AL CINEMA!

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AL CINEMA!
07 dicembre 2016 delle ore 20:12
AL CINEMA!
È solo la fine del mondo, Xavier Dolan si riconferma regista di culto. In attesa dell’Oscar
di Matteo Antonaci
Probabile apice nella carriera di Xavier Dolan,
"enfant prodige” della scena cinematografica
canadese e già conclamato regista di culto
nonostante la giovanissima età, Juste la fin du
monde (ora candidato agli Oscar come miglior
film straniero) è uno di quei film capaci di far
attecchire le sue radici nello spettatore per
crescere con la grazia di una pianta spinosa.
L’ultima fatica del ventottenne "bello e
dannato” è basata sull’omonima opera teatrale
di Jean-Luc Lagarce, attore, regista e scrittore
francese morto di Aids nel 1995. Se non è la
prima volta che Dolan costruisce un suo film a
partire da un’opera teatrale – basti pensare a
Tom à la ferme tratto dall’omonima
drammaturgia di Michel Marc Bouchard – è
proprio nel confronto con la scrittura di Lagarce
che questa promessa del cinema internazionale
gioca le sue carte migliori: qui maturano tutti
gli elementi linguistici messi in campo nella sua
filmografia, qui i temi che l’attraversano
sembrano emergere cristallini, incastonati
all’interno di una pellicola scarna e al contempo
claustrofobica e ripetitiva. Lagarce è, in questo
senso, lo specchio di Dolan: quell’acqua nella
quale il suo riflesso può finalmente affrancarsi
dal gusto calligrafico rubato a Wong Kar-wai
(l’autore di In the mood for love), da quella
violenta adolescenza saccheggiata da Gus Van
Sant o da quell’estetica camp distillata dai film
di Almodovar.
Louis ritorna dalla sua famiglia, dopo essersi
allontanato per diversi anni, per comunicare la
notizia della sua vicina dipartita. Lo aspettano
i fratelli Antoine e Suzanne, la cognata Catherin
e la madre vedova ai quali, nonostante tutto,
non riuscirà a consegnare le parole che lo hanno
riportato a casa. Dove il teatro di Lagarce è
circoscritto ad un'unica ambientazione in cui i
suoi personaggi "devono” incontrarsi per la
durata di un un’unica pièce, le immagini che
introducono questo racconto nel film di Dolan
appaiono come un "moto a luogo” verso le
parole dell’autore francese: un viaggio; i
cerimoniosi preparativi di un pranzo, i volti di
passanti di una città qualunque, il volto di Louis
(Gaspard Ulliel) pronto a rivelare allo spettatore
la sua misera confessione. Lo stesso viaggio,
d’altronde, introduce il già citato Tom à la ferme
nel quale il discorso scritto e mai pronunciato
dal protagonista in occasione del funerale del
suo compagno lascia spazio ad un percorso in
macchina verso la campagna dove lo attenderà
una madre ignara dell’omosessualità del figlio
e un fratello omofobo con il quale si instaurerà
presto un perverso rapporto di violenza e
seduzione. Ed è a partire da questi paysage - le
strade rurali di Tom à la Ferme, le persone che
Louis osserva dall’interno di un taxi in Juste la
fin du monde - che si inscrive il discorso filmico
di Dolan. Questo spazio aperto e insondabile è
quello del rimorso (Ultimi rimorsi prima
dell’oblio titola un’altra celebre opera di
Lagarce) o del rimosso. Se a muovere i
personaggi di Tom à la Ferme è la morte di un
ragazzo sulla cui memoria si accumulano solo
desideri e menzogne, Juste la fin du monde
inizia e finisce nell’incapacità di annunciare o
mostrare una morte già assodata. Di più, questa
"fine” è per i protagonisti del film e per lo
spettatore solo un segreto, una parola
biascicata, una vaga allusione.
da questo teatro di volti e spiccare per un attimo
il volo verso la più elegante retorica della
memoria e dell’immaginazione, Dolan ha già
affilato la lama per la sua prima coltellata. La
più violenta. Da Bouchard a Lagarce siamo in
trappola in quell’epica familiare tanto cara ad
autori come Jonathan Franzen: ecco l’adolescenza
che torna repentina alla memoria, le discoteche,
le madri di tutti, i fratelli di tutti, le cognate di
tutti, tutte le cose che non ci sono più. E il tempo
che muore – e questa morte si, Dolan ce la fa
vedere – ogni volta che termina il senso di un
mondo.
Matteo Antonaci
Quest’ambiguità, questo problema del
linguaggio tutto, del non detto - sul quale, nel
cinema, continua a incombere il fantasma della
rimossa relazione amorosa tra i protagonisti di
In The Mood For Love - attraversa tutta l’opera
di Dolan. Sta nel rapporto tra madre e figlio di
J'ai tué ma mère, nelle impossibilità di
definizione poste allo sguardo dal travestito
Laurence (Laurence Anyways), nei sotterfugi
maliziosi della coppia di amici di Les Amours
Imaginaires, ancora nell’impossibilità di
afferrare il reale della protagonista di Mommy
e ovviamente nella mancata accettazione
dell’omosessualità in Tom à la ferme (dove
l’omofobia diviene un problema del linguaggio,
del non saper – o non poter - dire). È ciò che è
sotteso alle parole, ciò che altera e inquieta
l’immagine patinata, la citazione, l’autocitazione,
che sta a cuore a Dolan. Ed è in questo senso
che Juste la fin du monde rappresenta il passo
più maturo verso una definizione della sua
filmografia. A rendere pungenti le spine di
questa pianta sono gli attori, ognuno con il
proprio rancore velato nei claustrofobici primi
piani che compongono l’intero film; sono i
fruscii di tutte le cose quotidiane, le sigarette
fumate in silenzio, le lacrime trattenute. Si
aggiunge la capacità del regista di utilizzare le
proprie colonne sonore reinventando quel gusto
postmoderno per la giustapposizione tra
riferimenti classici e pop-music per renderlo
mero strumento utile a schiacciare la narrazione
alla quotidianità, con tutte le sue miserie e
trivialità. Così quando in Juste le fin du monde,
Dragostea Din Tei di Haiducii irrompe con i
suoi bassi lasciando che il film possa affrancarsi
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