MOT16A_Imposimato_Rito lavoro
Transcript
MOT16A_Imposimato_Rito lavoro
1 IL RITO DEL LAVORO: PECULIARITA' E DIFFERENZE RISPETTO AL RITO ORDINARIO La presente relazione ha per oggetto il processo delineato, da un lato dall'art. 447 bis c.p.c., dall'altro dall'art. 2 del D. Lgs.vo n°150/2011 (semplificazione dei riti), tramite il richiamo di alcune, delle disposizioni in materia di controversie individuali di lavoro (artt. 414 e ss. c.p.c.), ed è intesa ad evidenziare le peculiarità proprie di tale modello procedimentale, rispetto a quello del rito ordinario di cognizione. Caratteristiche del rito 1. fase introduttiva. 1.1 La fase introduttiva del rito lavoro è connotata, rispetto al rito ordinario, dall'intervento del giudice, sia ai fini della compiuta attivazione del rapporto processuale con il convenuto (vocatio in ius), sia ai fini della rituale attivazione del contraddittorio sulla domanda riconvenzionale. La domanda principale è, infatti, introdotta con ricorso (art. 414 c.p.c.), il cui deposito determina la litispendenza (invece imputabile alla notifica della citazione, quanto al rito ordinario: si veda l'art. 39 ultimo comma c.p.c.). Ciò rileva, ovviamente, ai fini dell'individuazione del giudice, tra quelli investiti della cognizione della stessa domanda, che sia stato preventivamente adito, e di quello che (conseguentemente) sia tenuto a dichiarare la litispendenza (art. 39 c.p.c.): Sez. Unite, n°4676.1992: "nel rito del lavoro, per individuare, ai fini della litispendenza (e della continenza), il giudice preventivamente adito, deve farsi riferimento al deposito del ricorso presso la cancelleria, realizzandosi in tale momento, con l'adizione del giudice, l'instaurazione del rapporto tra due dei tre soggetti (tra i quali si svolge il processo) e non alla successiva notificazione del ricorso medesimo con in calce il decreto di fissazione dell'udienza, secondo il criterio del terzo comma dell'art. 39 c.p.c., la cui applicazione comporta la dipendenza dal giudice (ed in particolare, dalla tempestività o meno dell'emanazione del decreto di fissazione dell'udienza ai sensi del secondo comma dell'art. 415) della possibilità per il ricorrente di notificare l'atto introduttivo del giudizio e di determinare la pendenza della lite ai sensi del citato art. 39"; 2 Cass. n°18564.2015: "nel caso di continenza tra una causa introdotta col rito ordinario ed una introdotta col rito monitorio, ai fini dell'individuazione del giudice preventivamente adìto, il giudizio introdotto con ricorso per decreto ingiuntivo deve ritenersi pendente alla data di deposito di quest'ultimo, trovando applicazione il criterio di cui all'ultimo comma dell'art. 39 c.p.c., come modificato dalla l. n. 69 del 2009, senza che rilevi la circostanza che l'emissione del decreto e la sua notifica siano avvenuti successivamente, agli effetti dell'art. 643, comma 3, c.p.c."; conf. Cass. n°18707.2014; Cass. n°6511.2012). Il ricorso enuncia, all'evidenza, solo la c.d. editio actionis (enunciazione della causa petendi e del petitum), mentre non reca (né può recare) la citazione in giudizio (vocatio in ius) del convenuto; la vocatio si realizza e completa difatti (quale fattispecie a formazione progressiva), mediante emissione del decreto di fissazione udienza (art. 415 c.p.c.) e notificazione del ricorso introduttivo e pedissequo provvedimento giudiziale, al convenuto. Trattasi del principio di scissione tra editio actionis e vocatio in ius, che è proprio a tutti i procedimenti introdotti con ricorso (sul punto, tra le tante, Cass., ord. n°20757.2014; Cass. n°12353.2014), ed evidentemente estraneo alla fase introduttiva del rito ordinario; A corollario di tale principio, i vizi afferenti alla vocatio in ius non possono riverberarsi (retroagire) sulla editio actionis, perché la seconda è afferente ad un atto processuale antecedente e del tutto distinto da quello ipoteticamente viziato di nullità (v. l'art. 159 c.p.c. e, sul punto, Cass. n°21487.2011: "nei procedimenti contenziosi che iniziano con ricorso, il compimento della formalità del deposito coincide con la proposizione della domanda e sulla validità di quest'ultima non possono riflettersi, ostandovi il disposto dell'art. 159 cod. proc. civ., i vizi incidenti sulla successiva fase della "vocatio in ius", da attuare mediante la notifica dell'atto introduttivo e del correlativo decreto di fissazione dell'udienza"; v. anche la giurisprudenza oltre). Lo stesso schema è riproposto (con qualche marginale variazione sui termini di notificazione, nonché sullo spatium deliberandi da assegnare all'avversario) dall'art. 418 c.p.c., per la rituale e corretta introduzione in lite della domanda riconvenzionale. 3 Anche in questo caso, infatti, ai fini dell'attivazione del contraddittorio con l'attore, è prescritto l'intervento del giudice già investito della domanda principale, ovverosia l'emissione di un decreto di differimento, dell'udienza di discussione, ad altra data, che il convenuto [attore in riconvenzionale] deve (ha l'onere di) sollecitare al giudice, formulando apposita istanza, "contenuta nella stessa memoria, a pena di decadenza dalla riconvenzionale medesima" (art. 418 comma 1° c.p.c.). Ed anche in questo caso, la legge prevede che sia la memoria recante domanda riconvenzionale, sia il decreto di differimento dell'udienza di discussione ad altra data, siano notificati all'attore, a cura dell'ufficio, entro il termine (non perentorio) indicato al comma 3° dell'art. 418 cit.. In disparte del fatto che la norma che prescrive la notificazione, a cura della cancelleria, della memoria del convenuto, ha perso di attualità, laddove il convenuto si costituisca depositando la sua memoria in forma telematica (l'attuazione del PCT consente a tutte le parti la visibilità immediata ed in tempo reale del fascicolo d'ufficio), va sottolineato che il modello procedimentale in questione, da utilizzare per l'attivazione del contraddittorio sulla riconvenzionale del convenuto, è esattamente speculare allo schema predisposto, dagli artt. 414, 415 c.p.c., per il perfezionamento della vocatio in ius. Trattasi del principio di circolarità che contraddistingue il processo ex art. 447 bis c.p.c., e lo differenzia dal processo di cognizione ordinario, connotato da andamento lineare (o meglio rettilineo), in cui la domanda riconvenzionale si pone sulla stessa linea direttrice segnata dalla domanda principale, e necessita esclusivamente di essere proposta nel rispetto dei termini di cui agli artt. 166, 167 c.p.c. [sul punto Sez. Unite n°11353.2004: "il rito del lavoro si caratterizza per una circolarità tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova"]; Secondo tale principio, a fronte della proposizione di una domanda riconvenzionale, l'attore è posto (o deve essere posto) nelle medesime condizioni del convenuto, ed è pertanto soggetto agli stessi oneri assertivi (di contestazione) e probatori prescritti, per quest'ultimo, dall'art. 416 c.p.c.; non solo: l'attore incorre nelle stesse preclusioni e decadenze poste a carico del convenuto, in relazione alla riconvenzionale avversaria (art. 416 c.p.c.), sicché ove (ad esempio) intenda introdurre in giudizio una reconventio reconventionis, ha l'onere 4 di seguire le stesse formalità e tempistiche di cui agli artt. 416, 418 c.p.c.; analogamente, ove intenda svolgere eccezioni (di fatto impeditivo/modificativo o estintivo) non rilevabili d'ufficio, in relazione alla pretesa dell'avversario, ha l'onere di rilevarle nel rispetto delle prescrizioni di cui all'art. 416 c.p.c. [v. Cass. n°22289.2009: "alla stregua di quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1977 e con le successive ordinanze nn. 36 e 64 del 1978, nel rito del lavoro, l'attore convenuto in via riconvenzionale ha gli stessi poteri e correlativamente incorre nelle stesse preclusioni che l'art. 416 c.p.c. prevede per il convenuto in via principale, con la differenza che il termine di riferimento per l'attore convenuto in riconvenzione non è l'udienza di discussione fissata ex art. 415 c.p.c., bensì la nuova udienza da fissarsi in base al meccanismo previsto dall'art. 418 dello stesso codice"; Cass. n°2672.1981: "l'attore convenuto in via riconvenzionale ha gli stessi poteri e correlativamente incorre nelle stesse preclusioni che l'art. 416 c.p.c. prevede per il convenuto in via principale, con la differenza che il termine di riferimento è, per l'attore convenuto in riconvenzione, non l'udienza di discussione fissata ex art. 415 c.p.c., bensì la nuova udienza da fissarsi in base al meccanismo previsto dall'art. 418 dello stesso codice. Pertanto, e eccezioni e difese avverso la domanda riconvenzionale contro di lui rivolta debbono essere dall'attore proposte, a pena di decadenza, con memoria depositata nelle forme e nel termine (di almeno dieci giorni prima dell'udienza) di cui all'art. 416 citato, da computarsi rispetto alla data della nuova udienza di discussione, fissata, ai sensi dell'art. 418, a seguito della proposizione di detta domanda, valendo anche per l'attore riconvenuto i limiti all'esercizio delle attività assertive e probatorie posti dal primo e quinto comma dell'art. 420 c.p.c."; Cass. n°3985.1986]. 1.2 La circolarità del processo delineato, dall'art. 4 D. Lgs.vo n°150/2011 (ed art. 447 bis c.p.c.), sulla falsariga del "rito lavoro", è evidentemente il derivato processuale della peculiare materia per cui pensate e scritte, in origine, le disposizioni degli artt. 414 e ss. c.p.c.: nelle controversie individuali di lavoro (art. 409 c.p.c.) non è (infatti) frequente che si abbiano, nel processo, più di due parti (datore di lavoro e lavoratore). Forse per tale ragione, il principio di circolarità genera più di una criticità, per le domande diverse da quelle proposte, dalle parti principali, l'una nei confronti dell'altra, quali ad esempio la domanda proposta dall'interveniente, ovvero la domanda 5 trasversale (proposta da un convenuto nei riguardi di altro convenuto), ovvero infine la domanda del convenuto nei riguardi di un terzo, da chiamare in causa. Cominciando dall'ultima delle questioni sopra indicate, benché l'art. 416 c.p.c. nulla dica in proposito, ed anzi - leggendo l'art. 420 comma 9° c.p.c. - parrebbe consentito al convenuto di attendere sino all'udienza, per formulare istanza di autorizzazione alla chiamata del terzo, è pacifico che anche tale richiesta resti preclusa, se non proposta nel rispetto delle forme e termini di cui all'art. 416 c.p.c.: "nel rito del lavoro, le esigenze di concentrazione e speditezza del processo, le quali si configurano come principio di ordine pubblico, e di tutela della difesa del chiamato, impongono la tempestività della richiesta di chiamata in causa del terzo, la quale deve essere formulata nella memoria difensiva ex art. 416 c.p.c., e non può essere sollevata in un momento successivo" (Cass. n°15080.2008; conf. Cass. n°9800.1998). Trattasi di un caso di decadenza processuale non codificata, ma acquisita come principio di diritto vivente, enunciato nella consolidata giurisprudenza di legittimità (e di merito), valorizzando le esigenze di concentrazione e speditezza (v. avanti) che, soprattutto in passato (prima della riforma della L. n°353/1990) hanno connotato il processo lavoristico, rispetto a quello ordinario. Quanto alle criticità innescate dall'intervento volontario (art. 105 c.p.c.), val bene segnalare che: - nel rito del lavoro l'intervento è regolato (quanto a tempistica) dall'art. 419 c.p.c., ma tale disposizione nulla dice in merito alle formalità da seguire laddove il terzo non si limiti a sostenere le altrui ragioni (spiegando un intervento dipendente, ex art. 105 comma 2° c.p.c.), bensì proponga una propria domanda (art. 105 comma 1° c.p.c.) nei confronti di alcune (intervento litisconsortile) o di tutte le altre parti del processo (intervento principale); con la sentenza Corte Cost. n°193/1983, la disposizione è stata dichiara illegittima "nella parte in cui, ove un terzo spieghi intervento volontario, non attribuisce al giudice il potere-dovere di fissare - con il rispetto del termine di cui all'art. 415, comma 5° c.p.c. (elevabile a quaranta giorni quando la notifica ad alcune delle parti originarie contumaci debba effettuarsi all'estero) - una nuova udienza, non meno di dieci giorni prima della quale potranno le parti originare depositare memoria, e di disporre che, entro cinque giorni, siano notificati alle parti originarie il provvedimento di fissazione e la memoria dell'interveniente, e che sia notificato a quest'ultimo il provvedimento di fissazione della nuova udienza"; ne è nato un ibrido che 6 prevede, per il caso d'intervento, uno schema analogo all'art. 418 c.p.c. (domanda riconvenzionale), ma con i termini previsti dall'art. 415 c.p.c. (domanda principale); - il quesito è: laddove l'interveniente proponga in giudizio una sua propria domanda, può predicarsi che esso sia onerato di richiedere, a pena di decadenza dalla domanda medesima, la fissazione di una nuova udienza di discussione? - valorizzando il principio di tassatività e di stretta interpretazione delle disposizioni in materia di decadenze e preclusioni, che fanno eccezione al principio di libertà di forme sotteso al rito civile (art. 121 c.p.c.) dovrebbe concludersi per la negatoria (in tal senso Cass. n°12300.2003, più avanti); - peraltro la corte nomofilattica, pronunciandosi in fattispecie analoga, di domanda svolta in giudizio da un terzo chiamato in causa (in quel caso, dallo stesso attore), ha ragionato diversamente; questa la massima di Cass. n°20176.2008: "nel rito del lavoro, l'onere di chiedere al giudice l'emissione di un nuovo decreto di fissazione dell'udienza, posto dall'art. 418 c.p.c., a pena di decadenza, a carico del convenuto che abbia proposto domanda riconvenzionale, si applica anche nei confronti del terzo chiamato in causa, che, con la memoria di costituzione, abbia proposto una autonoma domanda riconvenzionale nei confronti di una delle parti in giudizio". Nel caso deciso, la parte chiamata in causa (dall'attore) non si era limitata a difendersi sulle istanze indirizzatele dal chiamante, ma aveva proposto una propria domanda nei confronti del convenuto (tra l'altro non chiamante). Dunque il chiamato in causa aveva assunto, ai fini della proposizione della domanda nei riguardi di una delle parti principali, la veste di interveniente (volontario) litisconsortile. E questo è quanto si legge nella motivazione della sentenza: "Infatti, come sopra ricordato, l'Inps, costituendosi, non si limitò a richiedere l'accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro dedotto in giudizio (aderendo con ciò sostanzialmente alla domanda in tal senso già svolta dalla ricorrente), ma formulò altresì l'autonoma domanda di condanna della parte convenuta (la ****) al pagamento dei contributi omessi. Rispetto a tale ultima domanda (non contenuta nel ricorso introduttivo del giudizio) la **** venne quindi a trovarsi in posizione del tutto analoga a quella del ricorrente nei cui confronti il convenuto abbia proposto una domanda riconvenzionale, con conseguente applicabilità del disposto dell'art. 7 418 c.p.c., laddove, a pena di decadenza della riconvenzionale svolta, onera il convenuto stesso (e, quindi, nel caso di specie, l'intervenuto) di richiedere al giudice un nuovo decreto per la fissazione dell'udienza". Anche per la domanda trasversale (di manleva o regresso) rivolta da un convenuto verso altro convenuto, sorge il problema di ritenere (oppure no) analogicamente praticabile il meccanismo di cui all'art. 418 c.p.c, predisposto ai fini del contestuale maturarsi di tutte le preclusioni - assertive e probatorie - in momento antecedente all'udienza di discussione, come voluto dal legislatore del rito del lavoro. In senso contrario è Cass. n°12300.2003, sopra citata, la cui motivazione, molto legata al criterio formalistico-letterale, è la seguente: "nel rito del lavoro, l'onere di chiedere al giudice l'emissione di un nuovo decreto di fissazione dell'udienza, posto dall'art. 418 c.p.c., a pena di decadenza, a carico del convenuto che abbia proposto domanda riconvenzionale, non rispondendo in maniera specifica ed infungibile ad un'esigenza di carattere generale (tant'è che non è previsto incombente analogo nel rito ordinario), costituisce previsione a carattere eccezionale, non suscettibile di interpretazione estensiva o analogica; tale onere deve pertanto ritenersi sussistente solo nell'ipotesi di domanda riconvenzionale in senso tecnico (ossia di domanda proposta dal convenuto nei confronti dell'attore) e non in tutte le ipotesi di proposizione di qualsivoglia domanda diversa da quella dell'originario attore nei confronti dell'originario convenuto, tant'è che , anche nel rito del lavoro, in ipotesi di chiamata in causa di terzo, non è previsto a pena di decadenza l'onere per il chiamante di richiedere al giudice la fissazione di una nuova udienza. (Nella specie, la S.C. ha escluso che l'onere previsto dall'art. 418 c.p.c. fosse estensibile all'ipotesi di domanda in via di regresso proposta da un convenuto nei confronti di altro convenuto)". Il precedente in questione risulta isolato, e non confermato da ulteriori pronunce. Al contrario, si è già visto che, per la giurisprudenza successiva (v. Cass. n°15080.2008), anche l'istanza di chiamata (di un terzo) in causa deve essere proposta, dal convenuto, a pena di decadenza (art. 416 c.p.c.), nella sua memoria tempestivamente depositata in giudizio. Non solo: anche il precedente prima richiamato, reso in tema di intervento volontario (Cass. n°20176.2008), enuncia princìpi in netto contrasto con quelli da ultimo riportati. A sommesso avviso di chi scrive, i princìpi costituzionali - sempre più avvertiti - di ragionevole durata del processo (art. 111 cost.), così come la valorizzazione dei principi di concentrazione, oralità e immediatezza, da sempre propri del "rito del 8 lavoro", possono autorizzare la riconsiderazione delle ragioni, prevalentemente formali, su cui fondata la sentenza Cass. n°12300.2003, testé citata, e dare preferenza alle indicazioni delle successive pronunce della Suprema Corte. Difatti, agli effetti ed ai fini dei princìpi di ordine pubblico processuale sopra richiamati, predisposti per la immediata definizione, già in epoca antecedente all'udienza, sia del tema decidendum che del tema probandum, non si capisce che differenza vi sia tra la domanda rivolta (dall'attore) nei confronti del convenuto principale, e la domanda rivolta, da quest'ultimo, nei confronti di altro convenuto. E tanto, infatti, è predicato nella motivazione di Cass. n°20176.2008 (sopra). Non solo: adottandosi la soluzione formalistica indicata da Cass. n°12300.2003, i destinatari di tali domande (trasversali) dovrebbero pur sempre essere posti in grado di articolare compiutamente le loro difese, pena la violazione del principio del contraddittorio (art. 101 c.p.c.). Occorrerebbe, pertanto, attivare tutto il complicato meccanismo di cui all'art. 420 c.p.c., per fare luogo, all'udienza, al contraddittorio precedentemente non realizzato; in particolare, alle parti destinatarie della domanda trasversale, dovrebbe darsi la possibilità di emendare le domande, conclusioni ed eccezioni già formulate (comma 1°), nonché di indicare nuovi mezzi di prova precedentemente non richiesti (comma 5°); su tali istanze, ove richiesto, il giudice dovrebbe assegnare termine per note difensive, alla parte contro-interessata (comma 6°); all'esito dell'ammissione dei nuovi mezzi di prova, tutte le parti contro-interessate dovrebbero ricevere un ulteriore termine per articolare prova contraria (comma 7°). In breve, si produrrebbe la conseguente moltiplicazione sia delle udienze deputate all'ammissione dei mezzi istruttori, sia delle memorie (o deduzioni) difensive delle parti, sia (infine) dei provvedimenti istruttori in senso stretto (ammissione nuovi mezzi di prova, eventualmente previa assegnazione di termini per note difensive; assegnazione termini per prova contraria; rinvio ad altra udienza per ammissione della prova contraria) con l'inevitabile complicazione dell'iter processuale, che il legislatore (soprattutto del rito del lavoro), ha evidentemente inteso scongiurare. 2. preclusioni assertive e probatorie. Si è già visto che il rito del lavoro è governato dai princìpi di oralità, concentrazione ed immediatezza, che in origine lo hanno nettamente distinto dal rito ordinario (soprattutto nelle forme prescritte dalle disposizioni vigenti sino al 30 aprile 1995), tali per cui tutte le preclusioni e decadenze, sia assertive che 9 istruttorie, maturano contestualmente, con il compimento della fase di deposito degli scritti introduttivi sì che, da quel momento, si ha la completa definizione, in fase antecedente all'udienza di discussione (artt. 414, 416 c.p.c.) sia del tema controverso, sia del tema di prova (salve le eccezioni di cui appresso). Ciò in evidente difformità dal rito ordinario, in cui le preclusioni probatorie maturano dopo il maturare delle preclusioni assertive, come si evince dal comb. disp. artt. 165,166, 183 commi 5° e 6° c.p.c.. Cass. n°17176.2014: "nel rito del lavoro, la disciplina della fase introduttiva del giudizio risponde ad esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento stesso del processo, in aderenza ai principi di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano"; Cass. n°24900.2005 (conf. Sez. Unite n°7708.1993): "la decadenza prevista dall'art. 414, n. 5, e 416, terzo comma, c.p.c. ha carattere assoluto ed inderogabile e deve essere rilevata d'ufficio dal giudice indipendentemente dal silenzio serbato dalla controparte o dalla circostanza che la medesima abbia accettato il contraddittorio, atteso che nel rito del lavoro la disciplina dettata per il giudizio risponde ad esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento stesso del processo, in aderenza ai principi di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano"); Cass. n°5026.2008: "nel rito del lavoro - in cui non sono previste udienze di mero rinvio né l'udienza di precisazione delle conclusioni - ogni udienza, a partire dalla prima, è destinata, oltre che all'assunzione di eventuali prove, alla discussione e, quindi, all'immediata pronuncia della sentenza mediante lettura del dispositivo sulle conclusioni che, salvo modifiche autorizzate dal giudice per gravi motivi, sono per l'attore quelle di cui al ricorso e per il convenuto quelle di cui alla memoria di costituzione"). Il rigore delle preclusioni e decadenze prescritte dagli artt. 414, 416 c.p.c. è solamente attenuato dall'art. 420 c.p.c., che ammette in termini molto circoscritti (v. comma 1°) la emendatio libelli (Cass. n°13997.2007) nonché, in via residuale, la deduzione di mezzi di prova che le parti non abbiano potuto proporre prima (comma 5°). Quanto alla prima, è indispensabile da un lato che la parte deduca (e dimostri) la ricorrenza di gravi motivi, dall'altro la pronuncia di specifica autorizzazione del giudice. Quanto alla seconda, si consente l'articolazione di nuovi mezzi di prova: 10 (a) quando l'interesse (art. 100 c.p.c.) a proporli nasca dalle difese della controparte; (b) quando si tratti di documenti non precedentemente depositati a corredo degli scritti introduttivi, ma di formazione successiva alla data di maturazione delle preclusioni istruttorie (Cass. n°10102.2015: "nel rito del lavoro, l'omessa indicazione dei documenti prodotti nell'atto di costituzione in giudizio, e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza dal diritto di produrli, salvo che si siano formati successivamente alla costituzione in giudizio o la loro produzione sia giustificata dall'evoluzione della vicenda processuale"). E' però praticabile, anche nel rito del lavoro, il principio di conversione delle nullità processuali (art. 159 comma 3° c.p.c.): dunque un atto processuale le cui irregolarità precludano un determinato effetto, può "produrre gli altri effetti ai quali è idoneo". Il principio trova frequente applicazione nel caso in cui il convenuto, costituendosi tempestivamente in giudizio e formulando domanda riconvenzionale, dimentichi (come sovente accade) di chiedere il differimento dell'udienza di discussione: in tal caso, la domanda riconvenzionale può essere esaminata quale eccezione riconvenzionale (cui non si applica l'art. 418 c.p.c.): Cass. n°11679.2014: "nel rito locatizio, la domanda riconvenzionale formulata con la memoria ex art. 416 c.p.c. senza richiesta, ex art. 418 c.p.c., di spostamento dell'udienza è inammissibile, ma non preclude la valutazione, da parte del giudice, del fatto integratore della stessa che assuma valore di eccezione, quale fatto impeditivo, estintivo o modificativo del fatto costitutivo della pretesa dell'attore, ai fini della decisione sulla domanda principale, risultando rispettata la relativa preclusione fissata dall'art. 416 c.p.c.". 3. nullità del ricorso e sanatoria. Il principio di scissione tra editio actionis e vocatio in ius, tipico del processo del lavoro, ha generato diverse criticità e contrasti in tema di vizi ed irregolarità vuoi del ricorso in quanto tale, vuoi della sua notificazione. 3.1 Quanto ai vizi della editio actionis, va ricordato (per scrupolo di memoria) che, secondo un orientamento invalso nel passato, l'omessa, ovvero assolutamente incerta indicazione del petitum (art. 414 n°3 c.p.c.), nonché l'omessa esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali fondata la domanda (art. 414 n°4 c.p.c.), erano tali da produrre la irreversibile nullità dell'atto introduttivo, a sua volta 11 produttiva della declaratoria (in rito) d'inammissibilità della domanda. In particolare, la giurisprudenza riteneva che tali nullità (benché comminate per atti processuali, e quindi relative, perciò sanabili, ovvero convertibili in motivo d'impugnazione, ex artt. 156, 157, 161, 162 c.p.c.) non fossero rimediabili con il meccanismo approntato, per la citazione, dall'art. 164 comma 4° c.p.c. (nel testo antecedente alla riforma della L. n°353/1990), reputandosi tale disposizione (intitolata nullità della citazione) non applicabile ad un atto di parte diverso dalla citazione ex art. 163 c.p.c. [v. in tal senso Cass. n°5843.1985: "tenuto conto della sua formulazione e dell'intenzione del legislatore, quale rivelata dai lavori preparatori della disciplina del nuovo rito del lavoro (le cui caratteristiche essenziali si compendiano nell'oralità, nell'immediatezza e nella concentrazione degli Atti processuali, nonché nell'accentuata ufficialità del processo, cui deve corrispondere una collaborazione intensa con il giudice), la norma dell'art. 414 nn. 3, 4 e 5 - secondo cui il ricorso deve contenere la Determinazione dell'oggetto della domanda, l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali essa si fonda, con le conclusioni relative, nonché l'indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi - ha carattere imperativo, sicché dall'inosservanza dei suoi precetti deriva la nullità del ricorso, in applicazione delle norme generali di cui agli artt. 164 e 156 c.p.c., con conseguente pronuncia d'inammissibilità del medesimo, conducendo invece la genericità delle difese del convenuto ad un giudizio d'infondatezza delle eccezioni da lui proposte"; Cass. n°4566.1987: "nel rito del lavoro la verifica degli elementi essenziali del ricorso introduttivo costituisce indagine pregiudiziale rispetto alla decisione sul merito, cui inerisce anche la valutazione delle prove; pertanto, ove il ricorso sia privo dell'esatta Determinazione dell'oggetto della domanda o dell'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto, esso è affetto da nullità insanabile che il giudice è tenuto a dichiarare preliminarmente senza possibilità di scendere all'esame del merito, neppure per respingere la domanda perché non provata"; Cass. n°3729.1988: "anche nel rito del lavoro il giudice deve preliminarmente esaminare la sussistenza, o meno, dei requisiti di validità del ricorso introduttivo ai fini dell'ammissibilità della domanda rispetto al merito delle pretese esposte nel ricorso stesso. Pertanto il ricorso, ove sia carente dei requisiti indicati al numero 3 ovvero al numero 4 dell'art. 414 c.p.c., è affetto da nullità che opera pregiudizialmente e che non può ritenersi sanata dalla Costituzione del convenuto che eccepisca anche la sua infondatezza nel merito, con la conseguenza che il giudice deve pronunciare l'inammissibilità della domanda, e non già rigettarla nel merito"; ancora, Cass. n°13066.1997]. Tale orientamento è stato superato dalla giurisprudenza successiva, che ha 12 ritenuto applicabile, anche al rito lavoristico, il principio di sanatoria dell'atto per raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c.) nonché il rimedio previsto, in caso di nullità della editio actionis, per l'atto di citazione in senso stretto (art. 164, commi 4° e 5° c.p.c.). In breve, il giudice ha facoltà di rilevare la nullità del ricorso, per vizi della editio actionis, ed a seconda che il convenuto sia, o meno, costituito in giudizio, deve assegnare termine perentorio per integrare la domanda (convenuto costituito), ovvero per rinnovare la notificazione del ricorso, e degli atti e provvedimenti successivi (nel caso di convenuto non costituito in giudizio). E' evidente che, laddove l'attore non ottemperi all'ordine di rinnovazione della notifica del ricorso (in caso di convenuto non costituito), entro il termine perentorio assegnato dal tribunale, si producono gli effetti di cui all'art. 307 c.p.c.: "nel rito del lavoro, la nullità del ricorso introduttivo per mancata indicazione degli elementi di fatto e di diritto posti alla base della domanda è sanabile alla stregua dell'art. 164, quinto comma, c.p.c., ed in caso di mancata fissazione, da parte del giudice adito, di un termine perentorio per la rinnovazione del ricorso o per l'integrazione della domanda nonché in mancanza di una tempestiva eccezione del convenuto, ex art. 157 c.p.c., relativa al vizio dell'atto, deve ritenersi provata l'intervenuta sanatoria del ricorso nullo per il raggiungimento dello scopo, ex art. 156 c.p.c." (Cass. n°23929.2004; Cass. n°4557.2009); "nel processo del lavoro, ove manca una disciplina specifica in ordine al regime delle nullità, è applicabile il generale principio di conservazione degli atti processuali, che consente la salvezza degli atti o anche di alcuni dei loro effetti in ragione del raggiungimento dello scopo degli stessi" (Cass. n°17778.2007); nel processo del lavoro, conseguentemente, la mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda è causa di nullità del ricorso introduttivo, che, ove non rilevata dal giudice di primo grado, è soggetta alla regola generale della conversione in motivi di impugnazione ex art. 161, primo comma, c.p.c., con onere del convenuto di impugnare la decisione anche con riguardo alla pronuncia, implicita, sulla validità dell'atto, e nella cui assenza la dichiarazione officiosa di nullità e inammissibilità della domanda da parte del giudice di appello dà luogo al vizio di ultrapetizione" (Cass. n°12746.2008; conf. Cass. n°12923.2013; ); "in applicazione dell'art. 164, quinto comma, c.p.c., estensibile anche al rito del 13 lavoro, se il giudice di primo grado, stante la costituzione del convenuto, omette di fissare un termine per l'integrazione dell'atto introduttivo del giudizio, nullo per mancata o insufficiente determinazione dell'oggetto della domanda o per analogo vizio concernente l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la pretesa si fonda, nonostante l'eccezione in tal senso sollevata dal convenuto, diventa onere del ricorrente invocare dal giudice la fissazione del termine per sanare la nullità. Ove ciò non faccia, e la nullità venga dedotta come motivo d'appello, il giudice del gravame non dovrà fissare alcun termine per la rinnovazione dell'atto nullo, ma dovrà definire il processo con una pronuncia in rito che accerti il vizio del ricorso introduttivo" (Cass. n°896.2014). In breve, la nullità dell'atto introduttivo del processo soggetto a rito lavoro, per vizio della editio actionis, viene, oggi, trattata allo stesso modo della nullità dell'atto introduttivo del processo ordinario di cognizione, affermandosi: (a) la possibilità della sua sanatoria (con effetto ex nunc) mediante il meccanismo di cui all'art. 164, combinato dei commi 4° e 5° c.p.c.; (b) la conversione di tale nullità in motivo di impugnazione (art. 161 c.p.c.); (c) l'impossibilità, per il giudice dell'impugnazione, di rilevare d'ufficio la nullità dell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, ove non eccepita (né rilevata) innanzi al primo giudice, né fatta oggetto di specifico motivo d'impugnazione, dalla parte interessata. Le conseguenze del rilievo di nullità dell'atto introduttivo (dedotto a motivo d'impugnazione), da parte del giudice d'appello, sono però divergenti nel rito lavoro e nel rito ordinario. Infatti, nel rito lavoro la giurisprudenza comunque perviene ad affermare la necessità di una pronuncia - in rito - di inammissibilità della domanda, laddove la nullità del ricorso, per mancanza/assoluta incertezza nella editio actionis, sia stata tempestivamente eccepita, non sia stata sanata, e sia stata quindi dedotta come motivo d'impugnazione. Al contrario, nel processo ordinario di cognizione è prescritto che il giudice del gravame pronunci sul merito della lite, previa (se possibile e necessaria) rinnovazione degli atti colpiti da nullità (art. 162 c.p.c.), non vertendosi in una delle ipotesi che producono la retrocessione del giudizio in primo grado, secondo la tassativa elencazione dell'art. 354 c.p.c. (nullità della notificazione della citazione; sentenza resa a contraddittorio non integro per preterizione di un litisconsorte necessario, ovvero per 14 erronea estromissone di un parte; erronea declaratoria di estinzione, ex art. 308 c.p.c.; nullità della sentenza per assenza di sottoscrizione del giudice; v. in materia di nullità della vocatio in ius Cass. n°9306.2012: "la citazione in giudizio nulla, per l'assegnazione di un termine a comparire inferiore a quello previsto dalla legge, ai sensi dell'art. 164 c.p.c., in mancanza di costituzione del convenuto, e di sanatoria promossa dal giudice di primo grado ex art. 164, comma 2, c.p.c. è sanata - quanto all'ammissibilità della domanda - dalla interposizione dell'appello da parte del convenuto restato contumace in primo grado; ma tale sanatoria non esclude l'invalidità del giudizio di primo grado, svoltosi in violazione del contraddittorio, e la conseguente nullità della sentenza. Conseguentemente, il giudice di appello deve dichiararla, ma, non potendo rimettere la causa al giudice di primo grado, ai sensi dell'art. 354 c.p.c. è tenuto a trattare la causa nel merito, rinnovando gli atti dichiarati nulli, quando possibile e necessario, ai sensi dell'art. 162 c.p.c."). Tanto detto quanto alla regime di sanatoria delle nullità che potrebbero, in tesi, riguardare il ricorso per omessa (o assolutamente incerta) indicazione del petitum, ovvero delle ragioni della domanda, va però precisato le ipotesi di reale nullità del ricorso, per insufficiente esposizione del petitum o della causa petendi, sono piuttosto rare, giacché l'esame dell'atto difensivo va condotto secondo il criterio di interpretazione sistematica, e secondo principio di integrazione dello scritto con i mezzi istruttori dedotti, nonché con la documentazione in esso richiamata, nonché ad esso fisicamente allegata: "per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda stessa, non è sufficiente l'omessa indicazione formale dei detti elementi, ma è invece necessario che ne sia impossibile la individuazione attraverso l'esame complessivo dell'atto, potendo a tal fine farsi utile riferimento anche al contenuto dei mezzi istruttori dedotti" (Cass. n°7137.2002; conf. Cass. n°2328.1989; Cass. n°9810.1998; Cass. n°3658.1999); "nel rito del lavoro, per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell'oggetto o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda stessa, non è sufficiente la mancata indicazione dei corrispondenti elementi in modo formale, ma è necessario che ne sia impossibile l'individuazione attraverso l'esame complessivo dell'atto, eventualmente anche alla luce della documentazione allegata al ricorso e in questo indicata, pur se non notificata 15 unitamente al ricorso stesso" (Cass. n°18930.2004; conf. Cass. n°15802.2005; Cass. n°5794.2004; Cass. n°12059.2003; Cass. n°10154.2001: "nel rito del lavoro per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto che ne costituiscono il fondamento non è sufficiente che taluno di tali elementi non venga formalmente indicato, ma è necessario che ne sia impossibile l'individuazione attraverso l'esame complessivo dell'atto e della documentazione allegata"). Ciò valorizzando il principio di conservazione degli atti processuali, strumentale al raggiungimento dello scopo principale del processo (preordinato ad una decisione di merito), che indica la linea direttrice da seguire nello scrutinio e valutazione degli atti (sulla valorizzazione della funzione del processo, ontologicamente tendente a conseguire una decisione di merito, in sede di scrutinio di diverse questioni processuali, v. Cass. n°17698.2014; Cass. n°18410.2013; Cass. n°3362.2009). 3.2 Anche le irregolarità della vocatio in ius - che nel rito del lavoro è compiuta, previo intervento del giudice (emissione del decreto ex art. 415 c.p.c.), con la notificazione del ricorso e del decreto - hanno suscitato (e continuano a suscitare) diverse criticità e contrasti di giurisprudenza. Va premesso che alle nullità attinenti alla notificazione del ricorso e pedissequo decreto di fissazione dell'udienza (notifica che concorre a formare la fattispecie processuale della citazione del convenuto, nel rito lavoro) deve ovviarsi applicando l'art. 291 c.p.c., mentre per il rito ordinario sono a disposizione da un lato il rimedio di cui all'art. 164 commi 1°, 2° e 3° c.p.c., laddove si tratti di vizi della vocatio contenuta nell'atto introduttivo, ovvero di omessa assegnazione del termine a comparire previsto dall'art. 163 bis c.p.c., e dall'altro il rimedio di cui all'art. 291 c.p.c., laddove si tratti di irregolarità del processo notificatorio in senso stretto (es. consegna al portiere dello stabile, non seguita dalla spedizione della raccomandata prescritta dall'art. 139 c.p.c.). Peraltro, mentre l'art. 291 c.p.c. impone esclusivamente di rinnovare la notificazione già affetta da irregolarità (ovviamente se il convenuto non si sia costituito) - in accordo con quanto previsto, in via generale, dall'art. 162 c.p.c. - con l'art. 164 c.p.c. il giudice assegna un termine per rinnovare la citazione del convenuto (cioè l'atto processuale antecedente la notificazione); nella prassi, 16 tuttavia, anche in presenza di vizi ed irregolarità della notifica della citazione, che a stretto rigore imporrebbero di applicare l'art. 291 c.p.c., sovente si assegna termine per rinnovare l'atto di citazione, ai sensi dell'art. 164 comma 2° c.p.c., e ciò sia perché il più comprende il meno (quod abundat non vitiat), e sia perché la notifica di una citazione in rinnovazione, per l'udienza indicata dal giudice, in concreto assicura al massimo grado la conoscibilità degli atti del processo svoltosi sino a quel momento, da parte del destinatario della notifica. L'applicazione dell'art. 291 c.p.c. al rito - lavoro, e più in generale ai processi (non camerali) introdotti con ricorso, ha destato più di qualche indecisione nella prassi applicativa. In passato si era opinato, anche per il giudizio di primo grado (sia ordinario che rito-lavoro), che l'art. 291 c.p.c. non potesse essere applicato in caso di radicale inesistenza della notifica, dandosi preferenza ad una interpretazione letterale (quindi restrittiva) di tale articolo, nel cui testo è fatto esplicito riferimento ad un "vizio che comporti la nullità della notifica della citazione". In sostanza - si diceva - se deve trattarsi di notificazione viziata (affetta nullità), e come tale rinnovabile su ordine del giudice, una notificazione purchessia, astrattamente qualificabile come tale, deve essere stata eseguita dalla parte interessata, sicché qualora quest'ultima sia rimasta completamente inerte, ovvero la notificazione debba considerarsi giuridicamente inesistente, non può farsi luogo ad alcuna rinnovazione, ma deve emettersi pronunzia, in rito, di improcedibilità della domanda: Cass. n°2053.1966: "non è applicabile l'art. 291, primo comma, c.p.c., nel caso di notificazione inesistente, qual è quella eseguita ad un difensore erroneamente ritenuto procuratore della parte destinataria della notificazione"; Cass. n°1566.1968: "secondo l'art. 291 c.p.c., ove l'intimato non si costituisca in giudizio e il giudice istruttore rilevi un vizio che importi nullità della notificazione dell'atto di citazione, deve essere fissato all'attore un termine perentorio per rinnovarla. Tale disposizione, peraltro, non è applicabile nel caso di notificazione inesistente né, mancando la notificazione, ha rilievo la semplice conoscenza dell'atto che l'intimato abbia avuto, per avventura, in modo indiretto"; ancora, Cass. n°2981.1971: "a norma dell'art 291 c.p.c., nel caso che il convenuto non si costituisca, per un vizio che importi nullità della notificazione dalla citazione, il giudice istruttore, che tale vizio rilevi, deve 17 accordare all'attore un termine perentorio entro cui rinnovava la notificazione, la quale se rinnovata nel termine assegnato, impedisce ogni decadenza, cioè opera con efficacia ex tunc. L'effetto conservativo che l'art 291 ricollega alla rinnovazione non opera quando l'atto originario di notifica sia inesistente". In questo contesto, al concetto di inesistenza la giurisprudenza associava un'ampia gamma di significazioni, sicché per notificazione inesistente si intendeva (in linea di massima, e senza pretesa di esaustività): (a) quella del tutto omessa (neppure tentata) dalla parte onerata; (b) quella eseguita a mani di un soggetto/presso un luogo non avente alcun collegamento con il destinatario; (c) quella in cui la fattispecie notificatoria fosse manchevole di alcuni elementi (v. Cass. n°338.1972: "la notificazione degli Atti a mezzo del servizio postale non si esaurisce con la spedizione dell'atto da notificare ma si perfeziona con la restituzione dell'avviso di ricevimento che fa piena prova della eseguita notificazione, della data di essa e della persona cui e stato consegnato il piego contenente l'atto. L'adempimento di tale prescrizione rappresenta una formalità essenziale perché possa dirsi compiuta la notificazione, dal che deriva la conseguenza che quest'ultima, in Mancanza dell'avviso di ricevimento, non è affetta da un semplice vizio di nullità ma deve considerarsi inesistente, onde ad essa non sono applicabili ne la sanatoria dell'art 156, terzo comma, c.p.c., né il rimedio previsto dall'art 291 stesso codice"); (d) in caso d'impugnazione, quella indirizzata a più parti, ma eseguita mediante consegna di una sola copia dell'atto, all'unico procuratore costituito in giudizio (v. Cass. n°1129.1993: "la notifica dell'impugnazione a più parti presso un unico procuratore eseguita mediante consegna di una sola copia o anche di un numero di copie inferiore a quello delle parti cui l'atto è destinato, è giuridicamente inesistente e non già affetta solo da nullità, in quanto essendo arbitrario riconoscere utili effetti nei confronti di uno piuttosto che di un altro destinatario dell'atto, si verifica l'incertezza assoluta circa l'identità della parte contro la quale l'impugnazione è diretta, restando in tale situazione esclusa la rinnovazione della notificazione ex art. 291 c.p.c., vertendosi non in un'ipotesi di nullità, ma di inesistenza "). Conseguentemente, precedentemente in accolta caso in di notificazione giurisprudenza) di inesistente un ricorso (nell'accezione impugnatorio, l'impossibilità di ricorrere al rimedio (con effetto sanante ex tunc) di cui all'art. 291 c.p.c., portava a rilevare l'intervenuta formazione del giudicato formale sul 18 provvedimento impugnato, con la conseguente improcedibilità dell'impugnazione (v. Cass. n°8903.1991: "il ricorso in appello tempestivamente depositato presso la cancelleria del Tribunale diviene, nel rito del lavoro, inefficace e quindi inidoneo ad impedire il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, se ad esso segua una notificazione giuridicamente inesistente del decreto di fissazione d'udienza ovvero tale notifica sia totalmente omessa. In tal caso la nullità può essere sanata con effetto "ex tunc" solo quando l'appellato, costituitosi, non la eccepisca, mentre la costituzione accompagnata dall'eccezione di nullità ovvero la rinnovazione della notificazione hanno efficacia sanante soltanto "ex nunc"; conf. Cass. n°10266.1991; Cass. n°8419.1993: "nel rito speciale del lavoro, in caso di notificazione omessa o giuridicamente inesistente del ricorso in appello e del decreto presidenziale di fissazione di udienza, si produce una situazione definitiva di carenza del contraddittorio - non emendabile con l'applicazione delle disposizioni dettate dall'art. 291 c.p.c. per il diverso caso della semplice nullità della notificazione - è tale da imporre la definizione del giudizio di gravame con pronunzia, di mero rito, dichiarativa dell'improcedibilità, senza che rilevi in contrario la tempestività del deposito in cancelleria del ricorso suddetto"). Successivamente, tale opinione (formalistica) è stata oggetto di profonda rivisitazione, sia nel senso di circoscrivere il significato del concetto di inesistenza giuridica ad ipotesi del tutto residuali e marginali (oggi illustrate nella sentenza Sez. Unite n°14916.2016) sia, soprattutto, nel ritenere applicabile l'art. 291 c.p.c., nei giudizi di primo grado (a struttura non impugnatoria), anche al caso di notificazione del tutto omessa (quindi giuridicamente inesistente). In particolare, dopo qualche iniziale incertezza si è rilevato che né il termine di cui all'art. 415 comma 4° c.p.c., né il termine di cui all'art. 415 comma 5° c.p.c. sono esplicitamente definiti perentori dalla norma (v. l'art. 152 comma 2° c.p.c.), sicché si è escluso che vi fossero ostacoli all'applicazione dell'art. 291 c.p.c., anche in caso di omessa notificazione del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, e del decreto di fissazione dell'udienza di comparizione parti. Oggi è acquisito che: "nel rito del lavoro, nel caso di omessa o inesistente notifica del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto di fissazione dell'udienza, è ammessa la concessione di un nuovo termine, perentorio, per la rinnovazione della notifica" (così Cass. n°1483.2015); Cass. n°10782.2003: "nei procedimenti contenziosi che iniziano con ricorso da 19 depositare nella cancelleria del giudice adito anteriormente alla notificazione, il compimento della formalità del deposito coincide con la proposizione della domanda, sulla validità della quale non possono riverberarsi, ostandovi il disposto dell'art. 159 c.p.c., i vizi incidenti sulla successiva fase della "vocatio in ius", attuata mediante la notificazione del ricorso stesso e del pedissequo decreto di fissazione dell'udienza" (v. anche Cass. n°3251.2003: "nelle controversie soggette al rito del lavoro, la mancata notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione, da parte del ricorrente che abbia ritualmente depositato l'atto introduttivo, può essere sanata mediante assegnazione di un nuovo termine per la notifica, ex art. 291 c.p.c."). Per contro, la giurisprudenza è ancora concorde nel considerare inapplicabile il rimedio di cui all'art. 291 c.p.c., per le impugnazioni in senso stretto (soggette a rito lavoro), laddove il ricorrente (appellante) abbia omesso di notificare, alla controparte, il ricorso (in appello) e pedissequo decreto di fissazione dell'udienza, ovvero la notificazione debba considerarsi giuridicamente inesistente (sia pure nell'accezione più circoscritta sopra indicata). Si vedano: Cass. n°837.2016: "nel rito del lavoro, l'appello incidentale, pur tempestivamente proposto, ove non sia stato notificato va dichiarato improcedibile poiché il giudice, in attuazione del principio della ragionevole durata del processo, non può assegnare all'appellante un termine per provvedere a nuova notifica, e la suddetta improcedibilità è rilevabile d'ufficio trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti"; Cass. n°20613.2013: "nel giudizio di appello soggetto al rito del lavoro, il vizio della notificazione omessa o inesistente è assolutamente insanabile e determina la decadenza dell'attività processuale cui l'atto è finalizzato (con conseguente declaratoria in rito di chiusura del processo, attraverso l'improcedibilità), non essendo consentito al giudice di assegnare all'appellante un termine per provvedere alla rinnovazione di un atto mai compiuto o giuridicamente inesistente, senza che sull'inerzia della parte possa avere influenza (ai fini di una possibilità di sanatoria) l'avvenuta precedente regolare notifica del provvedimento di fissazione dell'udienza per la decisione sulla richiesta di inibitoria ex art. 283 c.p.c., trattandosi di attività che ha esaurito la propria valenza propulsiva nell'ambito della diversa fase cautelare"; Cass. n°1175.2015: "nel caso in cui il ricorrente, nonostante la rituale 20 comunicazione della udienza di discussione, fissata ex art. 435 c.p.c. non provveda a notificare l'atto di appello, né, partecipando a detta udienza, adduca alcun giustificato impedimento al fine di essere rimesso in termini ai sensi dell'art. 153 c.p.c., l'improcedibilità della impugnazione può essere dichiarata d'ufficio ancorché la notifica sia avvenuta per altra successiva udienza, cui la causa - in quella prima udienza - sia stata rinviata dal giudice per l'acquisizione del fascicolo di ufficio di primo grado"; Cass. n°9597.2011: "nel rito del lavoro (applicabile in materia di locazione ai sensi dell'art. 447-bis c.p.c.) l'appello, pur tempestivamente proposto nel termine previsto dalla legge, è improcedibile ove non siano stati notificati il ricorso depositato ed il decreto di fissazione dell'udienza, non essendo al giudice consentito - alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata imposta dal principio della cosiddetta ragionevole durata del processo di cui all'art. 111, secondo comma, Cost. - di assegnare, ai sensi dell'art. 421 c.p.c., all'appellante un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica a norma dell'art. 291 c.p.c."; Cass. Sez. Unite n°20604.2008: "nel rito del lavoro l'appello, pur tempestivamente proposto nel termine previsto dalla legge, è improcedibile ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell'udienza non sia avvenuta, non essendo consentito - alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata imposta dal principio della cosiddetta ragionevole durata del processo "ex" art. 111, secondo comma, Cost. - al giudice di assegnare, "ex" art. 421 c.p.c., all'appellante un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica a norma dell'art. 291 c.p.c."). Nello stesso senso sono, in effetti, le seguenti massime, di contenuto solo apparentemente difforme dalle precedenti: Cass. n°23426.2013: "nel rito del lavoro, la violazione del termine di dieci giorni entro il quale l'appellante, ai sensi dell'art. 435, secondo comma, c.p.c., deve notificare all'appellato il ricorso, tempestivamente depositato in cancelleria nel termine previsto per l'impugnazione unitamente al decreto di fissazione dell'udienza di discussione, non produce alcuna conseguenza pregiudizievole per la parte, perché non incide su alcun interesse di ordine pubblico processuale o su di un interesse dell'appellato, sempre che sia rispettato il termine che, in forza del medesimo art. 435, terzo e quarto comma, c.p.c.., deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello dell'udienza di 21 discussione" (conf. Cass. n°3959.2016); Cass. n°19818.2013: "nel rito del lavoro, l’inosservanza, in sede di ricorso in appello, del termine dilatorio a comparire non è configurabile come vizio di forma o di contenuto dell'atto introduttivo, atteso che, a differenza di quanto avviene nel rito ordinario, essa si verifica quando l'impugnazione è stata già proposta mediante il deposito del ricorso in cancelleria, sicché tale inosservanza non comporta la nullità dello stesso atto di appello, bensì quella della sua notificazione, sanabile "ex tunc" per effetto di spontanea costituzione dell'appellato o di rinnovazione, disposta dal giudice ex art. 291 c.p.c.";. Ed i princìpi sopra riportati sono di stringente attualità, anche per chi è destinato alle funzioni giudicanti presso il tribunale, perché predicabili, in via diretta, per tutte le liti di appello sulle sentenze del Giudice di Pace, nelle materie indicate dal Capo II del D. Lgs.vo n°150/2011 (semplificazione dei riti), nonché, in via analogica, per i giudizi di primo grado a struttura impugnatoria, tra cui, in primis, quello di opposizione a decreto ingiuntivo, soggetto a rito lavoro (così altra massima ufficiale tratta dalla sent. Sez. Unite n°20604.2008: "nel rito del lavoro, il principio secondo il quale l'appello, pur tempestivamente proposto nel termine, è improcedibile ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell'udienza non sia avvenuta, è applicabile al procedimento per opposizione a decreto ingiuntivo per crediti di lavoro - per identità di "ratio" di regolamentazione ed ancorché detto procedimento debba considerarsi un ordinario processo di cognizione anziché un mezzo di impugnazione - sicché, anche in tale procedimento, la mancata notifica del ricorso in opposizione e del decreto di fissazione dell'udienza determina l'improcedibilità dell'opposizione e con essa l'esecutività del decreto ingiuntivo opposto"). In conclusione, oggi la giurisprudenza: - ritiene pacificamente applicabile l'art.291 c.p.c., anche in caso di omessa o inesistente notificazione del ricorso ex art. 447 bis c.p.c., introduttivo della lite di primo grado; - continua a predicare, per la procedibilità delle liti d'impugnazione o a struttura impugnatoria (di un provvedimento provvisto di attitudine al giudicato), la necessità che il ricorrente abbia fatto luogo ad una notificazione che sia giuridicamente esistente, benché viziata (perché ad esempio tardivamente eseguita), per poter reputare applicabile il meccanismo di rinnovazione (con effetto sanante ex tunc) di cui all'art. 291 c.p.c.; 22 - circoscrive, peraltro, il concetto di inesistenza ad ipotesi residuali, raramente occorrenti nella pratica: così Sez. Unite n°14916.2016: "l'inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell'atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un'attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell'attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall'ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, "ex lege", eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l'atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa"; v. ancora Sez. Unite n°458.2005: "nei casi suddetti [n.d.r.: notificazione ex art. 140 c.p.c.] la notificazione nei confronti del destinatario si ha per eseguita con il compimento dell'ultimo degli adempimenti prescritti (spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento); tuttavia, poiché tale adempimento persegue lo scopo di consentire la verifica che l'atto sia pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario, l'avviso di ricevimento deve essere allegato all'atto notificato e la sua mancanza provoca la nullità della notificazione, che resta sanata dalla costituzione dell'intimato o dalla rinnovazione della notifica ai sensi dell'art. 291 c.p.c." (conf. Cass. n°11583.2009; Cass. n°3685.2006; Cass. n°9510.2005). In breve, alla gran parte delle irregolarità della notificazione del ricorso introduttivo si può (e deve) ovviare facendo ricorso all'art. 291 c.p.c.. 4. mutamento del rito, erronea scelta del rito. Meritano separata disamina sia l'ordinanza di mutamento del rito pronunciata ai sensi dell'art. 426 c.p.c. (da rito ordinario a rito lavoro, definito "speciale" nella rubrica dell'articolo) ovvero ex art. 427 c.p.c. (da rito "speciale" a rito ordinario) od ancora ex art. 4 del D. Lgs.vo n°150/2011 (semplificazione dei riti), sia il caso in cui la parte introduca una lite adottando - per errore - forme diverse da quelle 23 indicate, dalla legge (ad esempio, dal D. Lgs.vo n°150/2011), per la materia controversa, fattispecie queste nient'affatto infrequenti nella pratica, che possono creare complicazioni processuali. E' da notare che il decreto sulla semplificazione dei riti esclude esplicitamente, per le controversie elencate al suo Capo II, e disciplinate dal rito del lavoro, l'applicazione degli artt. 426, 427 c.p.c. (così l'art. 2 del D. Lgs.vo), ma ciò evidentemente dipende dal fatto che, per il caso in questione (in cui una controversia venga introdotta con forme diverse da quelle prescritte dal decreto), è presente nell'articolato legislativo una norma ad hoc, quale appunto l'art. 4, a tenore del quale (per quanto ora d'interesse): "Quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dal presente decreto, il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza. L'ordinanza prevista dal comma 1 viene pronunciata dal giudice, anche d'ufficio, non oltre la prima udienza di comparizione delle parti. Quando la controversia rientra tra quelle per le quali il presente decreto prevede l'applicazione del rito del lavoro, il giudice fissa l'udienza di cui all'articolo 420 del codice di procedura civile e il termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria. [..] Gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento. Restano ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento". L'articolo ripete, quasi pedissequamente, il tenore testuale dell'art. 426 c.p.c., secondo cui "il giudice, quando rileva che una causa promossa nelle forme ordinarie riguarda uno dei rapporti previsti nell'art. 409, fissa con ordinanza l'udienza di cui all'art. 420 e il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi, mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria", salvo precisare, all'ultimo comma, che "restano ferme le decadenze e preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento", norma questa non esplicita nella lettera né dell'art. 426, né dell'art. 427 c.p.c.. Peraltro, può sensatamente sostenersi che la norma da ultima trascritta codifichi un principio già enunciato, dalla S.C., in relazione alle ordinanze ex artt.426, 427 c.p.c.. 24 Per tali provvedimenti si era infatti predicato, e continua a predicarsi (non constano precedenti né successivi, in senso contrario): Cass. n°27519.2014: "il mutamento del rito da ordinario a speciale non determina la rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate alla stregua del rito ordinario, ma, sul piano formale, gli atti posti in essere anteriormente al passaggio al rito speciale devono essere valutati in base alle regole di quello ordinario"; Cass. n°9550.2010: "il mutamento del rito da ordinario a speciale non determina - neppure a seguito di fissazione del termine perentorio di cui all'art. 426 c.p.c. per l'integrazione degli atti introduttivi - la rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate alla stregua della normativa del rito ordinario, dovendosi correlare tale integrazione alle decadenze di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c., e non valendo la stessa a ricondurre il processo ad una fase anteriore a quella già svoltasi" (conf. Cass. n°8256.1987: "il passaggio dal rito ordinario al rito speciale, a seguito della entrata in vigore della legge 11 agosto 1973, n. 533 (artt. 20 della stessa legge e 426 c.p.c., nuovo testo), non elimina le preclusioni già verificatesi nell'anteriore corso della causa nei modi ordinari, sicché la eventuale integrazione degli Atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti di cancelleria (cui fa riferimento la seconda delle norme citate) non consente alle parti la proposizione di domande nuove già irrimediabilmente precluse"; Cass. n°6449.1986: "nel caso di passaggio dal rito ordinario al rito speciale, la concessione del termine di cui all'art. 426 c.p.c. non è diretta a sanare decadenze già intervenute secondo il vecchio rito, ma a consentire alle parti di mettersi in regola con le prescrizioni introdotte dal nuovo processo del lavoro"; Cass. n°5122.1985: "nel rito del lavoro la necessità per il convenuto che agisce in riconvenzionale di chiedere - a pena di decadenza come espressamente sancisce l'art. 418 c.p.c. - che il giudice adito fissi una nuova udienza di discussione assolve alla funzione di consentire alla parte attrice convenuta in riconvenzionale di predisporre le proprie difese. Tale necessità invece non sussiste nel caso in cui, iniziato il giudizio con il rito ordinario e proposta in esso ritualmente e tempestivamente la domanda riconvenzionale, si sia già costituito il contraddittorio, mentre solo successivamente sia stata disposta la trasformazione del rito ex art. 426 c.p.c., giacché la posizione della parte attrice (come quella della parte convenuta) non può essere pregiudicata atteso che 25 all'udienza di discussione fissata a norma del citato art. 426 entrambe le parti possono adeguare la rispettiva attività processuale alle regole del rito del lavoro senza che il convenuto che agisce in via riconvenzionale sia tenuto a chiedere lo spostamento dell'udienza di predetta". La corte nomofilattica ha, in breve, da sempre predicato che il provvedimento di mutamento del rito non possa produrre la retrocessione la processo ad una fase già conclusa, e svoltasi secondo le regole del rito adottato in precedenza, fino all'adeguamento del modulo processuale a quello prescritto per la specifica controversia. In altri termini, si è negato e si nega che l'ordinanza di mutamento del rito possa avere effetto retroattivo, e possa riflettersi sulle attività processuali già compiute, nonché sulle decadenze e preclusioni già maturate, dovendo per queste ultime farsi riferimento alle regole del rito precedentemente adottato. Ebbene tale principio risulta, oggi, esplicitato e codificato nell'ultimo comma dell'art. 4 del D. Lgs.vo n°150/2011, sopra trascritto. Proprio valorizzando la positivizzazione di un principio di diritto vivente, già enunciato nella giurisprudenza, il tribunale di Roma ha inteso, di recente, sottoporre a rivisitazione quell'opinione, della Suprema Corte, che - in modo non perfettamente coerente con le sentenze sopra riportate - aveva sempre denegato la possibilità di praticare il principio di conversione delle nullità processuali (art. 159 ultimo comma c.p.c.), in caso di opposizione a decreto ingiuntivo emesso in relazione a controversie soggette a rito-lavoro, o a rito-locatizio (art. 447 bis c.p.c.), ed in particolare aveva costantemente predicato il principio secondo cui, laddove l'opposizione sia introdotta erroneamente con citazione (anziché con ricorso), e questa sia depositata in cancelleria in data posteriore allo spirare del termine prescritto dall'art. 641 c.p.c. (quaranta giorni dalla notifica del decreto ingiuntivo), la stessa non è idonea a produrre gli effetti di un ricorso (art. 447 bis c.p.c.), che sia tempestivamente depositato in cancelleria, con il conseguente passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo opposto. Si era (e si è) infatti costantemente ripetuto che: Cass. n°6021.1983 "l'opposizione al decreto ingiuntivo emesso dal pretore in funzione di giudice del lavoro per crediti relativi a rapporti indicati dagli artt. 409 e 442 (nuovo testo) c.p.c. è regolata dalle norme sul nuovo rito del lavoro di cui agli artt. 413 e seguenti c.p.c. e, pertanto, deve essere proposta nella Forma del ricorso, che va depositato in cancelleria e successivamente notificato - 26 unitamente al decreto del giudice - alla controparte. Consegue che, ove detta opposizione sia stata proposta con citazione anziché con ricorso, la citazione, in tanto può convertirsi in ricorso, ai sensi dell'art. 159 c.p.c., e produrre gli effetti propri del ricorso stesso, in quanto sia stata depositata in cancelleria nel termine di cui all'art. 641 dello stesso codice" (conf. Cass. n°8.1998, che aggiunge: "ai fini della tempestività dell'opposizione a decreto ingiuntivo, se la controversia deve esser trattata con il rito del lavoro - nella specie il decreto monitorio ingiungeva il pagamento dell' indennità di avviamento commerciale (art. 34 legge 27 luglio 1978 n. 392), nel regime anteriore alla legge 26 novembre 1990 n. 353 - è irrilevante la mancata indicazione del rito applicabile, ovvero della necessità di depositare l'opposizione in cancelleria (art. 415 c.p.c.) nel termine perentorio di cui all'art. 641, primo comma, c.p.c., non vigendo il principio dell'affidamento in materia processuale"; Cass. Sez. Unite n°2714.1991: "con riguardo al decreto ingiuntivo reso dal pretore per crediti inerenti ai rapporti di cui agli artt. 409 e 442 c.p.c., l'opposizione va proposta con ricorso, da depositarsi in cancelleria nel termine perentorio fissato dall'art. 641 c.p.c.. Pertanto, ove tale opposizione sia proposta con citazione, il relativo atto è idoneo alla tempestiva instaurazione del giudizio solo se depositato nel rispetto dell'indicato termine, non essendo sufficiente la mera notificazione nel termine stesso"). Il principio in questione aveva certamente un senso nel previgente ordinamento processuale, antecedente alla istituzione del giudice unico del tribunale (D. Lgs.vo n°51/1998), in cui la funzione di giudice del lavoro era affidata al pretore, ossia ad un ufficio giudiziario munito di una competenza diversa (v. l'abrogato art. 8 del c.p.c.) da quella assegnata al tribunale, talché l'emissione del decreto ingiuntivo da parte del pretore, in funzione di giudice del lavoro era idonea e sufficiente a suggerire il rito da seguire per la sua tempestiva opposizione. Per contro, la sopravvenuta soppressione dell'ufficio del pretore e l'istituzione del giudice unico del tribunale, cui è conseguito il superamento anche delle questioni di competenza in senso stretto, precedentemente legate alla distinzione dei due uffici giudicanti (Cass. n°8905.2015: "è inammissibile il regolamento di competenza proposto avverso l'ordinanza con cui il tribunale, adito in funzione di giudice del lavoro, abbia dichiarato la propria incompetenza per materia in favore di una sezione ordinaria del medesimo ufficio giudiziario, atteso che, a seguito dell'istituzione del giudice unico di primo grado, la ripartizione di funzioni fra la suddette sezioni non implica l'insorgenza di 27 una questione di competenza ma, esclusivamente, di rito, riguardando la distribuzione degli affari all'interno dello stesso ufficio"), infine la codificazione, per le controversie ex D. Lgs.vo n°150/2011, del principio di conservazione degli effetti dell'atto, secondo il rito precedentemente seguito, suggeriscono la possibilità di diverse conclusioni. Difatti, quantomeno per le materie diverse dalle controversie individuali di lavoro (art. 409 e ss. c.p.c.), per la cui trattazione sia però prescritto di adottare il rito-lavoro (artt. 447 bis c.p.c.; capo II del D. Lgs.vo n°150/2011), potrebbe ragionevolmente sostenersi che il decreto ingiuntivo, in ogni caso emesso ad un giudice del tribunale, ai sensi dell'art. 633 c.p.c., non denunci di per sé la scelta di un rito particolare, diverso da quello ordinario, tale per cui l'ingiunto sia messo in grado di comprendere di dovere adottare la forma del ricorso, anziché quella - ordinaria della citazione (esplicitamente nominata dall'art. 645 c.p.c.). E in effetti, il procedimento speciale di ingiunzione, di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c., è sempre eguale a sé stesso, quale che sia la materia di cui si controverte; dunque spetta alla parte ingiunta di individuare e scegliere un rito, piuttosto che altro, per svolgere la sua opposizione. Pertanto, negando operatività al principio di conversione delle nullità processuali, al caso di opposizione proposta con citazione tempestivamente notificata agli effetti dell'art. 641 c.p.c., ma intempestivamente depositata in cancelleria (iscritta al ruolo), si arriverebbe a porre, a carico della parte, le conseguenze della errata scelta del rito, contravvenendo non solo allo scopo principale del processo, ma anche al principio di irretroattività dell'ordinanza di mutamento del rito (che potrebbe anche non essere pronunciata). In altri termini, assumendo un'interpretazione restrittiva dell'art. 4 (comma 5°) del D. Lgs.vo n°150/2011, che sicuramente esclude che l'erronea scelta del rito possa ricadere a carico della parte, si giungerebbe a conclusioni incoerenti con i princìpi di cui agli artt. 3, 24, 111 della costituzione, venendosi a discriminare tra fattispecie sostanzialmente eguali, con pregiudizio del diritto di difesa e del principio del giusto processo (che valorizza lo scopo primario del processo, quale quello di giungere ad una decisione di merito). In proposito, non risultano precedenti di legittimità, giacché tutte le pronunce, anche recenti, della Suprema Corte sul tema sono ovviamente riferite a controversie introdotte in data antecedente l'entrata in vigore del decreto sulla 28 semplificazione dei riti (v. da ultimo Cass. n°797.2013); quale spunto di riflessione si acclude, alla presente relazione, una sentenza del tribunale di Roma, sulla questione cui si è qui accennato. In materia di ordinanza di mutamento del rito, la Suprema Corte ha, inoltre, avuto modo di affermare che: "l'ordinanza di mutamento del rito di cui all'art. 426 c.p.c. deve essere comunicata, in osservanza di un principio generale dell'ordinamento, alla parte contumace, dovendosi ritenere, in mancanza, la nullità della sentenza, senza che, tuttavia, debba essere disposta la rimessione al giudice di primo grado, trattandosi di fattispecie non assimilabile a quelle, tassative, previste dall'art. 354 c.p.c., tanto più che il principio del doppio grado di giurisdizione non ha rilevanza costituzionale" (così Cass. n°24341.2015; conformi tra le tante Cass. n°77.2010; Cass. n°26611.2008, che puntualizza: "tuttavia la mancata comunicazione può essere eccepita solo dal soggetto interessato - ossia il contumace (che si costituisca successivamente) - e non dalla parte già costituita, che non vi ha interesse se non è compromesso il suo diritto di difesa"). In breve, in virtù del principio di diritto vivente, sopra trascritto, l'elenco degli atti da notificare al contumace, all'art. 292 c.p.c., si deve intendere completato dell'ordinanza di mutamento del rito. Sempre sul tema, vi è da chiedersi cosa accada nel caso in cui tutto il giudizio abbia avuto corso, seguendo regole di un rito diverso da quello prescritto, dalla legge, per la specifica materia in controversia (perché né le parti, né soprattutto il giudice, si siano accorti di tale irregolarità). La questione è stata risolta, in giurisprudenza: (a) negando che l'erronea scelta del rito (non rilevata dal giudice) produca, di per sé sola, un vizio di nullità della sentenza (o decisione) pronunciata all'esito, laddove non sia stato pregiudicato il contraddittorio e l'esercizio del diritto di difesa delle parti, né alcuna specifica lesione sia stata recata alle prerogative processuali dell'interessato, e sia stata lamentata mediante motivo d'impugnazione; (b) secondo il principio dell'apparenza, che vuole che, tra diversi mezzi d'impugnazione, debba essere scelto quello prescritto per la decisione in concreto (benché irregolarmente) adottata dal giudice di prime cure, e sulla scorta della 29 qualificazione giuridica della controversia ivi accolta, a prescindere dalla sua correttezza o erroneità. Quanto al primo aspetto, si vedano: Cass. n°5582.1994: "un gravame che abbia per oggetto l'illegittimità dell'adozione di un determinato rito è ammissibile solo ove si deduca uno specifico pregiudizio processuale che sia derivato dal rito adottato, con riguardo, in particolare, alla determinazione del giudice competente, al regime delle prove ed alle facoltà di cui le parti dispongono per l'esercizio del loro diritto di difesa"; Cass. n°6386.1987: "l'erronea adozione del rito ordinario in luogo di quello speciale del lavoro, e viceversa, può determinare la nullità degli Atti del processo soltanto se la scelta del rito abbia inciso sulla Determinazione della Competenza del giudice o sul regime delle prove o sulle facoltà in genere di cui le parti dispongono per l'Esercizio del loro diritto di difesa ed, in relazione a ciò, i pregiudizievoli effetti di tali incidenze si siano tradotti in specifiche censure" (conf. Cass. n°13751.2003: "l'introduzione di un processo con forme diverse da quelle sue proprie non comporta, di per sé, il rigetto della domanda per motivi di mera procedura, ma solo la possibilità che, a seguito di eccezione di parte od anche di rilievo officioso, lo stesso processo prosegua, previo mutamento di rito, secondo diverse regole processuali, e si concluda con sentenza nel merito ovvero con sentenza in rito, ove l'errore abbia inciso sul rispetto di termini perentori. Peraltro, l'omesso cambiamento del rito, per quanto obbligatorio, non spiega di per sé effetti invalidanti sulla sentenza, che non è ne' inesistente ne' nulla e può essere impugnata, deducendo l'errore consistito nell'utilizzazione di un diverso rito processuale come motivo di impugnazione, soltanto ove si indichi lo specifico pregiudizio che ne sia derivato, per avere inciso sulla determinazione della competenza ovvero sul contraddittorio o sui diritti di difesa"; da ultimo v. Cass. n°10341.2005, Cass. n°1448.2015: "l'omesso mutamento del rito (da quello speciale del lavoro a quello ordinario e viceversa) non determina "ispso iure" l'inesistenza o la nullità della sentenza ma assume rilevanza invalidante soltanto se la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte"). 30 Quanto al secondo, si vedano: Cass. n°9694.2010: "il processo erroneamente introdotto con il rito ordinario è regolato dal rito speciale non dal momento in cui ne viene statuita la natura, bensì dal momento in cui il giudizio ha inizio in applicazione del relativo rito, in quanto in precedenza rileva il rito adottato dal giudice che, a prescindere dalla sua esattezza, costituisce per la parte il criterio di riferimento, anche ai fini del computo dei termini previsti per le attività processuali. Ne consegue che, ove una controversia in materia di lavoro sia erroneamente trattata fino alla conclusione con il rito ordinario, trova applicazione il principio dell'apparenza o dell'affidamento, per il quale la scelta fra i mezzi, i termini ed il regime di impugnazione astrattamente esperibili va compiuta in base al tipo di procedimento effettivamente svoltosi, a prescindere dalla congruenza delle relative forme rispetto alla materia controversa"; Cass. n°12872.2016: "l'identificazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va operata con riferimento esclusivo alla qualificazione giuridica dell'azione effettuata dal giudice nello stesso provvedimento, a prescindere dalla sua esattezza o dalle indicazioni della parte, fermo il potere del giudice "ad quem" di operare una autonoma qualificazione non solo ai fini del merito, ma anche dell'ammissibilità stessa dell'impugnazione"; Cass. n°2948.2015: "l'identificazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va operata, a tutela dell'affidamento della parte e quindi in ossequio al principio dell'apparenza, con riferimento esclusivo a quanto previsto dalla legge per le decisioni emesse secondo il rito in concreto adottato in relazione alla qualificazione dell'azione (giusta od errata che sia) effettuata dal giudice"; Cass. n°15897.2014: "ove una controversia sia stata erroneamente trattata in primo grado con il rito ordinario, anziché con quello speciale del lavoro, le forme del rito ordinario debbono essere seguite anche per la proposizione dell'appello, che, dunque, va proposto con citazione ad udienza fissa. Se, invece, la controversia sia stata trattata con il rito del lavoro anziché con quello ordinario, la proposizione dell'appello segue le forme della cognizione speciale. Ciò, in ossequio al principio della ultrattività del rito, che - quale specificazione del più generale principio per cui l'individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio dell'apparenza, cioè con riguardo 31 esclusivo alla qualificazione, anche implicita, dell'azione e del provvedimento compiuta dal giudice - trova specifico fondamento nel fatto che il mutamento del rito con cui il processo è erroneamente iniziato compete esclusivamente al giudice". Tali le questioni più discusse in relazione al tema della scelta del rito, ed al tema del mutamento del rito, va solo aggiunto - per completezza - che la circostanza che il D. Lgs.vo n°150/2011 preveda solo un tipo di ordinanza di mutamento del rito, ossia da ordinario a lavorativo, e non viceversa, ben si spiega a lume del principio di economicità (e ragionevole durata) del processo, che informa - anche testualmente - tale corpo di norme. Difatti, il rito del lavoro è ontologicamente più "celere", rispetto al rito ordinario: nel primo, tutte le preclusioni e decadenze maturano contestualmente, con la chiusura della fase introduttiva, e con il deposito (tempestivo o intempestivo che sia) degli scritti introduttivi; nel rito ordinario, come già detto, le preclusioni assertive e probatorie maturano dopo la chiusura della fase introduttiva, talché una volta che un processo si sia svolto, fino all'udienza di discussione (art. 420 c.p.c.), nelle forme del rito-lavoro, non ha senso alcuno (ed anzi produce solo inutili complicazioni processuali) disporne il mutamento in rito ordinario, ed assegnare così i tre termini consecutivi di cui all'art. 183 comma 6° c.p.c., quando oltretutto già maturate tutte le preclusioni e decadenze relative al rito precedentemente adottato. D'altronde, nel silenzio del D. Lgs.vo n°150/2011, che nulla di specifico dice in merito alle controversie introdotte ai sensi degli artt. 702 bis e ss. c.p.c. (rito sommario non cautelare), è pacifico che, laddove occorra, possa disporsi il mutamento in rito ordinario, ai sensi dell'art. 702 ter c.p.c., ed anche in rito-lavoro, secondo l'opinione già accolta nella prevalente giurisprudenza (di merito) antecedentemente al decreto sulla semplificazione, e come ora stabilito nell'art. 4 del decreto. 5. fase istruttoria. Poteri istruttori del giudice ed ambito applicativo dell'art. 421 c.p.c.. Mentre la raccolta della prova, nel rito ordinario di cognizione, è governata dal principio dispositivo (art. 115 c.p.c., art. 2697 c.c.), che rimette alle parti l'onere di attivarsi per introdurre, nel processo, i mezzi istruttori da utilizzare ai fini della decisione (salvo pochissime eccezioni di mezzi istruttori disponibili al giudicante, 32 tra l'altro nella ricorrenza di condizioni individuate dalla legge), il rito-lavoro, così come descritto - per le controversie non lavorative - dall'art. 447 bis c.p.c., e così come descritto - per le controversie al Capo II del D. Lgs.vo n°150/2011 - dall'art. 2 di tale corpo di norme, parrebbe consentire un uso più ampio di poteri istruttori ufficiosi, da parte del tribunale. In particolare: - l'art. 447 bis c.p.c., comma 3° recita: "il giudice può disporre d'ufficio, in qualsiasi momento, l'ispezione della cosa, e l'ammissione di ogni mezzo di prova, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni, sia scritte che orali, alle associazioni di categoria indicate dalle parti", e così riproduce quasi pedissequamente il tenore dell'art. 421, comma 2° c.p.c., secondo cui "può altresì disporre d'ufficio, in qualsiasi momento, l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti" - l'art. 2 del D. Lgs.vo n°150/2011, dopo avere richiamato (al comma 2°) l'art. "421, terzo comma" del c.p.c., conclude, all'ultimo comma, che "salvo che sia diversamente disposto, i poteri istruttori previsti dall'articolo 421, secondo comma, del codice di procedura civile, non vengono esercitati al di fuori dei limiti previsti dal codice civile". In breve, nel rito-lavoro, applicato ai contenziosi non lavoristici, è consentito al giudice l'esercizio di poteri istruttori ufficiosi, ma entro i limiti previsti dal codice civile. Qual è il reale contenuto precettivo di tale ellittica disposizione normativa? Quali sono, cioè, le condizioni minime da rispettare, ai fini del legittimo esercizio dei poteri istruttori ufficiosi, da parte del tribunale? Innanzitutto, va escluso che l'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio, da parte del tribunale, possa ontologicamente supplire alla diserzione dell'onere della prova, da parte dei litiganti interessati (art. 2697 c.c.). In altri termini, anche per le controversie individuali di lavoro (in cui, oltretutto, l'art. 421 c.p.c. si applica nella sua interezza, consentendo di derogare anche "ai limiti stabiliti dal codice civile"), l'esercizio dei poteri istruttori ufficiosi, da parte del giudicante (funzionale all'accertamento della verità materiale), presuppone quantomeno una semiplena probatio, ovverosia la presenza di un quadro istruttorio che da un lato sia stato già offerto ritualmente, dai litiganti, alla 33 valutazione del tribunale, dall'altro si reputi per alcuni aspetti manchevole e lacunoso: Cass. n°16542.2010: ".. in presenza di un quadro probatorio che non consenta di ritenere sicuramente insussistente un fatto costitutivo od impeditivo, l'esercizio di tali poteri istruttori è doveroso ove l'incertezza possa essere rimossa con opportune iniziative istruttorie sollecitate dal giudice"; Cass. n°22305.2007: "è carattere tipico del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti"; Cass. n°29006.2008: "nel rito del lavoro, il giudice, ove si verta in situazione di "semiplena probatio", ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti, dovendo, quindi, motivare sulla mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi là dove sollecitato dalla parte ad integrare la lacuna istruttoria". Per contro, è negato che il giudice possa sostituirsi integralmente alle parti, nell'assolvimento degli oneri di allegazione e prova sulle stesse incombenti: Cass. n°11847.2009: "nel rito del lavoro, i poteri istruttori officiosi di cui all'art. 421 c.p.c. non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti (nella specie, mancata indicazione nel ricorso dei capitoli di prova testimoniale), così da porre il giudice in funzione sostitutiva degli oneri delle parti medesime e da tradurre i poteri officiosi anzidetti in poteri d'indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale" (conf. Cass. n°17102.2009; Cass. n°15899.2011); Cass. n°2379.2007: "nel rito del lavoro e, in particolare, nella materia della previdenza e assistenza, caratterizzata dall'esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorché le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, occorre che il giudice, 34 anche in grado di appello, ex art. 437 c.p.c. ove reputi insufficienti le prove già acquisite, eserciti il potere - dovere di provvedere di ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale probatorio e idonei a superare l'incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati puntualmente allegati nell'atto introduttivo; né all'ammissione d'ufficio delle prove è di ostacolo il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti interessate, atteso che il potere d'ufficio è diretto a vincere i dubbi residuati dalle risultanze istruttorie, intese come complessivo materiale probatorio (anche documentale) correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado, con la conseguenza che, in tal caso, non si pone, propriamente, alcuna questione di preclusione o decadenza processuale a carico della parte, essendo la prova "nuova", disposta d'ufficio, solo l'approfondimento, ritenuto indispensabile, di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo"; Cass. n°18924.2012: "la "prova nuova" disposta d'ufficio è funzionale al solo indispensabile approfondimento degli elementi già obbiettivamente presenti nel processo, sicché non si pone una questione di preclusione o decadenza processale a carico della parte"). Questo, nelle controversie di cui all'art. 409 c.p.c.. Per contro, nel rito-lavoro, applicato alle controversie non lavorative (art. 447 bis c.p.c., Capo II D. Lgs.vo n°150/2011), oltre ai princìpi cardinali sopra indicati, debbono essere comunque rispettati anche "i limiti stabiliti dal codice civile", tali per intesi i "limiti fissati da detto codice alla prova testimoniale, in via generale, negli articoli 2721, 2722 e 2723 cod. civ.", nonché i limiti in materia di presunzioni, ex art. 2728 e 2729 c.c. (Cass. n°17614.2009; conf. Cass. n°7465.2002; Cass. n°9228.2009; Cass. n°535.1986: "le controversie aventi ad oggetto i rapporti indicati nello art. 409 n. 2 c.p.c. (mezzadria, Colonia parziaria, compartecipazione agraria, affitto a coltivatore diretto ed altri contratti agrari), pur rimanendo di Competenza della Sezione specializzata agraria, sono soggette al nuovo rito del lavoro, con la conseguente applicabilità dell'art. 421 c.p.c. il quale, laddove consente al giudice di ammettere mezzi di prova fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, si riferisce non già ai limiti previsti dall'ordinamento per determinati negozi, sia ad probationem che ad substantiam, bensì ai limiti posti da detto codice in via generale alla prova testimoniale e quindi anche allo specifico limite previsto per la prova testimoniale (e correlativamente per quella presuntiva) dall'art. 1417 c.c. in ordine ai contratti simulati"; Cass. n°6828.1995: "il principio per cui, nelle controversie assoggettate al rito 35 del lavoro, ai sensi dell'art. 421 c.p.c. sono ammesse le prove anche al di fuori dei limiti stabiliti dagli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c. nonché, in tema di simulazione, dall'art. 1417 c.c. si applica anche alle presunzioni, le quali, a norma dell'art. 2729 cod. civ., incontrano gli stessi limiti previsti per la prova per testi"). In breve, l'esercizio dei poteri istruttori ufficiosi, da parte del tribunale, è circoscritto ai casi, per la verità non frequenti nella prassi, in cui la platea degli elementi istruttori, disponibili alla valutazione del giudicante, presenti degli elementi di incompletezza, di dubbio o di discordanza, che non siano dovuti alla diserzione degli oneri di prova spettanti alle parti, e che siano ovviabili con la pura e semplice assunzione di un mezzo di prova ritenuto mancante, e indispensabile per orientare la pronuncia secondo il principio di ricerca della verità materiale, altrimenti frustrato (su tale aspetto v. Cass. n°8568.2016: "il mezzo istruttorio in sede di gravame di merito è indispensabile quando appaia idoneo a sovvertire la decisione di primo grado, nel senso di mutare uno o più giudizi di fatto sui quali si basa la pronuncia impugnata, fornendo un contributo decisivo all'accertamento della verità materiale, in coerenza con i principi del giusto processo"). 6. fase decisoria. I principi di concentrazione, oralità ed immediatezza che connotano il ritolavoro, rispetto al rito ordinario, fanno sì che la controversia ben possa essere definita, con sentenza, anche alla prima udienza (di discussione), come ad ogni successiva udienza, perché nello schema delineato dagli artt. 420, 429 c.p.c., ogni udienza è uguale all'altra, essendo previsto che "il giudice, esaurita la discussione ed udite le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio..". In concreto, il giudice ben può ammettere i mezzi di prova già dedotti dalle parti, nei rispettivi scritti introduttivi (art. 420 comma 5° c.p.c.), ovvero quelli che le parti non abbiano potuto precedentemente proporre (a seguire, art. 420 comma 5° c.p.c.), procedere, in ogni caso (e ove possibile), alla loro "immediata assunzione" (art. 420 comma 5° c.p.c.), invitare le parti alla discussione (c.d. conclusiva), ed all'esito pronunciare sentenza, il tutto nel corso della stessa udienza, non essendo (inoltre) tenuto all'assegnazione di termini per note conclusive (art. 429 comma 2° c.p.c.: "se il giudice lo ritiene necessario, su richiesta delle parti, concede alle stesse un termine non superiore a dieci giorni per il deposito di memorie difensive.."). Questo, difformemente che nel rito ordinario, in cui la fase istruttoria è distinta, dalla fase decisionale, dall'incombente della precisazione delle conclusioni 36 (art. 189 c.p.c.), che debbono lasciare traccia nel verbale di udienza, anche quando (a) la causa sia ritenuta immediatamente definibile allo stato degli atti, in prima udienza (art. 80 bis disp. att. c.p.c.); (b) si adotti il modello procedimentale della sentenza contestuale (a verbale) ex art. 281 sexies c.p.c., derivando - in caso di omissione di tale incombente - la nullità (denunciabile con motivo di gravame) del provvedimento reso all'esito. In tal senso giova indicare, quanto al rito-lavoro: Cass. n°13708.2007: "nel rito del lavoro ogni udienza, a cominciare dalla prima, è destinata alla discussione orale e, quindi, alla pronunzia della sentenza ed alla lettura del dispositivo sulle conclusioni proposte in ricorso, per l'attore, e nella memoria di costituzione per il convenuto, di modo che il giudice non è tenuto ad invitare le parti alla precisazione delle conclusioni prima delle pronunzia delle sentenze. Ne consegue, che la disposizione dell'art. 281 sexies del c.p.c., che prevede la possibilità per il giudice di esporre a verbale, subito dopo la lettura del dispositivo di sentenza, le ragioni di fatto e di diritto poste a base della decisione, è applicabile al rito del lavoro a condizione del suo adattamento al rito speciale, nel quale non è prevista l'udienza di precisazione delle conclusioni"; Cass. n°9235.2006: "nel rito del lavoro - essendo vietate le udienze di mero rinvio e non essendo prevista un'udienza di precisazione delle conclusioni ogni udienza, a cominciare dalla prima, è destinata, oltre che all'ammissione ed assunzione di eventuali prove, alla discussione orale e, quindi, alla pronuncia della sentenza ed alla lettura del dispositivo - sulle conclusioni di cui al ricorso, per quanto riguarda l'attore, e su quelle di cui alla memoria difensiva, per quanto concerne il convenuto, salvo modifiche autorizzate dal giudice per gravi motivi - con la conseguenza che il giudice del lavoro non è tenuto ad invitare le parti alla precisazione delle conclusioni - prima della pronuncia della sentenza - al termine dell'udienza, nella quale le stesse parti hanno facoltà di procedere alla discussione orale - rimessa, integralmente, alla loro discrezionalità - senza che ne risulti alcuna violazione del diritto di difesa" (conf. Cass. n°5026.2008; Cass. n°4717.2014); Quanto al rito ordinario: Cass. n°13148.2003: "l'ordinanza ex art. 186 "quater" c.p.c. può essere pronunciata solo dopo che l'istruzione è chiusa; ciò avviene, nel procedimento davanti al tribunale, quando il giudice istruttore invita le parti a precisare 37 davanti a lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio (ex art. 189, primo comma, cod. proc. civ.) o allo stesso istruttore in funzione di giudice unico (art. 281 "quinquies" cod. proc. civ.) e, poiché la norma non fa riferimento ad un formale provvedimento di chiusura dell'attività istruttoria, è da ritenere sufficiente che il giudice istruttore abbia ritenuto chiusa la fase istruttoria, rinviando le parti per la precisazione delle conclusioni"; Cass. n°10593.2006: "il giudice che intende pronunciarsi separatamente sulla giurisdizione o sulla competenza - od anche sulla litispendenza -, ai sensi dell'art. 187 n. 3 c.p.c., è tenuto ad invitare le parti a precisare le conclusioni anche di merito, sicché, in mancanza della precisazione delle conclusioni, all'ordinanza emessa non può essere attribuita alcuna efficacia preclusiva ai fini della statuizione sulla litispendenza"; Sezioni Unite n°11657.2008: "nelle cause attribuite alla competenza del tribunale in composizione monocratica, il giudice unico, che assomma in sé le funzioni di istruzione e di decisione, quando ritenga di emettere una decisione definitiva sulla competenza, è tenuto - ai sensi degli artt. 187 e 281-bis c.p.c. ad invitare le parti a precisare le conclusioni, in tal modo scandendo la separazione fra la fase istruttoria e quella di decisione, non potendosi ritenere che una qualunque decisione assunta in tema di competenza implichi per il giudice l'esaurimento della "potestas iudicandi" sul punto" (conf. Cass. n°6825.2010). Tali le principali caratteristiche connotanti il rito-lavoro previsto per le materie non lavoristiche, rispetto al rito, ordinario, va infine sinteticamente delineato l'ambito oggettivo di applicazione di tale modello procedimentale. Estensione del rito ex art. 447 bis c.p.c. ed ex D. Lgs.vo n°150/2011 Settori di contenzioso ed ambito di applicazione Con il decreto sulla semplificazione dei riti si è inteso da un lato ridurre a tre modelli fondamentali (rito ordinario di cognizione; rito sommario di cognizione; rito-lavoro) gli schemi procedimentali utilizzabili (tendenzialmente) per tutte le controversie proponibili innanzi all'autorità giudiziaria, dall'altro esplicitare la disciplina processuale applicabile alle liti che, in assenza di norme esplicite, avevano dato luogo a contrasti di giurisprudenza e dubbi interpretativi. 1.1 Materie indicate dall'art. 447 bis c.p.c.. Trattasi delle controversie "in materia 38 di locazione e di comodato di immobili urbani" nonché "di affitto di aziende". Sul punto, va solo sottolineato che la giurisprudenza assegna, alla locuzione "in materia di..", un ambito di significazione piuttosto lato: s'intende per "controversia in materia di" qualsiasi lite che attenga, in qualsiasi modo, ad uno dei contratti o rapporti elencati nella disposizione normativa, anche quando sia controversa la stessa esistenza dei rapporti in questione: Cass. n°8114.2013: "la nozione di controversie in materia di locazione di immobili urbani, soggette al rito speciale di cui all'art. 447 bis c.p.c. ricomprende tutte le cause comunque riferibili ad un contratto di locazione, che attengano, cioè, non solo alla sua esistenza, validità ed efficacia, ma altresì a tutte le altre possibili sue vicende, ovvero, in particolare, a quelle che involgano l'adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto in base alla disciplina codicistica o a quella di settore della legislazione speciale"; Cass. n°581.2003: "tra le controversie "in materia di locazione", attribuite dagli artt. 21 e 447 bis c.p.c. alla competenza territoriale inderogabile del giudice in cui si trova l'immobile, devono ritenersi comprese, data l'ampiezza della nozione di "materia", tutte le controversie comunque collegate alla materia della locazione, e quindi anche quelle nelle quali si controverte in ordine ad un rapporto ancora da costituire, ma di cui si invoca la costituzione ai sensi dell'art. 2932 cod. civ. sulla base di un contratto preliminare". 1.2 Materie indicate al Capo II del D. Lgs.vo n°150/2011. Trattasi delle controversie: - in materia di opposizione ad ordinanza ingiunzione recante sanzioni amministrative in genere (art. 22 L. n°689/1981), rimesse alla competenza del tribunale quando si tratti di una delle materie elencate nell'articolo (tutela, igiene del lavoro; prevenzione infortuni; previdenza e assistenza obbligatorie; tutela dell'ambiente dall'inquinamento; tutela della flora, fauna, aree protette; igiene alimenti e bevande; valutaria; antiriciclaggio), ovvero quando la contravvenzione amministrativa sanzionata abbia una pena edittale eccedente il limite indicato dalla norma, ovvero la sanzione in concreto irrogata superi il medesimo limite, quando infine la sanzione pecuniaria sia accompagnata ad una sanzione non pecuniaria; - in materia di opposizione a verbale di accertamento di violazione del C.d.S. (art. 204 bis del D. Lgs.vo n°285/1992), che appartengono al tribunale quale giudice 39 d'appello sul giudice di pace; - in materia di opposizione a sanzione amministrativa in materia di stupefacenti (art. 75 d.p.r. n°309/1990), di competenza del giudice di pace/tribunale dei minorenni; - in materia di opposizione ai provvedimenti di recupero di aiuti di Stato (art. 1 del d.l. n°59/2008: trattasi dei "giudizi civili concernenti gli atti e le procedure volti al recupero di aiuti di Stato in esecuzione di una decisione di recupero adottata dalla Commissione europea ai sensi dell' articolo 14 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio del 22 marzo 1999"), di competenza del tribunale; - controversie in materia di codice privacy (art. 152 del d. lgs.vo n°196/2003), di competenza del tribunale; - controversie agrarie (ossia in materia di contratti agrari o conseguenti alla conversione di contratti associativi in affitto), di competenza delle sezioni specializzate agrarie del tribunale; - controversie in materia di provvedimenti di rigetto delle istanze di cancellazione dal registro dei protesti, o di annotazione del pagamento sul registro dei protesti (art. 4 della L. n°77/1955), di competenza del giudice di pace; - controversie in materia di provvedimenti di diniego di riabilitazione del debitore protestato (art. 17 comma 3° e comma 4° L. n°108/1996), di competenza della corte d'appello. Roma - Scandicci, novembre 2016 Alessandra Imposimato