Sud Africa: nel 2008 i due Paesi hanno finalmente avviato le
coltivazioni e questo ingresso viene celebrato come la dimostrazione di una prospettiva di sviluppo dalle
magnifiche sorti e progressive: 700 sono gli ettari di mais transgenico coltivati in Egitto e 8.500 quelli a
cotone geneticamente modificato messi a coltura in Burkina 29 ; superfici che, confrontando le statistiche
agricole della FAO, rappresentano lo 0.002% e lo 0.02% delle terre arabili nazionali. Qualunque sia
l’estensione delle coltivazioni africane di OGM, va tenuto ben presente che la tecnologia introdotta non è
stata concepita per quelle realtà ecologiche e agricole e non determina una innovazione appropriata a quei
contesti colturali, limitandosi a mutuare una semente in uso in altri contesti.
Il limitato arsenale transgenico non costituisce l’unico limite all’espletamento della panacea biotecnologica,
come sottolineato dalle associazioni contadine africane sempre più e meglio organizzate; il ROPPA (Rete
delle Organizzazioni Contadine dell’Africa Occidentale) lo ha detto con chiarezza ai ministri della regione
riuniti a Bamako per il secondo incontro sulle agrobiotecnologie: “ciò che ci pone sconcerto è che ci si faccia credere
che con gli OGM i nostri problemi siano terminati: siccità ricorrente, pressione parassitaria (malattie, insetti, infestanti), bassa
fertilità dei suoli, acidità e salinità dei terreni, erosione idrica ed eolica, difficoltà di commercializzazione dei raccolti, volatilità
dei prezzi, concorrenza sleale sui mercati nazionali, regionali e internazionali” 30 , sono i vincoli dei produttori saheliani.
Per rispondere alla sfida posta dalla pretesa introduzione di OGM nella regione, il ROPPA ha quindi
proposto quattro punti ai ministri riuniti a Bamako: l’instaurazione di un grande dibattito in seno alla
popolazione con la consultazione di tutti i soggetti interessati; la determinazione di meccanismi di
finanziamento durevoli e sovrani della ricerca; il rafforzamento delle capacità delle strutture di ricerca e dei
consigli agricoli; l’adozione di una moratoria di cinque anni per permettere ai produttori e alle organizzazioni
contadine di informarsi e partecipare ai processi decisionali. Una proposta –la moratoria- che in Europa
verrebbe oggi interpretata come un atteggiamento estremistico, che il WTO sanzionerebbe alla faccia del
diritto alla sovranità alimentare e che le organizzazioni contadine africane interpretano, invece, come un
semplice atto di buon senso.
Fino a pochi anni fa, la chiamata a sostenere l’agricoltura africana, ergo le fonti di sostentamento per gran
parte della sua popolazione, è stata sostanzialmente inascoltata, ma un crescente numero di organizzazioni e
istituzioni si sta progressivamente facendo avanti nel promuoverne e sostenerne la causa: la Banca Mondiale,
il Nepad (New Partnership for Africa’s Development), le fondazioni Rockefeller, Gates e Clinton parlano il
linguaggio comune di una ‘nuova rivoluzione verde per l’Africa’. Il progetto di punta di questa strategia è
senza dubbio AGRA, l’Alleanza per la Rivoluzione Verde in Africa, di cui è a capo l’ex Segretario Generale
dell’ONU Kofi Annan, che ha nell’intensificazione produttiva e nella modernizzazione dei sistemi agrari del
continente la sua ragion d’essere.
28
Luca Colombo (gennaio 2004) Pane, Panacea , Pandora – Fame e OGM Consiglio dei Diritti Genetici- Comitato Italiano
Sovranità Alimentare
29
Clive James (2008) Global Status of Commercialized Biotech/GM Crops: 2008; ISAAA Brief No. 39. ISAAA
30
ROPPA (Bamako, 21-24 Juin 2005) Intervention des organisations paysannes et des producteurs à la conférence régionale
sur les biotechnologies en Afrique de l'Ouest
Sponsor principali dell’operazione sono le fondazioni Gates e Rockefeller che hanno annunciato lo
stanziamento iniziale di 150 milioni di $ (100 Gates e 50 Rockefeller), come riporta il Philanthropy news
digest 31 ; altri donatori dovrebbero innestarsi sull’iniziativa al fine di potenziarne la dotazione (si parla ad
esempio delle Fondazioni Syngenta e Clinton). Scopo di AGRA è realizzare programmi di sviluppo che
incrementino la produttività agricola in Africa attraverso il pacchetto di fattori di produzione (sementi di
varietà ‘migliorate’, fertilizzanti, pesticidi, irrigazione) e dentro una logica di mercato, tenendo presenti le
condizioni e i vincoli tipici dell’agricoltura del continente (suoli con problemi di fertilità, carenza di acqua,
contadini molto poveri e poco inseriti nei mercati formali, assistenza tecnica da ricostruire).
Una strategia che proprio la recente crisi alimentare rende opinabile, soprattutto se leggiamo congiuntamente
l’impennata dei prezzi dei generi alimentari e il parallelo forte aumento di costo di molti fattori di
produzione, come i fertilizzanti chimici. È il prezzo del cambio da fonti biologiche a chimiche di azoto (il
principale elemento fertilizzante in agricoltura) avvenuto nel corso del XX° secolo grazie a un processo
industriale, dipendente dall’uso di combustibili fossili, che trasforma l’azoto presente in atmosfera. Con
l’aumento dei listini energetici il prezzo mondiale dei fertilizzanti è cresciuto sensibilmente in 12 mesi (fino a
febbraio 2008): quelli fosfatici del 239%, quello della potassa del 120% e dell’urea di solo il 7%, ma dopo che
il suo prezzo è consistentemente lievitato a partire dal 2004 e all’inizio del 2008 costava 4 volte il valore del
2000 32 .
Ma, forse proprio per questa ragione, si mantiene ancora qualche prudenza: “AGRA non finanzia al momento lo
sviluppo di nuove varietà ottenute attraverso l’uso dell’ingegneria genetica”, recita un apposito statement disponibile sul
suo sito web 33 , pur non escludendo di far uso di transgenia in futuro. Un approccio che pur dilatando nel
tempo il passaggio del testimone fra la green e la gene revolution, ossia fra la rivoluzione verde e quella
biotecnologica, è comunque orientato all’adozione di un numero ristretto di varietà, spesso ibride, spingendo
il sistema agricolo verso una dinamica squisitamente mercantile per quanto riguarda l’accesso alla semente,
così modificando la tradizionale pratica della selezione e riproduzione aziendale.
La comunità scientifica internazionale presenta un’altra prospettiva. L’intero impianto tecnicista quale
traiettoria di sviluppo per l’agricoltura è stato messo in discussione da uno degli sforzi più ambiziosi e
autorevoli che le istituzioni internazionali abbiano saputo mettere in campo sul tema della ricerca e delle
conoscenze agricole. A partire dal 2002 la Banca Mondiale e la FAO, sulla scorta delle sollecitazioni ricevute
da organizzazioni sociali e produttive, cominciarono a interrogarsi sulla necessità di una valutazione globale
delle conoscenze agricole e delle relative basi scientifiche e tecnologiche. Ne risultò l’opportunità di avviare
uno studio su scala globale che prese le mosse nel settembre del 2004 da una conferenza intergovernativa a
Nairobi nel corso della quale si lanciò l’International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and
Technology for Development (IAASTD), uno sforzo sostenuto da Banca Mondiale, FAO, UNDP, UNEP,
UNESCO e OMS, condiviso da una sessantina di Paesi del Nord e del Sud del mondo. Uno sforzo teso a
disegnare una prospettiva di sviluppo per il settore agricolo e per il sistema di ricerca che lo deve supportare
che ha raccolto il contributo di circa 400 ricercatori ed esperti in diverse discipline nel corso di quattro anni
di studi e di revisione della letteratura scientifica, i cui rapporti sono stati visionati da altri ricercatori secondo
il metodo di revisione fra pari (peer review) in vigore per le pubblicazioni scientifiche. Un’esperienza unica nella
storia dell’analisi delle scienze agrarie che merita di essere ampiamente riassunta e menzionata.
Gli obiettivi di tale lavoro di ricognizione erano volti a rispondere alle preoccupazioni sollevate dagli
Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG, in inglese), in particolar modo dell’MDG1, la riduzione della fame
e della povertà estrema, e alla realizzazione di un quadro di sviluppo sostenibile. Problematiche complesse
non rinviabili a mere soluzioni tecniche, tanto che nel documento affidato dal panel IAASTD ai decisori
politici a conclusione dei lavori, si indica chiaramente che le conoscenze scientifiche e tecnologiche in
agricoltura, pur potendo fornire un contributo, non sono in sé in grado di risolvere problemi che originano
da intricate dinamiche politiche, sociali ed economiche. Il metodo di lavoro ha così traguardato oltre gli
stretti confini della scienza e della tecnologia per assumere anche le conoscenze e le riflessioni dei produttori
agricoli e degli altri utilizzatori dei processi produttivi, valutando inoltre il ruolo di istituzioni, governi e
31
Philanthropy news digest (14 settembre 2008) Gates, Rockefeller foundations for alliance to spur ‘green revolution’ in
Africa
32
Donald Mitchell (8 aprile 2008) A note on rising food prices
33
http://www.agra-alliance.org/
mercati.
I 50 e passa Paesi che hanno approvato il rapporto hanno analizzato riga per riga sia il suo sommario
esecutivo che la sintesi ad uso dei decisori politici; anche i tre governi (USA, Australia e Canada) che si sono
dissociati da alcune conclusioni, soprattutto in relazione al ruolo del libero commercio –un aspetto non
scientifico- e alle colture transgeniche, hanno approvato la maggioranza delle sue deliberazioni. Ne deriva che
l’autorevolezza e rappresentatività del lavoro realizzato nell’ambito dello IAASTD lo proiettano come punto
di partenza per una nuova lettura della scena della ricerca agricola e della rotta che il settore primario deve
seguire.
Il gruppo di lavoro dello IAASTD ha tratto 22 conclusioni che descrivono compiutamente il quadro di
riferimento per un avanzamento delle conoscenze e per le loro applicazioni, conclusioni che delineano le
tappe di un ragionamento che prende spunto dal contributo che la scienza, la tecnologia e le conoscenze
diffuse in agricoltura hanno avuto nel promuovere la produttività del settore primario e contribuire alla
sicurezza alimentare. L’enfasi sugli incrementi di resa e di produttività, stando a quanto rileva il rapporto, ha
avuto in diversi casi risvolti negativi in termini di sostenibilità ambientale e il degrado degli ecosistemi si è
accompagnato a quello sociale, con le comunità produttive che vivono in territori marginali costrette a
spostarsi in cerca di nuova terra da coltivare e ad allontanarsi da aree meglio –o almeno un po’- dotate di
infrastrutture 34 . Questi fenomeni sono andati ad aggravare difficoltà e divari preesistenti: “in termini generali, i
Paesi caratterizzati da profondi svantaggi commerciali, vincoli biofisici e gruppi sociali marginalizzati sono coloro che meno
hanno beneficiato delle innovazioni introdotte dal progresso scientifico e tecnologico che ha inoltre accresciuto le disuguaglianze a
favore di chi già deteneva asset agricoli come terra, acqua, risorse energetiche, mercati, fattori di produzione e finanza,
formazione, assistenza tecnica, informazione e comunicazioni”. Inoltre, il modello prevalente che ha caratterizzato
l’agricoltura negli ultimi 50 anni ha teso “a innovare continuamente i sistemi produttivi, a ridurre i prezzi agricoli e a
esternalizzare i costi. Questo modello ha guidato le conquiste fenomenali in termini di progresso scientifico e tecnologico nei Paesi
industrializzati dopo la seconda guerra mondiale e si è diffuso con la rivoluzione verde a partire dagli anni ’60. Ma viste le sfide
che vanno attualmente affrontate, vi è ampio consenso nell’ambito delle organizzazioni impegnate nel settore della scienza e
tecnologia intorno all’esigenza di rivedere sostanzialmente il modello attuale di ricerca e innovazione agricola. Business as usual
non è più un’opzione” 35 .
Non essendo il business as usual una ipotesi percorribile secondo i ricercatori dello IAASTD, è fondamentale
porre l’accento sulla multifunzionalità dell’agricoltura e sul ruolo cruciale che le conoscenze di contadini e
contadine applicate al contesto locale -esperienze che hanno valore dinamico, come ricorda il rapportohanno nello sviluppo di tecnologie e di saperi appropriati ai fabbisogni sociali e ai vincoli posti dagli
ecosistemi, traendo esperienza dai fallimenti insiti nelle tecnologie impiegate nel passato e nelle modalità in
cui queste sono state trasferite e adottate. “Nel corso del secolo scorso il settore agricolo ha tipicamente semplificato i
sistemi produttivi al fine di massimizzare i raccolti di una singola specie, generalmente ignorando altri servizi e funzioni
ecologiche che potevano regolare, sostenere e integrare l’attività primaria. Quando queste pratiche sono state associate a politiche
che hanno fornito incentivi distorsivi dei prezzi agricoli si è prodotto degrado ambientale e delle risorse naturali” 36 .
34
Nienke Beintema (the Netherlands), Deborah Bossio (USA), Fabrice Dreyfus (France), Maria Fernandez (Peru), Ameenah
Gurib-Fakim (Mauritius), Hans Hurni (Switzerland), Anne-Marie Izac (France), Janice Jiggins (UK), Gordana KranjacBerisavljevic (Ghana), Roger Leakey (UK), Washington Ochola (Kenya), Balgis Osman-Elasha (Sudan), Cristina
Plencovich (Argentina), Niels Roling (the Netherlands), Mark Rosegrant (USA), Erika Rosenthal (USA), Linda Smith (UK)
(aprile 2008) International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for Development (IAASTD)
Global Summary for Decision Makers
35
Tsedeke Abate (Ethiopia), Jean Albergel (France), Inge Armbrecht (Colombia), Patrick Avato (Germany/Italy), Satinder
Bajaj (India), Nienke Beintema (the Netherlands), Rym ben Zid (Tunisia), Rodney Brown (USA), Lorna Butler (Canada),
Fabrice Dreyfus (France), Kris Ebi (USA), Shelley Feldman (USA), Alia Gana (Tunisia), Tirso Gonzalez (Peru), Ameenah
Gurib-Fakim (Mauritius), Jack Heinemann (New Zealand), Angelika Hilbeck (Germany), Hans Hurni (Switzerland), Sophia
Huyer (Canada), Janice Jiggins (UK), Joan Kagwanja (Kenya), Moses Kairo (Kenya), Rose Kingamkono (Tanzania), Gordana
Kranjac-Berisavljevic (Ghana), Kawther Latiri (Tunisia), Roger Leakey (UK), Karen Lock (UK), Douglas Murray (USA),
Dev Nathan (India), Lindela Ndlovu (Zimbabwe), Balgis Osman-Elasha (Sudan), Ivette Perfecto (Puerto Rico), Cristina
Plencovich (Argentina), Rajeswari Raina (India), Elizabeth Robinson (UK), Niels Roling (the Netherlands), Mark Rosegrant
(USA), Erika Rosenthal (USA), Wahida Shah (Kenya), John Stone (Canada), Abid Suleri (Pakistan) (aprile 2008) Executive
Summary of the Synthesis Report of the International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for
Development (IAASTD)
36
Nienke Beintema et al. (aprile 2008) International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for
Development (IAASTD) Global Summary for Decision Makers
Che l’agricoltura sia multifunzionale sembra tautologico operando in sistemi complessi e generando ricadute
(positive o negative) che travalicano la mera attività produttiva di (ri)produzione di derrate: questo concetto
va analizzato in relazione “all’inesorabile interconnessione dei differenti ruoli e funzioni dell’agricoltura. Il concetto di
multifunzionalità riconosce l’agricoltura quale attività multifeconda che non si limita a produrre solo derrate (alimenti, mangimi,
fibre, agrocarburanti, prodotti farmaceutici e ornamentali), ma anche servizi ambientali, attività ricreative e patrimonio
culturale”. L’agricoltura multifunzionale in chiave agroecologica deve essere il vero centro della ricerca
agricola, soprattutto se intesa non soltanto come approccio tecnico alla produzione primaria, ma come
fondamento per le economie rurali e come sede di relazioni ecologiche. Secondo lo IAASTD, un aumento e
rafforzamento delle attività di ricerca e sviluppo tecnologico verso le scienze agroecologiche produrrà un
contributo nel rispondere alle preoccupazioni ambientali mantenendo e incrementando al contempo la
produttività: “le conoscenze agricole, la scienza e la tecnologia formale, tradizionale e basata sui saperi locali devono rispondere
all’aumentata pressione sulle risorse naturali, come la ridotta disponibilità e la minore qualità dell’acqua, il degrado dei suoli e
dei paesaggi, la perdita della biodiversità e delle funzioni ecologiche, lo scadimento e perdita delle coperture forestali, il
peggioramento delle risorse ittiche dei mari e delle acque interne”. Nel passato –continua il rapporto- la gran parte delle
politiche e delle pratiche di ricerca scientifica e tecnologica applicata all’agricoltura sono state realizzate con
un approccio di mero trasferimento tecnologico, mentre il coinvolgimento degli attori del sistema
agroalimentare è decisivo e passa anche per la co-formulazione e selezione degli approcci più adeguati alle
circostanze specifiche su cui tarare gli obiettivi di sostenibilità e di sviluppo. I saperi devono concorrere
dunque sulla base dell’obiettivo comune di una produzione di beni alimentari che non sia distruttiva delle
dotazioni naturali; le politiche agricole e della ricerca devono pertanto saper sostenere il complesso delle
conoscenze orientandole al mantenimento del capitale ecologico, suggeriscono i 400 esperti dello IAASTD ai
decisori politici, in quanto “molte delle sfide che l’agricoltura affronta attualmente e affronterà nel futuro richiedono
applicazioni più innovative e integrate delle conoscenze esistenti, della scienza e della tecnologia (formale, tradizionale e
community-based) così come nuovi approcci per la gestione agricola e delle risorse naturali” 37 .
La ricerca agricola deve, infatti, rispondere a finalità plurime secondo una logica complessa e sistemica, con
l’obiettivo di realizzare produzioni agroecologiche capaci, in altre parole, di riflettere l’alta variabilità dei
processi ecologici e delle loro interazioni con eterogenei fattori sociali, politici, culturali ed economici. Per
queste ragioni, quando si considera la varietà e diversità degli ambienti rurali, emerge l’inappropriatezza delle
ricette tecnologiche standard e dei paradigmi riduzionisti e la necessità di un approccio specifico al luogo di
intervento capace di interpretare l’ampio spettro di conoscenze di cui gli stessi agricoltori sono portatori,
implicando la partecipazione delle comunità locali e il loro contributo (sul piano progettuale, decisionale,
sperimentale, nella diffusione delle scelte, ecc.) quale apporto fondamentale nella messa a punto di tecniche e
saperi. Sotto questo profilo, l’investimento in ricerca ‘agroecosistemica’ è fondamentale e va sostenuto sia in
termini di approccio accademico che di risorse umane e finanziarie dedicate, valorizzando e integrando i
saperi locali. L’applicazione sul campo dei principi di sostenibilità, infatti, non si può limitare ad un insieme
di regole e tecniche agronomiche, ma richiede un’analisi che contempli sia l’agroecosistema che la comunità
agricola e di filiera chiamata ad interagire con esso. La scarsa valorizzazione delle conoscenze maturate dalle
comunità di agricoltori dovuta alle cause più varie (mancanza di un loro inventario, assenza di una
valutazione rigorosa dei risultati ottenuti dall'esperienza di base in materia di organizzazione e innovazione
del sistema, frattura comunicativa fra le comunità agricole ed i ricercatori e, soprattutto, incapacità della
ricerca istituzionale di accettare una vera leadership da parte degli stessi agricoltori), disincentiva i produttori
che non sentono riconosciute le proprie capacità e allontana il rapporto con le istituzioni locali di ricerca e
assistenza tecnica penalizzando le potenzialità produttive del sistema. Una lacuna che rallenta il processo di
realizzazione di un’agricoltura realmente sostenibile.
Vi è un’ampia gamma di iniziative alternative se si guarda all’agroecologia. Queste attività testimoniano il
successo di un’agricoltura rispettosa dell’ambiente e delle comunità rurali, pur priva di investimenti in risorse
e ricerca e non sufficientemente pubblicizzata. È chiaro che questa prospettiva si dimostra incompatibile con
l’idea che i prodotti della ricerca agricola diventino oggetto di brevetti di tipo industriale, applicati al vivente
e, per scongiurare ulteriormente il rischio che il mondo scientifico veda nella brevettabilità della ricerca la
fonte di sostentamento e finanziamento del proprio lavoro, è indispensabile che le istituzioni pubbliche e i
decisori politici assegnino la massima priorità al sostegno, in primis finanziario, ma anche culturale, a forme
partecipate della ricerca.
I saperi devono dunque concorrere ed essere socializzati al fine di individuare le opzioni più adeguate ai
37
Ibid
contesti specifici. Non è un caso che il rapporto IAASTD ometta intenzionalmente gli organismi transgenici
fra le opzioni da perseguire per il futuro dell’agricoltura, esprimendosi in maniera critica sulla loro parabola di
sviluppo. In sostanza, nella valutazione di 400 ricercatori ed esperti di sistemi agroalimentari su scienza e
tecnologia per lo sviluppo dell’agricoltura, gli OGM non sembrano meritare considerazioni e prospettive.
Su questo aspetto lo IAASTD è molto chiaro e lungimirante: “l’impatto di piante, animali e microrganismi
transgenici è poco conosciuto. Questa situazione reclama un’ampia partecipazione dei portatori di interessi
nei processi decisionali così come maggiore ricerca pubblica sui potenziali rischi” 38 . O ancora, “l’enfasi sulle
moderne biotecnologie senza assicurare che un supporto adeguato sia garantito ad altri tipi di ricerca agricola
può alterare i programmi di educazione e formazione e ridurre il numero di professionisti in altri campi
cruciali delle scienze agrarie” 39 . Per concludere che “nelle regioni e nei Paesi che scelgono di produrre OGM,
la loro regolamentazione deve essere basata sul principio di precauzione e sul diritto del consumatore alla
scelta informata, per esempio attraverso l’etichettatura” 40 .
Anche sulla vicenda brevettuale lo IAASTD si esprime in maniera inequivocabile: “nei Paesi in via di
sviluppo, in particolare, strumenti quali i brevetti possono innalzare i costi, restringere la sperimentazione di
singoli agricoltori o di ricercatori pubblici, potenzialmente minando al contempo le pratiche locali vocate a
promuovere la sicurezza alimentare e la sostenibilità economica. A tal proposito vi è particolare
preoccupazione intorno agli attuali strumenti di tutela della proprietà intellettuale per i vincoli che
introducono sul seed-saving, lo scambio, la vendita o l’accesso a materiale tutelato con IPRs necessario per le
comunità di ricerca indipendente per condurre analisi e sperimentazioni di lungo termine sugli impatti. Gli
agricoltori affrontano nuovi termini di responsabilità giuridica per la presenza accidentale se questa causa la
perdita di certificazione e di reddito ad agricoltori biologici confinanti e gli agricoltori convenzionali possono
divenire colpevoli verso i produttori di semente OGM se i transgeni sono rilevati nei loro campi” 41 .
Viceversa, “regimi di proprietà intellettuale che proteggono gli agricoltori ed espandono la selezione
partecipativa e il controllo locale sulle risorse genetiche e le relative conoscenze tradizionali possono
aumentare l’equità” 42 .
Come indicato da Olivier de Schutter, Relatore Speciale dell’ONU sul diritto al cibo, alla Conferenza di Alto
Livello promossa dalla FAO nel giugno 2008 per rispondere alla crisi alimentare, “la scienza e tecnologia
agricola hanno finora sologarantito benefici alle grandi imprese e non si sono concentrate sui bisogni
specifici dei poveri rurali nei Paesi in via di sviluppo. (…) Lo IAASTD dunque insiste sul fatto che gli
investitori focalizzino gli investimenti sulle priorità locali identificate attraverso un processo trasparente e
partecipativo, favorendo soluzioni multifunzionali ai problemi locali. In questo contesto, per esempio, il
focus attuale sull’adozione di semi brevettati deve essere attentamente esaminata” 43 .
Se ha ragione l’Osservatore Romano 44 quando, sotto l’inequivocabile occhiello ‘Crisi alimentare e
speculazioni finanziarie’, sottolinea che “quasi il 70% delle transazioni che hanno fatto crescere i prezzi del
cibo sono finanziarie”, ci si deve domandare perché non aggredire una delle cause primarie dell’innalzamento
dei prezzi alimentari che ha aumentato di più di 100 milioni di persone gli affamati al mondo in soli due anni,
invece di inseguire la panacea transgenica.
38
Nienke Beintema et al. (aprile 2008) International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for
Development (IAASTD) Global Summary for Decision Makers
39
Tsedeke Abate et al. (aprile 2008) Executive Summary of the Synthesis Report of the International Assessment of
Agricultural Knowledge, Science and Technology for Development (IAASTD)
40
Summary of the regional report on Latin American and the Caribbean
41
Tsedeke Abate et al. (aprile 2008) Executive Summary of the Synthesis Report of the International Assessment of
Agricultural Knowledge, Science and Technology for Development (IAASTD)
42
Nienke Beintema et al. (aprile 2008) International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for
Development (IAASTD) Global Summary for Decision Makers
43
Olivier de Schutter (5 giugno 2008) Address by the Special Rapporteur on the Right to Food; High-Level Conference on
World Food Security: the challenges of climate change and bioenergy
44
Ettore Gotti Tedeschi (14 maggio 2008) Se la ciotola di riso è quotata in Borsa; L’osservatore Romano