Estratto dal libro «Greta Garbo

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Estratto dal libro «Greta Garbo
GRETA GARBO
Prigionieri di cinema
Avete parlato come se ognuno fosse il mio padrone. Be’, nessuno è il mio padrone, chiaro? Io
sono roba mia, farò sempre quello che voglio, e
non c’è uomo al mondo, può essere chi vuole,
che può darmi un ordine. Chiaro?
Greta Garbo in Anna Christie,
al padre e al pretendente
Il luogo era troppo bello e non sembrava di
questa terra: la lontananza di ogni traccia di
civiltà, il mare ai nostri piedi, il suo incessante
mormorio e il suo mugghio nelle nostre orecchie, tutto invitava la mente a meditare su strani pensieri e, sollevandola dalla quotidianità,
l’induceva a familiarizzare con l’irreale. Una
sorta di incantesimo ci circondava.
Mary Shelley, autrice di
Frankenstein ovvero il Prometeo moderno
Greta Garbo cambiò le allucinazioni, patrimonio dell’umanità. Le reiventò, e lo capì solo molto tardi, dopo aver conqui-
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stato il cinema che l’aveva posseduta con violenta dolcezza e
conquistata, sul set e nelle sale di proiezione, tra i fumi delle sigarette del pubblico e le sue, morbidamente tenute tra le
dita, come oppio.
Greta agì da adorabile sonnambula che entrò nel bianco
e nero, bianca come un angelo sul nero della pellicola, buio,
notte, baratro, solcato dal lampo.
Le allucinazioni del cinema, intensamente, prepotentemente − irresistibili − erano un lascito del mondo che non
aveva mai avuto un lenzuolo bianco, grande, un’ala quadrata
davanti agli occhi, seducente come una calamita, per avvolgerlo. Un mondo senza lenzuola, oggi, inimmaginabile.
Una vecchia storia che continua, quella delle allucinazioni. Un modo di vedere. I marinai, quando passano giorni a
guardare il mare piatto, lenzuolo orizzontale, vedono «cose»
(e forse le odono anche).
Lo sapevano e lo hanno scritto gli uomini che leggono
il cervello, scienziati, come Oliver Sachs. Sachs, genio affascinato da Greta, il quale ricorda che anche gli uomini in
cammino nel deserto, viaggiatori senza riferimenti, hanno
visioni come gli esploratori delle regioni polari che si muovono in un paese di ghiaccio, vasto e uniforme.
Queste visioni vengono chiamate «miraggi» e sono allucinazioni. Persino Antonio De Curtis, Totò, le ha vissute in Totò
sceicco (1950), urlando furioso a «questo maledetto sole africano»: colpi di sole che ri-creavano dalla notte dei tempi una
sotterranea Atlantide e la pericolosa regina Antinea.
Il bacio di Antinea dà la morte e Arnoldo Foà, colpito dal
sole e soprattutto da una potente febbre d’amore, conosce
il pericolo; ma il richiamo è irresistibile per l’ultimo bacio,
visione accecante, promessa di un’apoteosi potente, rischio
imperdibile.
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Quanti uomini nei film di Greta risultano folgorati dell’allucinazione della bianca sonnambula, lei, proprio lei, materia di celluloide? Tutti. John Gilbert, Robert Montgomery,
Ramón Novarro, Charles Boyer, Melvyn Douglas… e con
loro molti milioni di ignoti maschi. Ma anche tante donne,
sugli schermi e nella vita, i volti, i corpi clandestini in epoche di divieti omosessuali.
Le allucinazioni hanno avuto un ruolo importante, sempre, ovunque; ma bisogna chiedersi fino a che punto la mente, l’arte, il folclore, persino la religione, abbiano origine da
esperienze allucinatore. Davanti allo spettacolo di una notte
stellata o di una natura che pare talmente stregata da spingerci a vedere elfi, folletti, fate. O davanti agli incubi che tormentano, presenze maligne, crisi simili a quelle che aveva
Dostoevskij, crisi «estatiche».
Nella notte stellata, senza vere stelle, da quando debuttò
nel cinema nel 1921 a sedici anni, Greta cominciò sfilare nelle storie, nei drammi, nelle passioni, nella felicità splendente
e nella felicità che se n’è andata.
Greta come un giunco, un taglio nel quadro della proiezione; creava un prima e un dopo, separando il nulla delle
luci di servizio e promettendo il paradiso, l’ineffabile raggio
di brividi, nel buio finto, artificiale.
Ecco il prodigio. Nasceva all’improvviso, come il colpo
nel buio, un sole bianco su sfondo nero. Ecco la scena. Ecco
Greta. Luminosa. Reale. Non un prodigio ma un esperimento dei sensi. L’ombra sullo schermo diventava vera «dentro
lo spettatore» e, grazie al film che vedeva, era coinvolto nel
luna park della attrazioni.
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Occhi comandati
Lo spettatore imparava a far tesoro del suo handicap senza saperlo, lo scopriva in suo intimo segreto. La perdita delle
normali possibilità visive porta gli occhi a farsi comandare
da una suggestione, e può stimolare «l’occhio interiore». Un
occhio interiore, invisibile, che vede e produce sogni, immagini vivide, forti allucinazioni; e fa lui il film, nuovo, nel
magazzino della mente.
Greta, da star, brillava sullo schermo, ma il suo viso, il corpo, il fascino brillavano ancor più nella luce accesa dall’occhio
interiore e segreto di ogni spettatore. La prova provata che il
cinema è capace più di ogni altra forma d’arte di agire, confortare o tormentare chi si trova nell’oscurità o nell’isolamento.
Oliver Sachs suggerisce due parole, due termini scientifici,
che spiegano e offrono la chiave giusta: il «cinema del prigioniero». Senza ore d’aria, o con poca aria. Chiusi nella libertà,
nel buio illuminato del fascio di luce, la lanterna della libertà.
Il «cinema» che feconda le allucinazioni esisteva prima
dei fratelli Auguste e Louis Lumière, figli del pittore Antoine, fabbricanti di lastre di bromuro d’argento.
Quando le lastre trovarono il movimento nacque l’età moderna. Il 28 dicembre 1895 a Parigi, al Gran Café, al numero
14, Boulevard des Capucines, l’ignaro spettatore entrò in una
comoda, fascinosa «prigione» e non ne uscirà più. Una «prigione» che si trasformò in un idillio che era il frutto di una lunga
avventura cominciata diversi anni prima. Vibrante di novità.
Un’avventura costellata di mostri, generata da una giovane donna innamorata di un poeta, poi madre di Frankenstein, il primo mostro concepito fuori dal parto, ma parto
esso stesso, ugualmente. Frankenstein, un corpo formato di
organi di defunti, nuovo corpo alla ricerca di un’anima.
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La madre si chiama Mary Shelley, a diciannove anni autrice di uno dei romanzi più sconvolgenti della letteratura:
Frankenstein, o il moderno Prometeo, scritto e pubblicato negli
anni in cui l’Inghilterra inventava lo smog, una nebbia fitta
resa maleodorante dai fumi delle fabbriche che costellavano
i cieli della rivoluzione industriale; e sotto il cielo cupo, bambini e genitori respiravano la realtà di un olocausto senza
paradiso né in terra né nel domani. Gli anni che costruirono
il Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich
Engels (1848).
Erano anni anche romantici, sugli scenari delle guerre
napoleoniche, i moti nell’impero austro-ungarico, l’eco delle
proteste nei grandi domini degli zar, le rivoluzioni del lontano Sud America, le guerre d’indipendenza italiane.
Ma la terra e il mare erano ancora in grandissima parte
incontaminati, e così li scopriva l’inglese Mary, figlia di William Godwin − filosofo radicale, scrittore ed editore di libri
di bambini − e di Mary Wollstonecraft, a capo del primo movimento femminista, che morì dieci giorni dopo la nascita
di Mary.
Progressisti, benestanti, diversi da quella che sarà la famiglia Gustafsson, quella di Greta, povera, abitante nella
periferia di Stoccolma.
William era un padre poco disposto a concedere autonomia alla giovane Mary che s’innamorò giovanissima del poeta
Percy Bysshe Shelley, di cinque anni più grande, già sposato,
padre di due figli; con lui scappò a Parigi e in Svizzera, a Ginevra, dove furono ospiti di Lord Byron. Mary rimase presto
incinta, nel 1815, e la prima figlia morì. Le nozze con Percy avvennero nel 1818. Una passione intensa, senza respiri, di continuo funestata. Dei quattro figli nati dal matrimonio, solo uno
sopravviverà, ci fu anche un aborto spontaneo.
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Infine, la ex moglie di Percy si tolse la vita. Danza macabra.
Frankenstein nacque in un gran bivio di morti, uno dopo
l’altro. Di notte, negli incontri alla Villa Diodati di Lord
Byron, avvenivano serate di divertimenti maledetti con la
partecipazione di persone che sperimentavano il galvanismo (studi sull’elettricità animale) o raccontavano gli esperimenti sulla rianimazione della carne umana, e che cercarono di scrivere i capitoli di una storia dell’orrore.
La più diligente fu Mary che ebbe l’idea del mostro «costruito» in laboratorio che fa paura e cerca l’umanità negli
umani: Frankstein, creatura senza pace, cominciò il suo
viaggio. Letteratura, teatro, cinema.
«Una sorta di incantesimo…»
Il viaggio dei mostri prese il mare nel libro di Mary Shelley e continuò con Bram Stoker, autore di Dracula (1897), il
romanzo che preparò, da neonato, numerosi film muti e sonori. Dieci realizzati in Italia nei primi del ’900, molti di più
a Hollywood.
In Europa, comparvero i più famosi, entrati nella storia:
i fascinosi e struggenti Nosferatu di F. W. Murnau (1922) e Il
vampiro di C. T. Dreyer (1932). Fecero «prigionieri» milioni di
spettatori. Allucinazioni fondate sulla paura, che nel buio,
grazie alla sottile lama di luce, accesero in ognuno «l’occhio
interiore», film privati, personali.
Lunga è la vita dei nosferatu, i mai morti. Fino a noi, fino a
Twilight, la serie dei vampiri adolescenti, belli e irresistibili,
cominciata nel 2008.
Quando Mary scriveva di «una sorta di incantesimo»,
si trovava da sola davanti allo spettacolo della Baia di San
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Terenzo, tra La Spezia e Lerici, il Golfo dei Poeti, nel 1839.
Aveva quarantadue anni, era vedova di Percy, l’efebo poeta
che la metteva di continuo incinta.
Percy era morto a trent’anni in mare aperto proprio in
quell’«incantesimo», in una cornice di «una bellezza ineguagliabile».
Non piangeva Mary, resisteva l’amore. Il ricordo del passato la commuoveva: per soli sei mesi, dall’aprile al settembre 1822, aveva vissuto davanti al Golfo una passione intensa, devastante di felicità.
I versi di Percy sembravano essere scaturiti dal mare e
dai boschi, rivolti al sole e agli astri più che a una donna.
A Mary, la madre di Frankenstein, l’ombra della passione e il libro condiviso col poeta bastavano per vivere coccolata nel Golfo dei Poeti. Si spense senza pianti a cinquantaquattro anni.
Restano del suo volto i dipinti che la ritraggono, celestiale, lo sguardo perduto nel vuoto, remoto. Una donna mai
morta, grazie al suo vero amante, la creatura fatta di avanzi
e di incubi, il suo regalo al mondo.
Mai morta sarà anche Greta Garbo, donna senza figli,
moltiplicata nei film e nelle fotografie che la celebrano viva,
incisiva e sognante. Indimenticabile.
Questo libro dedicato a lei, vissuta nel ’900, vicina a noi
fino al 1990, vuole capire e non celebrare il mito, vuole seguirne l’edificazione nei fatti, nelle fantasie, negli incantesimi e nelle finzioni.
Greta, la diva più grande, nei labirinti di esistenza tra il
chiuso degli studios e le camere dei sogni d’amore, in una
realtà protetta con ostinazione, sottratta alla curiosità morbosa che lei stessa ingigantì per istinto, donna venuta dal
nulla, timida, caparbia. Mostruosa, nel successo.
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Una morbosità che tende, ancora oggi, a sostituirsi completamente alla storia di Greta come attrice, pedina di uno
star system che dovette accettare e da cui, pur rendendola ricchissima, volle uscire.
«Sono stanca di essere un simbolo, un’astrazione»
Greta pronunciò queste parole nel 1933, nel film La regina
Cristina, storia di una donna che rinuncia al trono per amore
e sceglie l’esilio. Fu Greta a decidere il regista e il protagonista. A Laurence Olivier preferì John Gilbert, «un perfetto
comprimario, mai in grado di offuscare la luce di un’attrice»,
spiegò Greta, con perfida ironia.
Gli uomini e le donne la stancavano. Gli uomini sembravano andare a pezzi, solo a guardarla, già privi di autentica
virilità. Le donne la tradivano, dopo averle giurato amore,
come Mercedes de Acosta, fotografa e sceneggiatrice, che
scattò di nascosto foto in cui Greta era nuda, poi le pubblicò
in suo libro. Greta l’aveva già messa alla porta.
Non finiva mai la caccia alla notizia da parte dei paparazzi del clic e del gossip nella Hollywood Babilonia. Greta
soffriva a essere braccata. Doveva nascondersi o partire. Lo
aveva fatto nei rari momenti di sosta della catena di montaggio degli studios. Intensificò. Cercò accompagnatori di
prestigio. Provò a farsi sedurre.
Greta conobbe a una festa Leopold Stokowski, il grande
musicista americano, d’origine polacca, che lo aveva colpito
per la parlantina.
Lo ascoltò come fosse una sirena. Leopold lesse una lettera di Richard Wagner del 1880, che scriveva al suo protettore, il re Luigi II di Baviera, il «Ludwig» del film di Luchino
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Visconti realizzato nel 1974, la storia del giovane sovrano
amante di musica e di arte.
La lettera riferiva di una visita in Italia di Wagner e della moglie Cosima: «Ci siamo recati ad Amalfi sul Golfo di
Salerno, forse il punto più bello d’Italia. Di là visitammo Ravello, una cittadina di ruderi in cima alla montagna che si
affaccia sul mare. Lì ho trovato suggestioni splendide per il
Giardino di Klingsor nel secondo tempo del Parsifal».
Un incantesimo, come il Golfo di Lerici per Mary e Percy.
Greta pensò a Ravello, all’evocazione della musica di Wagner e del Parsifal, all’idea di fuggire in uno dei posti più belli
d’Italia, e si convinse. Andò, e fu meraviglioso. In principio.
Era il 1938, un anno di pace, l’anno dopo scoppiò la seconda guerra mondiale. Nel 1941 Greta uscirà dal cinema.
Freddamente. Nessuna emozione dichiarata, un pre-pensionamento a soli trentasei anni. Una nuova vita.
Ravello fu l’ultimo paradiso. La bellezza della costiera amalfitana e della piccola città di ruderi preziosi, colpì
la diva tra le dive. La sua presenza con Leopold fu subito
un fatto storico, ricordato in seguito con una targa posta sul
muro di un viale, poco distante dalla Villa Cimbrone, una
delle più belle di Ravello.
L’incantesimo di un posto magico, sospeso tra cielo e terra, si dissolse presto. La fuga che doveva essere d’amore, divenne un rebus. E scatenò una vera e propria caccia.
I giornalisti locali spiavano i due celebri ospiti e le indagini furono attente. Venne qualche inviato per indagare i
segreti di quei giorni nel tepore di un’esistenza tra gli alberi
di limoni, il bagliore del mare, la quiete senza tempo.
Greta e Leopold se ne andarono, senza fare annuncio di
un bilancio d’amore. Il giornalista che sperava in una notizia
di nozze fu deluso. Ma scrisse indiscrezioni.
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A Ravello nulla era accaduto ai due ospiti, nonostante l’atmosfera feconda, più per le carezze che per le sole promesse
d’amore. Furono seminate le parole che torneranno sui giornali di tutto il mondo e nelle biografie. Così dicevano.
Greta era una donna restia a concedersi, fondamentalmente lesbica, cercava uomini che dipendessero da lei, e se
li trovava esigeva che i suoi desideri fossero appagati.
Leopold era uno di quegli uomini che non osavano dire
apertamente che amare una donna era solo una «dimensione estetica» del vivere.
Greta aveva avuto relazioni con gay conclamati, come il
suo pigmalione Mauritz Stiller e il fotografo Cecil Beaton. A
Beaton, in un primo incontro nel 1947, la grande diva avrebbe detto: «Forse preferivi a me un ragazzo».
Parole che circolano ancora. Questo libro le sfiora, per
usarle come piccoli segni degli effetti del cinema.
Lo scopo è quello di andare oltre, raccontare la metamorfosi di Greta creata nei laboratori dal cinema, il cinema nel
ruolo del dottor Viktor Frankenstein che dà il nome alla sua
creatura.
Diversi Frankenstein, diversi mostri nel cinema: Boris
Karloff, Bela Lugosi, Lon Chaney e… Greta. Mostro di bellezza. Allucinazione. Prigionieri di cinema.