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A mo’ di introduzione
Negli ultimi tempi, fino a venerdì 11 gennaio
2011 alle ore 16, Hosni Mubarak è stato di pessimo umore: non aveva il tempo di tingersi i capelli. Non faceva più sport per mantenersi in forma.
Era di cattivo umore perché il suo popolo insisteva affinché lasciasse il potere e anche l’Egitto. Ma
lui se ne stava lì, non capendo questa insistenza
che giudicava indecente. È dimagrito di qualche
chilo, ha assunto un colorito pallido, ha perso
l’appetito. Come un condannato a morte, non
dormiva più, ossessionato dalle immagini di
Saddam Hussein che pregava pochi minuti prima
della sua esecuzione. La moglie Suzanne e i suoi
figli per precauzione sono andati a farsi dimenticare a Londra. Lui, invece, ora che è a Sharm
el-Sheik, non può uscire dal suo palazzo. Sa che
se mettesse il naso fuori, il popolo lo lincerebbe.
Si immagina di fronte al tribunale e gli prende il
panico. Ha mal di pancia. Una diarrea di origine
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politica. Ha commesso troppe ingiustizie, troppi
crimini per non pagare. Ma non vuole ammetterlo. Come molti dirigenti arabi, ha confuso il
paese con casa sua. Ha creduto che l’Egitto in
quanto stato e nazione fosse una sua proprietà
privata. E che poteva disporne come voleva. Ha
saputo accumulare molto denaro, talmente tanto
che gli ci vorranno parecchie vite per goderne
completamente (“The Guardian” parla di 70
miliardi di dollari!). Si è rivolto a Dio e gli ha
chiesto lunga vita per avere salute, giovinezza e
potere assoluto. Ci sono voluti trent’anni per
mettere in piedi il sistema che gli ha permesso di
restare al potere così a lungo: ha ordinato al sarto
del quartiere di fargli un partito su misura; ha
chiesto consigli ad alcuni specialisti dei sistemi di
tortura per creare una polizia onnipresente e
totalmente dedicata al suo sistema; ha dato avvio
a una processo di corruzione che arricchisce lui e
impoverisce il paese. La rete di servizi segreti è
modellata su quella degli ex paesi sovietici. Ha
dichiarato lo stato di emergenza, ha creato un
parlamento su misura, ha messo i suoi uomini nei
centri nevralgici dei media, ha giocato la carta del
pericolo fondamentalista per giustificare la
repressione, gli arresti e la tortura. Ha buoni
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rapporti con gli americani e con gli israeliani. Ha
sempre offerto ospitalità ai responsabili politici
occidentali in visita privata in Egitto. Ha buone
relazioni con la maggior parte degli Emirati del
Golfo Arabo.
Eppure, il popolino miserabile, infettato da
un virus di origine non controllata, gli ha impedito di fare colazione nel suo giardino e soprattutto gli ha tolto la voglia di tingersi i capelli.
Qualcuno gli ha detto che i capelli tinti rivelano
il suo aspetto femminile. E lui non ha apprezzato
la battuta.
All’inizio del suo regno, circolavano dei
noukats (“barzellette”) su di lui. Ogni giorno ce
n’era una nuova che faceva ridere gli egiziani. La
cosa lo innervosiva e non avendo senso dell’umorismo decise di scatenare i suoi servizi segreti
alla ricerca del mascalzone che lo ridicolizzava.
Ben presto fu individuato un pover’uomo, un
vecchio che se ne stava seduto a un caffè popolare di Khan el-Khalili. Fu arrestato e portato da
Mubarak. Quando questi lo vide non capì come
quel vecchio uomo sdentato, miserabile, fosse in
grado di nuocere all’immagine del rais. Decise di
rimproverarlo (era troppo vecchio per essere
torturato):
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– Com’è possibile? Racconti cose tremende
su di me, che ho salvato questo paese dalla miseria, che ho portato la libertà, la prosperità e la
democrazia a questo popolo ingrato! Racconti
delle falsità! Io sono la persona che più lavora
per il bene degli egiziani; non dormo; non faccio
che pensare a come migliorare la vita dei miei
cittadini…
Il vecchio lo fermò e gli disse:
– Signor presidente, le giuro che questa barzelletta io non l’ho mai raccontata.
In questo stesso periodo cosa fa Ben Ali, il
tunisino che è fuggito il 14 gennaio? Ha scelto
l’esilio in Arabia Saudita. Ma come trascorre le
sue giornate? Guarda la televisione. Si lascia
andare. Anche lui non ha più voglia di tingersi i
capelli. È depresso. Vive in una prigione dorata.
Non può uscire, non può andare a prendere un
caffè nel centro commerciale più vicino. Ben Ali
piange. Rivede il corpo avvolto dalle bende di
Mohamed Buazizi e lo maledice, non crede più in
Dio. Perché Dio in questo momento sta dalla
parte dei poveri, dalla parte delle persone nella
condizione di Mohamed Buazizi: “È colpa di
questo imbecille che si è fatto prendere dall’ira,
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che ha dato fuoco ai suoi vestiti, se io, io che ho
portato la prosperità ai tunisini, oggi mi ritrovo
in questo palazzo, solo, senza amici, senza i miei
divertimenti, senza niente. E poi le televisioni del
mondo intero mi innervosiscono, parlano a
vanvera. La mia testa è piena di immagini come
queste in cui la sola cosa che interessa ai giornalisti è la fawda, il disordine e il panico. Rivoluzione!
Casino, sì, distruggeranno tutto in questo bel
paese; almeno io sono riuscito a far venire milioni di turisti; ho creato una classe media, ho chiuso con i fondamentalisti islamici, ho lavorato per
rassicurare gli occidentali ed ecco che ora tutti mi
girano le spalle. L’essere umano è ingrato. Odio
l’umanità. Odio questo palazzo, questo impianto
di condizionamento eccessivo, queste confezioni
di kleenex nelle loro scatole dorate, odio questi
paesaggi giallastri, bianchi, e poi non mi piace
questo cibo. Ma di questo me ne frego, tanto non
ho più fame, quel figlio di puttana di Buazizi ha
mandato all’aria la mia vita!”
Cadono dei “muri di Berlino”. Alcuni delinquenti vengono mandati via (se avessero un
briciolo di onore, si suiciderebbero). Altri
dovrebbero seguirli. Non farò nomi per non
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rischiare di dimenticarne qualcuno. Ma si riconosceranno. Più niente sarà come prima in
questo mondo arabo che è stato per troppo
tempo confiscato da bruti che hanno fatto del
male a milioni di cittadini indifesi.
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La situazione
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Rivolta? Rivoluzione?
Questa primavera in pieno inverno non assomiglia a nulla nella storia recente del mondo.
Potrebbe far pensare alla rivoluzione dei garofani in Portogallo (novembre 1974), ma è diversa.
I popoli arabi hanno subito e sono stati rassegnati per molto tempo. Di tanto in tanto, qualcuno
si è ribellato e si è fatto uccidere. In generale,
però, il Maghreb e il Machrek hanno questo in
comune: l’individuo non è riconosciuto come
tale. Tutto è organizzato in modo che l’emergere
dell’individuo in quanto entità singolare e unica
sia impedito. È la rivoluzione francese che ha
permesso ai cittadini di Francia di diventare individui dotati di diritti e doveri.
Nel mondo arabo, ciò che viene riconosciuto
è il clan, la tribù, la famiglia, non la singola persona. L’individuo invece sarebbe una voce, non un
soggetto da sottomettere. Un individuo è una
persona che ha da dire la sua e che la dice andan13
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do a votare liberamente e senza falsificazioni. In
questo sta la base della democrazia – una cultura
basata sul contratto sociale; si elegge qualcuno
per rappresentare un popolo in un determinato
periodo e poi o lo si rinnova nelle sue funzioni o
lo si rispedisce a casa.
Nel mondo arabo, i presidenti della repubblica si comportano come dei monarchi assoluti al
punto che restano al potere con la forza, attraverso la corruzione, la menzogna e il ricatto. Bashar
al-Assad è succeduto al padre Hafez al-Assad;
Seif al-Islam è ritenuto il successore di suo padre
Gheddafi, quando questi morirà; Mubarak ha
ovviamente cercato di imporre suo figlio alla
successione, ma con la rivoluzione di gennaio
tutti i suoi piani sono saltati. Il principio è semplice: quando arrivano al potere, pensano di essere
lì per l’eternità, che il popolo lo voglia o no. Per
non indisporre troppo gli occidentali, instaurano
una sorta di “democrazia formale”, giusto una
maschera, un po’ di fumo per gli occhi di chi li
osserva. Ma è tutto nelle loro mani e non tollerano alcuna contestazione, alcuna opposizione. Il
resto del tempo, considerano il paese come una
loro proprietà privata, dispongono delle sue
entrate, fanno affari, si arricchiscono e mettono i
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loro beni al sicuro in banche svizzere, americane
o europee.
Quello che è successo in Tunisia e in Egitto è
una protesta morale ed etica. È un rifiuto assoluto e senza mezzi termini dell’autoritarismo, della
corruzione, del furto dei beni del paese, rifiuto
del nepotismo, del favoritismo, rifiuto dell’umiliazione e della illegittimità che è alla base dell’arrivo al potere di questi dirigenti il cui comportamento prende a prestito molti metodi dalla
mafia.
Una protesta per stabilire un’igiene morale in
una società che è stata sfruttata e umiliata fino
all’inverosimile.
È per questo che non è una rivoluzione ideologica. Non c’è un leader, non c’è un capo, non
c’è un partito che porta avanti la rivolta. Milioni
di persone qualunque sono scese in strada perché
quando è troppo è troppo! È una rivoluzione di
tipo nuovo: spontanea e improvvisata. È una
pagina della storia scritta giorno per giorno,
senza una pianificazione, senza premeditazione,
senza intrallazzi, senza trucchi. È come una
poesia che sgorga dal cuore di un poeta che scrive sotto dettatura della vita, che si ribella e vuole
giorni migliori.
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La responsabilità dei dirigenti europei è
importante nel mantenimento di questi regimi
impopolari e autoritari.
Essi tacciono e lasciano fare usando due scuse:
1. pensano che Mubarak, come Ben Ali, sia lì
per impedire che si stabilisca una repubblica islamica in stile iraniano;
2. pensano che non dicendo loro che devono
rispettare i diritti dell’uomo, si assicureranno
succosi affari.
Su entrambe le cose si sbagliano.
La rivoluzione iraniana è stata possibile
perché lo sciismo è strutturato gerarchicamente
(himam, mollah, ayatollah ecc.). Per gli sciiti,
l’islam è politico o non è (è questo che aveva
dichiarato Khomeini al suo arrivo a Teheran).
L’islam sunnita non ha mai pensato la pratica
religiosa in modo gerarchico. Nel Corano si dice
che nell’islam non ci sono sacerdoti. Né preti, né
rabbini, né ayatollah.
Sul piano politico, la società araba è attraversata da diverse correnti islamiche; la corrente
fondamentalista non è il solo movimento presente in Egitto. Non c’è ragione di pensare che i
fondamentalisti arrivino al potere, a meno che
non si verifichi un colpo di stato militare, il che
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vorrebbe dire che tutto l’esercito è fondamentalista, cosa assurda.
Se c’è una democrazia, questo vuol dire che
c’è multipartitismo, che ci sono differenze e
opinioni diverse che si fronteggiano in un campo
politico libero.
Quanto al secondo punto, gli occidentali
chiudono gli occhi ovunque possano fare affari,
che sia in Cina, in Libia o in Algeria. Ma da quando Barack Obama ha invocato il rispetto dei
diritti dell’uomo davanti al suo ospite cinese, nel
gennaio 2011, non è più possibile anteporre gli
affari ai diritti dell’uomo.
Tutto ciò è avvolto da ipocrisia e accondiscendenza.
Abbiamo appena saputo che alcuni ministri
francesi accettavano inviti in Tunisia, in Egitto, e
facevano coppia perfetta con dittatori di cui sapevano tutto, compreso il modo in cui torturavano
e facevano sparire gli oppositori del governo.
Queste rivoluzioni di oggi avranno almeno un
vantaggio: più niente sarà come prima, né all’interno del paese né all’esterno.
Quanto agli altri stati arabi in cui sussistono
gli ingredienti affinché qualcosa si muova e ci si
ribelli, io credo che riformeranno il loro sistema
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e saranno più vigili sul rispetto dei diritti della
persona. Il cittadino non sarà più un soggetto
sottomesso, a disposizione di un potere arbitrario e sprezzante; diventerà un individuo che ha
un nome, una voce e tutti i suoi diritti.
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Tunisia,
dicembre 2010-gennaio 2011
L’inno nazionale tunisino finisce con questi
quattro versi del poeta Aboul Kacem Chabbi:
Il giorno in cui il popolo aspira alla vita
Il destino deve darsi una risposta
Le tenebre dissiparsi
E le catene spezzarsi.
I manifestanti cantavano questa strofa come i
loro nonni l’avevano recitata al momento della
lotta per l’indipendenza (1957).
Il regime di Ben Ali era paragonabile a un’occupazione coloniale: ugualmente illegittima e
feroce. Ben Ali ha passato più di vent’anni a
costruire reti e strutture necessarie solo a rendere
il paese una sua proprietà privata. Con la scusa che
liberava il paese dal pericolo fondamentalista, si è
consentito qualsiasi cosa, e questo sotto lo sguardo benevolo e incoraggiante degli stati europei.
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È durante le rivoluzioni e i periodi di resistenza che i poeti vengono visitati dal soffio forte
dell’ispirazione. Dopo la Tunisia, che sta stabilendo un nuovo modo di vivere e di lavorare,
l’Egitto ha rovesciato tutti gli elementi che facevano del mondo arabo un blocco maledetto,
votato ai dittatori e al regresso. Ma certi scrittori
hanno passato la vita a denunciare questa maledizione. Il poeta è necessariamente visionario,
non chiaroveggente ma capace di sentire ciò che
deve assolutamente cambiare. I dittatori farebbero bene a leggere i poeti. Ma in fondo li
disprezzano fino al giorno in cui la resistenza
popolare diventa essa stessa una sorta di poema,
come abbiamo visto nelle strade della Tunisia e
poi dell’Egitto.
Oggi si parla di un immenso muro di Berlino
che cade. Sì, molti muri, molti tabù, molti blocchi
stanno cadendo. Pensiamo ai poeti, che hanno
avuto ragione prima di chiunque altro: pensiamo
al russo Vladimir Majakovskij, al turco Nazim
Hikmet, al palestinese Mohamud Darwish,
all’iracheno Shaker Essayab, all’egiziano
Mohamed Chawki e a tutte le altre voci che si
sono levate, nel secolo scorso, per dire l’intollerabile, il bisogno vitale di libertà e di giustizia.
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Ma nessun regime autoritario ha preso sul serio i
poeti e gli artisti.
L’Egitto è il più grande paese arabo esistente.
Per molto tempo, è stato il faro della cultura e
della civiltà araba. Ma poco a poco, sotto la pressione dei militari, con le ferite delle numerose
guerre contro Israele, con l’emergere di un islamismo retrogrado, questo grande paese è diventato il territorio degli scacchi, delle sconfitte: con
la complicità di America, Israele ed Europa si è
installato un regime di polizia basato sulla corruzione, sul favoritismo e sull’arbitrio. Siccome però
è un paese strategico, l’Occidente doveva aiutarlo
e non criticarlo. Si è tollerato tutto di questo regime, perché è stato il solo paese arabo a siglare una
pace con Israele (con il viaggio a sorpresa di
Anwar al-Sadat nel 1977 a Gerusalemme, gesto
di grande coraggio politico, ma che non è stato
riconosciuto con il valore che meritava dagli israeliani, che non hanno mai voluto concludere una
pace effettiva con gli altri paesi arabi e soprattutto con il popolo palestinese).
Non si possono accusare gli scrittori, i registi
e gli intellettuali egiziani di non aver fatto il loro
lavoro, quello di dire e mostrare ciò che succedeva quotidianamente nel loro paese. I romanzi di
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Sun Allah Ibrahim, di Ghitani, di Alaa al-Aswani, di Khaled el-Khamissi sono stati tutti testimoni della loro epoca e della loro società in ciò che
essa ha di più intollerabile.
Tutti sapevano che cosa succedeva nei commissariati; la stampa internazionale (come in Tunisia)
dava voce alla repressione di cui erano vittime le
persone del popolo, gli emarginati, i derelitti,
coloro che subivano ingiustizie e non potevano
esprimersi né difendersi. Libri scritti da giornalisti o da militanti in esilio hanno descritto queste
dittature che avevano il vantaggio di sembrare
“dolci” agli occhi dei dirigenti occidentali. Ma
come in ogni rivolta, tutto parte da un incidente,
un diverbio con la polizia, un’ingiustizia urlata,
un atto intollerabile che potrebbe essere definito
“la goccia che fa traboccare il vaso”. Sia nel caso
della Tunisia che in quello dell’Egitto, molti vasi
erano già traboccati, si erano già rotti ed erano
stati buttati nella spazzatura. E però tutto questo
sembrava normale: è così che si vive nei paesi in
via di sviluppo, è così che si muore nei paesi in cui
agli occhi dell’Occidente la stabilità o la sicurezza
sono garantite ma in cui in effetti regna il disprezzo del cittadino e delle sue libertà, dei suoi diritti.
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La presa del potere da parte di Ben Ali era
stata sostenuta da tutto il mondo. Si era parlato
di “colpo di stato curativo”. Un bel mattino, il 7
novembre 1987, colui che Habib Bourguiba
aveva nominato ministro dell’interno e poi primo
ministro entra nel palazzo e fa alzare un vecchio
malato, lo obbliga a lasciare il suo letto e gli
comunica che non è più presidente. La sera
prima aveva riunito al ministero dell’interno
sette medici e li aveva obbligati a firmare una
dichiarazione di “incapacità di Bourguiba a
governare”. Si dice che uno dei medici che non
voleva firmare perché non vedeva Bourguiba da
due anni si sentì dire da Ben Ali: “Firma, non hai
scelta”. Contemporaneamente, Ben Ali aveva già
collocato di forza alcuni suoi uomini nei ministeri. Deponeva un gran signore e prendeva il suo
posto senza vergogna, senza pudore. Certo,
Bourguiba avrebbe potuto andarsene da solo,
prendere la decisione di lasciare il potere perché
il suo stato di salute non gli permetteva più di
governare. Ma quando una persona è stata al
potere, agisce come se fosse stata contaminata da
un virus. Solo Léopold Sédar Senghor, il presidente del Senegal, ha abbandonato di propria
iniziativa le funzioni presidenziali per dedicarsi
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alla scrittura, alla poesia, alla lettura. Ma non
tutti i capi di stato sono dei poeti.
Mi sembra d’obbligo qui ricordare come
Bourguiba sia stato un grande capo di stato, anche
se autoritario e ingiusto, soprattutto con coloro
che si opponevano democraticamente alla sua
politica. Qui ricorderemo di quest’uomo solo le
qualità e gli atti di coraggio, diciamo la sua modernità. Fu lui a negoziare con la Francia l’indipendenza del suo paese. Presto ha inserito la Tunisia
nella scia di una modernità rara all’epoca, nel
mondo arabo. Ha iniziato col cambiare lo statuto
della famiglia; la Tunisia è stato il primo, e per
molto tempo l’unico, paese musulmano e arabo a
riconoscere alle donne i loro diritti: divieto di
poligamia, divorzio autorizzato e aborto legalizzato (ben prima della Francia!). Era un rivoluzionario. È stato il solo uomo di stato ad aver sostenuto la laicità concretamente: un giorno di
Ramadan (marzo 1964) si presentò in televisione
e bevve un bicchiere di aranciata in diretta, davanti ai telespettatori allibiti. Giustificò il suo gesto
con ragioni economiche. Non poteva tollerare
che l’economia del paese sonnecchiasse per un
mese intero perché i lavoratori digiunavano e non
avevano né la forza né l’energia per fare bene il
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loro lavoro. Per decenni, i tunisini furono liberi di
digiunare o non digiunare. I caffè e i ristoranti
restavano aperti. Le persone consumavano quel
che volevano in tutta serenità. Coloro che, per
fede personale, seguivano il Ramadan, non erano
rimproverati né importunati da alcuno.
Il 3 marzo 1965, a Gerico, Bourguiba tenne
un discorso da visionario che nessuno all’epoca
poté accettare. Consigliò agli arabi di “normalizzare le loro relazioni con lo Stato d’Israele”
dicendo che “la politica del tutto o niente aveva
portato i palestinesi solo alla sconfitta”. Si era
inimicato tutti i capi di stato arabi e soprattutto
l’egiziano Nasser, di cui criticava il nazionalismo
fanatico. La folla dei paesi arabi scese nelle strade per protestare a favore della capitolazione di
“un traditore della causa sacra della Palestina”.
Cosa che non gli impedì di chiedere all’onu “la
creazione di una federazione fra gli stati arabi
della regione e Israele”.
Due anni dopo, il 5 giugno 1967, i paesi arabi
della regione scatenarono una guerra contro
Israele che persero in modo pietoso. Perciò ci si
riferisce a questa sconfitta in termini di naqba
(“catastrofe”). Oggi il sogno dei palestinesi è di
ritrovare i territori che avevano prima del giugno
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1967. Eppure mai Israele accorderà loro un solo
metro quadrato di territorio.
Bourguiba era un uomo laico, colto, visionario. Il suo temperamento di uomo autoritario ha
rovinato il suo percorso, ma questo temperamento non era una ragione sufficiente perché un militare, sposato a una parrucchiera, lo deponesse
come una vecchia carcassa che aspetta la morte.
Ben Ali non ha cambiato tutto subito, quando
ha preso il potere. Ha continuato le riforme di
Bourguiba, soprattutto nel campo dell’istruzione. Ha chiamato Mohamed Charfi, un militante
per i diritti dell’uomo e gli ha assegnato il ministero dell’educazione nazionale con la missione
di ripulire i manuali scolastici dell’ideologia
fondamentalista e fanatica. Mohamed Charfi,
insieme con un gruppo di una cinquantina di
professori, ha svolto un lavoro davvero notevole.
Ha rifatto tutti i manuali scolastici con uno spirito illuministico e di apertura critica. Ben Ali non
gli ha impedito di lavorare. Una volta finita la
missione, Mohamed Charfi ha dato le dimissioni
e ha recuperato la sua libertà.
Tutto il lavoro di Ben Ali è stato pensato
nell’ottica della lotta contro gli islamici integralisti. Questa lotta, però, ha preso ben presto
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l’aspetto di una caccia alle streghe con arresti
arbitrari, torture negli uffici della polizia, prigionia in condizioni inimmaginabili. Con la scusa di
lottare contro il pericolo islamico, Ben Ali ha
esercitato il potere in modo dittatoriale, diffondendo la paura nel paese, vietando la stampa
straniera, perseguitando gli oppositori, anche
quelli che non avevano niente a che vedere con il
fondamentalismo islamico. Insomma, la crescita
economica e la stabilità ottenuta attraverso la
repressione faranno di Ben Ali quello che gli
occidentali chiameranno “un baluardo contro il
fondamentalismo islamico”. È così che per tre
decenni, Ben Ali, sotto uno sguardo benevolo e
perfino incoraggiante, sottoporrà il suo paese a
una dittatura in cui il cittadino tunisino non ha
alcun diritto. La Tunisia diventerà una sua
faccenda privata. La sua famiglia, in senso letterale e allargato, ne approfitterà con eccessi e
senza vergogna. Uno dei suoi fratelli, preso in
Francia con le mani nel sacco in un traffico di
droga, sarà liberato a Parigi e raggiungerà tranquillamente le sue ville dorate di Tunisi. In questo
periodo, i militanti vengono arrestati e i giovani
diplomati sono in strada, senza lavoro; alcuni di
loro tentano l’immigrazione clandestina a rischio
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della propria vita. La Tunisia e il suo presidente
che ogni cinque anni si fa rieleggere con una
preferenza che rasenta il 99% sono ben noti alle
cancellerie occidentali. Quando ci sono delle visite ufficiali in Europa, il signor Ben Ali è applaudito, celebrato, proposto come esempio, simbolo
di “buon progresso della democrazia”. A me
sembra di sognare. Quando è fuggito come un
ladro (o meglio, in quanto ladro), le televisioni
hanno fatto rivedere i discorsi di Jacques Chirac,
Nicolas Sarkozy, Dominique Strauss-Kahn,
Silvio Berlusconi ecc. Era incredibile sentire cosa
queste persone dichiaravano di Ben Ali e cosa
hanno balbettato nel momento in cui quel
mascalzone è fuggito. Ma è quello che si chiama
“real politik”.
La Tunisia è così diventata un’eccellente meta
turistica. Tanto meglio, anche se gli aspetti scandalosi del regime a un turista non sono mai stati
visibili; dovevi essere un giornalista accorto o
uno scrittore con grande spirito di osservazione.
Io sono andato in Tunisia nel 2005, invitato dal
centro culturale francese di Tunisi per parlare
agli studenti di un liceo. Ero continuamente
seguito da poliziotti in borghese. Gli studenti mi
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ponevano domande strettamente letterarie e,
dopo la conferenza, venivano da me e mi parlavano all’orecchio. Ho odiato quel viaggio e
quell’atmosfera plumbea.
Durante gli anni di Ben Ali, i giornalisti che
hanno osato denunciare questo sistema iperpoliziesco sono stati messi in prigione. Il più celebre
di loro si chiama Ben Brik. I media francesi hanno
diffuso i suoi messaggi di sconforto. Tutti erano
al corrente che nel paese di Ben Ali vigeva la
tortura e che gli oppositori del regime venivano
fatti sparire.
Con l’attentato alla sinagoga di Djerba (11
aprile 2002, 21 morti) all’improvviso si è capito
che se Ben Ali era riuscito a far tacere i fondamentalisti islamici del suo paese, tuttavia la sua
polizia non aveva potuto impedire ad Al Qaeda
di perpetrare un sanguinoso attentato. Il kamikaze veniva da una famiglia immigrata in Francia e
aveva relazioni con un tedesco convertito
all’islam.
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