Esercizi di pazienza

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Esercizi di pazienza
Esercizi di pazienza.
Note rapsodiche intorno al libro <<Pazienza>> , di Gabriella Caramore
I
Pazienza non fa rima con dubbio. La "piccola virtù" della pazienza, disconosciuta e screditata in epoca contemporanea,
molto apprezzata invece nei tempi antichi, può giustamente ritenere di essere stata spodestata da quello che l'era
moderna- l'era della rivoluzione scientifica del '600- ha celebrato come grande eroe: il dubbio, cartesiano o meno. Colui
che dubita non è colui presso il quale, pazientemente, si annida l'attitudine a perseverare nella fede, o nella fiducia.
"La piccola <<qualità paziente>> , così sdegnata dalla vuota frenesia del secolo, si fa strada in mezzo alle incertezze,
recupera il suo orgoglio antico, e comprende che deve farsi materia viva dentro un progetto che contenga l'altro come suo
orizzonte e suo fine. Come lievito che fa crescere la pasta, come il grumo di sabbia che può farsi perla, come il seme di
senape che si trasformerà in albero capace di ospitare molti uccelli". Si chiude esattamente con questo periodo il saggio
<<Pazienza>>, di Gabriella Caramore, uscito quest'anno per i tipi del Mulino. Radioso, giubilante epilogo, che raccoglie
quello che il libro tutto contiene: un appello ad una metanoia dell'umano: per un'aurora di bellezza e verità che, nel
segno della virtù della pazienza, potrà dischiudersi. È tempo di trovare la forza per crederci. Accogliamo l'auspicio con
giubilo ed esultanza.
II
Pazienza: sicuramente un prezioso antidoto, in un'età dove è egemone la sensazione di essere oppressi, schiacciati dal
non avere tempo. Viviamo in "un tempo dove non c'è più tempo", parafrasando W.Benjamin.
Ma soprattutto la pazienza è esercizio "spirituale", per potere immergersi nella complessità della vita e più in generale
del mondo. Gabriella Caramore, introducendo al tema, sceglie un approccio che spazia per i paesaggi della montagna,
immergendosi in essa. Atto che comporta un salire - dunque un'ascesi. La prospettiva della montagna è dunque
perfetto viatico per familiarizzarci con lo stato d'animo benedetto della pazienza. "Vi è un potenziamento della visione e
la sensazione di un contatto tra umano e divino; un sentimento di separatezza dal resto del mondo... un'esaltazione del
coraggio, insieme a una sensazione di umiltà" (p.25). In quel gesto inutile che è il salire sui monti si schiude- come in
un'armonia di contrari, la percezione di una necessità.
Nella fisicità dell'ascesa, infatti, accade la lenta metamorfosi. Un'apertura del nostro io. Come si amplia la vista -al
procedere del passo cadenzato e lento- così si allarga l'ascesa spirituale. Il corpo, affaticato, dolente, ansimante, deve
misurarsi con la natura non addomesticata dei monti, in cui risuona traccia del tempo dell'universo . Il traguardo è
lontano, ma attimo dopo attimo esso si fa un po' più prossimo, si manifesta con un po' più di forma.
In una seconda stazione, Gabriella Caramore rivolge uno sguardo agli "antenati" (i pittori di Lescaux), gli "uomini
primitivi" che sentirono il richiamo alla duplicazione figurale della loro realtà, dei loro compagni, degli animali. Perchè
lo fecero? Possiamo ipotizzare che esso abbia portato al pensiero. Pensiero che oltrepassa la morte del singolo, e diviene
memoria. Il segno, la scrittura e l'immagine artistica riduplicano, in altra forma, l'eternità. Almeno fino a quando i
segni materiali sono leggibili. In questo ardito passaggio alla scrittura, al numero e alla rappresentazione, ecco
comparire la pazienza: una sospensione, uno scarto, un immobilizzare il tempo che fluisce. È tratto che inaugura lo
specifico dell'umano, che si distanzia dagli altri viventi.
Tale scarto, però, non è soltanto un guadagno - come affermano i cantori del progresso: per le innumerevoli
conseguenze che questa distanza comporta. Gli animali non pianificano i massacri.
Il dischiudersi dell'universo dell' arte, nel percorso dell'autrice, ci introduce al ricordo di Giorgio Morandi, e alla
silenziosa pazienza nel cui alveo cova l'opera d'arte. Perchè Morandi? In Morandi morte e vita si intrecciano- forse in un
modo molto più straziante e sublime insieme che in altri pittori. Intreccio di morte e vita che è consustanziale alla
tonalità della pazienza.
III
Entrando in una nuova prospettiva, il libro si snoda nei territori della sapienza orientale, contenuta nelle opere della
Mahābhārata e Bhagavadgītā. Sapere essere pazienti è la raccomandazione per eccellenza di questa saggezza. Ma
pazientare in vista di cosa? Non tanto nell'attesa di un futuro che verrà. È il qui e ora, la pratica stessa dell' attendere
l'obiettivo, perchè proprio è l'esercizio del pazientare che ci forgia. Come diceva Aristotele a proposito dell'etica:
l'abitudine è essenziale.
Ci viene ricordato che pazienza deriva dal greco pathos, pathein, che significano patire, da cui anche passione: essa
sottolinea lo stato del soggetto passivo, che è in grado di sostenere la pressione esterna. È la tenace forza del saper
resistere- di cui abbiamo già detto- quella che innerva la pazienza. Lento cammino dello psichismo umano che, orientato
all'accordo con gli eventi, alla morbidezza, alla cedevolezza, come una canna al vento che si flette piuttosto che irrigidirsi,
sa resistere ai colpi inferti della realtà. "Chi conosce la pazienza è in grado di tollerare qualsiasi cosa... i pazienti
raggiungono la loro dimora... la pazienza è la gloria". (Mahābhārata). Anche gli stoici condividevano questa saggezza.
Nel paragrafo, a pag 50, intitolato La larghezza del cuore, l'autrice si chiede: Attesa o pazienza? S. Weil - si dicepredilige il termine attesa a quello di pazienza. Nella versione realizzata dalla filosofa della "parabola del seme", nel
Vangelo di Luca, troviamo:" <<attesa>>, parola <<tanto più bella di pazienza>>" Perchè : "Dio attende con pazienza che
io voglia infine acconsentire ad amarlo. Dio attende come un mendicante che se ne sta in piedi, immobile e silenzioso,
davanti a qualcuno che forse gli darà un pezzo di pane... L'umiltà dell'attesa ci rende simili a Dio"(pag 52).
IV
La riflessione che segue si rivolge a Dio e alle Sacre Scritture. Non è la pazienza, uno degli attributi più costitutivi del
Dio ebraico. Egli compare, piuttosto, nell'area semantica della parola speranza, area che comunque condivide con
pazienza una prossimità di significati molto nutrita, anche non è ad essa sovrapponibile.
Ma il paziente è una figura celebrata nella Bibbia? Risposta affermativa certamente nei testi sapienziali. " Lo stolto dà
sfogo a tutto il suo malanimo, il saggio alla fine lo sa calmare" (Pr 29,11). "Chi sorveglia la sua bocca conserva la vita, che
apre troppo le labbra incontra la rovina"(Pr 13,3).
Ma ci sono chiaroscuri non irrilevanti. Due figure bibliche, che risplendono per la loro virtù della pazienza -Mosè e
Giobbe- vengono messe a fuoco. Nelle vicende di Giobbe la complessità si infittisce. La dialettica dei contrari tra
pazienza e impazienza decolla. Scrive l'autrice: "I profeti sono pazienti, sì, ma non sta lì la loro forza che si rivela
piuttosto nell'impazienza del dire, sanno che il tempo del giudizio è vicino, che il giorno del giudizio, quando verrà sarà
terribile "Urlate perchè il giorno del Signore è vicino; esso viene come una devastazione" (Is13,6) (pag 80).
Giobbe è visto come l'emblema della pazienza. In realtà la sua sopportazione è assai contenuta. Se è vero che accetta la
mala sorte e che resiste sia alla prima fase di sventure, sia alla seconda, poi però comincia a chiedersi perchè. L
'afflizione gli fa pronunciare parole sconsolate : "maledetto il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse <<È stato
concepito un uomo>>" (Gb 3,3).
Si colora di un timbro sempre più incalzante la domanda rivolta da Giobbe all' Eterno, fino a lambire il tono irriverente.
"Se ho peccato, che cosa ti ho fatto....Perchè mi hai preso a bersaglio e ti sono diventato di peso?" (7,20). Il suo rivolgersi
a Dio assume il tono di una sfida, di una chiamata in giudizio. Caramore commenta la legittimità della richiesta di un
render conto. Può il Volto dell'Eterno essere così crudele come lo è l'insensatezza?
Un ribaltamento da pazienza a impazienza? È piuttosto da leggersi -suggerisce con acume Caramore- come pazienza
che trasforma la sua effigie: ora è il non smettere di domandare, la tenacia ad interpellare un dio che sembra ormai
dissolto nella deriva dell'ingiustizia. <<Perchè vivono i malvagi, invecchiano e sono potenti e gagliardi?>> (21,7).
L 'esito del nucleo teologico-narrativo finale del libro, cioè la riposta di Dio, lascia il lettore interdetto: "Il Signore
risponde a Giobbe. Ma le sue risposte suonano crudeli, indifferenti, beffarde... Per le domande di Giobbe non c'è posto".
La sua sarebbe "una piccola vita....irrilevante". "Le risposte di Dio a Giobbe sono infinitamente distanti e crudeli....[Dio]
Esprime una superiorità irraggiungibile, disprezzo, derisione". (pagg. 85-87)
È uno dei passaggi più densi del libro. Infatti è davvero raro sentire esprimere con tanta parresia l'irritazione che tale
risposta provoca. Di fronte alla piccolezza e miseria umana, di fronte ad un uomo giusto ma "meschino" (40,4),
perseguitato dalla sventura, si staglia, immenso, straordinariamente illimitato, infinito, potente, Dio; nelle cui parole è
inevitabile avvertire - immediatamente- un' umiliazione per il "meschino" che ha osato il processo. "Dov'eri tu quando
ponevo le fondamenta della terra?"(38,4). Non si trova, nelle parole di Dio un accenno di pietà, di accoglimento tenero,
paterno: quello così frequente nelle parabole del Nuovo testamento, prima fra tutte quella del figliol prodigo.
Rispecchiandosi nel protagonista, il pensiero di Caramore aderisce mimeticamente ad esso. E il suo dire parimenti ricalca
- nella fierezza dell'umano- la stessa passione del vero. Giobbe avrebbe l'impareggiabile merito di aver reso
testimonianza all'umanesimo dell'uomo: il quale, nella sua miseria, osa comunque perseverare nella domanda.
Perchè mettere nel canone questo libro?
Mi discosto per qualche minuto dal pensiero dell'autrice. Credo che la lettura che qui viene offerta sia la più spontanea,
immediata. La mia impressione è che i redattori del testo biblico abbiano inserito questa vicenda per raccontarci di un
uomo che credeva di essere onesto, nel giusto, di avere le carte in regola con la giustizia e con Dio, e quindi di meritarsi
un destino sereno, in pace. Egli rappresenta un tipo: quello dell'uomo che non ha nulla da rimproverarsi, ritiene di essere
autosufficiente, di potersi riscattare con le sue mani: "Mai ho rifiutato quanto brama il povero/nè ho lasciato languire gli
occhi della vedova/ mai da solo ho mangiato il mio tozzo di pane/senza che ne mangiasse l'orfano" (31, 16-17).
Egli sarebbe sempre stato integerrimo; si considera estraneo al peccato, certo che la sventura non lo riguardi: "Io che
non ho permesso alla mia lingua di peccare" (31, 30). "Non è forse la rovina riservata all'iniquo/e la sventura a chi
compie il male ? "(31, 3)
Come conferma delle mie impressioni, rilevo che al cap. 28 appare la figura cruciale della Sapienza, una verità che Dio
solo possiede, perchè "è nascosta agli occhi del vivente" (28,21). Questa inserzione mi appare una spia loquace del senso
complessivo. Giobbe vuole capire - ed è da ammirare- ma presume la giustezza di una conoscenza tutta solo "umana"- ed
in questo è da biasimare.
In uno scritto di Simone Weil dedicato alla sapienza greca- La rivelazione greca- è contenuto un accenno al testo
veterotestamentario su cui ragioniamo. Così osserva : "Ciò che limita è Dio. Dio dice al mare:<<Tu non andrai oltre...>>
[allusione a Giobbe 38,11]. [...] "Ciò che è illimitato non ha esistenza se non ricevendo un limite dall'esterno [Dio]"[...]
"Quaggiù non vi sono che beni e mali finiti... I beni e i mali infiniti che supponiamo esistano a questo mondo... sono
necessariamente immaginari" [...] "Porre al centro dell'anima la conoscenza di questa verità, in modo che tutti i moti
dell'anima vengano a ordinarsi rispetto ad essa, significa imitare l'ordine del mondo" [...] "La conclusione del libro di
Giobbe e i primi versi pronunciati da Prometeo nella tragedia di Eschilo indicano un legame misterioso tra dolore e
rivelazione della bellezza del mondo". (Pag 182-3)
Nell'analisi della filosofa, Dio dona a noi mortali, a noi creature, la misura, il limite alle cose e in questo consiste la
percezione della bellezza insita nel creato. Tale bellezza è prova rigorosa e sicura dell'ordine dell'universo, un ordine che,
in questa lettura, accomunerebbe sia la sapienza degli antichi filosofi e tragediografi sia quella dei testi sacri. (Ciò lo
troviamo espresso anche in La prima radice, pag. 230-1). La fede infatti non sarebbe ingenua credulità nè suggestione
per il magico, ma un ascolto e un cedere a questo ordine.
Si ricadrebbe nella figura del Dio geomètra, il dio del filosofi, come diceva Pascal? Non credo. Il volto di Dio qui è più
complesso dell'univoca immagine del Padre buono. Qui si intravede un Bene che sia anche ordine, misura, Logos, oltre
che misericordia; che comprenda in sè ogni sventura, armonizzando i contrari. La risposta di Dio a Giobbe potrebbe
essere colta in questo orizzonte.
V
La seconda parte del libro riflette sul Nuovo Testamento e il terzo capitolo si apre con la formula: Christus patiens. Era
paziente Gesù, il Cristo? Niente affatto! Come è potuto succedere che, per lo più, nella retorica della pastorale cristiana e
negli ambienti della formazione catechistica, sia stata egemone una immagine di Gesù umile e sofferente - "il Cristo che
patisce sulla croce è diventato il modello da imitare nell'avvilimento dello spirito e del corpo"(pag. 98)- , quando in realtà
nelle pagine dei Vangeli si dispiega la vicenda di un uomo che, nella convinzione di vivere alla fine dei tempi, spesso
agisce con impulsività, con "frenesia composta " (pag. 93), talvolta con irrequietezza, nell'urgenza di chi sa che non c'è
tempo da perdere perchè Il Regno dei cieli è vicino?
Gesù appare impaziente in particolar modo nella scena della visita al Tempio. Come ha mostrato con grande acume il
film Il Vangelo secondo Matteo, di P. P. Pasolini- ora riabilitato dall'Osservatore Romano- non si può non percepire le
parole di Gesù, in alcuni frangenti, come mosse da ira e collera. "Non sono venuto a portare pace, ma una spada" (Mt 10,
34). "<<Sono venuto a gettare il fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò
battezzato, e come sono angosciato finché non sarà compiuto >>(Lc12,49-50) .
VI
Come ho preannunciato all'inizio, il libro si congeda da noi in un crescendo di pathos. Come se la <<pazienza>> avesse
esaurito la sua componente di attesa e imboccasse la via dei tempi ultimi. Nel capitolo di chiusura, dove la prosa assume
un andamento sempre più incalzante e accorato, quattro figure - il bambino, il vecchio, il malato, gli amanti- vengono
tratteggiate nel loro morbido intrecciarsi con le forme dell'attualizzarsi della pazienza. I quattro profili trovano il loro
suggello in una delle intuizioni più ricche e felici di R.M. Rilke, molto amata anche da Etty Hillesum, che la trascrive
più volte nel suo diario; è tratta da Lettere a un giovane poeta" . Vale la pena riascoltarne un piccolo frammento, tanto
vola alto nei cieli della poesia.
"Essere artisti non vuol dire contare, vuol dire crescere come l'albero che non sollecita la sua linfa, che resiste fiducioso ai
grandi venti di primavera, senza temere che l'estate possa non venire. L'estate viene. Ma non viene che per quelli che
sanno attendere, tanto tranquilli e aperti come se avessero l'eternità davanti a loro. Lo imparo tutti i giorni a prezzo di
sofferenze che benedico: pazienza è tutto".
È la seconda volta che incontriamo la metafora di un albero che cresce superbamente. E sempre si rinnova la
folgorazione. L'albero non dubita. Ecco di nuovo la dicotomia: il dubbio vs. la certezza. La pazienza nutre quest'ultima. È
un esercizio che si protende ad assecondare l'essere, e si compie a prezzo di sofferenze.
Le pagine finali intonano un accordo armonico tra il tema della pazienza e quello della cura. "La pazienza non è soltanto
una questione di attesa, anche attiva, che qualcosa si compia, ma una tensione di volta in volta elaborata per mantenere
in vita ciò che si può spegnere, custodire ciò che si può infrangere....ridare respiro di dignità e libertà a ciò che vediamo
pericolosamente in bilico sul ciglio del mondo (pag.125). Di pazienza e di cura è sostanziata l' attenzione necessaria
perchè l'essere umano compia quello che Dio, creandolo, gli ha indicato: custodire il mondo.
Come si chiude il libro lo abbiamo già anticipato. Ma non dimenticheremo di accennare alle grandi intuizioni di Simon
Weil e Vladimir Jankèlévitch- riprese nell'ultimo paragrafo- per il contributo decisivo che i due pensatori hanno fornito
riguardo questi temi; soprattutto per la sollecitudine a pensare un nuovo umanesimo incardinato sul fondamento dei
doveri piuttosto che su quello dei diritti - ed è doveroso ricordare che Simone Weil ha prefigurato queste tesi in anni in
cui tutto ciò era giudicato arretrato o reazionario- perchè solo nella responsabilità verso l'altro può apparire un
orizzonte di minore sofferenza e ingiustizia. Molto poco conosciuto, compare sempre qui il mito di Cura, tratto da Essere
e tempo di Martin Heidegger, narrazione in cui la Cura, personificata, simboleggia "il fondamento dello stare al
mondo".
Pazienza e cura si illuminano reciprocamente. L 'attitudine a cedevolmente resistere, al saper cadere e rialzarsi, si
colora, in questa prospettiva, del suo correlativo oggettivo: non essere per sè, ma in relazione all' altro.
Grazie, Gabriella!
Settembre 2014.
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