Lady Eva di James Harvey

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Lady Eva di James Harvey
Lady Eva
di James Harvey
Sin quasi dall’inizio c’è un tono peculiare di esultanza: dalla prima apparizione della Stanwyck,
mentre si sporge dalla ringhiera della nave con suo padre, il colonnello Harrington (Charles
Coburn) e guarda il nuovo arrivo, il ricchissimo giovane Charles Pike (Henry Fonda), che sale a
bordo da una scialuppa a vapore, con il quale ha appena circumnavigato la giungla dell’Amazzonia.
Jean Harrington non vedo l’ora di incontrarlo - infatti, quasi salta per l’impazienza, mentre scherza
con suo padre e esclama, quasi con eccitazione: “Accidenti! Spero che sia ricco!”, facendo
pressione sulla ringhiera e sforzandosi di vedere sotto. “Spero che lui pensi di essere un mago con le
carte.”
Ma l’effetto è stranamente distaccato: Sturges ci mostra il grande entusiasmo dell’eroina molto
prima che abbia incominciato a provocare il nostro.
JEAN (eccitata): Spero che lui abbia una grossa e grassa moglie così non devo danzare al chiaro di
luna con lui. Non so perché è così, ma uno stupido ti calpesta sempre i piedi.
COLONNELLO: Un fesso è un fesso in tutto.
JEAN: Non vedo perché devo fare il lavoro sporco tutto io. Ci deve essere una gran quantità di
vecchie e ricche signore che aspettano che le comandi a bacchetta.
COLONNELLO: Le troverai, te le procurerò.
Il loro collega, Gerald, il “valletto” del colonnello (Melville Cooper), si unisce a loro con la notizia
che Pike è davvero molto ricco – l’erede della fortuna Pike’s Ale [i Pike sono dei “signori della
birra” la loro bevanda domina il mercato. Il nome si riferisce appunto al nome della birra]. “Mi
chiedo se posso colpirlo sulla testa con questa” dice Jean – e fa cadere la mela che stava mangiando
(“Non lo fare!” urla suo padre troppo tardi), “colpendolo” sul suo elmetto da esploratore proprio
mentre sta risalendo la scala dalla scialuppa.
Lei persiste con questo stesso atteggiamento euforico – anche in maniera più esagerata – nella scena
seguente, che ha luogo nella sala da pranzo della nave. Si siede ad un tavolo con suo padre,
guardando Charles nello specchio del suo portacipria e facendolo diventare, come per magia, simile
ad una sfera di cristallo. Egli diventa il centro dell’attenzione per tutte le persone nella stanza,
mentre tutto ciò che l’uomo vorrebbe, è leggere il suo libro (“Are Snakes Necessary?” [“Sono
Necessari i Serpenti?” Il libro è al tempo stesso, un’allusione e una citazione. La citazione fa
riferimento ad un libro pubblicato poco prima dell’uscita del film: “Is Sex Necessary?” cioè “Il
Sesso è Necessario?”. Non ci vuole molto a capire che si tratta di un ennesimo segnale che
conferma il fatto che il film è ricco di sessualità e di riferimenti ad essa. Abbiamo inoltre l’allusione
al mondo dei serpenti, altro cardine del film, e alla dicotomia sesso (carnalità, desiderio)\serpenti
che ha per tutto il film una duplice valenza] – lui è un ofiologo cioè studioso di serpenti).
Le donne lo accerchiano: passano vicino al suo tavolo e lasciano cadere dei fazzoletti, l’avvicinano
con una storia su qualcuno a cui lui rassomiglia, o catturano la sua attenzione e sollevano verso la
sua direzione un bicchiere di Pike’s Ale.
Vediamo tutto questo nello specchietto di Jean – una serie di immagini silenziose, descritte
minuziosamente da Jean come se lei fosse la regista di un teatrino nello specchio e ci introduce le
azioni, i pensieri e le parole, di tutte le persone che girano attorno a Charles,. Suo padre sta
aspettando che faccia la sua mossa – non sapendo, in realtà, che lei è già in azione. “Cosa hai
detto?” chiede lui.
Ma Jean non sta parlando con lui; sta parlando allo specchio – al suo senso della vita e del potere,
alla sua energia creativa. “Guarda alla tua sinistra, topo di biblioteca,” prendendo in giro Pike. “C’è
una ragazza che ti desidera. Un po’ più in là…giusto un po’ più in là…” ed ecco che lui nota la
ragazza. “Mi chiedo se il mio vestito è a posto,” dice lei, pensando a lui. “Lo sconvolgo di sicuro,
non è vero? Ora chi altro c’è dopo di me?” – come Pike si guarda ansiosamente intorno. “Oh, non
puoi sopportarlo più, te ne stai andando?” – lui chiude il suo libro e si alza. “Queste donne non ti
danno un minuto di pace, non è vero?”
Ancora una volta Stanwyck sta dando l’impressione di una persona in uno stato di grande
eccitazione, ma che al contempo, ha il controllo pur essendo quasi esaltata. Tuttavia, siamo ancora
estranei alla sua euforia (è divertente ma anche un po’ scoraggiante che l’effetto non sia
stabilizzante). Creando una tensione (“Bene, va avanti, vai imbronciato nella tua cabina,” gli dice
lei, mentre lui lascia il tavolo – “Vai a immergere nell’acqua la tua testa e vedi se m’importa” il
teatrino non si è ancora concluso, fino a quando Pike non oltrepassa il suo tavolo e sbatte sul
pavimento (lei ha allungato la gamba e gli ha fatto lo sgambetto). Lei si alza – in una totale
impassibile imperiosità quasi con una traccia di diabolica gioia: ora riconosciamo quella familiare
presenza triste e contemplativa, come se guardasse in basso “alla Stanwyck” verso di lui. “Perché
non guardi dove stai andando?” dice con la sua voce secca – e noi, come spettatori, ci sentiamo “a
casa”, equilibrati nel giusto modo, di nuovo nel mondo familiare della screwball – e allo stesso
tempo, al di fuori da esso. “Perché non guardo dove cammino?” dice lui, atterrito. “Guarda cosa hai
fatto alle mie scarpe,” dice lei, “Mi hai rotto i tacchi.”. In questo momento, lui si sente in colpa – è
confuso. E’ stato lui a fare questo danno? “L’hai fatto tu, e devi accompagnarmi nella mia cabina
per prendere un altro paio di scarpe.” Si presenta e presenta suo padre, poi lo afferra per il braccio, e
lo guida zoppicando fino all’uscita, – mentre la folla nella sala da pranzo non può fare a meno che
fissarli. “E’ divertente che il nostro incontro sia avvenuto in questo modo, non è vero?” dice lei – la
sua gioia erompe fuori ancora una volta.
“Siccome sei stato così gentile,” gli dice lei, mentre raggiungono la sua cabina “puoi sceglierle e
infilarmele se vuoi.” Ma ci sono così tante scarpe nel ripostiglio che gli ha indicato, e lui è già
avvolto dal profumo che avvolge la cabina che risulta essere goffo e confuso; dove era stato, come
spiega – “In Amazzonia per un anno” – lì non usano profumo. Osserva le scarpe di lei. Lei lo
guarda, appoggiandosi in modo insinuante contro la scarpiera aperta: “Vedi qualcosa che ti piace?”
dice lei. Lui s’inginocchia ai suoi piedi per infilarle le scarpe; lei incrocia le gambe e allunga il suo
piede. E’ un ofiologo, le racconta, ed era alla ricerca di serpenti. Continua poi parlando della sua
avversione contro la birra – il gusto, gli fa venire il singhiozzo al solo pensiero, anche se la birra
rappresenta la fortuna della sua famiglia (“Pike’s Pale, the Ale That Won for Yale” [si tratta di un
motto legato alla birra prodotta dai Pike. Si tratta di un gioco di parole in americano che non riesce
a rendere il suo vero significato se tradotto. “Pale” significa “pallido”, dovrebbe essere la “Pike
Pallida”, un modo per chiamare la birra dei Pike. “The Ale”, significa “la birra” mentre “That Won
for Yale”sarebbe “che ha vinto per Yale”. Per quanto riguarda “Yale”, si riferisce alla famosa
università] – le racconta del nomignolo che aveva da bambino e che ha sempre odiato: “Hopsie”.
“Ciao, Hopsie,” dice lei allegramente. “Chiamami Charlie” ribatte lui. Ma lei pensa che “Hopsie”
sia “più carino.”(“E quando invecchierai ti potrei chiamare “Poesie”. “Hopsie Popsie!”” [anche
questa è un gioco di parole che non può avere una traduzione esatta e corretta in italiano. Secondo il
doppiaggio e i sottotitoli in lingua italiana, il tutto viene ridotto e semplicemente tradotto come
“Luppolo”, la pianta da cui si ricava la birra. Volendo essere precisi “hop” è appunto la pianta del
luppolo; il suffisso “–sie” è comunemente usato nello slang e in questo caso dovrebbe essere un
modo affettuoso per chiamare la pianta del luppolo. “Popsie” è un altro termine del linguaggio
“slang” che significa letteralmente “Papà”; nello specifico, dovrebbe essere un modo molto
affettuoso che rientra sotto la radice di “father”, probabilmente la parola che più ci si avvicina è
“paparino” o “babbo”]).
Lui non molla la sua caviglia e la guarda timidamente. Lei guarda in basso verso di lui in maniera
seria: “Faremmo meglio a ritornare ora”, dice. Ma lui cerca di spiegare: “Vedi, dove sono stato,
intendo in Amazzonia, è come se dimenticassi come – voglio dire, quando non vedi una ragazza da
tanto tempo…” Si alzano, insieme. “Intendo dire, c’è qualcosa di quel profumo che…”
“Non ti piace il mio profumo?” dice lei. In questo momento sono molto vicini l’uno all’altra.
“Piacermi?” dice lui. “Ne sono inebriato!” – e si protende mezzo barcollante, come se stesse per
baciarla. “Ma Hopsie!” dice lei, spingendolo all’indietro e facendogli perdere l’equilibrio con il
palmo della sua mano e avanzando verso l’uscita, davanti a lui, “dovresti essere messo in una
gabbia…” e nuovamente vediamo la gioia scolpita nel suo volto.
Lascia Fonda da solo nell’inquadratura, mentre lui, oscilla in maniera frastornata e la segue con lo
sguardo.
In seguito Charlie si mette a fare qualche gioco con le carte (“Hai visto questa?” lui chiede. “La
nascondi nella mano…poi la stringi nel palmo; così…”), la gioia del Colonnello Harrington e di
sua figlia è quasi troppo grande da contenere. “Benedici la mia anima,” dice il colonnello, una volta
che il gioco del “nascondere nella mano la carta” gli è stato spiegato. “Potresti farlo di nuovo?”
Quando Charlie lo fa nuovamente: “Sorprendente…” infatti lo è – quasi più di quanto loro avessero
potuto sperare. Lo lasciano vincere la prima partita della serata (“addolcire il gattino”, come lo dice
il colonnello); Pike è scioccato e imbarazzato dalla grossa somma che ha vinto. Non aveva pensato
che stessero giocando con i soldi. “Oh, Papà è nel commercio dell’olio, caro,” dice Jean. “Sbuca
semplicemente fuori dalla terra.” Anche lei ha perso centinaia di dollari. Charles è sconcertato. Ma
lei insiste nel fargli tenere i soldi a qualunque costo.
JEAN: Non ti preoccupare! Li riavrò indietro.
CHARLES: Bene, se questa è una promessa…(raccoglie il denaro con riluttanza)
JEAN: Ci puoi contare.
CHARLES: …Sicuramente mi sentirò meglio.
JEAN (allegramente): Sicuramente lo sarai.
Ride rumorosamente, come se le fosse venuto in mente un qualcosa di divertente.
In effetti è proprio così. E’ come un pensiero divertente. Come emerge nel precedente scambio di
battute: non solo con “se questa è una promessa” ma anche con “Sicuramente mi sentirò meglio”.
Oppure in questo scambio di battute, dopo che il colonnello ha appena lasciato Jean e Charles da
soli (“per parlare di qualunque cosa i giovani parlano”). “Un bel tipo, tuo padre,” dice Charles. Un
bravo giocatore di carte, commenta Jean. “La pensi così?” domanda Charles, piuttosto sorpreso.
“Non voglio essere maleducato, ma ho pensato che sembrasse un pochino volubile.” “Sono più le
volte che è volubile rispetto a quando non lo è,” dice Jean ridendo, con la stessa aria di quando si ha
in mente qualcosa. “Questo è ciò che lo rende volubile, di certo,” spiega Charles – prima di
riscuotere la vincita, finge di fargli un piccolo complimento.
Lui è incredibile. Un bravo ragazzo – si potrebbe dire incredibilmente bravo – ma che se la va a
cercare in ogni momento. Come gli si può resistere? Certamente non la compagnia di truffatori
professionisti come Jean , suo padre e Gerald. Quella diabolica, sfrontata gioia (“Accidenti! Spero
che sia ricco” e “Le troverai. Te le procurerò”) che Stanwyck e Sturges ci hanno mostrato all’inizio
non ci sembra più così diabolica. Da adesso in poi, ci sentiamo dentro il film, addirittura ci sentiamo
parte di esso, di ogni scherzo a spese di “Hopsie”, di ogni commento consapevole, di ogni
sfumatura, brivido e anticipazione della truffa.
E’ una cosa che noi come spettatore abbiamo già visto, di sicuro – molte volte: in tutte quelle
commedie con imbroglioni con James Cagney e Clark Gable, nel Walter Burns interpretato da Cary
Grant, e così via – ma probabilmente mai così riccamente e ampiamente come ora, con quella sorta
di accresciuta ed euforica consapevolezza che la Stanwyck rende così vivida.
Una delle cose più audaci che Sturges compie in questo film – in un certo modo “The Lady Eve” va
più lontano e in profondità rispetto alle commedie prima di questa – è di rendere esplicito nel
personaggio di Stanwyck quello che era stato solo implicito nelle versioni precedenti dell’eroina
della screwball: un elemento di distruttività nei confronti della sua autorità e del suo stile.
Quello che sembra una complessità implicita in film come “Libeled Lady”,e “Shall We Dance” e
“The Awful Truth” [link della traduzione del film] è qui un elemento chiaro e centrale.
Il tono speciale di “The Lady Eve” è una specie di energica crudeltà, un’esuberanza maliziosa,
riflessa soprattutto nel modo in cui la Stanwyck tratta Fonda: una sorta di inflessibile e sistematica
umiliazione, che si estende per tutto il film con tutti i suoi cambiamenti di direzione e le
trasformazioni del personaggio.
La loro storia d’amore inizia, nel momento in cui lei gli fa lo sgambetto. Giunge al culmine quando
lui scende dal treno su cui erano per il viaggio della luna di miele in pigiama e scivola nel fango.
Nei momenti intermedi, lei lo lascia inciampare da solo. La loro riconciliazione finale è segnalata
dal fargli lo sgambetto ancora una volta. Ma tutto questo risulta secondario rispetto alla punizione
morale e psicologica che lei gli infligge: la famosa notte di nozze sul treno, con il verginale maritino
obbligato ad ascoltare i ricordi della sua sposa inglese altolocata, nel miglior stile alla “Private
Lives”, un passato romantico che sembra essere stato allo stesso tempo spensierato e insaziabile.
Anche quando lei lo sta seducendo all’inizio, lo fa con un casuale, felice e aperto disprezzo.
Ciò che è sconcertante – e anche disturbante alle volte – è quanto poco Fonda sembra meritarsi tutto
questo, almeno all’inizio. Dopotutto, quando Dunne mette in imbarazzo Melvyn Douglas in
“Theodora Goes Wild”, è perché se la sta cercando: non è inoffensivo come Fonda. L’imbarazzo
che l’eroina provoca in “Theodora” – come ne “The Awful Truth”, “Bringing Up Baby”, etc. – è
pubblico, un modo di staccare la coppia romantica dal mondo pubblico.
L’umiliazione di Fonda in “The Lady Eve” sembra quasi essere una faccenda intima, che non
richiede nessun pubblico ma solo Stanwyck e noi. C’è qualcosa di solenne circa la maniera in cui lei
gliela infligge, anche nei momenti più divertenti. “Ho bisogno di lui” dice lei, il suo viso in primo
piano, incorniciato da un largo e tondo cappello, che riempie lo schermo in maniera minacciosa e
bellissima, “come l’ascia ha bisogno del tacchino.”
Questo è certamente un momento strano ( che giunge a metà del film) per una romance comedy,
ambigua e preoccupante – ma, come il film stesso, non proprio sgradevole, a dispetto di tutto. La
cosa più strana di questa esuberante, freddamente brillante commedia sull’umiliazione di un uomo
da parte di una donna, è che il suo effetto finale, è non solo esilarante, ma di indole positiva.
L’EROE interpretato da Henry Fonda, risulta incarnare tre personaggi quasi differenti –
corrispondenti alla struttura in tre atti del film – e ciascuno di loro è uno stereotipo. Il primo è il
professore distratto, il maschio vergine con arcani interessi intellettuali (“Sono un ofiologo”). E’
infantile, innocente, quasi incredibilmente ingenuo – letteralmente appena uscito dai boschi (la
giungla amazzonica). E’ anche posseduto da una quasi irremovibile serenità mentre viene truffato,
beffato, fatto cadere con lo sgambetto, trascinato giù per tre rampe di scale dall’eroina (lei è in fuga
dal serpente che lui ha preso dall’Amazzonia), e, nel mezzo di una passione che aumenta per lei,
fatto sbattere sul pavimento.
Lui si trova lì, quando ha luogo la loro prima scena d’amore. Jean i è sistemata sulla chaise-longue
nella sua cabina, riprendendosi dallo spavento procuratale dalla vista del serpente; lui si mette
vicino a lei, sul pavimento, dove è caduto – entrambi in mezzo primo piano (“Stai comodo?” “Sì,
molto”) – la sua testa rivolta all’indietro, i suoi occhi che si danno da fare: “Tienimi stretta,” dice
lei, strofinando la sua guancia contro quella di lui. “Non avrei voluto spaventarti per nessuna cosa al
mondo,” lui riesce in qualche modo a dire. “Voglio dire, se c’è qualcuno nel mondo che non
vorrei…” – lei sta giocando con l’orecchio di lui ora, ed è vicina ai suoi occhi “ – sei tu,” conclude.
“Sei molto dolce, non lasciarmi andare,” dice lei, con la guancia stretta a quella di lui, e continua a
giocherellare con l’orecchio e i suoi capelli. Lui guarda in giù e vede che il vestito di lei è scivolato
via dalle sue ginocchia, scoprendole. Lo rimette a posto, con mano tremolante e sguardo abbassato.
Lei spalanca gli occhi e osserva. “Ti ringrazio,” gli dice…poi sospira, chiude gli occhi di nuovo, e
si accoccola vicino al viso di lui. “Come andavano le cose in Amazzonia?” lei dice, accarezzando i
capelli di lui. “Tutte bene, grazie.” Una piccola pausa. “A cosa stai pensando?” gli dice. “A niente”
le risponde con voce strozzata.
JEAN: Hai sempre intenzione di continuare ad interessarti ai serpenti? (Lei gli dà un buffetto sulla
guancia)
CHARLES: I serpenti sono la mia vita (con voce spezzata)…in un certo modo…
JEAN: (con occhi spalancati e pensierosi): Che razza di vita…
Charles cristallizza lo stile di Sturges attraverso stereotipi: la sua tendenza sia ad enfatizzare la loro
familiarità e artificio essenziale sia, allo stesso tempo, a dispiegare la loro ricchezza e paradossale
“realtà”. Una frase come “I serpenti sono la mia vita…in un certo senso,” per esempio, funziona in
entrambi modi. Un personaggio di Sturges non cerca mai di camuffare la sua natura: la proclama e
la soddisfa, rendendola vivida e meravigliosa, come fa Charles in questa scena sul divano con Jean.
Lui è il sempliciotto in gloria.
La seconda facciata di Fonda appare, quando scopre che Jean è un baro professionista e una
truffatrice, al termine del loro idillio a bordo della nave. Questa versione di Charles è compiaciuta e
moralistica. Come Stanwyck si trasforma in Lady Eve Sidwich per vendicarsi di lui, che sembra
diventarlo ancora di più. Più simile a “L’Altro Uomo” che all’eroe romantico: è formale, snob e
anche ipocrita. E’ ancora un pasticcione (questo elemento resta costante) – che precipita dal divano,
che rovescia il vassoio del domestico e che scivola nel fango.
Ma questo suo essere indifeso non riflette innocenza ed inesperienza più di quanto lo fa una
semplice (e meritata) goffaggine. Questo pasticcione è un impostore moralista e presuntuoso.
Ma il terzo Fonda, che appare in maniera trionfale alla fine, sembra essere per il suo breve momento
sullo schermo proprio quello che un protagonista romantico dovrebbe essere. Questa volta è lui che
trascina lei giù per le tre rampe di scale della nave, ignorando decisamente le proteste del padre di
lei, e scompare con lei dentro una cabina. “Un fesso è un fesso in ogni cosa,” ha detto suo padre –
ma adesso “fesso” ha un significato differente: “Non lo sai che non potrei guardare un altro uomo se
lo volessi?” lei dice mentre la porta si chiude su di loro. “Non lo sai che ho aspettato tutta la mia
vita per te, grande fessacchiotto?” anche se sembra che non abbia ancora capito chi sia lei: “Non
sarebbe mai dovuto succedere,” afferma (iniziando a spiegare a Jean il suo matrimonio con “Eve”),
“eccetto il fatto che sembra così uguale a te.”
Non è che questi tre Fonda siano incongruenti l’uno con l’altro, anche in accordo con le
convenzioni. C’è un ampio esempio precedente a cui ci si può appellare per unire nello stesso
personaggio, il maschio innocente e il presuntuoso – Ralph Bellamy in “The Awful Truth” e “His
Girl Friday”, tra gli altri esempi. Ci sono ampi riferimenti precedenti anche nella vita reale: cioè la
probabilità, che passata una certa età, una prolungata innocenza si congeli in un imbroglio ipocrita e
riguardante le emozioni. Così quello che sembra anche “realistico” è che il secondo Fonda, con tutta
la sua mancanza di generosità e di spirito reazionario, dovrebbe vivere a casa con i suoi genitori,
quando lo andiamo a conoscere all’inizio (suo padre con aria sdegnosa, sua madre protettiva e
preoccupata), in una sorta di relazione infantile.
Ma Sturges non unisce così tanto queste caratteristiche nella stessa figura come se ve le stratificasse
dentro, cosicché li incontriamo nuovamente.
Non ci aspettiamo davvero che “Hopsie” si trasformi nel secondo Fonda – infatti, non ci viene
fornito quasi nessun indizio dal primo Fonda che farà così. Anche se certamente vediamo il
momento in cui lo fa. Più di questo, lo sentiamo. Ciò avviene meno a causa di Fonda, più che di
Stanwyck: perché la nostra collusione con lei in questo film fa sembrare la trasformazione di
“Hopsie” non solo profondamente giusta ma anche necessaria. La profonda gioia di questo film
risiede moltissimo nel nostro divertimento di fronte al potere della Stanwyck, la sua trionfante autoaffermazione – così meravigliosamente credibile in ogni momento in cui lei appare sullo schermo –
in qualità di donna, una seduttrice, o una giocatrice di carte. Un alto punto in questa gioia è
costituito dalla partita a tre mani di poker in cui lei batte perfino suo padre (“Non conosci nessun
altro gioco, Harry?”). Non abbiamo certamente nessuna idea di come lo fa – sembra che sappia già
che carte sta per estrarre dalla sua manica. E’ come guardare una magia – eccetto il fatto che non
vediamo mai per davvero il trucco in sé, tranne quando si mostra l’espressione dei giocatori e nei
primi piano occasionali delle carte. Tuttavia, noi ci crediamo in maniera entusiasta – non solo a
causa della Stanwyck ma anche perché lo vogliamo.
Ma questa felice collusione ha una trappola significativa. Sturges sta provando i limiti morali del
piacere che ci sta dando con l’insistere, come fa sempre, su qualcosa di oltraggioso, anche maligno,
come il modo di Jean di trattare Hopsie *. L’eroina di Stanwyck ci trasporta in una problematica e
ambigua area della sensibilità, e la nostra consapevolezza di ciò è parte dell’intera ricchezza
dell’effetto. E’ parte anche del nostro ridere così tanto. In un certo senso noi abbiamo lo stesso
rapporto con la personale autorità dell’eroina, la sua trionfante affermazione del potere
dell’intelligenza, come lei dimostra di avere: godendocelo, ma in qualche punto ci sentiamo anche a
disagio. Questa inquietudine suggerisce un punto più grande, già familiare al pubblico
cinematografico a partire da tutte quelle altre eroine-ragazze dure che sembrano essere stanche della
loro durezza: è bello conoscere il tuo modo di pensare, certo – ma è sicuramente più bello
conoscerlo in un modo non troppo diretto (“Non pensi mai a qualcosa di sbagliato, non è vero?”).
Così ha perfettamente senso che Stanwyck dovrebbe innamorarsi di Fonda – proprio come è
successo prima quando si era innamorata di Fred MacMurray (“E’ giusto…noi siamo più
intelligenti”) – non solo a dispetto della sua ottusità ma anche a causa di questa. Come Jean spiega
la situazione e cerca di trovare il consenso del padre che disapprova: “Penso di essermi innamorata
dello sciocco pollo, dei serpenti e di tutto il resto. Oh, non lo so, è come se mi avesse toccato
qualcosa nel cuore.” Lei si è certamente, anche innamorata dell’idea che Hopsie ha di lei:”E non so
che darei per essere – bene, voglio dire che ho intenzione di essere esattamente come lui pensa che
io sia, come a lui piacerebbe che io fossi…”
Ma poi il suo affetto per Hopsie è qualcosa che Stanwyck è riuscita a trasmettere anche attraverso
tutto il tormento che infligge a lui. “Hai un bel naso,” le dice lui, riferendosi alla sua abilità a
giocare a carte. “Sono contenta che ti piaccia,” dice lei – sono seduti naso a naso nella sala da
pranzo. “Ti piace qualcos’ altro di me?”
Lo assicura, quando incomincia ad agitarsi che stava “solo flirtando” con lui. Almeno questo
flirtare sembra per lei un impulso tanto potente quanto canzonatorio. “Oh, ora tu mi stai prendendo
in giro,” dice lui, durante la scena della chaise-longue. “Non in modo scorretto,” risponde lei, quasi
teneramente – prima di continuare a prenderlo ancora più in giro. Ed è precisamente l’ambiguità
delle sue risposte – in qualche modo la sua tenerezza non è mai messa in dubbio – che rende la
scena non solo divertente ma in un certo qual modo anche affascinante. “Tu hai il modo più
maledettamente brutto di buttare giù una persona e di farla risalire di nuovo.” “E poi di buttarla giù
di nuovo,” risponde lei nel suo modo di ridere con un velo di tristezza. Come lo stesso Hopsie
afferma la notte del loro primo incontro: “Tu sei certamente una ragazza strana da conoscere per
chiunque sia appena stato in Amazzonia per un anno.”
La mattina successiva all’incontro sulla chaise-longue, lei si sveglia urlando, avendo sognato dei
serpenti. Una volta sveglia, racconta della sfortunata vittima: ”Poveretto…quel trucco a carte!”
“Tragico,” risponde suo padre che si siede accanto a lei con un mazzo di carte e incomincia a
distribuirle sul letto. “Non ci credo,” dice Jean, reagendo alla mano che le ha appena mostrato
(“Come diamine è possibile che ne stai dando cinque?!” “Vuoi scommettere?”) con evidente
meraviglia. “Non ne hai veramente bisogno,” dice suo padre con appropriata modestia mentre
raccoglie le carte. “E’ solo virtuosità.” “Harry,” dice Jean, dopo un momento pensieroso. “Sì,
cara?” “Dimmi la mia fortuna,” lei dice, quasi timidamente – sorridendo (la sceneggiatura di
Sturges dice) “come una ragazzina.”
Questo è solo uno degli aspetti che Hopsie significa per lei – deve riconquistare questa ragazzina di
nuovo, in qualche modo. Lui stesso, senza volerlo, pone questo punto nella loro scena d’amore sulla
prua della nave, con un cielo illuminato dalla luna – in una sorta di aria notturna, come Jean
commenta, che “ti fa sentire tutta pulita dentro.” “Non ti muovere!” dice Charles all’improvviso.
Poi spiega in questo insolito flusso di parole:
“…Ho appena capito qualcosa. Vedi, ogni volta che ti ho vista qui sulla nave, non è stato solo qui
che ti ho vista. Tu sembri andare indietro nel tempo. Lo so che non è chiaro, ma io – io ti ho vista
qui e allo stesso tempo più lontana e più lontana ancora e poi sempre più piccola – come le linee
prospettiche convergenti…No, non è questo. E’ come – come le persone che si inseguono a vicenda
nella radura di una foresta. Solo andando indietro, tu sei una ragazzina con un vestito corto e i tuoi
capelli sciolti sulle spalle e un ragazzino sta con te tenendoti per mano. Nella distanza che c’è in
mezzo io sto ancora con te, senza tenerti più la mano, perché non è virile, ma comunque con la
voglia di farlo ugualmente. E poi ancora più lontano sembriamo terribili. Tu con le tue gambe come
quelle di un puledro e le mie come quelle di un vitello…Quello che sto cercando di dire è – solo che
non sono un poeta, sono un ofiologo – che ti ho sempre amata. Intendo dire che non ho mai amato
nessuno a parte te. Lo so che suona noioso come un romanzo da drugstore – e ciò che ho dentro
non sarò mai capace di esprimerlo a parole…ma questo è quello che voglio dire…”
Conquistandola.
Ma il tipo di magia che Jean e suo padre possono esercitare (“E’ solo virtuosità” e “Dimmi la mia
fortuna”) non è qualcosa, a cui si può rinunciare facilmente, anche per questa promessa di ritrovata
innocenza (“Ho intenzione di essere esattamente come lui pensa che io sia”). “Righerai dritto, non è
vero Harry?” dice Jean, introducendo all’inizio i suoi progetti di matrimonio al padre. “Dritto
dove?” risponde lui. Lui può venire a vivere con loro, quando si sposeranno, anche Gerald, dice lei.
“Io posso proprio vedermi, mentre girovago attorno al tuo patrimonio con un porta-sigaretta e
cinque centesimi a settimana. Ed un paio di pantofole per Natale. Il problema con la gente che si
ravvede è che vuole sempre porre fine al pavoneggiarsi di qualunque altra persona…Tu occupati del
tuo lavoro a maglia, io giocherò a carte!”
Ma poi non vogliamo vedere la fine sia del pavoneggiarsi di lui che di quello di lei – sebbene il film
sembra pericolosamente vicino come risultato all’una o all’altra cosa.
Viene salvato giusto in tempo dalla prima trasformazione di Fonda. Perché è stato chiaro da sempre
che l’innocenza di Hopsie, che fa innamorare Jean, minaccia di rovinarla tanto quanto fa suo padre:
farla sentire “di poco valore”, come lei dice dopo, e umiliata, di privarla della sua energia e del suo
stile. Più o meno come succede per l’eroina ragazza-forte in “Remember the Night”, “Meet John
Doe” e “Mr. Deeds Goes to Town” e innumerevoli altri film. Ma la trasformazione di Hopsie in un
rompiscatole, nel secondo Fonda dal fare presuntuoso, salva questa eroina. Questa volta lei va
incontro a esposizione e a rimproveri, non con pentimento e emendamento, ma diventando sempre
più meravigliosamente che mai, se stessa. Batte suo padre al suo stesso gioco e poi – nella seconda
parte del film – si trasforma in Lady Eve Sidwich e sconfigge la classe rispettabile sul loro stesso
campo. Ma alla fine è il secondo Fonda che fa sembrare tutto questo giusto – non solo l’inganno di
lei a metà film ma anche la sua precedente punizione. Come il film prosegue, sentiamo e capiamo
sempre più chiaramente che questa punizione, così apparentemente ingiusta, ha avuto davvero
ragione di esserci.
*Something Wild (1986) di Jonathan Demme è per certi versi una meno sofisticata, meno coerente
versione del plot della screwball – includendo anche il cambiamento di percezione dell’eroe a metà
del film.
Tratto da: Romantic Comedy in Hollywood. From Lubitsch to Sturges.
Traduzione: Roberta Carbone; adattamento e note: Nalut