19 scheda mommy - Il cineforum "Il posto delle fragole"
Transcript
19 scheda mommy - Il cineforum "Il posto delle fragole"
19° film “Cineforum Il posto delle fragole” 21° edizione 2015 MOMMY Di Xavier Dolan sceneggiatura, montaggio e costumi: Xavier Dolan. Fotografia: Andrè Turpin. Musica: Eduardo Noya. Scenografia: Colombe Raby. Interpreti: Anne Dorval (Diane “Die” Després), Antoine-Olivier Pilon (Steve O’Connor Després), Suzanne Clément (Kyla), Alexandre Goyette (Patrick), Patrick Huard (Paul Béliveau), Michel Lituac (la direttrice del centro), Isabelle Nélisse (la figlia di Kyla), Viviane Pascal (Marthe), Natalie Hamel-Roy (Natacha). Produzione: Xavier Dolan, Téléfilm Canada. Distribuzione: Good Films. Durata: 134’. Origine: Canada, 2014. Il perimetro del conflitto e dell'amore Chiara Santilli dalla rivista Cineforum Nel suo quinto lavoro da regista, Xavier Dolan cambia ancora il passo e si scopre sempre meno autoreferenziale: Mommy segna un nuovo momento di svolta nella carriera del venticinquenne canadese, a due anni dalla già importante virata del suo penultimo lavoro, Lawrence Anyways. Dolan è sedotto dall’idea di lavorare dietro l’obiettivo, affinare la tecnica, tramutare idee di sceneggiatura in mirabili scelte e guizzi di stile. Per farlo si avvale del suo indiscusso, precocissimo talento e dell’esperienza di Anne Dorval e Suzanne Clément, attrici strepitose con le quali collaborò fin da J’ai tué ma mère, l’esordio tosto ed embrionale in cui, appena maggiorenne, affrontò l’eterno tema del rapporto con la madre. Si parte da premesse inventate ma plausibili, addirittura probabili: nel Canada dell’immediato futuro esiste una legge che consente ai genitori di internare i figli mentalmente instabili senza troppi indugi né troppi tribunali. Un what if piuttosto convincente, figlio degli espedienti usati nella letteratura distopica e fantascientifica, ora applicato alla quotidianità: niente scenari tecnofuturibili ma un discorso politico serio e preciso, perfetto per dare il via a una serie di eventi concatenati che porteranno i protagonisti – inevitabilmente madre e figlio – ad affrontare una serie di peripezie lungo il loro percorso di crescita. Un sentiero empatico dove lo spettatore cammina accanto ai personaggi, stretti in una stupefacente inquadratura verticale 1:1 foriera, almeno per i primi minuti di film, di un corposo senso di spaesamento generale. Che sia la costante impressione di turbamento, che siano i nervi a fior di pelle di Diane e Steve, appena riunitisi a vivere sotto lo stesso tetto, a produrre la sensazione di costrizione, di soffocamento che avvertiamo fin dalle battute iniziali? Il formato ristretto fatica a contenere l’ampiezza dell’amore simbiotico, manicheo e melodrammatico tra un ragazzo caratteriale e una vedova agitata che mastica gomme e porta jeans attillati come fosse un’adolescente. Anche la loro nuova casa, un anonimo appartamento nei sobborghi di un’anonima città del Québec, sembra davvero troppo piccola per non esplodere in conseguenza di una serie di litigate furibonde, seguite da riconciliazioni altrettanto rocambolesche. Mura piene d’angoscia ma anche di calore e colori, attraversate da campiture di luce vivide e sature, segno del frenetico bisogno di Steve (il bravissimo Antoine-Olivier Pilon) di riempirsi la vita di suoni, colori, oggetti, affetti. Il suo prepotente ADHD, a ben guardare, non è l’unico disturbo-da-deficit-di-qualcosa: se Diane ha vistose lacune in fatto di gusto, Kyla, dirimpettaia dall’aria fragilissima, ha un deficit verbale che la rende a tratti balbuziente, a tratti muta e disperata come un pesce schizzato per sbaglio fuori dalla sua boccia. Un po’ per curiosità, un po’ per necessità, il pesce-Kyla nuota fino alla porta dei vicini e bussa piano in cerca di conforto; è così che scopre che saltare al di là dello steccato delle proprie certezze, a volte, è l’unica soluzione per superare anche i propri limiti. Nel caos prodotto dal vortice della nuda presenza di Steve e Diane, Kyla trova nuovo coraggio e ne dona altrettanto: tutto sembra finalmente acquistare un senso, e un respiro, che sembravano perduti. È qui, davanti all’universo finalmente spalancato delle possibilità, che Dolan sfodera l’asso: in un istante di struggente simbolismo, Steve apre le mani e allarga il formato a 16:9. E come se non bastasse, quel che si era gioiosamente dischiuso tornerà a serrarsi nel giro di una manciata di eventi infausti, di incomprensioni, di piccole terribili vicissitudini, riportando i nostri nel recinto quadrato dei loro tormenti. Il ralenti fa la sua parte, dilatando e regalando un tempo etereo e sospeso sia al piacere, sia al dolore: è impietoso nei tentativi di suicidio, tergiversa nella luce accecante del mezzogiorno canadese, s’intrattiene sempre e comunque quel tanto di troppo utile a distorcere la percezione e restituircela irrimediabilmente slabbrata, sconfitta dal peso di una realtà che è sempre più cruda e sbrigativa rispetto alla mollezza, agli indugi meditabondi della slow motion. Su tutto regna una colonna sonora che confonde diegetico ed extradiegetico e sa spaziare da Ludovico Einaudi a Lana Del Rey, da Céline Dion ai Counting Crows, da Dido agli Oasis quando ancora esistevano e scalavano le classifiche a colpi di Wonderwall; e a proposito di anni Novanta, che dire dell’epifania danzereccia degli Eiffel 65, indimenticato trio di tamarri nostrani, perfetti per accompagnare il ballo forsennato di Steve durante una delle sue fasi di pericolosa iperattività? Fossimo posseduti dallo spirito di Vincenzo Mollica, ci soffermeremmo più a lungo sulla presenza piacevolmente ingombrante della musica italiana nel cinema di Dolan, dagli struggimenti di Dalida in Les amours imaginaires fino al karaoke con Vivo per lei di Andrea Bocelli, splendido spaccato di assurdo e (in)volontaria crudeltà gettata sulle spalle di un teenager fragile e ignaro; ci basta dire, in realtà, che la selezione musicale di Dolan è più accurata di quanto potrebbe credere un orecchio poco attento e serve, soprattutto qui in Mommy, a marcare momenti salienti aprendoci un varco nella testa di Steve, dentro quelle stesse cuffie gigantesche che lui porta con orgoglio, addirittura con spocchia, mentre la camera gli sta incollata addosso fra riverberi di sole e cieli azzurrissimi. Ed è nella sua testa che vorremmo stare anche quando le cose si mettono male, quando Edipo viene esiliato in ospedali e istituti psichiatrici e Giocasta si dispera sull’ambulanza, nel tinello, sull’asfalto plumbeo di un’area di sosta. «Ma noi ci amiamo ancora, vero?», «Certo, è la cosa che ci riesce meglio», si promettono i due amanti violenti e possessivi, il figlio e la madre, che prima se le suonano di santa ragione e poi se la cantano all’unisono come se nulla fosse accaduto. Noi cantiamo con loro, rapiti dalla strabordante bellezza del quadro d’insieme, dalla poesia e dall’orrore di una storia più vera del vero, ipertrofica e soverchiante come solo certi racconti su pellicola – e certi gustosi melodrammi d’altri tempi – sanno essere. Prossimo film giovedì 5 marzo 2015 “In grazia di dio” di E. Winspeare