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RASSEGNA STAMPA martedì 3 novembre 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA DONNE E DIRITTI BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SPETTACOLO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Avvenire.it del 02/11/15 Campagna anti azzardo, Nibali si mette «in gioco» Il ciclista italiano Vincenzo Nibali sostiene Mettiamoci in gioco, la campagna nazionale contro i rischi del gioco d’azzardo. Nibali, che è tra i pochi corridori ad aver vinto Giro d’Italia, Tour de France e Vuelta di Spagna, ha aderito con un video in cui spiega le sue ragioni: “Giocare non è spingere il tasto di una slot, ma giocare a pallone, divertirsi con gli amici, stare in compagnia. Ci sono cose più importanti del gioco d’azzardo per cui spendere i nostri soldi.” “Siamo orgogliosi che un campione del calibro di Nibali aderisca alla nostra Campagna”, dichiara don Armando Zappolini, portavoce di Mettiamoci in gioco. “Il ciclista siciliano rappresenta al meglio quell’idea di gioco e di sport che consideriamo positiva per ragazzi e adulti. Ci auguriamo che altri esponenti del mondo sportivo vogliano affiancarci in questa battaglia per una seria regolamentazione del gioco d’azzardo nel nostro paese.” La Campagna Mettiamoci in gioco è promossa da Acli, Ada, Adusbef, Anci, Anteas, Arci, Associazione Orthos, Auser, Aupi, Avviso Pubblico, Azione Cattolica Italiana, Cgil, Cisl, Cnca, Conagga, Ctg, Federazione Scs-Cnos/Salesiani per il sociale, Federconsumatori, FeDerSerD, Fict, Fitel, Fp Cgil, Gruppo Abele, InterCear, Ital Uil, Lega Consumatori, Libera, Scuola delle Buone Pratiche/Legautonomie-Terre di mezzo, Shaker-pensieri senza dimora, Uil, Uil Pensionati, Uisp. Link all’articolo e al video http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/vincenzo-nibali-sostienecampagna-anti-azzardo-mettiamoci-in-gioco.aspx Da Redattore Sociale del 02/11/15 Vincenzo Nibali testimonial della Campagna contro l'azzardo Tra i pochi corridori ad aver vinto Giro d'Italia, Tour de France e Vuelta di Spagna, il ciclista italiano ha aderito alla campagna contro i rischi. E in un video spiega: "Giocare non è spingere il tasto di una slot, ma giocare a pallone, divertirsi con gli amici, stare in compagnia" Roma - Il ciclista italiano Vincenzo Nibali sostiene "Mettiamoci in gioco", la campagna nazionale contro i rischi del gioco d'azzardo. Nibali, tra i pochi corridori ad aver vinto Giro d'Italia, Tour de France e Vuelta di Spagna, ha aderito con un video in cui spiega le sue ragioni: "Giocare non è spingere il tasto di una slot, ma giocare a pallone, divertirsi con gli amici, stare in compagnia. Ci sono cose più importanti del gioco d''azzardo per cui spendere i nostri soldi". "Siamo orgogliosi che un campione del calibro di Nibali aderisca alla nostra Campagna", dichiara don Armando Zappolini, portavoce di Mettiamoci in gioco. "Il ciclista siciliano rappresenta al meglio quell''idea di gioco e di sport che consideriamo positiva per ragazzi e adulti. Ci auguriamo che altri esponenti del mondo sportivo vogliano 2 affiancarci in questa battaglia per una seria regolamentazione del gioco d'azzardo nel nostro paese". La Campagna Mettiamoci in gioco è promossa da Acli, Ada, Adusbef, Anci, Anteas, Arci, Associazione Orthos, Auser, Aupi, Avviso Pubblico, Azione Cattolica Italiana, Cgil, Cisl, Cnca, Conagga, Ctg, Federazione Scs-Cnos/Salesiani per il sociale, Federconsumatori, FeDerSerD, Fict, Fitel, Fp Cgil, Gruppo Abele, InterCear, Ital Uil, Lega Consumatori, Libera, Scuola delle Buone Pratiche/Legautonomie-Terre di mezzo, Shakerpensieri senza dimora, Uil, Uil Pensionati, Uisp. (DIRE) Da Huffington Post del 02/11/15 In Iraq, correndo per la pace di Giacomo Cuscunà e Rita Venturoli - Un ponte per... "Quel giorno, non so proprio perché, decisi di andare a correre un po'...". E come Forrest Gump nell'omonimo film, i cittadini di Erbil hanno "deciso di correre un po'", fissando la data del ritrovo per venerdì 30 ottobre. La Maratona Internazionale di Erbil, organizzata per la prima volta nel 2011 da un gruppo di associazioni irachene con il supporto delle autorità locali, cancellata nel 2014 a causa della guerra alla porte della capitale del Kurdistan, quest'anno ha portato sulle strade cittadine più di 5mila persone, provenienti da oltre 50 paesi. Tutte insieme, unite dalla voglia di correre, "per la pace e la convivenza", come recita lo slogan ufficiale della manifestazione. Nell'uggiosa mattina del 30 ottobre i 5mila runner si sono radunati a pochi metri dall'entrata del Parlamento curdo, sotto l'occhio di 480 tra poliziotti e agenti delle forze dell'ordine: le tensioni che affliggono non solo l'Iraq, ma anche la Siria e l'intera regione, non possono essere ignorate nemmeno in una giornata di festa come questa. "Molte persone a Erbil hanno paura a causa di Daesh, quindi noi li teniamo al sicuro" ha dichiarato a Rudaw News Abdullah, 19 anni, volontario del servizio d'ordine della gara. Aggiungendo poi che la presenza dei miliziani in alcune aree del paese, anche attorno alla stessa Erbil, rende questa manifestazione ancora più importante. Una maratona per la pace, in un paese dove ogni giorno il conflitto miete vittime innocenti. Sotto lo striscione della partenza il vociare eccitato dei partecipanti si mischia alla musica degli altoparlanti e agli annunci degli organizzatori. Le tre corse partiranno in contemporanea. Famiglie, bambini, ragazzi e runner professionisti si accalcano e salutano entusiasti il drone per le riprese televisive che sorvola l'area. Qualcuno lo indica e ridendo esclama: "Daesh", esorcizzando il timore di attentati terroristici in un evento del genere. Ma lungo il percorso le persone guardano incuriosite il serpentone di corridori, salutando e scattando fotografie. Come si legge dal sito ufficiale della Maratona, uno degli scopi di questa manifestazione sportiva è "informare il mondo dell'esistenza di una comunità forte di persone che amano la pace e la nonviolenza e che cercano giustizia per il loro paese". Al fianco di questo movimento anche noi di Un ponte per..., presenti alla Maratona con alcuni corridori e uno stand informativo. Con il sostegno di un gruppo di giovani volontari coinvolti nel nostro progetto "Youth spring across ethnicities", finanziato dall'Unione Europea, con il sostegno di ARCI Toscana e dei nostri storici partner di Al Mesalla, si è organizzata una tre-giorni di banchetti per distribuire materiale informativo sulle nostre attività e campagne di comunicazione sociale nella regione. 3 Circa una decina tra ragazzi e ragazze provenienti da Erbil e Dohuk, volontari del progetto, hanno partecipato all'evento, iscrivendosi alla Maratona e condividendo quell'ideale di pace e nonviolenza, ricordando l'importanza di come queste giornate possano unire persone di religioni, etnie e culture diverse e dimenticare per un giorno che la guerra è solo a due passi. Il 30 ottobre i cittadini di Erbil avevano voglia di correre un po'. Avevano voglia di correre per la pace e la convivenza. E noi abbiamo corso con loro. http://www.huffingtonpost.it/un-ponte-per/in-iraq-correndo-per-la-pace_b_8450088.html Da PalermoToday del 02/11/15 Il Parto delle Nuvole Pesanti, concerto a Corleone tra i beni sottratti alla mafia Mercoledì 4 novembre alle 21.30, durante il Festival per il centenario della morte di Bernardino Verro, che si svolgerà a Corleone, al complesso Sant'Antonino si terrà la presentazione del progetto Terre di Musica-viaggio tra i beni confiscati alla mafia. Dopo due anni, la band del Parto delle Nuvole Pesanti torna, grazie a questa occasione, a Corleone, città dove il progetto culturale e musicale sui beni confiscati alla criminalità organizzata aveva preso il via. Proprio da Corleone infatti era iniziato il viaggio, proseguito poi in tutta Italia. Torna con due appuntamenti all’interno della seconda giornata del Festival, dedicato al sindacalista corleonese ucciso dalla mafia il 3 novembre del 1915: il primo appuntamento è alle 17.00 con la proiezione del film/documentario Terre di Musica. Al termine un breve dibattito sul tema e la presentazione del progetto alle scuole presenti; il secondo la sera, alle 21.30, con il concerto della band calabro-bolognese. Tutti gli eventi si svolgeranno all’interno del complesso monumentale Sant’Agostino dove è prevista anche la presentazione dei laboratori musicali svolti dalle scuole medie e superiori di Corleone all’interno del progetto “Luoghi comuni: nuovi orizzonti di cittadinanza attiva”. Questo progetto, che promuove anche tutto il Festival dedicato a Bernardino Verro, è sostenuto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale, e scaturisce dalla partnership tra la Cooperativa lavoro e non solo, il Comune di Corleone, il Laboratorio della Legalità, il CE.RI.FO.P (Centro di Ricerca e Formazione Professionale) e l’Associazione “Il Germoglio”. TERRE di MUSICA è un progetto musicale e culturale, ideato da Salvatore De Siena, leader del Parto delle Nuvole Pesanti, e realizzato dalla band in giro per l’Italia nell’arco di due anni, con la collaborazione di Arci e Libera. È un viaggio a tappe da Corleone a Trapani, dalla Piana di Gioia Tauro ad Isola Capo Rizzuto, da Mesagne a Cerignola, da Casal di Principe a Castel Volturno, fino a Roma, Bologna, Torino e Milano, per documentare l’esperienza dei beni confiscati, raccontare le storie delle tante persone, spesso giovani, che ci lavorano tra mille difficoltà, intimidazioni e vandalismi, e far comprendere che i beni confiscati non rappresentano solo un valore simbolico, ma anche una risorsa, un modello di sviluppo economico e sociale alternativo. Di questo viaggio sono stati realizzati un libro e un film documentario che raccolgono le note storiche, sociali e culturali dei beni confiscati alla mafia nonché l’esperienza umana dei suoi protagonisti. http://www.palermotoday.it/eventi/concerti/mafia-beni-confiscati-parto-nuvole-pesanticoncerto-corleone-4-novembre-2015-.html 4 Da Nova Radio del 02/11/15 Firenze ricorda Pasolini a 40 anni dalla morte Nel quarantennale esatto 40 anni da quel 2 novembre 1975 in cui il corpo dl poeta venne ritrovato senza vita all’idroscalo di Ostia, molte anche a Firenze le iniziative che ricordano il poeta, scrittore e regista. A partire dalle speciali serate previste in alcuni Circoli ARCI: alla Casa del Popolo di Settignano dalle 21 in programma letture e poesie musicate con Letizia Fuochi e Francesca Cusumanu, mentre alla Casa del Popolo di Barberino del Mugello si proietta “Comizi d’amore”, la video inchiesta realizzata da Pasolini sui giovani e i rapporti di coppia. L’ultimo controverso lungometraggio di PPP, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, viene proiettato stsera in speciale versione resatata dalla Cineteca di Bologna, stasera dalle 21 a cinema Stensen di Firenze (ore 21). Al teatro delle Arti di Lastra a Signa debutta stasera “L’arcitaliano e le 120 giornate di Salò”, spettacolo, ispirato a Pasolini di Massimo Sgorbani, cui si affianca la Compagnia di danza Simona Bucci, mentre al Caffè delle Murate è in programma un omaggio con alcuni cortometraggi selezionati dalla Cineteca di Firenze. Anche Novaradio e l’Arci di Firenze ricordano, da oggi, l’anniversario dalla scomparsa di Pasolini con “40 anni in 40 giorni”: da oggi fino a fine dicembre, sulle frequenze di Novaradio, andrà in onda un brano al giorno, scelto ed interpretato da 40 diversi lettori, ascoltabile in 7 momenti della giornata, dalle 9 alle 21. http://www.novaradio.info/firenze-ricorda-pasolini-a-40-anni-dalla-morte/ Da CorriereSalentino.it del 02/11/15 ARCI Nardò celebra il ricordo di Pier Paolo Pasolini NARDO’ (Lecce) – A quarant’anni dalla scomparsa dello scrittore friulano Pier Paolo Pasolini, il circolo ARCI Nardò Centrale celebra il grande maestro con un incontro fissato per martedì 3 novembre volto a ricordare l’attualità del pensiero e della figura del scrittore, poeta e regista considerato uno dei maggiori artisti e intellettuali italiani del XX secolo. L’incontro, a cura della dottoressa Chiara Miglietta, sarà un interessante viaggio alla scoperta del genio creativo grazie al contributo della giornalista del Nuovo Quotidiano di Puglia Giorgia Salicandro e grazie alla collaborazione con la Fondazione Cineteca di Bologna. Alle 19:30 si terrà la presentazione del video inedito Volgar’eloquio, una proiezione in loop del documentario prodotto nel 2007 e conservato presso la Cineteca di Bologna. Il documento visivo ha origine da una lezione-dibattito, tenuta da Pasolini a Lecce il 21 ottobre 1975, sul tema delle culture e delle lingue subalterne. E’ l’ultimo vasto e organico intervento, pronunciato solo pochi giorni prima della tragica morte. La lezione tenuta da Pasolini faceva parte di un corso di aggiornamento per docenti – provenienti da ogni regione – organizzato presso il Liceo Classico “Giuseppe Palmieri” di Lecce dal Ministero della Pubblica Istruzione. A seguire si terrà un piccolo aperitivo e alle ore 21.00 sarà poi la volta della proiezione del Film “Pasolini” del 2014 diretto da Abel Ferrara. Si inaugura così la stagione ARCIneforum di Nardò Centrale. Programma: ore 19:30 Presentazione del documentario “Volgar’eloquio”. Relaziona la giornalista Giorgia Salicandro (Nuovo Quotidiano di Puglia) 5 ore 20:00 Aperitivo ore 21:00 Proiezione del film “Pasolini” di Abel Ferrara http://www.corrieresalentino.it/2015/11/arci-nardo-celebra-il-ricordo-di-pier-paolopasolini/#.VjiQhyuFGag Da Welfare network del 02/11/15 Arci Cremona, ricordo di Pier Paolo Pasolini nel 40° anniversario dell’omicidio Mercoledì al Cinema Filo proiezione di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, riduzione per i tesserati Arci «Oggi, quarant’anni fa, veniva ucciso Pier Paolo Pasolini. Questa data, il 2 novembre, merita di essere ricordata in tutta Italia e, a maggior ragione, a Cremona, dove il grande intellettuale, poeta e regista visse per due anni, da ragazzino»: così Arci Cremona ricorda la figura di Pasolini nel quarantesimo anniversario di quel 2 novembre 1975. «Vorremmo rivedere tanti suoi film nelle storiche sale cittadine, che oggi – invece – sono tristemente chiuse: negli ultimi vent’anni, abbiamo visto scomparire i Cinema Corso, Italia, Padus, Tognazzi», proseguono dall’Associazione. «Sognare si può e costa fatica, e Pasolini lo sapeva bene: vi invitiamo, allora, a ricordarlo al Cinema Filo, mercoledì 4, dove sarà proiettata la sua ultima pellicola, la più disturbante: Salò o le 120 giornate di Sodoma, ricordandovi che l’unica sala cinematografica rimasta in centro città è convenzionata per i soci Arci, che tutti i mercoledì godono di una riduzione sul costo del biglietto», concludono da Arci Cremona. http://www.welfarenetwork.it/arci-cremona-ricordo-di-pier-paolo-pasolini-nel-40anniversario-dell-omicidio-20151102/ Da RomagnaMamma.it del 03/11/15 Matrimoni omosessuali, mille firme per chiedere la trascrizione Il gruppo diritti civili e cittadinanza europea della Casa delle donne di Ravenna ha consegnato al sindaco la petizione in cui si chiede la trascrizione nei registri di stato civile dei matrimoni celebrati all’estero tra persone dello stesso sesso. In pochi mesi sono state raccolte mille firme di cittadine e cittadini residenti nel Comune di Ravenna e non solo. “Anche la recente sentenza del Consiglio di Stato che ha sancito l’intrascrivibilità dei matrimoni celebrati all’estero tra persone dello stesso sesso – spiega il Gruppo – non fa altro che riconoscere il problema del pesante vuoto legislativo del nostro paese e della conseguente necessità di trovare una soluzione ormai non più rinviabile”. Già nel 2012 la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza secondo cui è possibile riconosce l’esistenza e la validità dei matrimoni celebrati all’estero tra persone dello stesso sesso alla luce di due carte sovranazionali, la Carta di Nizza e la Cedu, che fanno pienamente parte del nostro ordinamento giuridico, secondo cui la nozione di matrimonio si è modificata fino a comprendere anche quello tra persone dello stesso sesso. Non solo: “Pochi mesi fa la Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato il nostro paese ritenendo che “la tutela legale attualmente disponibile per le coppie omosessuali, non solo fallisce nel provvedere ai bisogni chiave di due persone impegnate in una relazione stabile, ma non è nemmeno sufficientemente affidabile”. 6 Delle sei nazioni fondatrici l’Unione Europea l’Italia è l’unica a non riconoscere né le unioni civili né i matrimoni tra persone dello stesso sesso, compresi quelli celebrati all’estero. Dei 28 Stati membri dell’Unione Europea la metà ha legiferato per riconoscere i matrimoni egualitari mentre Svizzera, Austria, Ungheria e Croazia riconoscono le unioni civili. La Germania sta lavorando all’approvazione di una legge che consenta di passare dalle unioni civili al matrimonio egualitario. Nove Paesi non hanno ancora alcun tipo di tutela per le coppie omosessuali (Italia, Grecia, Cipro, Lituania, Lettonia, Polonia, Slovacchia, Bulgaria, Romania). I matrimoni celebrati all’estero tra persone dello stesso sesso sono stati trascritti, se pur come azione simbolica-civile, a Milano, Bologna, Napoli, Roma, Palermo, Fano, Empoli, Reggio Emilia, Udine, Piombino, Siracusa, La Spezia: “Chiediamo dunque al Sindaco di accogliere con coraggio e determinazione la richiesta della petizione, di esprimersi pubblicamente e di assumere un atteggiamento di responsabilità politica in risposta alle cittadine e ai cittadini che hanno firmato la petizione”. Al gruppo diritti civili e cittadinanza europea della Casa delle donne partecipano Udi, Femminile Maschile Plurale, Arci, Arcigay Frida Byron, Uaar, Comitato in difesa della Costituzione, Comitato per la legalità e la democrazia. http://www.romagnamamma.it/2015/11/matrimoni-omosessuali-mille-firme-per-chiedere-latrascrizione/ Da ReggioTv del 02/11/15 A Villa San Giovanni “L’Italia sono anch’io”: Amministrazione comunale e Arci s’interrogano sullo Sprar Villa San Giovanni (RC). Nell’ambito delle attività del Progetto Sprar “Approdi Mediterranei”, alle 12 di domani - 4 novembre -. al Comune di Villa San Giovanni- Ambito Territoriale 14 - Ufficio di Piano, in via Nazionale 541 si terrà la conferenza stampa sul tema: L’Italia sono anch’io - Percorsi di integrazione e cittadinanza attiva con e per i richiedenti asilo villesi. Lo rendono noto l’Arci e l’Amministrazione comunale villese. Tra gli interventi previsti, quelli del sindaco di Villa Antonio Messina, del responsabile dell’Ufficio Servizi sociali Tonino Giordano e del presidente provinciale dell’Arci e coordinatore del progetto Sprar Davide Grilletto. http://www.reggiotv.it/notizie/attualita/43267/villa-san-giovanni-italia-sono-anch-ioamministrazione-comunale-arci-s-interrogano-sullo-sprar 7 INTERESSE ASSOCIAZIONE Da Vita.it del 02/11/15 Raccolta fondi e immagini shock, quale punto di equilibrio? di Nino Santomartino* L'intervento del responsabile comunicazione e Rsi dell'Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale: «Senza il coordinamento e la regia della soppressa Agenzia del Terzo Settore, occorre il protagonismo e l’assunzione di responsabilità da parte della società civile per promuovere in maniera convinta il gruppo di lavoro di stakeholder, esperti, professionisti, associazioni e reti del Terzo Settore» Prima dell’estate una grande Ong ha promosso un altro spot della campagna contro la malnutrizione che ha avviato già da alcuni anni con lo stesso stile: immagini strazianti di bambini fortemente deperiti, con il respiro ansimante, stomaco gonfio, costole a vista e sguardi disperati. Lo spot è stato subito criticato da Pier Maria Mazzola e Marco Trovato (rispettivamente, direttore responsabile e direttore editoriale di Africa, missione e cultura) che, in un loro articolo, commentano aspramente: “adesso tocca a John (il bimbo protagonista dello spot) impietosire i telespettatori per strappar loro nove euro al mese”. L’articolo è stato ripreso da Eleonora Camilli di Redattore sociale in un pezzo molto puntuale, ottenendo la replica del direttore dei programmi internazionali della Ong promotrice dello spot: “proprio perché inaccettabili, sono immagini anche giuste da trasmettere con l’obiettivo di sensibilizzare e spingere le persone a reagire con indignazione”. Dal “botta e risposta” si è passati poi al dibattito aperto sull’utilizzo delle immagini nella raccolta fondi: chi è fautore del “fine giustifica i mezzi” e chi, invece, bolla questo modo di fare raccolta fondi come “pornografia del dolore”. Un dibattito che si è prolungato fino ad agosto (ed è ancora oggi molto vivace) sulle pagine online di Info-Cooperazione, in cui oltre ad auspicare la buona pratica da parte dei cittadini di far sentire la propria voce su attività di raccolta fondi delle Ong, si cita il Codice di Condotta dell’Associazione delle Ong irlandesi auspicando si possa promuovere una cosa simile anche in Italia. Un dibattito interessante perché il problema non è solo rilevante sul piano della comunicazione ma soprattutto su quello etico e pertanto va affrontato e risolto con urgenza: in nome della credibilità delle organizzazioni non profit e della loro reputazione nei confronti dei partner e dei donors. Ora, però, occorre andare oltre la polemica, suggerire momenti di confronto e punti di convergenza e avanzare proposte che coinvolgano e corresponsabilizzino non solo gli attori sociali, ma anche il mondo della comunicazione sociale e delle istituzioni. Magari, tentando anche di superare l’iniziativa delle Ong Irlandesi andando nella direzione che auspica Info-Cooperazione nel citato articolo: “la riflessione però non si deve fermare a questo livello, serve coinvolgere i dirigenti e la governance delle organizzazioni non governative e i loro fornitori, agenzie di comunicazione, creativi, [fundraiser], fotografi, giornalisti e copywriter”. Alcuni tentativi nel passato sono stati fatti e sono meritevoli di attenzione e di riconsiderazione. Si dovrebbe riprendere il cammino dai passi già compiuti, aggiustando il tiro e adeguando le proposte al contesto di oggi. 8 Nel 2008 (nell’ambito della World Social Agenda, progetto promosso da Fondazione Fontana Onlus e realizzato con i contributi di vari enti) è stato avviato un percorso che ha portato alla redazione della Carta di Trento per una migliore cooperazione, in cui si parla di “comunicazione corretta” e si afferma che “appare indispensabile anche monitorare, e laddove possibile modificare, il linguaggio e le immagini utilizzate dai media per comunicare”. Nel 2010 nelle Linee guida per la Raccolta dei fondi, promosse dall’Agenzia per il Terzo Settore grazie al contributo di un nutrito gruppo di esperti coordinati dal consigliere Edo Patriarca, si può leggere: “Nelle comunicazioni e nei materiali promozionali finalizzati alla raccolta di fondi, le organizzazioni devono considerare la sensibilità pubblica ed evitare l’uso di immagini o testi lesivi della dignità della persona, che potrebbero offendere anche solo una parte dei destinatari”. Ma soprattutto (su suggerimento di alcuni di noi allora in contatto con il gruppo che lavorava alle Linee Guida) si legge anche che “ai fini della trasparenza, negli appelli di raccolta fondi rivolti al pubblico l’organizzazione rispetta l’art. 46 del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale emanato dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (IAP)…”. Tra il 2010 e il 2011 l’Assif (Associazione Italiana Fundraiser), tramite un apposito gruppo di lavoro, propose all’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria alcune modifiche al Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale. Nell’autunno del 2011, inoltre, l’Assif, grazie al lavoro congiunto di alcuni soci di Assif e di TP (Associazione It. Pubblicitari Professionisti), avviò un percorso di conoscenza reciproca con alcune associazioni di categoria del mondo della comunicazione al fine di condividere le proposte da sottoporre all' Istituto dell'Autodisciplina Pubblicitaria e di stringere una serie di alleanze strategiche. Tra il 2009 e l’autunno del 2011 l’Agenzia del Terzo Settore promosse le Linee guida per il sostegno a distanza di minori e giovani (realizzate in collaborazione con le principali reti del Sostegno a Distanza) e le Linee guida per le buone prassi e la raccolta dei fondi nei casi di emergenza umanitaria (realizzate con un gruppo di persone rappresentativo delle diverse ‘anime’ che lavorano nelle emergenze) in cui, in maniera ancora più netta della precedente pubblicazione sulla raccolta fondi, le organizzazioni vengono invitate a al pieno rispetto del Titolo VI del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale, riferito alla realizzazione di campagne promozionali (o agli appelli al pubblico). Osservando bene tutti questi passaggi è chiaro come vari professionisti che lavorano con il non profit e molte organizzazioni, attive nei percorsi citati dell’Agenzia del Terzo Settore, abbiano riconosciuto la necessità di un Codice di condotta e di un organismo autonomo di autodisciplina e abbiano individuato nel Codice già esistente il quadro di riferimento. Allora, ripartiamo da qui promuovendo un gruppo di lavoro snello costituito da soggetti competenti e dove siano rappresentati i principali stakeholder, con il compito di definire alcune mirate integrazioni al Codice. Un gruppo in cui ci siano organizzazioni non profit impegnate nel fundraising, realtà della comunicazione e dell’informazione, professionisti, consulenti e ricercatori: tutti impegnati nell’azione, nella comunicazione e nella ricerca sociale. Per dare autorevolezza la lavoro del gruppo e farlo partire con il piede giusto, garantiamo un percorso di conoscenza e alleanza tra le realtà non profit e le associazioni di categoria socie dello IAP. Eliminiamo, prima di tutto, il termine “Commerciale” dall’attuale titolo del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, facendolo così diventare il punto di riferimento normativo per la comunicazione sia profit che non profit. Senza il coordinamento e la regia della soppressa Agenzia del Terzo Settore, occorre il protagonismo e l’assunzione di responsabilità da parte della società civile per promuovere 9 in maniera convinta il gruppo di lavoro di stakeholder, esperti, professionisti, associazioni e reti del Terzo Settore particolarmente interessate alla comunicazione sociale e alla raccolta fondi. Tempi brevi, un programma rigoroso, obiettivi e agenda definiti: il solo dibattito, la polemica, sono di ostacolo all’accountability delle organizzazioni e creano un danno alla reputazione di tutto il mondo solidale. *Esecutivo Aoi - responsabile Comunicazione sociale e Rsi http://www.vita.it/it/article/2015/11/02/raccolta-fondi-e-immagini-shock-quale-punto-diequilibrio/137210/ 10 ESTERI Del 23/11/2015, pag. 18 La rivincita di Erdogan “Il mondo deve rispettarci” L’allarme della Casa Bianca Il presidente dopo il voto anticipato: “La nazione ha scelto la stabilità” Gli Usa “profondamente preoccupati” per le intimidazioni alla stampa ABBIAMO vinto, adesso il mondo deve rispettare la volontà degli elettori turchi: è il messaggio di Recep Tayyip Erdogan a poche ore dalla chiusura delle urne. Il voto sanciva con decisione che la Turchia si è di nuovo affidata agli islamici del partito Giustizia e Sviluppo (Akp), archiviando gran parte dei dubbi emersi nel voto del giugno scorso. Il presidente, vinta la scommessa delle elezioni anticipate, ha colto le richieste della sua gente: «La nazione ha scelto la stabilità». Il capo dello Stato ha voluto anche alimentare quel sentimento di “noi contro il resto del mondo” che spesso gli è servito come carta elettorale: «Il mondo intero deve rispetto al risultato delle elezioni», ha sottolineato, chiedendosi retoricamente che concetto possano avere di democrazia i commentatori stranieri: «Perché non rispettano la volontà popolare?». Con 316 seggi sui 550 del Parlamento, Erdogan può formare un governo senza necessità di coalizione, ed è vicino ai 330 parlamentari che gli permetterebbero di modificare la costituzione in senso presidenzialista. Che questa sia la priorità di Erdogan lo ha confermato il premier Ahmet Davutoglu: «L’attuale sistema non incontra le necessità della Turchia. Questa coperta è troppo corta per il nostro paese». Il trionfo lascia credere che lo stile politico di Erdogan non cambierà: una prima prova è la reazione alla copertina critica della rivista di sinistra Nokta , già bloccata sul web in passato con l’accusa di diffamazione. Il giornale aveva scelto come titolo post-elettorale: «L’inizio della guerra civile». E la rappresaglia è stata immediata, con lo stop alla diffusione, la perquisizione della redazione e l’arresto di direttore e caporedattore. La repressione preoccupa persino oltreoceano, tanto che la Casa Bianca ieri ha chiesto alle autorità turche di rispettare i valori della costituzione e ha «deplorato con profonda preoccupazione» le notizie di pressioni nei confronti dei giornalisti. Secondo l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, «la rapida diminuzione di scelta tra i media e le restrizioni della libertà di stampa hanno ostacolato la campagna elettorale con effetti sul voto». La vittoria di Erdogan ha lasciato strascichi di nervosismo: ieri a Istanbul un ventenne ha cercato di entrare nel palazzo presidenziale Huber Kösku, ma quando la polizia lo ha fermato – riferisce l’ufficio della presidenza – il giovane ha strappato la pistola ad un agente e si è sparato alla testa. C’è persino chi decide di lasciare il paese: Yilmaz Odabasi, poeta e giornalista curdo, torturato in carcere ai tempi del golpe del 1980, ha segnalato su Twitter di aver scelto l’esilio volontario, sottolineando che i connazionali «sono innamorati del loro carnefice». Del 3/11/2015, pag. 6 Turchia, la vittoria della paura 11 Turchia. Il partito del Sultano ottiene il 49,9% delle preferenze, raggiungendo la maggioranza assoluta. È il frutto della violenza contro l’opposizione e degli attentati di Suruç e Ankara Grande vittoria per il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) al voto anticipato del primo novembre. Ma soprattutto grande rivincita per il presidente Recep Tayyip Erdogan, ancor più vicino all’obiettivo di trasformare il sistema di governo turco da parlamentare a «presidenziale alla turca», con la conseguente concentrazione del potere nelle mani di un solo uomo, le sue. Si tratta tuttavia di un risultato inaspettato per lo stesso partito islamista conservatore che quasi tutti i sondaggi elettorali indicavano al di sotto della percentuale necessaria per formare un governo monocolore. E invece l’Akp ce l’ha fatta, ottenendo il 49,9% delle preferenze e riuscendo a portare in parlamento ben 317 deputati. Il quotidiano filo-governativo Sabah l’ha definita «una rivoluzione dei seggi», mentre il giornale conservativo moderato Yeni Safak l’ha chiamata una «magnifica vittoria». Per l’opposizione, sbaragliata, si tratta invece della «vittoria della paura». Una paura dovuta agli ultimi cinque mesi, dove nel Paese la tensione, le violenze e la polarizzazione hanno fatto da sovrani. La necessità di riportare «stabilità» e «sicurezza» sembrano dunque aver pesato più di tutto nella scelta dell’elettorato, che nelle precedenti consultazioni non si trovava a dover fare i conti con gli scontri del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) e l’esercito turco, ripresi da luglio dopo oltre due anni di interruzione. Allo stesso modo, non si erano ancora verificati i due attentati kamikaze più sanguinosi della storia turca (con oltre cento morti) a Suruç e Ankara, rispettivamente nel luglio e nell’ottobre scorsi. Inoltre la polarizzazione della società non si era tradotta in manifestazioni di strada, con attacchi fisici perpetrati contro i cittadini curdi e membri della stampa, o per lo meno, non a questi livelli. Cinque mesi di estrema tensione che hanno portato all’Akp 5 milioni di voti in più, portandolo al governo da solo per la quarta volta. Ma resta un dato di fatto che l’opposizione, con tutte le limitazioni che ha dovuto affrontare riguardo alla mancanza di fondi e alle campagne elettorali, non è riuscita a utilizzare a proprio favore il vantaggio ottenuto alle elezioni del 7 giugno scorso, dove aveva composto un blocco del 60%. Il Partito di azione nazionalista (Mhp)sembra il primo ad aver fatto le spese dell’atteggiamento disfattista degli ultimi mesi. I lupi grigi, che si sono opposti a ogni formula di accordo con il Partito repubblicano del popolo (Chp, seconda formazione politica del Paese) «se supportata dal Partito filocurdo democratico dei popoli (Hdp)» hanno perso quota in 58 province su 81. Il risultato è un calo di 4 punti percentuali (confluiti a favorire l’Akp) rispetto al 16% ottenuto a giugno e soli e il dimezzamento del numero di deputati all’Assemblea (passati da 80 a 41). Ma ad accrescere i voti dell’Akp, oltre ai nazionalisti e in misura minore gli elettori dei piccoli partiti ultranazionalisti e islamisti, sono stati anche i kurdi. Kurdi conservatori e delle metropoli che dopo aver supportato l’Hdp alle precedenti elezioni, sono tornati a votare l’Akp. Nelle province sudorientali a maggioranza kurda, che numerose sono pur rimaste roccaforti della formazione filo-kurda, si è registrato un calo del 3% delle preferenze Hdp. Un risultato che, secondo le prime analisi, sarebbe una reazione al Pkk e al fatto che abbia ripreso i combattimenti, nonché una dimostrazione di come l’Hdp sia rimasta in mezzo al fuoco incrociato del Pkk e dello Stato. Una minore perdita di voti dell’Hdp si è registrata anche nelle grandi città occidentali — soprattutto a Istanbul, che aveva influito grandemente sul risultato del 13% delle elezioni passate. Il risultato finale, magro, del 10,7%, è arrivato dopo aver rischiato di restare sotto lo sbarramento elettorale — un obiettivo rincorso apertamente dai rappresentanti dell’Akp, e tuttavia non riuscito. In tal modo l’Hdp ha ottenuto 59 deputati in parlamento, diventando comunque la terza rappresentanza politica del Paese. L’unico partito immobile, rispetto al risultato di giugno, è il Chp che ha ottenuto il 25,4% dei voti, portando in parlamento 134 deputati (due in più rispetto alla tornata elettorale prece12 dente). E qualche roccaforte persa comunque a favore dell’Akp, che ha guadagnato quota in ogni singola provincia. Ora le domande si concentrano sui possibili scenari dettati dal nuovo governo Akp. I quotidiani filo-governativi tendono a leggere l’esito delle consultazioni come un’approvazione dei cittadini del progetto presidenziale di Erdogan. Ma per portare — per lo meno — ad un referendum popolare un emendamento costituzionale in tal senso, sarebbero necessari almeno 330 seggi. Secondo alcuni analisti questo «ostacolo» potrebbe essere superato attraverso il «trasferimento» o l’«appoggio esterno» di alcuni parlamentari delle formazioni politiche opposte. Altri, invece, pensano che questo voto sarà un nuovo «avvallo popolare» per il presidente Erdogan, che nelle settimane scorse ha dichiarato il passaggio «al sistema presidenziale di fatto» avvenuto nel Paese, nel momento in cui è stato eletto presidente a suffragio universale per la prima volta. Una delle questioni più importanti per il Paese resta ancora la risoluzione della questione kurda. Una questione che ha prodotto oltre 30mila morti in 40 anni di scontri e che sembrava arrivare una risoluzione nei tre anni di colloqui portati avanti dal governo turco e dal movimento politico kurdo — sotto le indicazioni del leader Pkk Abdullah Öcalan. Ora, resta da vedere se la «stabilità» prospettata per il futuro della Turchia da Erdogan e dal premier Davutoglu include anche la ripresa dei negoziati sospesi. Nonostante la «demonizzazione» dell’Hdp – che all’indomani delle elezioni ha ribadito il suo impegno per la pace — da parte del governo non sembri destinato a cessare in termini brevi, la presenza parlamentare dell’Hdp risulta il suo impegno per la pace cruciale per esprimere la pluralità del Paese. del 03/11/15, pag. 6 Attacchi ai media Il dossier Ue critica Ankara Che cosa preoccupa di più Bruxelles? Dopo essersi tappata il naso e aver dato un aiutino alla vittoria elettorale di Recep Tayyp Erdogan, l’Europa pensa alla crisi migratoria e manda i portavoce a dire che «un governo stabile ad Ankara pone la base per una soluzione stabile del dramma dei rifugiati». È l’ottimismo della facciata, dietro il quale si nascondono non pochi dubbi. Lo si percepisce anche dalle poche parole ufficiali e molto caute che arrivano Bruxelles. L’Alto rappresentante per la Politica estera, Federica Mogherini, dichiara che «le elezioni di domenica hanno riaffermato l'impegno forte del popolo turco per il processo democratico» e augura a tutti buon lavoro. È il momento di andare a vedere il gioco. Senza possibilità di dar nulla per scontato. «Non abbiamo altra chance che Erdogan» ha detto più volte il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker. Pragmatico davvero. In Turchia ci sono due milioni di profughi che il governo può ospitare o lasciar andare. Consapevole di questo, l’Unione ha messo in cantiere un accordo ambizioso che prevede lo scambio di aiuti finanziari e concessioni politiche (i visti) e con una maggiore accoglienza e un più netto controllo alle frontiere anatoliche. Al contempo, Bruxelles ha deciso di congelare il rapporto annuale sullo stato del negoziato per l’allargamento, in genere pubblicato a metà ottobre. Non voleva disturbare il voto per Erdogan con giudizi inevitabilmente pesanti. Il castello della «realpolitik» deve ora misurarsi con due prove. La prima, probabilmente già giovedì, è la diffusione della valutazione annuale su Ankara. La bozza circolata è severa, sostiene fra l’altro la legislazione nel campo della libertà di espressione e di assemblea che «va contro gli standard europei». Inoltre, «la situazione si è deteriorata dal 2014 e 13 l’indipendenza del sistema giudiziario e la separazione dei poteri sono considerevolmente minati». Il testo sarà annacquato? E come reagirà il Sultano? Dalle parti di Juncker si attendono che rispetti i patti, ma non tutti sono dello stesso avviso. C’è chi teme che Erdogan cambi i toni coi Ventotto sui migranti e magari renda ancora più dura l’azione contro i curdi. La «potenza morbida» europea non ha scelta. Il rafforzato leader turco potrebbe approfittarne. (Marco Zatterin) del 03/11/15, pag. 18 “Bosforo addio, non è un paese per moderati” Studenti di sinistra, insegnanti musulmani: per loro l’unica soluzione è andare via di Roberta Zunini Oltre a essere l’unica megalopoli turca con 17 milioni di abitanti ufficialmente censiti, Istanbul è la città dove si incontrano Europa e Asia. Per questo si è sviluppata una concezione multietnica della società basata sullo stato di diritto, sui principi democratici e sul secolarismo. Ma, dopo tredici anni di governo del partito islamico della Giustizia e Sviluppo, Akp – fondato dall’attuale presidente Erdogan – che alle elezioni di domenica scorsa ha riconquistato per la quarta volta la maggioranza assoluta, molti dei suoi tanti cittadini laici ed europeisti sentono di essere diventati una minoranza. Il giorno dopo le elezioni generali, nei quartieri della borghesia laica sul versante europeo del Bosforo, nei quartieri curdi e in quelli islamici moderati si respira un’atmosfera di doppia disfatta. L’Europa è la meta privilegiata. “Purtroppo per noi laici di sinistra ed europeisti è un momento molto triste. Tayyip pur non avendo il suo partito raggiunto il numero di voti necessari per cambiare la costituzione in senso presidenziale, si sente ormai il padrone assoluto dei nostri destini” dice Ghani in perfetto italiano, un ventiquatrenne poliglotta laureato in scienze politiche. “Già ci considerava dei sudditi, ora non avrà più alcuna remora nello schiacciare le nostre libertà civili”. “Non sarà facile ottenere il permesso di soggiorno in Germania dopo l’ondata di profughi siriani e afgani, ma non vedo alternative. Ho sperato che l’Europa ci facesse diventare membri dell’Unione, ma anche se ci aprisse le porte, la maggior parte dei turchi ora le chiuderebbe. Perchè Tayyip è sostenuto soprattutto da coloro che non amano l’Europa, al contrario di noi cittadini laici di Istanbul”, sottolinea Yunus. Ha trentadue anni ed è professore di musica. Da un anno insegna in una scuola media di Gaziantep, al confine con la Siria. “Sono tornato per votare e domani rientro. Dovrei considerarmi fortunato per aver ottenuto un lavoro fisso che peraltro amo, ma tra un mese darò le dimissioni: è impossibile vivere in quella zona. Pensa che quando andiamo in pausa pranzo i miei colleghi non si seggono al tavolo con le colleghe. Donne e uomini mangiano separati. Il primo giorno di scuola, i miei studenti mi hanno chiesto subito se fossi turco o curdo. Quando gli ho risposto che sono entrambe le cose, non riuscivano a capire”. Gokhan e Dylara hanno ventisette anni, lui è curdo lei turca, si professano musulmani moderati e sono fidanzati da due anni. Sono entrambi ricercatori universitari in letteratura 14 turca. “L’Europa è stata razzista nei nostri confronti, ha detto l’intellettuale americano Noam Chomsky in un’intervista data a Hurryet. Noi la pensiamo come lui. Ora che l’Europa sembra disposta a barattare il nostro ingresso con i profughi siriani, la maggior parte dei turchi non lo vuole più. Tayyip ha dato spazio all’Islam integralista dell’Anatolia dove la maggior parte della popolazione ha frequentato solo le scuole elementari e l’ignoranza dilaga”. Del 3/11/2015, pag. 7 Siria, l’uomo forte Erdogan premerà sull’acceleratore Siria. Senza opposizioni, Ankara non optera' per la cautela. Il timore è un aumento del passaggio di armi e miliziani alle opposizioni e un rafforzamento dell'asse contrario al negoziato con Assad L’araba fenice Erdogan ha vinto la scommessa. Si è giocato la testa sulla trita strategia della paura e ha avuto ragione. Di certo un ruolo l’ha avuto il cosiddetto “fattore siriano”, parte integrante della campagna elettorale perenne: la Turchia ospita due milioni di profughi siriani, molti dei quali forza lavoro a basso costo nel mercato interno, a scapito di quella locale; è la sede delle opposizioni moderate, a partire dalla moribonda Coalizione Nazionale Siriana; è l’alleato Nato più vicino e il paese dal quale passano le armi inviate alle opposizioni da Golfo e Stati uniti. E soprattutto è il paese che più sfacciatamente ha tentato di rovesciare il presidente Assad, sostenendo la crescita dei gruppi islamisti sunniti, a cominciare dallo Stato Islamico i cui miliziani attraversano il poroso confine con tanta facilità da sferrare attacchi in suolo siriano dalla frontiera nord. L’Akp ha giocato sull’instabilità siriana, che ha aiutato a radicare, e attirato i voti degli indecisi con piccole campagne di arresti contro presunti miliziani Isis. Un falso nemico, che ha fatto però comodo associare al movimento di liberazione kurdo e al suo simbolo, il Pkk. La vittoria del partito di Erdogan avrà effetti sul conflitto siriano e sugli equilibri internazionali. La possibilità, paventata dalle elezioni di giugno, di una coalizione allargata aveva fatto sperare in un ruolo più cauto. Ora Erdogan potrebbe tornare alla carica, forte di un esecutivo di maggioranza. È difficile immaginare che l’esecutivo Akp opti per un ruolo defilato in quello che si prospetta come il periodo del negoziato internazionale sulla Siria, uscito venerdì dal primo incontro di Vienna. Con una fazione sola alla guida, senza il fondamentale freno delle opposizioni interne, Erdogan potrà tentare l’ultima carta: un rafforzamento dell’asse Turchia-Arabia Saudita-Qatar, sia sul piano militare che su quello diplomatico. Ovvero da una parte un ulteriore passaggio di armi e miliziani alla frontiera a favore di gruppi islamisti e moderati, che allungherà ulteriormente i tempi della guerra; dall’altra una maggiore opposizione al piano di un governo di transizione formato dal presidente Assad e dalle opposizioni, forzando così l’isolamento diplomatico a cui l’intervento russo e l’abbandono Usa del programma di addestramento dei ribelli avevano costretto Ankara. Ovvio anche attendersi maggiore sfrontatezza sul fronte kurdo, siriano e turco, che non potrà che generare maggiore instabilità in tutta la Siria: l’Akp ha lavorato insieme ai servizi segreti alla distruzione del progetto confederale democratico di Rojava, il Kurdistan siriano, diretta emanazione delle teorie del leader del Pkk Ocalan ma anche primo fronte contro l’avanzata dell’Isis, sostenuta da Ankara per evitare minacce all’integrità dello 15 Stato-nazione turco. L’appoggio e il denaro che oggi gli Usa riconoscono alle Ypg kurde hanno destabilizzato Ankara, che poco prima si era vista bocciare il progetto di una zona cuscinetto al confine siriano dove addestrare ribelli e contenere il “contagio” kurdo. Colpa di Putin: l’Akp non ha mai nascosto il fastidio per l’intervento aereo russo a sostegno di Damasco, minacciando l’interruzione dei rapporti commerciali ed energetici con Mosca e aprendo le porte ad un eventuale dispiegamento delle truppe Nato sul proprio territorio. Una minaccia, quella alla Russia, più concreta con un governo guidato da un partito solo. Ma concreta si fa la minaccia anche alla nuova strategia Usa: Washington non può non tenere conto di un paese confinante con la Siria e membro del Patto Atlantico. Del 23/11/2015, pag. 20 Aereo, il Cremlino teme l’attentato Il portavoce di Putin: “L’ipotesi viene presa in seria considerazione”. La compagnia dell’Airbus precipitato: “Nessuna avaria a bordo, nessun errore dei piloti”. Meno spazio nei tg ai bombardamenti sulla Siria NICOLA LOMBARDOZZI L’incubo che da tre giorni tormenta i russi si chiama «causa esterna». Lo confermano i responsabili della compagnia Metrojet proprietaria dell’Airbus precipitato nel Sinai con 224 passeggeri: «Nessuna avaria a bordo, nessun errore dei piloti. L’Airbus è esploso per un qualche altro motivo ». E l’ipotesi di una bomba piazzata nella stiva o tra i bagagli a mano diventa sempre più forte. La più accreditata anche sui giornali dopo l’iniziale rifiuto di prendere in considerazione una minaccia spaventosa: l’inizio di un’offensiva terroristica del Califfato in risposta agli attacchi dell’aviazione di Mosca sulla Siria. Lo stesso Vladimir Putin, apparso più preoccupato del solito, ha parlato più al cuore che alla testa dei suoi connazionali prima di sparire insolitamente da notiziari e agenzie di stampa: «È consolatorio, in un momento così tragico, avvertire la solidarietà dei russi ma anche di moltissimi stranieri. Avere una spalla su cui piangere è utile davanti a un’immane tragedia come questa». Al suo portavoce Dmitrj Peskov ha lasciato invece il compito di entrare nei particolari e di confermare quello che tutti temono: «Anche l’ipotesi di un attentato viene presa in seria considerazione ». Certezze non ce ne sono e difficilmente ce ne saranno prima di un paio di mesi. L’esame delle scatole nere, laggiù nel Sinai, è appena comiciato e durerà a lungo. Ma tutti i dati raccolti finora sembrano escludere le altre ipotesi più tranquillizzanti. I piloti, che pure si lamentavano dei tagli alle spese, degli stipendi in ritardo, e della cattiva gestione della compagnia, erano altamente qualificati. Nei ventidue minuti in cui sono stati in volo non hanno notato alcuna anomalia. I test sui carburanti e sulle ultime operazioni tecniche sull’aereo, non hanno rilevato niente di anormale. Ma si può mettere una bomba a bordo di un aereo con i controlli severissimi che vengono fatti negli aeroporti? I tanti russi che hanno frequentato Sharm, sostengono di sì. Il prestigioso quotidiano Kommersant , ieri paragonava la sciagura all’esplosione del Jumbo Pan Am, avvenuta a Lockerbie in Scozia nel 1988. In quella occasione, terroristi inviati da Gheddafi, erano riusciti a far passare un piccolo registatore imbottito di tritolo. Forse non a caso, i telegiornali hanno ridotto lo spazio dedicato ai bombardamenti della Siria che continuano a un ritmo sempre più in crescendo. La decisione di prendere parte alla guerra di Siria, resta la meno apprezzata delle decisioni del governo degli ultimi due anni. Il consenso popolare, superiore all’80% nella gestione della crisi ucraina e nell’annessione 16 della Crimea, non ha mai superato il 40% riguardo al coinvolgimento nella crisi mediorientale. I russi sanno di avere una forte presenza islamica in patria e che tante sono le formazioni integraliste, soprattutto nel Caucaso, che già altre volte hanno colpito duramente a Mosca e in altre grandi città. del 03/11/15, pag. 5 La fortezza Sharm el-Sheikh nel mirino dei clan alleati dell’Isis I resort sul Mar Rosso sono il motore numero 1 dell’economia egiziana Il punto debole è la manodopera beduina proveniente dal Nord del Sinai Maurizio Molinari La pista del terrorismo per il disastro aereo russo nel Sinai porta a Sharm el-Sheikh, da dove l’aereo siberiano è decollato, con il conseguente sospetto di infiltrazioni jihadiste nelle locali tribù beduine. Che si sia trattato di un kamikaze salito a bordo con dell’esplosivo oppure di una bomba imbarcata evadendo i controlli, l’ipotesi-attentato parte dall’aeroporto della più nota località turistica del Sinai dove gran parte del personale - dagli autisti ai camerieri, dalle guide ai guardiani - viene dalle tribù beduine Muszeina, Suwalha e Gebeleya che vivono nelle regioni meridionali della penisola desertica. Guerriglia jihadista Dall’inizio della guerriglia jihadista di Beyt al Maqqdis nel 2013 - il gruppo che lo scorso anno ha aderito allo Stato Islamico - queste tribù «sono state le più calme e collaborative con il governo del Cairo» spiega Yossi Melman, esperto israeliano di anti-terrorismo, «grazie alla capacità degli egiziani di sommare minacce, punizioni e corruzione economica». Il turismo di Sharm è stato la loro maggiore fonte di guadagno. Al contrario, Isis è più aggressivo nel Nord Sinai dove alcuni elementi delle grandi tribù Tarabin e Sawarka hanno accettato di allearsi con i gruppi jihadisti, offrendo collaborazione in cambio di danaro e della gestione di traffici illeciti con la Striscia di Gaza. Nel Nord Sinai la penetrazione di Isis nelle tribù ha portato a spaccature dentro clan e famiglie, con i leader Tarabin firmatari di una lista di «richieste» al Cairo: chiedendo liberazione di detenuti ed aiuti economici per non dover cedere alla seduzione degli jihadisti. Da qui l’ipotesi che Isis sia riuscita a sfruttare elementi delle tribù del Nord per infiltrarsi in quelle del Sud - alcuni clan dei Tarabin confinano con i Gebeleya, pochi chilometri a Nord di Ain Khudra sul Mar Rosso - e dunque riuscire a operare a Sharm elSheik, violando una delle ultime roccaforti dell’industria turistica egiziana. Nel 2014 il turismo è stato la fonte dell’11,3 per cento del pil egiziano grazie soprattutto a Sharm el-Sheik per via del fatto che gli stranieri dalla rivoluzione del 2011 hanno sempre più limitato i viaggi lungo il Nilo ed alle Piramidi, salvando però i resort sul Mar Rosso considerati al riparo da sanguinosi attentati. Se la scorsa primavera il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi scelse proprio Sharm per ospitare il summit economico internazionale sul rilancio della crescita è perché l’eccezione del Sud Sinai ha avuto finora un alto valore strategico per il governo. Riuscire a violare Sharm può dunque consentire a Isis di infierire un duro colpo a ciò che resta del turismo internazionale in Egitto: e farlo colpendo un obiettivo russo raddoppia l’impatto, ai danni di Vladimir Putin regista dell’intervento militare in Siria che ha per obiettivo proprio i gruppi jihadisti. Tutto ciò spiega la prudenza del Cairo e Mosca nelle 17 indagini sulla tragedia nel Sinai che investono il reticolo di relazioni claniche e famigliari fra una dozzina di maggiori tribù beduine che sommano circa 80 mila anime. Il controterrorismo Il capo di stato maggiore egiziano, Hisham Al-Halabi, definisce il conflitto nella penisola «una guerra di intelligence» perché ciò che più conta è riuscire a disegnare la mappa delle complicità tribali che consente ai jihadisti di muoversi impunemente, ricevere rifornimenti e continuare a operare: finora comprendeva solo le regioni a Nord, con l’epicentro a Sheik Zweid, adesso gli interrogativi investono quelle a Sud, che popolano lo strategico angolo di territorio fra il Mar Rosso ed il Canale di Suez. Nel tentativo di consolidare la cooperazione con le tribù l’esercito egiziano ha preso in esame la proposta del capo clan Al-Sawarka Shaykh Ibrahim al-Manei di creare una milizia locale filo-governativa, da affiancare alle truppe con compiti di controguerriglia: è un’opzione che il presidente Al-Sisi potrebbe fare propria se l’emergenza-beduini dovesse arrivare a Sud. Del 3/11/2015, pag. 3 Le chiacchiere di Renzi nel deserto libico Libia/Italia. Il retaggio del passato coloniale riemerge di tanto in tanto. Ed a fargli eco qualche giorno fa le parole dell’Ammiraglio Credendino, fortemente voluto da Roma a capo di Euronavfor Med sull’uso della forza letale da parte delle forze dislocate in mare, e qualche settimana fa la notizia - smentita ovviamente dagli alti comandi della Difesa - di un’incursione di forze speciali italiane che avrebbe portato all’uccisione di un capo-scafista. L’accusa rivolta dal governo di Tobruk all’Italia su un possibile sconfinamento – ritualmente smentito dal ministero della Difesa — in acque territoriali libiche di tre navi partecipanti alla missione navale Euronavfor Med è solo la punta di iceberg di una situazione ad alto rischio. Una congiuntura nella quale il protagonismo «verbale» e non solo nel governo italiano rischia di compromettere le tenui possibilità di riuscita del piano di Bernardino Leon in un quadro nel quale il susseguirsi di episodi di violenza farebbe saltare ogni ipotesi di transizione politica nel paese. L’ormai ex inviato speciale delle Nazioni unite per la Libia è stato di recente sostituito nel suo incarico dal tedesco Martin Kobler, finora inviato speciale Onu per la Repubblica Democratica del Congo. Vale la pena ricordare che Kobler prese l’incarico in concomitanza con il cambiamento delle regole d’ingaggio del contingente di caschi blu Monusco che da allora hanno un assetto con grande capacità offensive e non solo di difesa. Un uomo quindi che ha esperienza di nuove forme di peacekeeping, non più tradizionali , che contemplano l’uso preventivo di forza letale. Ossia di azioni di guerra. L’accordo annunciato da Leon qualche settimana or sono, posa su basi fragili, giacché piuttosto che fondarsi sul riconoscimento di due governi come interlocutori legittimi avrebbe dovuto essere imperniato su un governo unitario «oltre» le due fazioni di Tobruk e Tripoli, e su un forte lavoro di dialogo ’orizzontale’ tra gruppi tribali e quelle realtà organizzate sopravvissute alla caduta di Gheddafi e su un accordo sulle questioni relative alla sicurezza ed alla gestione condivisa delle risorse petrolifere e della Banca centrale. Mentre da Tobruk partivano accuse all’Italia — possibilmente foraggiate da Haftar capo militare messosi a capo di una «crociata» anti-islamica che verrebbe estromesso dal futuro assetto di governo — a Tripoli, sede del governo islamista libico della Tripolitania, veniva 18 devastato il cimitero italiano. Uno slancio patriottico dietro il quale potrebbe esserci chi da quell’accordo si sente escluso e che oggi combatte contro le milizie di Haftar. Già a fine settembre a Benghasi si erano verificati combattimenti tra le milizie di Heftar (Operazione Dignità) e militanti islamici, e proprio la settimana corsa ancora a Benghasi, in un attacco armato, attribuito dal governo di «salvezza nazionale» alle milizie di Heftar, hanno perso la vita alcuni dimostranti che occupavano la piazza Al Keesh per protestare contro il piano di Leon. Pochi giorni prima aerei non identificati bombardavano le postazioni di Daesh a Sirte. Una situazione confusa ad alto rischio e con ricorrenti esplosioni di violenza mentre i parlamentari delle due fazioni contrapposte non hanno ancora votato l’approvazione del piano di Leon. Intanto a livello di Unione Europa si parla nuovamente di sanzioni – probabilmente in tema sarà al centro di un incontro ministeriale a metà novembre. Fatto sta che il retaggio del passato coloniale riemerge di tanto in tanto. Ed a fargli eco qualche giorno fa le parole dell’Ammiraglio Credendino, fortemente voluto da Roma a capo di Euronavfor Med sull’uso della forza letale da parte delle forze dislocate in mare, e qualche settimana fa la notizia — smentita ovviamente dagli alti comandi della Difesa — di un’incursione di forze speciali italiane che avrebbe portato all’uccisione di un capo-scafista. Insomma questa la situazione ad altissimo rischio che troverebbe sul campo una forza armata italiana di stabilizzazione. Una situazione di guerra. Eppure di questo si continua a parlare più o meno dietro le quinte, mentre dall’altra parte delle quinte si annuncia la permanenza e l’aumento di effettivi in Afghanistan. Insomma un quadro allarmante, caratterizzato da una assoluta subalternità alle direttive di Washington da una parte, e dall’altra dalla frenesia del premier Renzi di volersi mettere a capo di un’avventura oltremare, dopo essere stato tagliato fuori dalla partita della successione di Leon, ed essersi fatto fautore di un’alleanza che si potrebbe definire assai «spregiudicata» con Bibi Nethanyahu e Fattah al Sissi. Altro che «scatolone di sabbia». Del 3/11/2015, pag. 14 Usi obbedir tacendo… Un convoglio di speciali tir portacontainer è partito il 26 ottobre dalla base italiana di Poggio Renatico (Ferrara), dove è stato costituito il Centro rischierabile di comando e controllo aereo della Nato, la prima unità del suo genere. Dopo aver percorso oltre 2500 km attraverso Austria, Repubblica Ceca, Polonia, Lituania e Lettonia, col supporto militare anche della Germania, è giunto nella base lettone di Lielvārde, a ridosso del territorio russo, appena ristrutturata per ospitare i droni Predator e altri velivoli militari Usa. Qui, con le sofisticate apparecchiature trasportate dall’Italia, è stato attivato il Dars, «punta di lancia» del Centro rischierabile Nato di Poggio Renatico. Fino al 27 novembre, nel quadro dell’esercitazione semestrale Ramstein Dust, il Dars effettuerà «missioni aeree dal vivo e simulate nello spazio aereo baltico», ossia prove di guerra contro la Russia. Agli ordini del generale italiano Roberto Nordio, comandante del Centro rischierabile Nato di Poggio Renatico, a sua volta agli ordini del generale statunitense Frank Gorenc che dirige il Comando aereo della Nato, a sua volta agli ordini del generale statunitense Philip Breedlove, Comandante supremo alleato in Europa nominato, come i suoi predecessori, dal Presidente degli Stati uniti. Mentre da Poggio Renatico parte la missione aerea nel Baltico a ridosso del territorio russo, la prima effettuata al di fuori del territorio italiano, sempre da Poggio Renatico vengono dirette le operazioni aeree tattiche della Trident Juncture 2015, 19 con la partecipazione di oltre 160 cacciabombardieri, aerei per il rifornimento in volo, elicotteri e droni che operano da 15 basi aeree in Italia, Spagna e Portogallo. La Trident Juncture è una evidente esercitazione di guerra diretta contro la Russia la quale – ha dichiarato a Trapani Birgi il vicesegretario della Nato, lo statunitense Vershbow, capovolgendo i fatti – «ha illegalmente annesso la Crimea, appoggia i separatisti in Ucraina ed è entrata nella guerra in Siria dalla parte di Assad», creando «una situazione potenzialmente più pericolosa di quella della guerra fredda». Scomparsa l’Urss, presentata allora come potenza aggressiva che mirava a invadere l’Europa occidentale, a Washington si crea ora il nuovo «nemico», la Russia, attuando in Europa la politica del «divide et impera». E si mobilita la Nato (estesasi a tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia e a tre dell’ex Urss) in preparativi di guerra che inevitabilmente provocano contromisure militari da parte russa. L’Italia di nuovo si trova in prima linea, con un governo che obbedisce agli ordini di Washington e una maggioranza parlamentare che segue il vecchio motto (ora in disuso anche tra i carabinieri) «usi obbedir tacendo». L’opposizione parlamentare (salvo qualche voce dissonante) finisce spesso col fare il gioco di chi ci sta portando alla guerra. Emblematico il recente documento di un partito di opposizione, in cui non si nomina la Trident Juncture né la Nato, ma si attribuisce il drammatico ritorno della guerra in Europa in primo luogo ai sogni di gloria e di egemonia della Russia e, in subordine, di Francia, Gran Bretagna, Turchia e, per ultimo, anche degli Stati uniti. Senza una parola sulle gravi responsabilità del governo italiano che, dietro false dichiarazioni distensive, contribuisce ai preparativi di guerra della Nato verso Est e verso Sud. Ignorando che, tramite la Nato e i patti segreti stipulati al suo interno con le oligarchie europee, Washington influisce non solo sulla politica estera e militare, ma sugli indirizzi politici ed economici della Ue. Impossibile pensare a una nuova Europa senza liberarsi dalla stretta soffocante della Nato. Del 23/11/2015, pag. 20 Il caso. Bruxelles dovrebbe rendere note le linee guida l’11. Lo Stato ebraico: “Così si incoraggia il boicottaggio” In arrivo le etichette sui prodotti delle colonie Israele contro la Ue “È discriminazione” FABIO SCUTO L’Unione Europea diramerà l’11 novembre le nuove “linee guida” per l’etichettatura dei prodotti provenienti dagli insediamenti nella Cisgiordania occupata che vengono attualmente venduti nelle grandi catene di distribuzione europee. L’indiscrezione trapelata ieri sera da Bruxelles, è stata confermata dal Ministero degli Esteri israeliano, ma senza fornire dettagli sul contenuto di queste “linee guida”. È dallo scorso aprile che 16 ministri degli Esteri della Ue, Italia compresa, chiedono l’attuazione di queste direttive. Per i prodotti degli insediamenti colonici oltre la Linea Verde – sono soprattutto agricoli – non potrà essere più usata la dizione “Made in Israel” come avviene attualmente, ma sul prodotto dovrà essere indicata la provenienza e la zona di coltura. In Sudafrica dove l’etichettatura dei prodotti delle colonie sono chiaramente identificati dallo scorso anno, la dizione scelta è “Cisgiordania: merci israeliane”. 20 La nota interpretativa che sarà diffusa la prossima settimana «non è giuridicamente vincolante» e chiarirà anche a chi spetta il “labeling”, l’etichettatura: se al produttore israeliano o all’importatore europeo. Per l’Unione europea è una questione di correttezza e tutela nei confronti del consumatore, ma anche un modo per sostenere la soluzione dei “due Stati” e garantire che i consumatori non siano indotti in errore da false informazioni. L’Ue riconosce lo Stato di Israele solo all’interno dei suoi confini precedenti il 1967. Pertanto, sostengono a Bruxelles, etichettare le merci della Cisgiordania come “Made in Israel” violerebbe le leggi a tutela dei consumatori. L’etichettatura Ue dei prodotti delle colonie israeliane in Cisgiordania «in questo momento rappresenta un bonus per la violenza palestinese, incoraggia il boicottaggio contro Israele ed è di natura discriminatoria », ha reagito a caldo ieri sera il Ministero degli Esteri ma senza commentare la data della prossima direttiva Ue sulla materia. «Israele», fa sapere un portavoce, «si è preparato diplomaticamente a questa eventualità». La decisione dell’Unione europea già in aprile aveva suscitato forti reazioni, l’allora ministro degli Esteri Avigdor Lieberman aveva paragonato i 16 ministri degli Esteri della Ue ai nazisti. L’allora ministro delle Finanze Yair Lapid ebbe una conversazione con Lady Pesc, Federica Mogherini nella quale definì la decisione una «macchia per la Ue», un appello al boicottaggio di Israele e «un processo pericoloso che potrebbe portare al disastro l’economia israeliana». In qualità di ministro delle Finanze, Lapid probabilmente sapeva che stava esagerando l’impatto a breve termine sull’economia israeliana. Ma è anche evidente che l’introduzione dell’etichettatura dei prodotti provenienti da Territori che l’Unione Europea considera illegalmente occupati, ha il potenziale di danneggiare seriamente lo Stato di Israele nel lungo periodo, innescando una valanga che potrebbe finire con un boicottaggio globale. Nonostante la forte reazione politica con l’introduzione del “labeling”, stando alle ultime cifre e stime disponibili, in Israele l’impatto economico sembrerebbe marginale. Nel 2014 i Paesi della Ue hanno importato beni da Israele per oltre 60 miliardi di shekel (circa 14 miliardi di euro), le esportazioni dagli insediamenti ebraici che consistono in prodotti agricoli sono minuscoli al confronto. Secondo la Israel Manifacturers Association nel 2102 le esportazioni dalla Cisgiordania, da Gerusalemme Est e dal Golan verso l’Ue non hanno superato gli 80 milioni di euro. L’Ue, parallelamente alla decisione sull’etichettatura, ha liberalizzato le esportazioni israeliane in Europa e aumentato le agevolazioni su merci e servizi prodotti in Israele. Va poi valutato anche il caso delle 14 zone industriali con 800 fabbriche e strutture agricole in Cisgiordania. Impiegano 15.000 lavoratori palestinesi. In tempi di crisi saranno i primi a perdere il posto di lavoro. del 03/11/15, pag. 5 L’ombra di una nuova Vatileaks Il caso della festa Il caso della festa «esclusiva» sulla terrazza per la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II I riflessi economici Non ci sarebbe da meravigliarsi se alla fine l’arresto del monsignore avesse riflessi sulla gestione economica della Santa Sede Massimo Franco Sono due persone che aveva scelto papa Francesco. E dunque venivano ascritte quasi d’ufficio al nuovo corso di Jorge Mario Bergoglio. Per questo l’arresto di Lucio Angel Vallejo Balda, esponente di peso dell’Opus Dei, e di Francesca Immacolata Chaouqui, 21 giovane donna di pubbliche relazioni per Ernst &Young, ha sorpreso quasi tutti. Dall’esterno è apparso un colpo all’immagine dello stesso Pontefice. Entrambi, infatti, il monsignore e la sua protetta, erano stati membri della Commissione d’inchiesta sulle finanze vaticane, istituita nel luglio del 2013. La presiedeva il maltese Joseph Zara, amministratore delegato del Market Intelligence Services Co Ltd. Ma dentro le Sacre Mura si sapeva da almeno un anno che il loro sodalizio e la loro rete di contatti erano screditati anche agli occhi di Francesco. Già nel novembre del 2014, un esponente vaticano a conoscenza di molti segreti confidava le perplessità diffuse sul comportamento di monsignor Vallejo Balda e della giovane lobbista. «Hanno avuto accesso a documenti riservati, e c’è il rischio di una Vatileaks economica», si diceva già allora. D’altronde, per mesi avevano avuto pieno accesso a Casa Santa Marta, l’albergo dove il Papa ha scelto di risiedere. Garantivano contatti e informazioni riservate, servendosi di siti e giornali compiacenti. E cercavano di accattivarsene altri offrendosi come mediatori. Sostenevano di potere avere contatti diretti col Papa. E probabilmente, all’inizio qualcosa di vero ci doveva essere: esibivano una sicumera tipica di chi si sente introdotto nel «posto giusto». Nell’euforia seguita alle dimissioni di Benedetto XVI e all’arrivo del primo latino-americano sul Soglio di Pietro, tutto appariva possibile. Il vento di novità velava le zone grigie, i rapporti tra vecchio e nuovo potere, il trasformismo, e la determinazione delle lobby finanziarie più influenti e segrete a concedere il minimo all’imperativo della trasparenza. Sotto questo aspetto, il duo Vallejo-Chaouqui è la metafora di un cambiamento dai contorni a tratti ambigui; e di una certa difficoltà di Francesco a conoscere esattamente gli intrecci del sottobosco vaticano e riconoscere le persone più affidabili. È una zona grigia estesa e infida, dalla quale il monsignore dell’Opus Dei, che si è affrettata a separare le proprie responsabilità da quelle di Vallejo Balda ora che si trova in una cella della Gendarmeria vaticana, è emerso solo per eccesso di protagonismo o di furbizia. Evidentemente il modo di fare suo e della sua sodale è stato così irrituale da apparire più che una cifra del nuovo pontificato, un’ostentazione maldestra e forse anche millantata del potere. Colpì molto, sotto questo aspetto, la «festa» data dal duo sulla terrazza della Prefettura degli Affari economici, affacciata su piazza San Pietro, a fine febbraio del 2014. Si canonizzavano Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. E, mentre la folla della gente comune si accalcava all’interno del colonnato del Bernini, uno spicchio del cosiddetto «mondo Vip» sorseggiava vino pregiato e mangiava, guardando quell’umanità dall’alto. Un raduno sponsorizzato, all’insaputa dell’allora «ministro dell’Economia», il cardinale Giuseppe Versaldi. Monsignor Balda distribuiva la Comunione agli ospiti tirando fuori le ostie da bicchierini di carta; unendo sacro e profano senza essere attraversato da un solo dubbio. E la Chaouqui accoglieva gli invitati come una specie di padrona di casa. Su quel balcone c’era la marmellata politico-religiosa della Roma vecchia e nuova, del potere economico del passato e del presente: di nuovo, la metafora involontaria di una rivoluzione inevitabilmente contraddittoria. «È uno schiaffo, uno schiaffo», sembra avesse commentato Francesco quando gli diedero la notizia di quel rito mondanissimo, camuffato da occasione religiosa: rappresentava tutto ciò che aveva cercato di combattere fin dal primo giorno. Il pontefice fece convocare Vallejo Balda, e gli chiese conto di quanto era accaduto. Il seguito è arrivato a cascata. Si parla di ingresso in Vaticano interdetto alla Chaouqui da mesi, ormai. Di un Francesco addolorato ma costretto a prendere tempo, perché gli si faceva presente che i sospettati potevano far filtrare i documenti della commissione della quale erano membri. Sullo sfondo stagnava il timore che l’eventuale espulsione della Chaouqui dalla cerchia papale potesse essere considerata solo come la vendetta di un ambiente misogino; e la 22 convinzione che Vallejo Balda dovesse essere smascherato con prove inoppugnabili. Ma il dubbio è che la svolta sia arrivata troppo tardi. Il tentativo di fermare altre «rivelazioni» che promettono di deturpare non solo l’immagine ma l’identità della «nuova Chiesa» di Bergoglio, semina perplessità. E alla fine si torna al punto di partenza: la selezione del gruppo dirigente in Vaticano, l’opacità delle questioni economiche, e la guerra mai finita per assumerne il controllo. Per questo non ci sarebbe da meravigliarsi se alla fine l’arresto di Vallejo Balda avesse riflessi anche sulla gestione delle finanze della Santa Sede; e acuisse le ostilità tra il «ministro dell’Economia» George Pell. All’inizio, sembra che lui e Vallejo Balda fossero tacciati di avere la «sindrome del giustiziere»: agivano in accordo per spazzare via tutto ciò che non rientrava nelle loro logiche. Poi la loro alleanza si è spezzata, probabilmente per ambizioni divergenti e, nel caso del prelato dell’Opus Dei, frustrate. Così, Vallejo Balda avrebbe cominciato a consumare le sue vendette, facendo trapelare notizie contro Pell, inviso a quasi tutto il Vaticano per i metodi sbrigativi. Le indicazioni inviate qualche giorno fa dal Papa per ricordare che in attesa della riforma della Curia valgono ancora le regole di prima, e che ad amministrarle è il segretario di Stato, cardinale Piero Parolin, suona come la conferma del ridimensionamento di Pell: tra l’altro, uno degli ispiratori della lettera con la quale i conservatori hanno accreditato un esito del Sinodo precostituito da Bergoglio: un’accusa intollerabile. Ma i due accusati sono pedine di un gioco più grande e più sporco: un altro tentativo spettacolare di destabilizzare un papato, sfruttando gli errori commessi in nome del rinnovamento, per disdirlo completamente. Una manovra torbida . 23 INTERNI Del 23/11/2015, pag. 17 Caos in Forza Italia Berlusconi ci ripensa “Alfio è un arrogante” Dietrofront su Marchini per i troppi dissensi interni Domenica il Cavaliere sul palco a Bologna con la Lega CARMELO LOPAPA Il gelo su Alfio Marchini. «Il candidato sindaco lo concorderemo con gli alleati, con le altre forze della coalizione, a Roma come a Milano» fa sapere adesso un conciliante Silvio Berlusconi attraverso i suoi ambasciatori. Troppo alto il polverone che si è sollevato nel centrodestra dopo l’intervista a Repubblica con cui lo stesso leader di Forza Italia ha dichiarato con nettezza che l’imprenditore sarebbe stato il candidato nella Capitale. Le interviste rilasciate dallo stesso Marchini nel fine settimane per ribadire che lui resta comunque distinto e distante dai partiti e alla guida della sua lista civica, hanno contrariato non poco il Cavaliere. Berlusconi ha giudicato quelle parole un gesto di «arroganza e supponenza ». La fedelissima Licia Ronzulli esce allo scoperto: «Marchini ha dimostrato poca lungimiranza politica con quelle interviste, siamo con la Meloni se si candida». Ed è più che un indizio. Giorgia Meloni e i suoi Fratelli d’Italia hanno già dichiarato guerra al costruttore «di sinistra». La ex ministra ha incontrato ieri sera il governatore Giovanni Toti, braccio destro berlusconiano e suo sponsor, per discutere delle alternative «necessarie» a Marchini per Roma. Se potesse, la Meloni eviterebbe di candidarsi, come fa ripetendo, lo farebbe solo se «costretta» dalla situazione. Ma è molto probabile che tra domani e giovedì la leader di Fdi veda anche Berlusconi e Salvini. Sono i tre big della manifestazione di piazza domenica a Bologna e col pretesto della pianificazioni della kermesse faranno una volta per tutte chiarezza, intanto su Roma. La Meloni in serata depone l’ascia di guerra, è più serena: «Con Berlusconi e Salvini è positivo che si torni a parlare di contenuti, piena disponibilità al confronto, no alle decisioni a mezzo stampa». E Ignazio La Russa spiega: «Il nome deve essere di centrodestra e condiviso dai partiti, sono le due condizioni irrinunciabili. Se poi lo vogliono proprio di sinistra - ironizza - allora io preferisco Rutelli, che mi sta più simpatico ». Marchini è l’unico realmente in campo e conferma la linea dell’equidistanza, tagliando corto: «Verrà il tempo delle alleanze, ora è tempo di programmi». Ma se a Roma il centrodestra è sull’orlo di una crisi, a Milano è nella palude. La figura di «alto profilo» alla quale pensava Berlusconi è Paolo Scaroni (ex ad Enel e Eni) il quale però ha già risposto «no grazie ». Nonostante i veti di alcuni dei suoi per l’imprinting leghista, il leader forzista in piazza vuole andare. «Non voglio farmi sfuggire l’occasione di quella foto sul palco con Salvini e la Meloni, sarebbe la prima occasione per mostrare un centrodestra unito contro Renzi», ha confidato l’ex premier nella giornata trascorsa come di consueto ad Arcore per impegni d’azienda e familiari. Sarebbe la prima volta dopo le immagini d’annata delle piazze con Bossi, Fini e Casini. Altero Matteoli è capofila del nutrito gruppo di forzisti scettici sulla presenza di Berlusconi: «Solo al telefono alle manifestazioni di Fi e ora va sul palco con Salvini? Non mi entusiasma proprio». Tanti i malumori, al punto che non viene escluso un ufficio di presidenza in settimana. 24 Del 23/11/2015, pag. 26 Lite Regioni-governo Renzi le convoca “Ora ci divertiamo” Chiamparino: “Spending review troppo pesante” Il premier: “Eliminate gli sprechi”. Domani il vertice ROBERTO PETRINI «La nostra sopravvivenza è a rischio, si profilano forti criticità e dalla Sanità manca 1 miliardo, due terzi della spending review a carico nostro». Il presidente della Conferenza delle Regioni, Sergio Chiamparino lancia un nuovo grido d’allarme alla volta del governo Renzi, chiede un incontro d’urgenza all’esecutivo e conferma le dimissioni annunciate nei giorni scorsi. In serata la replica di Renzi che convoca i governatori per domani ma ammonisce: «Adesso ci divertiamo, ma sul serio: non consentirò che aumentino le tasse, eliminino piuttosto gli sprechi. Sulla sanità ci sono più soldi che in passato». Il tema delle Regioni cattura la scena delle audizioni parlamentari sulla Stabilità, precedute da una conferenza stampa dello stesso Chiamparino. Sul tavolo almeno tre questioni. In prima battuta il taglio del fondo del servizio sanitario nazionale per il quale «serve un miliardo in più», dice Chiamparino : è necessario per arrivare dai 111 miliardi assegnati (rispetto ai 110 del 2015) ad almeno 112 miliardi ncessari per nuovi Lea, per i vaccini, per contratti di lavoro del personale sanitario e per farmaci innovativi salvavita. La seconda questione riguarda il taglio di 1,8 miliardi imposto alle Regini per il raggiungimento del pareggio di bilancio previsto dalla Costituzione: una sforbiciata netta solo parzialmente mitigata da altri stanziamenti. Infine ci sono le dilazioni per il decreto salva-Regioni. Del resto la lo stesso Servizio bilancio ha fornito argomenti ai governatori: il taglio complessivo ai fondi regionali, secondo il rapporto pubblicato ieri, ammonta in tre anni, 2017-2019, a circa 17 miliardi. «Due terzi della spending review sono a carico delle Regioni», ha protestato Chiamparino. Il decollo della «Stabilità 2016» ha subito il fuoco di fila dei rilievi dei tecnici del Servizio Bilancio anche su altri punti cruciali dell’articolato. In prima fila l’abolizione della Tasi e la manovra compiuta dal governo per compensare il mancato gettito per i sindaci: i tecnici rilevano che il fondo che ristora la perdita del gettito della tassa sulla prima casa è «rigido» e «limita la manovra dei Comuni » nel momento i cui si trovano ad utilizzare le risorse, rispetto a quanto avveniva con il gettito fiscale. Rilievi anche sul taglio del fondo sanitario: il finanziamento reso disponibile potrebbe non bastare e dunque generare «tensioni». Positivo tuttavia il responso di Fassino (Anci): «Non taglia risorse ai Comuni ». Critiche dei tecnici anche sul reiterarsi di norme «contrapposte» sul tetto al contante, dubbi sul gettito della «voluntary» e sul turn over degli statali. I tecnici colgono in fallo il governo anche sul tema cruciale della sterilizzazione della clausola di salvaguardia che avrebbe fatto aumentare l’Iva nel 2016. Per neutralizzarla la Stabilità prevede l’impiego di 12,8 miliardi (per la sola Iva) sopravvalutando tuttavia il potenziale gettito di circa 4 miliardi. Infatti un punto dell’Iva ordinaria viene valutato dal governo in circa 4 miliardi (8 per i due punti previsti dal 22 al 24) considerando tuttavia il vecchio gettito che contabilizzava anche l’Iva dovuta al pagamento dei crediti delle imprese e senza tenere conto che un aumento dell’imposta riduce i consumi: il calcolo corretto sarebbe dunque circa 2 miliardi a punto ( dunque 4 per i due punti) senza considerare un eguale «errore» intercorso per l’aliquota intermedia (dal 10 al 12 per cento). Se questi calcoli fossero esatti l’entità della manovra dovrebbe scendere. 25 Critiche anche dai sindacati. Camusso (Cgil) parla di manovra «non espansiva». Squinzi (Confindustria) invece approva: «Prima manovra espansiva dal 2007». Del 3/11/2015, pag. 3 Regalo di stato alla Chiesa Favori e abusi, la Corte dei conti boccia ancora il sistema dell’otto per mille. Da quando è entrato in vigore il clero ha incassato oltre 20 miliardi. Nel 2015 solo il 27% destinato a interventi caritativi. I giudici contabili fanno luce su una situazione opaca: tanti spot, errori e irregolarità nei Caf. Verso la Cei l’80% dei fondi pubblici Severissimo atto d’accusa della Corte dei conti contro l’otto per mille. Il principale imputato è la Chiesa cattolica, il soggetto che percepisce oltre l’80% delle somme raccolte. Ma il dito viene puntato anche contro lo stato, accusato di poca trasparenza, assenza di controlli e sostanziale disinteresse, quasi che il meccanismo dell’otto per mille fosse una sorta di «foglia di fico» per nascondere il meccanismo di finanziamento diretto alle confessioni religiose. Non è la prima volta che i magistrati contabili criticano il sistema dell’otto per mille — lo scorso anno ad essere giudicato iniquo era stato il meccanismo della ripartizione proporzionale delle quote non espresse che favoriva nettamente la Chiesa cattolica , ma questa volta i rilevi sono piuttosto pesanti e molto circostanziati. Il sistema, spiega la relazione della Corte dei conti, ha «contribuito ad un rafforzamento economico senza precedenti della Chiesa italiana». Da quando è entrato in vigore, la Chiesa cattolica ha incassato oltre 20 miliardi di euro, e dal 2002 l’importo si è stabilizzato intorno ad 1 miliardo l’anno. Nel 2015, per esempio, le sono stati assegnati 995 milioni di euro. Buona parte di questi fondi (73%) è stata utilizzata per «esigenze di culto e pastorale» (403 milioni, il 40% del totale) e «sostentamento del clero» (327 milioni, il 33%); una percentuale minore per gli «interventi caritativi» (265 milioni, il 27%). Proprio sulla ripartizione dei fondi e sulla campagne pubblicitarie si soffermano i richiami della Corte. «Non esistono — scrivono i magistrati — verifiche di natura amministrativa sull’utilizzo dei fondi erogati alle confessioni, nonostante i dubbi sollevati dalla parte governativa della Commissione paritetica Italia-Cei su alcune poste e sulla ancora non soddisfacente quantità di risorse destinate agli interventi caritativi», che invece risultano abbondantemente pubblicizzati. Ma, si legge nella relazione, proprio «il ricorso alla pubblicità da parte delle confessioni religiose per ottenere una quota sempre più rilevante della contribuzione pubblica rischia di creare la necessità di convogliare ingenti risorse a fini promozionali a discapito del loro utilizzo per le finalità proprie». Insomma le confessioni — non solo quella cattolica — spendono troppo in pubblicità, e in questo modo utilizzano i fondi in maniera non corretta. C’è poi il sospetto di veri e propri brogli. Da un controllo su 4.968 schede, sono stati riscontrati errori nel 7,02% dei casi perché «il contribuente ha espresso una scelta che il Caf ha omesso di trasmettere», «il Caf ha trasmesso una scelta nonostante il contribuente non ne avesse effettuata alcuna» oppure «il contribuente ha espresso una scelta ma il Caf ne ha trasmessa una diversa». E va rilevato, nota la Corte, che «nel 65% delle irregolarità in argomento le scelte erroneamente trasmesse sono a favore delle Chiesa cattolica». Una percentuale di «errore» che sale addirittura all’84%, sempre a favore della Chiesa cattolica, in un’altra casistica: la «mancata conservazione, da parte del Caf, delle schede recanti la scelta del contribuente». Quindi il Caf segnala la scelta di destinazione dell’otto 26 per mille a favore della Chiesa cattolica, ma non si trovano più i modelli firmati dal contribuente in cui l’opzione sarebbe stata espressa. Sotto accusa anche lo stato: scarsa trasparenza, poiché non viene comunicato ai cittadini in maniera chiara come sono utilizzati i fondi; uso improprio delle risorse, spesso non impiegate per i fini previsti dalla legge (beni culturali, calamità, fame nel mondo, assistenza rifugiati) ma per altri scopi, come per esempio la missione militare in Iraq; disinteresse ad incentivare la destinazione dell’otto per mille allo stato; trasferimento alla Chiesa cattolica di fondi destinati allo stato, per esempio per il restauro di immobili ed edifici religiosi. Del 3/11/2015, pag. 3 Grandi Navi, Brugnaro pensa a un ticket per salvare le casse del comune Venezia. Oggi la decisione di sindaco e Autorità portuale Grandi Navi: si «rottama» la laguna in cambio di qualche milione di euro? Stamattina a Ca’ Farsetti forse la risposta, perché il sindaco Luigi Brugnaro ha convocato una conferenza stampa con Paolo Costa, presidente dell’Autorità portuale. Ma le prove tecniche di sintonia sussidiaria erano scattate subito dopo l’elezione del «doge fucsia»: il 18 giugno fu certificata l’intesa di massima sul progetto alternativo per il passaggio delle «città galleggianti» in laguna. «Un raccordo tra il canale Malamocco-Marghera e il canale Vittorio Emanuele III che costeggia il lato est dell’isola delle Tresse. Il Porto ha convenuto di inserirla come integrazione spontanea del procedimento di valutazione d’impatto ambientale speciale in corso» recitava il comunicato ufficiale. Tant’è che pezzi del Pd si allinearono prontamente a Costa, uomo per tutte le stagioni. Oggi si capirà meglio anche l’effettiva consistenza dell’idea di una tassa sulla crociera in laguna. Brugnaro è alla disperata ricerca di soldi per le casse del Comune: peccato che, in questo caso, deve contrattare con le compagnie del settore. Nemmeno il nuovo «doge» può imporre oboli ai turisti che salgono a bordo. E la bizzarra idea di trasformare il centro storico di Venezia in Ztl pedonale non ha ancora scalfito il governo Renzi. Così potrebbe aumentare il «biglietto» della crociera: da 1 a 5 euro, che si tradurrebbero in un introito comunale fra i 2 e i 10 milioni di euro. Purché sia un «accordo volontario» con Venice Terminal Passeggeri… Ma c’è sempre il rebus della nuova rotta per le gigantesche imbarcazioni che passano davanti a piazza San Marco. In origine, il «sistema Mose» puntava sul canale Contorta: almeno 150 milioni di appalto al solito giro di imprese, scavando 5 chilometri fino ad una dozzina di metri di profondità. Comitato NoGrandiNavi, associazioni ambientaliste e remiere, cittadini si battono invece per la vera salvaguardia della laguna. Gli studi del professor Luigi D’Alpaos, massimo esperto di idraulica, certificano come le barene della Serenissima che ad inizio ‘900 occupavano 170 chilometri quadrati si siano «asciugate» fino a 47. Commenta Nicola Pellicani, portavoce del centrosinistra in consiglio comunale: «Tutto dipende dalla valutazione d’impatto ambientale: anche nell’eventuale alternativa. Perché anche il “mini Contorta” significa scavare fanghi inquinanti e modificare gli assetti della laguna». Gianfranco Bettin, presidente della municipalità di Marghera, aggiunge: «È del tutto evidente che qualsiasi manomissione farebbe male all’ecosistema. Dopo il canale dei petroli, scavare massicciamente l’area centro-sud della laguna rappresenta un rischio mortale». In gioco, secondo le attendibili valutazioni di Giuseppe Tattara (ordinario di Poli27 tica economica a Ca’ Foscari), il giro d’affari di 86 milioni di euro all’anno legato alle crociere che equivale al 2% del Pil veneziano. Del 23/11/2015, pag. 1-33 La controdemocrazia ILVO DIAMANTI NON è facile governare, in Italia. A nessun livello. Al di là dei limiti della classe politica, l’azione dei gruppi dirigenti è frenata da molti vincoli. Istituzionali e legislativi. VOLTI a impedire lo sconfinamento dei poteri politici in ambito economico, sociale. E nella sfera dei diritti dei cittadini. La tiranno-fobia, alimentata dall’esperienza del fascismo, ha contribuito, in fase costituente, a rafforzare i poteri di controllo. Perché «ogni buona costituzione è un atto di sfiducia nei confronti del potere», osservava Benjamin Constant nel 1829. Così, le istituzioni di garanzia, per prima la magistratura, hanno assunto grande autorità. Anche se i poteri “politici” hanno cercato, spesso, di neutralizzarla. Fino a quando, nei primi anni Novanta, Tangentopoli ha travolto la classe politica della cosiddetta Prima Repubblica. Indebolita dagli scandali per corruzione. Da allora, magistrati, giudici, avvocati, insomma, le diverse istituzioni e figure del sistema giudiziario, hanno assunto un ruolo prioritario. Più che “garanti della giustizia”: “giustizieri”. Nel senso che i cittadini hanno affidato loro il compito di “giustiziare” la classe politica, inefficace e — appunto — corrotta. “Garanti della pubblica virtù”, li definì Alessandro Pizzorno. In grado di delegittimare un leader, un partito, un’amministrazione. Tanto più al tempo della “democrazia del pubblico”, dove i media e, soprattutto, la televisione hanno costituito il principale spazio della politica. Il centro dell’opinione pubblica. Da allora, cioè, negli ultimi vent’anni, i “professionisti della giustizia”, oltre che garanti, sono divenuti attori politici di primo piano. Magistrati e avvocati sono, infatti, numerosi: alla Camera e in Senato. Ma anche fra i sindaci e i governatori. Oppure, fra i “custodi” della legalità, in occasione di manifestazioni dove l’interesse pubblico si associa a grandi interessi economici e commerciali. Come l’Expo e le celebrazioni — imminenti — per il Giubileo. Allora la figura del magistrato, ma anche del prefetto, insomma: del “garante del bene pubblico”, è divenuta una soluzione, quasi, obbligata. Per ragioni di “sfiducia” nei confronti del potere politico. Per citare un altro filosofo francese, in questo caso contemporaneo, Pierre Rosanvallon, l’Italia è un caso esemplare di “contro-democrazia”. Che non significa antidemocrazia, ma “democrazia della sorveglianza”. Dove la sfiducia si traduce in controllo democratico. Esercitata dai magistrati, ma anche da movimenti, comitati e dagli stessi cittadini. Soprattutto dopo l’avvento di Internet, che è divenuto un canale di controllo e denuncia largamente accessibile e frequentato. Per questo, il nostro Paese dovrebbe essere considerato una “vera” democrazia. Benjamin Constant ne sarebbe ammirato. Perché, se la sfiducia è una “virtù democratica”, l’Italia dovrebbe essere una democrazia particolarmente virtuosa. Visto che le istituzioni rappresentative sono sempre più “sfiduciate” dai cittadini. Parlamento, Regioni, Comuni. Perfino la fiducia verso lo Stato oggi non supera il 15% (Sondaggi Demos). Cioè: la metà rispetto al 2010. Mentre la fiducia nei partiti — lo abbiamo ripetuto spesso — è ormai scesa al 3%. D’altronde, oggi, oltre vent’anni dopo Tangentopoli, secondo il 47% degli italiani, la corruzione politica sarebbe più diffusa di allora. Secondo il 42%: allo stesso modo. Meno del 10% pensa, al contrario, che sia diminuita. Insomma, partiti e politici: tutti corrotti, proprio come allora. Anche per questo, da molti anni, per ricoprire cariche e ruoli 28 di amministrazione e di governo, si cercano figure “non politiche”. Come confermano le recenti vicende romane. Dove al posto del sindaco Ignazio Marino, chirurgo trapiantista, sfiduciato dai consiglieri comunali, è stato nominato commissario Francesco Paolo Tronca, prefetto di Milano. Alla guida dell’Expo. A Roma era già stato chiamato Franco Gabrielli. Anch’egli prefetto. In precedenza direttore del Sisde. Fra i possibili candidati sindaci, si parla di Giovanni Malagò, Alfio Marchini. Non per caso: “non politici”. D’altronde, a Napoli governa De Magistris, in Puglia: Emiliano (già sindaco di Bari). Entrambi magistrati. A Venezia è divenuto sindaco Luigi Brugnaro, imprenditore. Sfidato da Felice Casson, a lungo magistrato della città. Il problema, semmai, in Italia, è che la contro- democrazia è “una” faccia della democrazia. Che è anche “governo”. Ma in Italia l’azione di governo risulta più faticosa del contro-governo. Non per caso, il Movimento 5 Stelle, percepito dagli elettori come uno strumento di “sorveglianza democratica”, secondo i sondaggi, oggi avrebbe superato il 27%. E si starebbe avvicinando al PdR. Mentre si assiste al declino dei canali della rappresentanza e della partecipazione. I corpi intermedi e i partiti: tradizionali canali di formazione della classe politica. E di promozione dei valori e delle domande sociali. Il trionfo della contro-democrazia, però, sta logorando i suoi stessi protagonisti. La fiducia nei magistrati, infatti, fra i cittadini, dal 47%, nel 2003, è scesa al 35% nel giugno 2015. Tuttavia, anche se non è popolare (e neppure populista) affermarlo, io ritengo che una democrazia (rappresentativa) senza partiti non esista. Non sia “democratica”. La politica, i politici: non possono essere rimpiazzati da magistrati, prefetti, imprenditori, giudici, avvocati, chirurghi. Scelti on demand perché “impolitici”. Senza generare un senso di “vuoto”. D’altronde, 7 persone su 10, in un sondaggio (Demos) di alcuni mesi fa, sostenevano che, in questo clima di confusione, “ci vorrebbe un uomo forte a guidare il Paese”. Matteo Renzi interpreta questi tempi inquieti. Li traduce “a modo suo”. Per quanto “politico di professione” che rivendica il primato della politica, Renzi: decide (o dice di farlo) “da solo”. È il premier di un governo “personale”, il segretario di un partito che non c’è (più). Alla guida di un Paese dove non ci si fida di nessuno. Emblema di un presidenzialismo preterintenzionale, che sfida attori e vincoli della contro-democrazia. Specchio di una democrazia liquida. Fin troppo. 29 LEGALITA’DEMOCRATICA del 03/11/15, pag. 7 Ciak, si gira: Mafia Capitale alla sbarra di Pino Corrias Di solito i film e le fiction arrivano molto dopo i processi. Ma nella Roma dell’eterno (avan)spettacolo che fa naufragio persino sul suo stesso palcoscenico imbrattato di corruzione, disonore e cipria, accade il contrario. Massimo Carminati, detto Er Cecato, sta da gran tempo in gattabuia con la doppia mandata del 416 bis, l’associazione mafiosa, ma sta pure già in sala cinematografica con il suo alter ego il Samurai, indossando per sovrappiù la faccia spampanata dei Cesaroni e una fissità da nera commedia che neanche la pioggia riesce più a scalfire. Dunque lo spettacolo del processo che giovedì si aprirà tra le quinte ridondanti dell’aula bunker del carcere di Rebibbia – con i suoi riverberi d’altri allestimenti teatrali infinitamente narrati: Ustica, P2, Moro-Brigate rosse, delitto di via Poma – rischia un effetto remake già al primo ciak. Almeno per via delle facce che sfileranno durante il kolossal, 46 imputati, 250 testimoni, 100 mila pagine di carte processuali, 3600 ore di intercettazioni telefoniche e ambientali. Coop rosse, bianche e abbuffate bipartisan Con alcune (e non amichevoli) partecipazioni di presunti lestofanti tipo Salvatore Buzzi, il plenipotenziario della cooperativa 29 Giugno (51 milioni di fatturato) che masticava la tragedia dei migranti trasformandola in denaro sonante, “ahò, ce guadagno mejo che con la droga”. Presunti politici corrotti, come l’ex camerata Luca Gramazio e l’ex veltroniano Luca Odevaine. Una manciata di star da talk show politico, compresi l’imperdibile Ignazio Marino, fresco di retromarcia su Roma, l’enigmatico Nicola Zingaretti, ancora presidente della Regione Lazio, e persino un veterano dei misteri romani, Gianni Letta, che coi suoi squisiti silenzi sta colmando il vuoto lasciato dalla buonanima di Giulio Andreotti, detto, tra i suoi adepti, “lo zio”. Non mancheranno i colpi di scena. A cominciare dalla famosa lista dei 101 nomi di dirigenti e funzionari del Comune forse infedeli, forse conniventi al malaffare, a riprova che i mondi di sotto, di sopra, di mezzo, di destra e di sinistra – appena possono – corrono tutti dentro lo stesso specchio. Chissà se si mangeranno popcorn in aula. O se ci penserà l’altra cooperativa coinvolta, La Cascina (260 milioni di fatturato) questa volta bianca e targata Comunione e liberazione a portare i gelati. Giusto per stare in tema, visto che di insaziabili scorpacciate si parlerà, non solo di denari e appalti, autobus che non camminano, nettezza urbana che non pulisce, vigili urbani che non vigilano. Ma anche reputazioni di uomini e donne, funzionari pubblici e imprenditori privati, inghiottiti in questo eterno banchetto romano che si è andato perfezionando nell’ultimo, peculiare, ventennio. Durante il quale – di festa in festa, di mangiata in mangiata, di mignotta in mignotta – un’intera classe dirigente è stata selezionata al peggio. Camerati, spezzapollici e ideali da portafogli Dagli indimenticabili veterani dell’aragosta Previti e Squillante, il corruttore e il corrotto, compagni di circolo sul Tevere, ai massaggi con il preservativo del piccolo zar Guido Bertolaso, fino al cupo Gianni Alemanno che per farsi sindaco si tolse di dosso la croce celtica, ma non i camerati del suo passato. Compreso l’ex terrorista nero Carminati, con i 30 suoi spezzapollici al seguito, alcuni magari attempati, ancora “con l’ideale nel cuore”, ma il cuore molto al di sotto del portafoglio. Tutti fabbricati nel mondo di sotto, emersi ai bordi della cronaca nera, passati per gli anni di piombo, il carcere e infine risaliti dalla Magliana fino all’ampio parcheggio del distributore Eni con vista sugli ingorghi di corso Francia, da dove sputano sentenze sul mondo di sopra, bevendo Campari: “Tu a quello je devi dire: a coso come ti chiami? Ricordati che nella strada comandiamo sempre. Nella strada tu c’avrai sempre bisogno di noi”. Personaggi con infiniti riverberi cinetelevisivi, i duri in finta pelle, che un giorno si stancano di rosicchiare gli ossi al piano terra, vogliono salire anche loro alle feste dei superattici dove c’è musica, cibo caldo e costoso, assessori di destra e di sinistra in fregola, qualche nobile spiantato per fare arredamento. “4 cavalli che corrono con il Pd e 3 con il Pdl” Loro portano coca e femmine in tacchi a spillo: la ricreazione. E poi portano ordine nel disordine, velocizzano appalti con una minaccia in bianco e una mancia in nero (Buzzi: “Mo’ c’ho quattro cavalli che corrono con il Pd e tre con la Pdl”; “Ahò, io pago le cene, pago la segretaria, a Luca je do 5 mila al mese, tutti i mesi, all’assessore dieci, a quell’altro del Comune sette e cinquanta”). Tutta prosa già inserita nei correnti poliziotteschi seriali e buona per quelli futuri. Se non ci fosse di mezzo il naufragio di una intera città con le sue periferie crollanti, Capitale infetta di un Paese corrotto. Il quale continua a celebrare i suoi eroi civili – da Pasolini a Falcone – ma solo dopo che sono ben morti e sepolti sotto molta retorica e una corona di fiori. Sentendosi così intelligentemente rassicurato da certi suoi atleti del quieto vivere che dicono: “Ma questa non è mafia, sono rubagalline”. Facendo finta di non sapere quanti politici, ma specialmente quanti giudici di un tempo non remoto, dicevano per l’appunto che “la mafia non esiste” e se esiste non risulta. E a un Boris Giuliano, capo della Mobile palermitana morto sparato una mattina di luglio del 1979, non firmavano i mandati di cattura con una alzata di spalle: “I corleonesi? L’associazione mafiosa? Mi porti le prove, signor commissario, non teoremi”. Oggi i teoremi e i controteoremi pari sono perché mandano avanti l’intreccio. Nello spettacolo che si allestisce sulle note di Mafia Capitale c’è posto anche per gli apoti, quelli che non la bevono, e che si credono spregiudicati e controcorrente vestendo i panni degli antagonisti in commedia. Tanto poi si continuerà tutti ad andare a cena da Johnny (“il miglior pesce di Roma”) dove giusto un anno e mezzo fa le microspie dei carabinieri del Ros intercettavano i piani della imminente latitanza di Matacena e Dell’Utri, altra coppia di eroi dello stesso copione. Il processone avrà 106 udienze, cioè puntate, quattro a settimana come le sit-com e audience adeguata. Le periferie magari un giorno o l’altro bruceranno, ma il finale, nelle buone fiction, è sempre provvisorio. Per i gufi aspettiamo la seconda serie. Del 23/11/2015, pag. 12 Coi boss anche politici e funzionari la “lista dei 101” di Mafia Capitale CARLO BONINI GIOVANNA VITALE Accreditato come l’ultimo segreto di Mafia Capitale, la cosiddetta “lista dei 101” tra consiglieri comunali, regionali e funzionari dell’amministrazione capitolina travolti dall’inchiesta giudiziaria sul Sistema Buzzi-Carminati, non è più tale. E, come ha ricordato ieri il prefetto di Roma Franco Gabrielli, in qualche modo non lo è mai stato. Allegata alla 31 relazione di circa mille pagine redatta dalla commissione prefettizia di accesso agli atti (quella che avrebbe concluso il suo lavoro raccomandando lo «scioglimento per mafia del consiglio comunale »), la lista e la relazione di cui fa parte, da ieri, è stata peraltro anche formalmente “liberata” da Gabrielli perché la Procura possa depositarla agli atti del processo che si aprirà tra quarantotto ore nei confronti di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e altri 44 imputati. Ma, appunto, a leggerla se ne coglie il carattere meramente “compilativo”. La lista dei 101 mette insieme – non diversamente da un indice dei nomi in appendice a un libro – tutti coloro che, nel dicembre del 2014, si ritrovarono nelle pagine della mastodontica ordinanza di custodia cautelare della Procura di Roma. A titolo e con responsabilità diverse. Ora penali, ora squisitamente amministrative, in qualche sporadico caso (la deputata Pd Micaela Campana, ad esempio, intercettata al telefono a discutere con Buzzi di un’interrogazione parlamentare a cuore della coop 29 giugno) esclusivamente politiche. Secondo uno schema che documenta come il Sistema Buzzi-Carminati potesse contare su un doppio capitale di relazioni tenuto insieme dal mastice ora della corruzione, ora dell’intimidazione. «Capitale Politico», appunto. E «Capitale Amministrativo». Si leggono dunque, insieme a quelli di Carminati, Buzzi e del “facilitatore” Fabrizio Testa, i nomi dell’ex sindaco Gianni Alemanno, del suo “tesoriere” ed ex ad di Eur spa Riccardo Mancini, degli ormai ex consiglieri comunali Sveva Belviso (ex assessore e vice di Alemanno), Massimo Caprari (capogruppo Centro democratico), Alessandro Cochi (Pdl), Mirko Coratti (Pd, ex presidente assembla capitolina), Francesco D’Ausilio (ex capogruppo Pd), Alfredo Ferrari (Pd, ex presidente commissione Bilancio), Luca Giansanti (capogruppo Lista Marino), Luca Gramazio (capogruppo Pdl prima al comune e poi alla Regione), Luigi Nieri (Sel, vicesindaco di Marino), Laura Pastore (Pd, consigliera subentrata), Pierpaolo Pedetti (Pd, presidente commissione Patrimonio), Anna Maria Cesaretti (Sel), Giovanni Quarzo (Pdl), Andrea Tassone (presidente Pd X municipio), Giordano Tredicine (Pdl), Eugenio Patané (consigliere regionale pd). A scorrere la lista, appare decisamente più interessante, per la “microfisica” del Potere che racconta, la geografia dei dipendenti comunali nella manica di Buzzi e Carminati. Quel «Capitale Amministrativo» in grado di condizionare l’azione politica, fino a ribaltarne il rapporto di forza con la pubblica amministrazione. Diciassette nomi, segnalati dalla Prefettura al Campidoglio lo scorso settembre per l’avvio delle procedure disciplinari e già allora in buona parte trasferiti ad altro incarico per iniziativa dell’assessore alla Legalità Alfonso Sabella. Si tratta dell’ex segretario generale del Campidoglio Liborio Iudicello (in passato alla Provincia di Firenze negli anni della presidenza Renzi) e della funzionaria al Patrimonio Mirella Di Giovine: l’uno e l’altra hanno volontariamente lasciato il servizio. Nonché della nutrita pattuglia di colletti bianchi in servizio nei dipartimenti cruciali per il core business della coop “29 giugno”: Politiche sociali, Verde pubblico, Patrimonio. Parliamo di Gaetano Altamura (l’uomo che, al dipartimento Ambiente, di fatto, contava più dell’assessore Estella Marino); Ornella Coglitore (Ambiente); Mario Cola (dagli uffici del dipartimento al Patrimonio suggerisce a Buzzi di occupare un immobile comunale per poi poterlo acquistare a prezzi di favore); Franco Figurelli (dipendente delle biblioteche distaccato nella segreteria del potente presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti); Carlo Fresch (geometra del Municipio di Ostia); Alfredo Romani (alle politiche per l’inclusione e l’immigrazione trattava con Buzzi il prezzo per la fornitura di occhiali da vista per “soggetti socialmente svantaggiati”); Emanuela Salvatori; Paolo Cafaggi (dirigente del municipio di Ostia); Ivana Bigari (Politiche sociali); Bruno Cignini (Ambiente); Isabella Cozza (Politiche sociali); Walter Politano (addetto all’Anticorruzione); Claudio Turella (il funzionario comandato al verde e al benessere degli animali, ma soprattutto noto per i 560 mila euro 32 in contanti nascosti nell’intercapedine delle mura domestiche); Rossana Calistri; Claudio Saccottelli. Del 23/11/2015, pag. 10 Bagheria, la rivolta dei commercianti contro il pizzo:ventidue in manette Fine dell’omertà nel paese di Provenzano: 36 titolari di bar, negozi e ditte hanno trovato il coraggio di denunciare il racket Alcuni erano stati ridotti in miseria ALESSANDRA ZINITI PALERMO. Molti di loro hanno cominciato a pagare che c’era ancora la lira, e hanno continuato in euro. Dieci, venti, trent’anni di “pizzo” versato alle potenti cosche mafiose di Bagheria, da sempre feudo di Bernardo Provenzano. Qualcuno, come Domenico Toia, alla fine c’è morto, da indigente, rovinato da quella mafia che gli ha rosicchiato fino all’ultimo mattone del suo impero imprenditoriale lasciandolo povero in canna senza neanche la casa. Qualcun altro, come Gioacchino Sciortino, dopo essersi ribellato, non ce l’ha fatta e si è impiccato nel suo magazzino. Per altri 35, invece, imprenditori e commercianti vessati dalle cosche che hanno trovato il coraggio di denunciare, ieri è stato il giorno della “liberazione”. E quei 22 arresti ordinati dalla Dda di Palermo hanno sancito quella che per Bagheria, la città di Renato Guttuso e Dacia Maraini, è una vera e propria rivoluzione. “Grazie al coraggio di chi rifiuta ricatti, grazie ai carabinieri e agli inquirenti. Bagheria non è cosa loro”, ha tweettato ieri mattina il presidente del Consiglio Matteo Renzi salutando il blitz dei carabinieri del comando provinciale nella Baaria resa famosa dal film di Giuseppe Tornatore. «Una mafia antica e moderna, classica ma attuale che continua a soggiogare il territorio e l’economia», dice il procuratore Francesco Lo Voi snocciolando i nomi dei boss raggiunti in carcere dalle ordinanze di custodia cautelare. Nomi che hanno segnato la storia della mafia, da Nicolò Eucaliptus a Onofrio Morreale, da Gino Mineo a Pino Scaduto. A loro e ai loro “sgherri” nessuno osava dire no. Per questo, quando una mattina dell’anno scorso il comandante della stazione di Bagheria Ettore Saladino si è visto entrare in ufficio un imprenditore al quale avevano chiuso con un catenaccio il cancello dell’azienda, ha capito che anche a Bagheria il muro della paura cominciava a vacillare: «Comandante, mi aiuti. Ho deciso di raccontare tutto perché ogni volta che suonano al citofono di casa mia e ogni volta che vedo lo sguardo inquietante e minaccioso di quello che ieri mi ha preso sottobraccio per dirmi “Vedi che domani mi devi portare i soldi”, temo per l’incolumità mia, di mia moglie, dei miei due figli». In tre si sono presentati spontaneamente, ma un’altra trentina di operatori economici chiamati negli uffici del nucleo investigativo dei carabinieri hanno seguito la loro strada confermando i racconti del pentito Sergio Flamia, uno degli esattori al soldo del boss, che da mesi sta aiutando gli investigatori guidati dal tenente colonnello Salvatore Altavilla a disarticolare quella struttura di Cosa nostra nella quale, come dice il procuratore aggiunto Leonardo Agueci, “i boss che entravano e uscivano dal carcere si davano il cambio in perfetta staffetta nella riscossione del pizzo”. I soliti contributi per mantenere le famiglie dei detenuti, i “regali” da 3.000 a 5.000 euro per Pasqua e Natale, ma non solo. I ma- fiosi di Bagheria obbligavano le loro vittime a cedere loro attività, aziende, persino le loro case. Ci 33 sono 50 storie di operatori economici distrutti dal racket del pizzo nell’inchiesta condotta dai sostituti procuratori Francesca Mazzocco e Caterina Malagoli. Titolari di imprese edili e di movimento terra, supermercati e sale gioco, bar e ristoranti. Pagavano tutti e chi, magari strozzato dalla crisi, non riusciva a far fronte alle richieste, riceveva il messaggio inequivocabile: furti di mezzi, incendi, danneggiamenti e il classico catenaccio attorno al cancello dell’attività. «Chi non pagava subiva pesanti intimidazioni»,ammette Gioacchino Imburgia, amministratore unico della “Eurocostruzioni”: «A me avevano chiesto 8.000 euro per trenta villette che stavo realizzando. Io, di intimidazioni ne ho subite parecchie: una volte hanno dato fuoco contemporaneamente a 15 porte blindate ». «È la riprova delle pressioni ancora molto forti che Cosa nostra opera sul tessuto imprenditoriale - dice il comandante provinciae dei carabinieri Giuseppe De Riggi- ma la nostra strategia operativa in costante contatto con le associazioni come Addiopizzo e Libero Futuro si sta mostrando vincente». In corso Butera, nel centro di Bagheria, oggi fa bella mostra di sé un cartello con una frase di Peppino Impastato “la mafia è una montagna di merda”. «Il vento è cambiato, in questa città l’onestà sta tornando di moda. Noi oggi questa montagna di merda la stiamo abbattendo», dice il sindaco Patrizio Cinque, del Movimento 5 stelle che rivela: «Bernardo Provenzano ha abitato per un periodo in una casa popolare di Bagheria senza che il Comune se ne accorgesse o, magari, volesse rendersene conto. Noi abbiamo girato tutte le informazioni del caso ai carabinieri ». Del 23/11/2015, pag. 11 La sconfitta dei mafiosi succhiasangue ATTILIO BOLZONI L’HANNO capito perfino quelle statue deformi che sono i “mostri” di Villa Palagonia che la mafia tradizionale non ha futuro. Non fanno più paura i vecchi boss, Bagheria si è liberata alla grande. L’insurrezione di massa degli imprenditori nella terra di Renato Guttuso e di Peppuccio Tornatore è il segno di una Sicilia che cambia alla velocità della luce, che sorprende anche i più scettici, che cancella luoghi comuni e descrive una realtà molto più semplice e insieme più complessa di quanto appare. È vero che è un gesto clamoroso quello dei trentasei costruttori e commercianti che non si sono piegati al racket delle estorsioni, che hanno spontaneamente denunciato (in tre) i ricatti subiti, che hanno ammesso (in trentatré) di essere stati spremuti e rovinati. Ma è altrettanto vero che quella Cosa nostra che li ha oppressi e tormentati non conta più come una volta, non è più padrona, non ha più potere di vita e di morte su tutti gli uomini che ha intorno. Se da una parte dobbiamo solo ammirare gli imprenditori che si sono rivoltati contro i loro aguzzini, dall’altra non possiamo far altro che rilevare l’agonia di una mafia che non ha più l’autorità e la forza intimidatrice come trenta o vent’anni fa. Ha perso supremazia e appeal, ha sprecato il suo consenso sociale, è diventata sconcia anche agli occhi di coloro i quali fino a ieri erano i suoi principali alleati. Coraggiosi i trentasei di Bagheria e finito per sempre il “modello” della mafia made in Corleone o delle suburre più feroci di Palermo, premiate ditte di vampiri e macellai, succhiasangue, ormai reietti in una società che li respinge solo per il nome che portano. È al capolinea la mafia dei Totò Riina e dei Bernardo Provenzano, quest’ultimo nascosto e accudito per chissà quanto proprio nella Bagheria che oggi si ribella agli emissari di quella che fu la Mafia come la M maiuscola. Sono finiti. Per i colpi che la macchina repressiva dello Stato (esemplare l’inchiesta dei carabinieri in questa vicenda) ha assestato, per l’incapacità di quei clan di trasformarsi in una criminalità più adeguata e conveniente alle esigenze dei nostri giorni. Lo ripetiamo, a 34 scanso di equivoci: bravi gli imprenditori di Bagheria. Ma sono riusciti a liberarsi anche grazie a un sistema delinquenziale che non offre più “garanzie” e condizioni favorevoli, una mafia che non è al passo con i tempi come quella che c’è ad appena cento chilometri da Villa Palagonia e da quei suoi spaventosi “guardiani” di pietra. Per esempio a Trapani, regno del latitante Matteo Messina Denaro dove commercianti e imprenditori non sono vessati formalmente come quelli di Bagheria ma a commercianti e imprenditori il boss più ricercato d’Italia presta denaro, si offre loro socio, a volte riesce pure a farli diventare ricchi e famosi. A Bagheria denunciano i loro carnefici, a Trapani o a Castelvetrano o a Campobello di Mazara il loro seviziatore lo adorano. È lo scarto che c’è fra due Sicilie e due mafie, una aggrappata allo sfruttamento più antico, l’altra proiettata verso il domani. Una perdente, l’altra vincente. Una fondata sull’impoverimento delle vittime – uno degli imprenditori di Bagheria pagava già tre milioni di lire al mese prima dell’euro, poi non ce l’ha fatta più e ha chiuso l’azienda, poi ancora ha venduto la casa dove abitava con la sua famiglia per far fronte alle richieste dei boss – l’altra sul coinvolgimento economico e morale. La prima mafia produce insubordinazione, la seconda mafia sottomissione. La ribellione di Bagheria ci conferma che lo schema corleonese è entrato inesorabilmente in crisi, è la sconfitta definitiva dei Riina e dei Provenzano che si volevano prendere tutto con la violenza. La «messa a posto», così chiamano il pizzo a Palermo e in alcune città della Sicilia occidentale, è la forma più rivelatrice della natura di un’organizzazione criminale che ha sempre la necessità di mantenere un rapporto con il proprio territorio. Da come viene imposta si comprende l’intelligenza strategica dei suoi capi, la loro lungimiranza. Quelli di Catania sono stati i precursori di questa “linea”, come li racconta Sebastiano Ardita in un saggio appena uscito in libreria (“Catania bene”): «Mentre a Palermo la mafia attaccava lo Stato, a Catania vi s’infiltrava, riusciva a irrobustirsi e penetrare nelle istituzioni e nel mercato...». Il segreto della mafia non è poi così tanto segreto. Più delle vittime, basta trovare i complici. 35 DONNE E DIRITTI Del 23/11/2015, pag. 1-34 La popolazione femminile dell’Europa è avvisata: fino a Capodanno non c’è salario. Perché il gap fra le retribuzioni dei due sessi è ancora considerevole Così, traducendolo in tempo, ci sono 59 giorni regalati. Per non parlare delle mancate assunzioni, delle carriere ferme e dei ricatti sulle gravidanze Donne Se da oggi lavorano gratis MARIA NOVELLA DE LUCA Gratis. Sembra incredibile, ma è così. Da oggi, più o meno, le donne in tutta Europa lavoreranno gratis. Non è uno scherzo, lo dice la Ue. È il paradosso (globale) della differenza di salari tra maschi e femmine. Una beffa del calendario della vita. Il “gender pay gap” calcolato non soltanto in denaro ma in giorni e ore. Gli stipendi delle donne sono così inferiori rispetto a quelli dei maschi, che a parità di incarichi e ruoli, è come se da oggi le lavoratrici smettessero di essere pagate, mentre i colleghi uomini continueranno ad avere in tasca lo stipendio. E di certo fa effetto a “contarla” così la differenza, ossia quel 16,3% che nella media europea separa i guadagni maschili da quelli femminili. Perché tradotti in “tempo” (cioè vita, carriera, affetti, figli, famiglia) fanno esattamente 59 giorni gratis, così ha calcolato la Ue per celebrare (amaramente) “l’Equal Pay Day”, il giorno dell’eguaglianza dei salari. Un giorno che sembra lontanissimo a giudicare dai dati europei, a dispetto di quote rosa, supermanager strapagate, ma anche dell’esercito crescente di donne capofamiglia, “breadwinner”, cioè uniche portatrici di reddito negli anni bui della crisi. In Italia, a sorpresa, il “gender pay gap”, appare più basso che nel resto d’Europa, con retribuzioni femminili inferiori del 7,3% rispetto a quelle maschili. Si tratta però di una statistica ingannevole, come hanno rilevato più osservatori (Istat, Isfol, Banca d’Italia), che non tiene conto della bassa occupazione femminile del nostro paese, cioè al di sotto del 50%, in particolare al Sud, dove una donna su due non lavora. E il vero gap made in Italy sfiorerebbe addirittura il 20% di differenza. Dove tutto questo vuol dire, anche, donne ricattate, dimissioni in bianco, giovani licenziate perché incinte. Tornando alla media Ue, e passando questa volta dalla divisione in giorni al conteggio in denaro, si scopre che una lavoratrice incassa 84 centesimi per ogni euro guadagnato da un maschio...Insomma a guardare i numeri sembra che il tempo non sia passato, a riprova della amara attualità di un film come “Suffragette”, con Meryl Streep, che rievoca gli albori del movimento femminista in Inghilterra. Valeria Fedeli, oggi vicepresidente del Senato, è stata a lungo sindacalista della Cgil, in particolare segretaria generale dei lavoratori tessili. Un settore ad altissima densità femminile. «Devo dire che questa volta la commissione europea ha trovato lo slogan giusto per accendere i riflettori su questa discriminazione ancora così grave, ma così difficile da combattere. Perché sulla carta la parità salariale esiste, addirittura dal 1952. È tutto il resto ad essere opaco». Nel senso che poi, nel mondo del lavoro, dice Fedeli, le donne subiscono nei fatti una sorta di segregazione. «Fin dall’accesso vengono inquadrate in ruoli più bassi rispetto ai maschi, e viene fatto loro pagare, in anticipo, l’essere a rischio di maternità. Infatti, nonostante le leggi, nelle aziende la maternità viene considerata un problema, un onere e non un bene sociale. Si pensa che le donne siano meno affidabili perché un giorno o l’altro il bambino si ammala. E chi corre 36 a casa? La mamma. E poi c’è l’organizzazione del lavoro, che prima o poi le taglia fuori, soprattutto quelle che hanno una famiglia». Accade così: lo stipendio base è lo stesso, ma spesso la presenza in azienda no. Nel senso che i maschi, non occupandosi della vita familiare, «possono fare montagne di straordinari, passano molto più tempo oltre l’orario canonico sul posto di lavoro, mentre le donne devono spezzettare la loro giornata tra figli, incombenze domestiche, genitori anziani». Tutte attività rigorosamente “ non retribuite”. Succede dunque che in questa organizzazione del lavoro ancora rigida, le donne si fermino nei ruoli intermedi o bassi e i maschi facciano carriera, conquistando denaro e punteggi. «Se anche il Papa ha sentito il bisogno di parlare delle scandalo delle lavoratrici licenziate perché incinte», dice ancora Valeria Fedeli, «è evidente quanto il problema del ricatto sull’occupazione femminile sia grave». A cominciare dalla piaga delle dimissioni in bianco, oggi vietate ma in realtà assai praticate, al numero crescente di “scoraggiate”, ossia quelle donne, anche giovani, e soprattutto del Sud, che il lavoro non lo cercano neanche più. Dunque è una nuova condivisione di ruoli in famiglia tra maschile e femminile, ma soprattutto una organizzazione del lavoro meno ingiusta che potrebbe far superare, nel nostro paese, il “gender pay gap”. Divario che in Italia va peggiorando, visto che nel 2008 era del 4,9%, nel 2009 del 5,5%, e nel 2015, cioè oggi, dopo anni di durissima crisi, è al 7,3%. Con un elemento ancora più preoccupante, come sottolinea la relazione della commissione Europea. E cioè che la differenza di salario si allarga con l’avanzare dell’età, e diventa un “buco nero” quando si arriva alla terza età: le over sessantenni sono costrette a vivere con pensioni inferiori del 39% rispetto ai loro (attempati) coetanei, che siano mariti o colleghi di lavoro. Un esempio nella pur avanzatissima Finlandia: qui il “gender gap” passa dal 6,3% delle under 25, al 25% delle donne in età della pensione. Ma oltre a tutto questo, oltre dunque ad una reale e tangibile discriminazione, non ci sarà anche un problema femminile di auto-promozione nel mondo del lavoro? Carmen Leccardi insegna Sociologia del Lavoro all’università Bicocca di Milano, ed è responsabile scientifica del “Centro inter-universitario culture di genere”. «Dire che da oggi le donne lavoreranno gratis, perché per loro le riserve sono finite, mi fa pensare a quando si sottolinea che ormai abbiamo consumato tutte le risorse del pianeta e iniziamo semplicemente a sopravvivere... Del resto impedire alle donne di esprimersi al cento per cento è come togliere aria all’ambiente in cui viviamo, e abbassare di non pochi punti il Pil». Più concretamente, anche per Carmen Leccardi il gap salariale è una diretta conseguenza di una «ineguale divisione della cura della famiglia e dei figli». Asimmetria della quale le aziende (tranne poche) approfittano, considerando appunto le donne un po’ meno affidabili, perché prima o poi vorranno, forse, diventare madri. E l’auto- promozione? Per Leccardi è un falso problema. «Non è vero che le donne non sanno chiedere una promozione o valorizzare le proprie competenze, in particolare le più giovani. Il problema è la distanza, anche in questo caso, tra ciò che il mondo femminile sa di essere, e come è rappresentato nella società ». Così a volte accade, che con il realismo e lo sguardo al futuro che le distingue, le donne preferiscano accontentarsi di un ruolo più in ombra, che però permetterà loro di conciliare l’essere madri e lavoratrici insieme. «Prima magari di ritrovarsi — conclude Leccardi — davanti ad una scelta obbligata e dover sacrificare un pezzo o l’altro della propria identità». 37 Del 23/11/2015, pag. 24 Il rapporto. I dati del ministero della Salute sulla legge 194: interruzioni dimezzate dal 1982. Oltre il 10% si fa con la Ru486 Obiettori 7 ginecologi su 10. “Ma l’assistenza è assicurata” Il crollo degli aborti per la prima volta sotto i 100.000 l’anno MICHELE BOCCI UNA soglia simbolica abbattuta: in Italia si fanno meno di 100mila aborti l’anno. La continua discesa del numero delle interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg), iniziata all’inizio degli anni Ottanta poco dopo l’approvazione della legge 194 del 1978, non accenna a fermarsi ed è collegata anche al calo delle nascite, che procede più o meno allo stesso ritmo. Per il 2014 gli aborti segnano un — 5,1% rispetto all’anno prima, e un totale di 97.535 interventi chirurgici e farmacologici. Dall’82 il dato è più che dimezzato. Resta, soprattutto in certe aree del Paese, l’enorme problema dell’obiezione di coscienza dei ginecologi, assestata al 70% nel 2013. Nell’introduzione della relazione al Parlamento sull’applicazione della 194, il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin affronta così il tema dei medici che si rifiutano di fare gli aborti. «Il numero di non obiettori risulta congruo — scrive — anche a livello subregionale, rispetto alle Ivg effettuate, e il carico di lavoro richiesto non dovrebbe impedire ai non obiettori di svolgere anche altre attività ». Come dire, sono tanti i professionisti a scegliere di non fare le interruzioni di gravidanza (nel 2012 erano il 69,6%), ma queste ultime diminuiscono e quindi la domanda delle pazienti troverebbe sempre risposta. È però un fatto che in alcune delle regioni del centro-sud dove i tassi di obiezione sono altissimi (Molise 93,3%, Basilicata 90,2%, Sicilia 87,6%, Puglia 86,1% e Lazio e Abruzzo 80,7%) quelli di abortività, calcolati sul totale delle donne, sono piuttosto bassi. Bisognerebbe sapere se lo scarso numero di medici disponibili influenza la domanda, dissuadendo le donne. Sempre dal ministero spiegano però che le Ivg sono effettuate nel 60% delle strutture ospedaliere disponibili, «con una copertura soddisfacente». Il tasso di abortività in Italia è tra i più bassi di quelli dei Paesi industrializzati. Nel 2013 il contributo percentuale delle donne straniere è rimasto stabile, al 34%, mentre è diminuito per valore assoluto. Per quanto riguarda le minorenni, il tasso nel 2013 è stato del 4,1 per mille contro il 4,3 del 2012. I dati più alti si registrano nell’Italia settentrionale e centrale. Gli interventi fatti sulle minorenni sono il 3,2% del totale. Anche in questo ambito l’Italia ha valori più bassi rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale. Grazie all’Istituto superiore di sanità ogni anno viene fatta anche una stima degli aborti clandestini, che ovviamente sono impossibili da censire con precisione. Si ritiene che siano tra i 12 e i 15mila, un dato che sarebbe rimasto stabile in questi ultimi anni. Se gli aborti in totale calano, aumentano quelli fatti utilizzando la pillola Ru486, che evidentemente non è stata uno strumento di “incentivo alle interruzioni di gravidanza” come a suo tempo dicevano i suoi detrattori. Il farmaco è usato nel 12,1% dei casi (in totale 10.120) ma con una grandissima variabilità tra le varie Regioni. In Liguria è usato addirittura nel 33,7% dei casi, in Valle d’Aosta nel 27%, in Piemonte nel 23,3% e in Emilia Romagna nel 22,5%. Piuttosto bassa, a 13,1%, la Toscana, la prima ad introdurre il farmaco, il cui uso poi non è decollato. Il Veneto sta intorno al 7% e il Lazio al 5%. Nel 96,9% dei casi, segnala sempre la relazione del ministero, non c’è stata nessuna 38 complicazione per le donne che hanno assunto il farmaco, e il dato è simile a quanto rilevato in altri Paesi e a quanto riportato nella letteratura scientifica dedicata alla Ru486. del 03/11/15, pag. 25 Perché calano gli aborti Per la prima volta sono sotto i 100 mila all’anno: dimezzati rispetto ai 234.801 registrati nel 1982 La causa? Più consapevolezza (e meno gravidanze) ROMA Diminuisce ancora il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza. Per la prima volta da quando esiste la legge 194 che garantisce alla donna il diritto di abortire, gli interventi sono scesi sotto la soglia dei 100 mila. Per la precisione, sono qualche unità più di 97 mila. Lo ha stabilito il rapporto con i dati definitivi del 2013 e preliminari del 2014, trasmesso al Parlamento dal ministero della Salute. A giudicare dai risultati, un traguardo inimmaginabile nel 1982, quando la curva raggiunse l’apice con 234.801 interventi. Molto diverse erano allora le condizioni. C’era forse minor consapevolezza di come e quanto si potesse fare prevenzione con la pillola anticoncezionale. Meno timore di fare figli grazie alla situazione economica del Paese più incoraggiante. Oggi invece le coppie sono più attente nel programmare il concepimento e nell’evitare sorprese. In ogni caso si tratta di una discesa notevole. Il ruolo dissuasivo dei consultori, principali prescrittori? Può darsi abbia inciso sebbene i vari piani di potenziamento annunciati in varie occasioni non pare siano stati realizzati. Di crollo comunque si può parlare, parallelo a quello delle nascite che può aver determinato una minore incidenza di gravidanze indesiderate. «È la somma di una serie di fattori. La pillola? Credo abbia un ruolo marginale, a giudicare dalle vendite, immodificate da anni», è dubbioso Emilio Arisi, presidente della «Società di medicina italiana contraccezione» (Smic). La relazione ministeriale indica un calo sensibile rispetto allo scorso anno, meno 5%. Un terzo dei ricoveri in day hospital riguardano le straniere che confermano un tasso di abortività tre volte superiore alle italiane. I ginecologi obiettori — che dopo l’assunzione chiedono di lavorare al di fuori dei servizi per l’Ivg — sono invece aumentati anche se di poco, dal 69,2% al 70%. Difficile pensare che il lieve scarto sia stato sufficiente per determinare la diminuzione delle Ivg. Eugenia Roccella, parlamentare di Area popolare, esclude oltretutto che non ci siano abbastanza medici per rispondere alla richiesta delle donne: «Anche analizzando nei dettagli i dati di Asl e distretti territoriali si vede che i non obiettori in organico sono in numero adeguato». È anche questa una prima volta. Non viene rilevata la criticità dei servizi. La media nazionale è di 1,6 aborti per medico con la Sardegna in difficoltà (0,5%) e il Molise di nuovo al primo posto con 4,7. La situazione di alcuni centri però smentisce questo quadro. Carlo Bastianelli è l’unico non obiettore strutturato dell’Umberto I di Roma: «Abbiamo tutti superato la sessantina, apparteniamo agli anni eroici quando c’erano assunzioni. Non c’è ricambio. È un problema serio: se non intervengono, qualche servizio per l’aborto chiuderà». 39 E il crollo sotto la soglia dei 100 mila come si spiega? Alla domanda gli operatori rispondono alla stessa maniera. «Ce lo stiamo chiedendo tutti — riporta voci il ginecologo —. Il timore è che le donne risolvano con sistemi alternativi. È facile andare su Internet e ordinare farmaci che provocano l’espulsione del feto». I servizi pubblici da cinque anni almeno possono utilizzare la pillola Ru486 che la donna può scegliere al posto dell’intervento chirurgico andando a ritirare il farmaco in ospedale, sotto controllo del medico. Secondo la relazione l’hanno richiesta il 10% delle pazienti, il 3% in più rispetto al 2011. Margherita De Bac 40 BENI COMUNI/AMBIENTE del 03/11/15, pag. 12 Il labirinto burocratico ferma le opere contro le alluvioni Dopo un anno nemmeno un euro dei 654 milioni disponibili è stato speso. Coinvolti 17 uffici, 5 passaggi alla Corte dei Conti Giuseppe Salvaggiulo Da un anno ci sono 654 milioni di euro nelle casse dello Stato, stanziati per opere necessarie a curare il dissesto idrogeologico. Soldi disponibili, interventi decisi. E sono tutti d’accordo: ministeri, organi contabili, Regioni, popolazioni. Eppure in un anno di ordinaria burocrazia nemmeno un centesimo è stato speso. Il dramma di questa vicenda è che non c’è niente di anomalo. Per una volta non è questione di ostacoli tecnici, errori amministrativi, conflitti di competenze, inerzia politica, come per i 2,3 miliardi stanziati nel 2009 e non utilizzati (su 1647 opere previste in quel piano, ne sono state completate solo 183). Né ci sono contenziosi tra imprese a bloccare i lavori o sospensive decise da Tar e Consiglio di Stato, a torto additati al pubblico ludibrio nell’ottobre 2014, dopo l’ennesima alluvione del Bisagno a Genova, con un grottesco scaricabarile politico. La fisiologia No, questa volta tutto è andato perfettamente, siamo solo prigionieri di un fisiologico labirinto burocratico. Quattro mesi e mezzo per scrivere e vistare la delibera del Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica. Cinque passaggi alla Corte dei Conti. Diciassette diversi uffici pubblici coinvolti. Tre ministeri. Carte che rimbalzano per decine di volte tra gli enti interessati. Risultato: quattrini fermi per un anno. Domani il ministro dell’Ambiente Galletti e sette governatori firmeranno gli accordi di programma definitivi. Poi la Corte dei Corti dovrà registrali. A quel punto i soldi saranno materialmente utilizzabili dalle Regioni, che avvieranno le procedure di gara delle opere. Altri mesi. Se tutto va bene, nella primavera del 2016 si apriranno i primi cantieri, a un anno e mezzo dalla definizione del piano operativo. E a fine 2016 sarà speso il 20-25% dei 650 milioni di euro. «Come un pellegrinaggio sul cammino di Compostela, trasportando per mesi dieci pagine essenziali sulle tante scrivanie di una miriade di uffici e lasciandole in attesa di firme, visti, timbri, bollinature», scrive Erasmo D’Angelis, messo da Renzi a capo della task force di Palazzo Chigi prima di transitare alla direzione dell’Unità, nel libro «Un Paese nel fango», in uscita da Rizzoli. Il cammino a ostacoli Il pellegrinaggio comincia nel novembre 2014, quando la task force di Palazzo Chigi contatta Comuni e Regioni, chiedendo di segnalare opere cantierabili. A dicembre arrivano richieste per 1,5 miliardi. Si fa una scrematura da cui esce l’elenco di 33 opere prioritarie nelle grandi aree urbane: dal Bisagno a Genova al Seveso a Milano. Alcune attese da mezzo secolo. A metà gennaio 2015 la palla passa al ministero dell’Economia e alla Ragioneria dello Stato, per trovare i soldi. Il 20 febbraio il Cipe assegna con una delibera i primi 654 milioni. Quattro giorni dopo il decreto della presidenza del Consiglio con i criteri di selezione dei progetti è pronto e viene inviato alla Corte dei Conti per la registrazione, che avviene a fine marzo. A questo punto la palla torna nelle mani del governo, ma passa più volte da Palazzo Chigi al 41 ministero dell’Economia, a quello dell’Ambiente e a quello delle Infrastrutture. Capi di gabinetto, direttori generali, ministri... Il 21 maggio Renzi firma la delibera Cipe e la invia alla Corte dei Conti. Nel frattempo le Regioni chiedono modifiche al primo decreto di Renzi sui criteri di priorità per scegliere le opere. Il primo decreto viene modificato e inviato di nuovo alla Corte dei Conti, che lo registra il 15 giugno. Il 4 luglio la delibera Cipe del 20 febbraio firmata da Renzi il 21 maggio e registrata in giugno dalla Corte dei Conti viene pubblicata in Gazzetta Ufficiale. Ora serve un altro decreto di Renzi con i dettagli delle opere. A fine luglio è pronto. Ad agosto tutti al mare. Il 15 settembre il nuovo decreto viene firmato da Renzi e inviato alla Corte dei Conti per la registrazione, che avviene a fine ottobre. Domani il ministro dell’Ambiente e le Regioni firmeranno gli accordi di programma che saranno inviati alla Corte ei Conti per la quinta registrazione. Solo a quel punto i soldi saranno trasferiti nelle contabilità regionali. Il bilancio L’Italia è assetata di investimenti in lavori pubblici, calati di un terzo (quasi venti miliardi in meno l’anno) nell’ultimo decennio. Nelle classifiche Ocse, siamo al terzultimo posto (davanti a Portogallo e Grecia), per investimenti in rapporto alla spesa pubblica, solo il 20,9%. L’Italia è anche un Paese vulnerabile a frane, esondazioni, alluvioni. Secondo il Consiglio nazionale dei geologi ogni euro investito in prevenzione ne fa risparmiare fino a 100 per i danni provocati dai disastri. Per anni gli investimenti sono stati bloccati dall’assenza di finanziamenti. Ora anche quest’alibi è caduto. Del 23/11/2015, pag. 25 “Non bucate quelle colline” l’energia della terra che spacca l’Italia Dalla Toscana alla Campania rivolta contro nuove centrali: no allo sfruttamento selvaggio MAURIZIO BOLOGNI FIRENZE. Utilizza il calore della terra. È ritenuta energia pulita. Ma a qualcuno fa paura. L’avanzata in Italia della geotermia, il suo sfruttamento affidato non più solo all’ex monopolista Enel ma ad un ventaglio di società non tutte trasparenti, va a sbattere contro una resistenza crescente. «Il nemico è l’ignoranza, fermiamoci, riflettiamo e variamo le regole perché sia garantito che il dilagare delle trivelle non causi terremoti, subsidenza, inquinamento delle acque », attacca Vittorio Fagioli, portavoce della Rete nazionale No Gesi (Geotermia elettrica speculativa e inquinante), che per il 5 novembre ha convocato a Roma, in piazza Montecitorio, gli stati generali contro la “geotermia selvaggia”: giornata di mobilitazione ma anche di confronto in un convegno. Un centinaio di comitati, alcune decine di sindaci, un pugno di studiosi, la forza d’urto è imponente. «Ma attenti a non fare di tutta l’erba un fascio», ammonisce da Parigi, Paolo Frankl, direttore dell’unità rinnovabili dell’Agenzia internazionale dell’energia. «I lavori delle centrali devono essere fatti a regola d’arte, vanno rispettate le procedure di impatto ambientale, ma la geotermia è e resta energia pulita. E noi abbiamo un disperato bisogno delle tecnologie pulite per fare passi avanti verso la decarbonizzazione ». Finora la geotermia è stata solo Enel Green Power e Toscana. Trentaquattro impianti dislocati tra le province di Pisa, Siena e Grosseto, tra cui un gigante a Larderello (la più 42 grande centrale europea per 120 megawatt di potenza installata), una capacità produttiva di più di 5 miliardi e mezzo di kilowattora annui pari a quasi il 27% del fabbisogno energetico della Toscana, che ogni anno consente di risparmiare oltre 2.500 milioni di tonnellate di anidride carbonica e 1,3 milioni tonnellate equivalenti di petrolio. Lo sfruttamento geotermico si è sviluppato nei decenni in operoso silenzio nel Pisano e accompagnato da forti maldipancia delle popolazioni sull’Amiata. «Qui è stata causa di terremoti, inquinamento delle falde da arsenico, abbassamento delle falde di 200 metri, una sospetta diffusione di tumori sopra la media», lamentano gli oppositori. «Mai nulla di provato, paure infondate», la replica. Ora, però, il movimento dei “no geotermia” si diffonde anche nel Lazio, in Umbria, in Campania e in Sardegna, in coincidenza con la liberalizzazione del settore. Nel mirino ci sono due decreti, il 22 del 2010 e il 28 del 2011, che hanno dato disco verde alle trivelle, prevedendo la possibilità di autorizzare 10 progetti pilota di sfruttamento geotermico per 5 megawatt ciascuno. «Chiunque può chiedere di trivellare e ovunque creda — sferza Fagioli, 75enne dipendente Enel in pensione — Siamo arrivati al paradosso: vogliono trivellare in Valdorcia e vicino al super vulcano dei Campi Flegrei. Una follia». I due progetti che sono andati più avanti sono però in Umbria, ad Orvieto, nelle località di Castel Giorgio e Torre Alfina. «Li propone la joint-venture tra due società, Itw e Lkw, che ha sede in Liechtenstein », spiegano i comitati. «Investiranno 30 milioni e ne guadagneranno 250 in 20 anni, ma quale prezzo pagherà la comunità locale?». Per questo la rete “no Gesi” si dà appuntamento a Roma. «Non si può — dice Fagioli — lasciare mano libera ai privati sulla scelta di dove trivellare, dobbiamo escludere aree vincolate e geologicamente fragili. E poi chiediamo processi partecipativi per far esprimere le popolazioni locali, la scelta di impianti a basso impatto ambientale invece di mega centrali e l’introduzione di geotermia di terza generazione». 43 INFORMAZIONE Del 3/11/2015, pag. 3 Le tre ingiustizie del canone Rai in bolletta Le riforme dovrebbero essere una cosa seria. Questo vuol dire che esso debbono rifiutare — sempre — le improvvisazioni e gli annunci a effetto: affinché possano riuscire senza fare danni, senza aprire la strada a una sequela di ricorsi, e perfino per mettersi al riparo dal ridicolo. Che il canone Rai abbia un certo tasso di evasione, è vero. Esistono però già delle sanzioni, anche onerose. Esiste soprattutto un meccanismo di controllo, perché i rivenditori di apparecchi radio e televisivi sono tenuti a inoltrare alla Rai e agli organi dell’amministrazione finanziaria dello stato tutti i nominativi degli acquirenti di apparecchi radiofonici e televisivi. Se questo meccanismo non funziona bene, la responsabilità è di chi gestisce il controllo. Si obietterà che nonostante tutto qualche evasione permane. Allora si provveda nei confronti di dovrebbe effettuare il controllo e si renda più efficaci il sistema. C’è però anche un’evasione che ha delle ragioni di principio, e infatti furono perfino organizzate in passato delle campagne basate sull’iniquità di questa imposizione e sul conseguente invito all’evasione. Ma questo fenomeno sembra essersi esaurito. Incominciamo però, anche ricordando quelle campagne, a toccare un punto di principio, reale e assolutamente non infondato. Oggi esistono — e operano in piena legalità — trasmissioni radiofoniche e televisive non realizzate dalla Rai. Perciò non sembra equo stabilire e imporre con la forza di sanzioni che il canone debbano pagarlo anche gli utenti che si servono unicamente di reti diverse da quelle della Rai. A questa obiezione, è possibile rispondere che anche quegli utenti potrebbero usufruire dei programmi Rai. Anche questo è un argomento — in favore dell’obbligatorietà del canone — al quale potrebbe riconoscersi qualche fondamento. Adesso veniamo però al punto chiave, rispetto al quale non sembrano argomentabili delle forti obiezioni. La Rai dovrebbe assicurare innanzi tutto un servizio di diffusione di notizie: questo si stabilì per l prima volta il canone, aveva prevalentemente questa funzione. Ma oggi, è veramente assai contestabile che tale funzione essa la svolga in modo equilibrato e puntuale. La Rai infatti non offre una rete esclusivamente adibita a informazioni tempestive, né riesce a farlo davvero con tutte le sue reti sull’intero territorio nazionale. Per l’informazione, gli utenti debbono inoltre aspettare i telegiornali, i quali hanno una frequenza di molto inferiore a quella di emittenti straniere (si pensi a ciò che invece invece in Francia, Germania, Inghilterra, eccetera). Perfino sugli orari dedicati alle trasmissioni di informazione, l’utente non può affare affidamento di puntualità: talvolta essa viene invece subordinata alla scelta di dare la precedenza alla conclusione di trasmissioni di spettacolo. E veniamo infine ai due punti più importanti, che tolgono la legittimazione a un’imposizione che si vuole rendere rigorosissima. Il primo punto è quello della qualità dell’informazione: dalla Rai, essa viene costantemente subordinata, anche in modo arrogante, alle esigenze di propaganda a sostegno del governo in carica. Questa è una prassi antica, scandalosa e prevaricante nei confronti degli utenti e delle forze politiche che non sono al governo. Il secondo punto è che i programmi della Rai vengono infarciti in modo devastante e prepotente dalla pubblicità che li interrompe di continuo. Che l’utente debba subire anche un rigoroso regime di controllo sul versamento del canone a fronte di tale servizio, non pare proprio ammissibile, da nessun punto di vista. Né morale, né giuridico. Ancora qualche considerazione. Fra gli utenti dell’energia elettrica, ci sono anche casolari 44 disabitati, fondi agricoli e simili, nei quali non è logicamente ipotizzabile che esistano degli apparecchi radiofonici e televisivi: eppure, anche quei luoghi sperduti possono trovarsi negli archi dei fornitori di energia elettrica cui il governo vorrebbe imporre il canone Rai. Si è voluta a tutti i costi la privatizzazione dell’energia elettrica. Resta perciò da vedere come potranno i fornitori privati di energia essere obbligati a fornire all’esterno, a fini differenti da quelli contrattuali, i nominativi dei loro utenti, violando così i loro obblighi contrattuali di riservatezza e rispetto della privacy. del 03/11/15, pag. 26 Banda larga, ultralarga, megabit L’Italia dello «spread» digitale Su 14,6 milioni di accessi quelli superiori ai 10 mega sono 3,6: in pratica, solo una casa su quattro naviga ad alta velocità 4 La velocità media di navigazione in megabit attualmente in Italia, con variazioni rilevanti tra le aree del Paese 50% Le case in Italia che dispongono di un accesso alla Rete, ma solo una su quattro naviga sopra i 10 mega Massimo Sideri Con la fine del precedente governo Berlusconi nel 2011 e durante la successiva era transitoria di Monti, in Italia era diventato comune un termine tecnico che, fino ad allora, era rimasto confinato nelle colazioni di lavoro tra analisti del Fondo monetario internazionale e banchieri & co: lo «spread». Si tratta, com’è ormai noto, della differenza tra il rendimento che devono pagare i titoli di Stato a dieci anni, nel nostro caso i Btp, e i titoli tedeschi con eguale durata, i Bund. È evidente che lo spread è una convenzione finanziaria, un indice di mercato che misura la solvibilità di un Paese nel lungo periodo, prendendo come termine di paragone l’economia che ha sempre fatto da locomotiva al Continente, la Germania. In piena crisi lo spread finanziario superò anche quota 500, mentre in questi giorni, per avere un termine di paragone, siamo attorno ai cento punti ( cento basis points corrispondono a un tasso di interesse dell’1 per cento). La distanza con l’Europa Eppure se possiamo dormire sonni (più) tranquilli da questo punto di vista esiste un altro spread che non ha un correlativo oggettivo rispetto a quello finanziario, ma che pure sta diventando la vera zavorra dell’Italia: è lo «spread» digitale. Questo gap tra noi e gli altri Paesi europei non è quantificabile in un macronumero il cui impatto emotivo era stato dimostrato proprio dalla caduta del governo Berlusconi. Nessuno può governare a lungo senza tenere sotto attenta osservazione lo spread Btp-Bund. Per calcolare lo spread digitale dobbiamo seguire uno storytelling diverso che passi attraverso le tante classifiche, noiose ma importanti, che ci vedono eterni ultimi. Spesso in questi anni si è dibattuto della salute della banda larga (passò alla storia il documento di Francesco Caio in cui si diagnosticava l’«osteoporosi» al paziente infrastruttura di telecomunicazioni). Non è un caso: la rete telefonica è una di quelle aree fisiche quantificabili. Ne possiamo rilevare lo stato di salute con la diffusione sul territorio, con la misurazione della velocità di connessione sia in download che in upload da parte dell’utente (cioè sia quando si scaricano dei file come un video in streaming, sia quando si caricano, per esempio, dei video su YouTube). Ed è anche per questo che l’Agenda europea che definisce tutti gli obiettivi che i singoli Paesi devono raggiungere entro il 2020 (da cui la definizione «Agenda venti venti») si è concentrata in particolare sul tema della banda larga e 45 ultralarga. Partiamo con il dire che spesso si è fatta confusione su questi termini, anche da parte degli stessi operatori di mercato: per l’Europa si può definire una rete con la qualifica ultrabroadband (ultralarga) quando la velocità di navigazione supera i 30 megabit al secondo. Gli obiettivi che come Paese dobbiamo raggiungere, ormai in quattro anni, sono ambiziosi: 30 megabit almeno per il 50% della popolazione e 100 megabit per l’altro 50%. Oggi, dati Agcom, gli accessi effettivi broadband sono 14,6 milioni in tutta la penisola (+270 mila nel corso del 2015) ma solo 3,6 milioni sono superiori ai 10 megabit. In soldoni: circa metà delle case ha un accesso alla Rete, ma di queste solo una su quattro naviga sopra i 10 mega ( e solo un milione viaggia a più di 30 mega). Un’Italia a macchia di leopardo la cui velocità media supera di poco i 4 megabit. A meno che, come abbiamo sempre fatto con gli appuntamenti internazionali, Olimpiadi, Expo, etc, etc, non assisteremo negli ultimi mesi al «miracolo della banda ultralarga», gli obiettivi venti venti sono raggiungibili solo trasformandoli in obiettivi venti venticinque, cioè al 2025. Rete fissa e rete mobile C’è un motivo se il media principale per eccellenza rimane la televisione e se nel 2015 dobbiamo ancora discutere delle rilevazioni Auditel da cui emerge un risultato incredibile (messo, in effetti, in discussione): gli italiani passano 94.900 minuti all’anno pro capite davanti al piccolo schermo. Peraltro in Italia viviamo la bizzarra contraddizione tra rete fissa, al palo, e rete mobile. Quest’ultima non solo può vantare i migliori standard del 4G ma anche una penetrazione di smartphone e device mobili che non ha eguali. Ma anche questo, alla fine, ha alimentato la fallace speranza che le due reti possano essere succedanee: purtroppo sia per quanto riguarda le aziende sia per le famiglie che sempre di più collegano apparecchi televisivi e altro alla Rete, il mobile non è un’opzione. La connessione fissa è l’unica che può sostenere una richiesta di traffico crescente con più utenti collegati simultaneamente. Senza considerare le connessioni strategiche per le aziende finanziarie dove la latenza deve essere ridotta praticamente a zero (pensate agli scambi in Borsa), o anche quelle a cui sono collegati gli apparecchi medici degli ospedali. Ormai tutto è appeso a Internet, anche i telefoni fissi e il traffico voce. Sono peraltro accettati i modelli economici che mostrano una correlazione tra crescita del Pil e diffusione della banda ultralarga fissa, anche se si potrebbe discutere a lungo sulla quantificazione di questo contributo. Bruxelles, chiaramente, tiene conto del fatto che le nuove tecnologie in fibra ottica non possono essere portate in ogni casa (non sarà possibile nelle aree di montagna ma nemmeno dove il mercato non è recettivo abbastanza per giustificare gli investimenti da parte dei privati). Ed è proprio per questo che il governo Renzi ha sbloccato, tramite delibera del Cipe, 2,2 miliardi di euro da usare nelle cosiddette aree C e D (funziona come nel calcio: la A e la B sono quelle che contano, le altre serie sono quelle povere e senza budget). C’era una volta il piano Leonardo E pensare che, anche se oggi suona come una barzelletta, avremmo potuto essere all’avanguardia nel campo della Rete. Ormai non lo ricorda più nessuno ma tra il ‘95 e il ’97, anno della privatizzazione di Telecom Italia, l’ex monopolista attuò un piano chiamato in codice «Leonardo». La ex Sip aveva già progettato di portare la fibra ottica, in parallelo al rame, non sono fino alla base dell’edificio (quello che si definisce Fttb, Fiber to the building ) ma addirittura fino agli appartamenti. In alcune città sono ancora visibili i cavi di colore giallo, blu e rosso che fuoriescono dal sottosuolo vicino agli edifici, prova tangibile che il piano era a buon punto. Un ultimo miglio all’avanguardia, fino a quando... Nel ’98 passò un pronunciamento della Corte europea che obbligava gli incumbent (sono chiamate così le società ex statali che operavano in monopolio come Telecom Italia, France Telecom, British Telecom) a dare accesso ai concorrenti proprio nell’ultimo miglio. Fu lì che si decise di difendere a oltranza il rame. 46 È evidente che non tutto lo spread tecnologico può essere fatto risalire al ritardo nell’infrastruttura. Un grosso ruolo lo hanno anche il fattore demografico e quello culturale. Con una curva della popolazione che invecchia il passaggio non solo all’economia ma anche ai semplici servizi digitalizzati della Pubblica amministrazione non è affatto semplice. L’unica strategia certa per il salto dal vecchio al nuovo è quella usata anche per la transizione dalla tv analogica a quella digitale terrestre o per il cambio da lira a euro: lo switch off , cioè lo spegnimento in una data certa della vecchia offerta. Ma anche questa strada ha almeno due problemi: il primo è che ci sono sempre degli esclusi che, in questo caso, sono gli anziani che avrebbero maggiore difficoltà. Il secondo si ricollega al fattore culturale. Come ha detto recentemente il direttore dell’Agenzia per l’Italia digitale, Antonio Samaritani, possiamo anche introdurre la fatturazione elettronica. Peccato che poi l’Asl di turno stampi tutto e tratti la documentazione come se fosse cartacea. Ma l’approccio culturale si manifesta anche in altri modi: per esempio nelle 22 tra commissioni, cabine di regia e tavoli permanenti che in Italia ruotano attorno al tema della digitalizzazione. Poltrone: l’unica cosa che non verrà mai resa virtuale dai governi. Le dorsali di telecomunicazione Eppure ci sono dei motivi sempre più concreti per occuparsi del tema: tutto ormai ruota intorno a reti e sviluppo, anche la politica industriale. Un esempio viene proprio dalle grandi dorsali di telecomunicazioni che in questo momento ci potrebbero vedere in primo piano. Storicamente i grandi «mix» (dei nodi vitali dove i cavi dei vari operatori si uniscono creando dei veri e propri incroci di internet) sono a Londra, Amsterdam (dove arrivano i cavi sottomarini dagli Usa) e Francoforte che dal crollo del muro di Berlino fa da collegamento con l’Est Europa. Ma con il crescere dell’importanza dell’Africa e del Medio Oriente il Mediterraneo sta diventando luogo segreto di mire espansionistiche. Marsiglia (solo en passant faccio notare che si tratta proprio della Francia che sta muovendo su Telecom) potrebbe essere il centro di questo nuovo importante e strategico flusso. Oppure la Sicilia: non è un caso che Interoute con altri soggetti stia per lanciare un mix proprio nell’isola. Obiettivo: attrarre i nuovi giganti come Google, Facebook e Amazon. E avere un ruolo nella trasformazione digitale dell’economia. 47 CULTURA E SPETTACOLO del 03/11/15, pag. 26 Sos per la cultura “Solo i Caschi blu potranno salvarla” Che cosa si può fare per evitare altre Palmira? Dalla Bmta di Paestum l’alto rappresentante Unesco Mounir Bouchenaki rilancia il progetto dell’Italia Maurizio Assalto Il tempio di Baalshamin: distrutto. Il tempio di Bel: distrutto. L’Arco di trionfo: distrutto. Il mausoleo di Mohamad ben Ali, discendente di un cugino del Profeta: distrutto anche quello. Dovrebbe essere un festoso incontro di offerta e domanda di luoghi in cui viaggiare, la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, invece quest’anno - in molti dibattiti del fitto programma - è sembrata soprattutto una dolente rassegna di posti bellissimi dove non si può più andare, o dove per paura si esita a andare, o in cui rimane poco da vedere. Dal Nord Africa al Vicino Oriente alla Penisola Arabica. Su tutti un nome, che un tempo era da favola e ora è da incubo: Palmira, la città martire. Mohamad Saleh, l’ultimo direttore locale del turismo, fuggito poco prima dell’arrivo dell’Isis, lo scorso 20 maggio, elenca con voce asciutta le devastazioni, mentre sullo schermo scorrono le immagini del «prima» e «dopo». Ma poi si commuove quando ricorda l’amico Khaled al-Asaad, l’anziano direttore del sito archeologico che diceva di amare quei monumenti più dei propri figli, assassinato in agosto dai fanatici invasori. Un martire anche lui. La testimonianza di come la difesa degli uomini e quella delle «pietre», che a volte vengono poste in alternativa, siano due aspetti dello stesso impegno a tutela dell’umanità che anche in tante pietre è contenuta. Qualcuno (Paolo Matthiae, lo scopritore di Ebla) si indigna: Palmira sorge in mezzo a una pianura deserta, per salvarla bastava bombardare dal cielo le carrette del Califfo in avvicinamento. Qualcuno (l’ambasciatore Francesco Caruso, già rappresentante italiano dell’Unesco) evoca il «diritto all’ingerenza culturale», oltre a quella umanitaria. La questione è nell’aria: a cosa serve iscrivere un luogo nell’elenco del Patrimonio Mondiale dell’Umanità, se poi non si fa niente per difenderlo? Giriamo la domanda a Mounir Bouchenaki, algerino 72enne, una vita consacrata alla salvaguardia dei beni culturali, oggi consigliere speciale della direzione generale dell’Unesco e direttore dell’Arab Regional Centre for World Heritage con sede a Doha, in Bahrein. Archeologo di formazione, in uno dì suoi primi scavi - nel sito di Tipaza, tanto amato da Camus - aveva riportato alla luce uno splendido mosaico paleocristiano con la scritta «In Christo Deo pax et concordia sit convivio nostro». Pax et concordia, si può dire, sono l’insegna del suo impegno appassionato. Professor Bouchenaki, la tutela dell’Unesco non rischia di restare qualcosa di puramente virtuale? «Noi facciamo tutto quello che è possibile, nelle condizioni in cui siamo costretti a operare. Raccogliamo e verifichiamo le informazioni sullo stato dei siti, ma se non è garantita la sicurezza ci è precluso ogni intervento diretto. Nel 2003 potei andare a Baghdad, con una delegazione di cui facevano parte anche il direttore del British Museum Neil McGregor e il direttore dell’Istituto italo-iracheno Roberto Parapetti, soltanto a metà maggio, 15 giorno dopo la caduta di Saddam, quando gli Stati Uniti avevano installato un governo 48 provvisorio. Constatate le devastazioni, consegnammo un rapporto alle Nazioni Unite, che nel giugno di quell’anno vararono una risoluzione sul traffico illecito dei beni culturali e sulla protezione del patrimonio. Una analoga risoluzione è stata presa nel febbraio 2015 per la Siria e l’Iraq». Non crede che i tempi siano maturi per dotarsi di Caschi blu del patrimonio culturale? «Già una decina di anni fa c’era stata un’iniziativa in questo senso, da parte proprio del governo italiano. Il direttore generale dell’Unesco era allora Koichiro Matsuura, io ero vice direttore generale per la cultura: firmammo un accordo che prevedeva un appoggio militare italiano, in forma di Caschi blu, per il patrimonio culturale. Poi la cosa non ebbe seguito. Quest’estate l’Italia ha presentato insieme con la Giordania un’analoga iniziativa all’assemblea generale dell’Onu, e poche settimane fa i rappresentanti dei due Paesi sono andati all’Unesco, dalla direttrice Irina Bokova, per discutere sulla creazione di questo corpo militare. Che è quello che ci manca in questo momento. Adesso abbiamo l’Unhcr per i rifugiati, la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa per i feriti e i morti. Ma per il patrimonio culturale non c’è niente». A che punto è la proposta italo-giordana? «Sarà presentata dal segretario generale dell’Onu ai Paesi membri. È una proposta ragionevole che dovrebbe essere appoggiata. Personalmente sono ottimista. Mi sembra che ci sia una sensibilizzazione internazionale, perché quello che è successo negli ultimi tre-quattro anni è un disastro senza precedenti. Non si tratta più dell’attacco a un singolo monumento, come nel caso del ponte di Mostar, fatto saltare dai croati, nel 1993, in quanto simbolo del giogo ottomano: adesso siamo di fronte a una distruzione sistematica. In Siria e nelle zone dell’Iraq in mano all’Isis c’è la volontà di cancellare la memoria, il rapporto tra una popolazione e la sua eredità culturale. Come sta accadendo anche in Libia, dove la locale al Qaeda ha già distrutto una cinquantina di mausolei in cui i fedeli si recavano a pregare - perché per quei fondamentalisti non devono esistere intermediari tra il singolo e Dio - e nello Yemen, dove a fare le spese dell’insurrezione degli sciiti Huti sono stati diversi monumenti e la stessa capitale, Sanaa, patrimonio Unesco. Qualcosa che si già si era cominciato a vedere nel 2001 a Bamiyan». Dove lei cercò invano di scongiurare la distruzione dei Buddha… «A fine febbraio di quell’anno ricevemmo la segnalazione dall’ambasciatore greco a Islamabad: il mullah Omar aveva pronunciato la sua fatwa e i Buddha sarebbero stati distrutti alla fine della festività allora in corso, quella del Sacrificio di Abramo, la seconda più importante dell’islam. Avevamo una settimana di tempo. D’intesa con Matsuura, chiesi all’ambasciatore francese a Islamabad, l’amico Pierre Lafrance, di prestarsi come inviato speciale dell’Unesco a Kandahar. Lui accettò, poté parlare con vari ministri del governo talebano, ma non con il mullah Omar, che ha sempre rifiutato di incontrare stranieri. Era chiaro che si trattava di una questione religiosa. Allora mi rivolsi all’Egitto, organizzai una conferenza telefonica tra Matsuura e il presidente Mubarak, che si offrì di mandare a Kandahar il rettore dell’università del Cairo e il muftì, che è la personalità religiosa più importante in Egitto. Ma anche la loro missione fallì. Non c’è niente da fare, si sentirono dire, è un ordine di Dio, non lo possiamo cambiare». In seguito avete ancora provato a coinvolgere il mondo islamico? «In quello stesso 2001, con l’Alecso di Tunisi e l’Isesco di Rabat - due organismi governativi del mondo arabo che si occupano di educazione, cultura e scienza - proposi di contattare tutti i Paesi islamici, dal Maghreb al Kazakistan, chiedendo di indicare esperti di diritto musulmano, di tutte le scuole. Organizzammo una riunione in Qatar il 30 e 31 dicembre, con un solo punto all’ordine del giorno: islam e patrimonio culturale. Ne uscimmo con la “Dichiarazione di Doha”. Purtroppo è rimasta totalmente ignorata, perché 49 pochi mesi prima in America c’era stato l’11 settembre e da allora non si è parlato d’altro. Ma adesso ci sono molti, anche rappresentanti di governo, che me lo chiedono: perché non riprendiamo quel testo per affrontare l’ideologia diffusa dall’Isis?». del 03/11/15, pag. 1/28 CULTURA E CRESCITA La «coerenza culturale» che serve alla ripresa Investire in cultura oggi, in Italia, “conviene” per contribuire allo sviluppo italiano? Le risposte positive in passato sono state spesso un intendimento dello spirito piuttosto che un programma di azione. Con la quarta edizione degli Stati Generali per la cultura promossi da questo quotidiano la concretezza nella progettualità è stata netta. Politici, imprenditori, operatori culturali hanno rilevato che i cinque punti proposti dal Manifesto per la cultura nel 2012 stanno generando effetti. Il ministro Franceschini lo ha riconosciuto ed anche per questo, considerato che Il Sole è un quotidiano economico, partiamo dalla sua frase quando, appena nominato, disse di sentirsi chiamato a «guidare il ministero economico più importante del Paese». Questa non è un’impostazione meccanicistico-mercantile come hanno dimostrato nel dibattito sia il ministro sia gli imprenditori uniti nel dire che la tutela del patrimonio artistico-culturale si può combinare con un indotto, già presente, di portata cruciale nel rilancio socioeconomico dell’Italia. Il ministro ha dato notizia delle maggiori risorse finanziarie ed umane che il Mibact avrà a disposizione nei prossimi tre anni e del Piano nazionale operativo (Pon) per le quattro Regioni meridionali. Imprenditori e rappresentanti di fondazioni hanno dato conferme del loro impegno, incitamenti e suggerimenti per il coinvolgimento delle imprese nel finanziamento migliorativo di musei, opere e siti d’arte. Infine si è manifestata una forte consonanza che una gestione più moderna di Enti ed organismi artistico-culturali (con bilanci, consigli di amministrazione) si può ben combinare (come casi in atto dimostrano) con le esigenze di tutela scientifica e pubblicistica. Su questa base approfondiamo tre aspetti rivenienti anche dagli Stati Generali. Investimenti e patrimonio. Franceschini ha confermato che nel disegno di legge di stabilità il bilancio del Mibact passa da 1,57 miliardi del 2015 a 1,87 del 2018 con un incremento di quasi il 20%. Inoltre la possibilità di assumere nel 2016 per concorso 500 tra archeologi, archivisti, bibliotecari, storici dell’arte, antropologi, restauratori coprendo vacanze di anni rafforza il cambio di passo del Mibact e del Governo. Sono risultati che non si vedeva da molti anni. Senza entrare nei capitoli di spesa del Mibact soffermiamoci su due punti dell’investimento nel nostro patrimonio artistico-culturale. Il primo è che essendo espressione della genialità irripetibile di persone e di civiltà, gli investimenti (compresi quelli in risorse umane) per la conservazione vanno fatti sempre indipendentemente da una redditualità calcolabile economicamente. Il secondo punto è che se dal patrimonio si può (e in vari casi si deve) ricavare un reddito ciò va fatto per un autofinanziamento necessariamente parziale dell’investimento e della gestione. Ci vogliono quindi (quasi sempre) ulteriori risorse pubbliche e private. Positivo qui è che nel 2014 gli ingressi nei luoghi d'arte siano stati 2,6 milioni in più dell’anno prima superando i 40 milioni di visitatori. Si può fare ancora di più e non solo perché con il decreto di settembre la fruizione del patrimonio storico e artistico della Nazione è stata equiparata a quella di servizi pubblici essenziali. 50 L’indotto economico. Per il Mibact nel 2013 ci sono stati in Italia 104 milioni di arrivi turistici e 380 milioni di presenze turistiche di cui 38 milioni di arrivi e 101 milioni di presenze in Comuni di interesse storico ed artistico. Inoltre la spesa dei turisti stranieri per vacanze artistico-culturali è stata di 12 miliardi pari al 35,6% della spesa complessiva dell’anno. La natura sistemica di turismo-cultura-produzione si può efficacemente spiegare in base alla composizione della spesa giornaliera di un turista straniero tipo segnalata da Symbola. Su circa 400 euro spesi in vacanza (extra alloggio, spostamenti e pacchetti turistici), il 40% va in ristorazione, il 40% in prodotti per manufatti locali, design e moda, il 10% in visite e mostre, il 10% in altre spese accessorie. Da queste notizie ben si comprende come il patrimonio artistico-culturale sia un formidabile moltiplicatore al punto che Symbola-Unioncamere stimano per il 2014 un valore aggiunto di 83 miliardi (comprendendo le industrie culturali, creative e le arti performing e visive). Per questo il potenziamento delle infrastrutture al servizio del turismo è cruciale per lo crescita di tutto il Paese e non solo per il Mezzogiorno. Al proposito il Mibact è centrale anche nel Pon “Cultura e Sviluppo” 2014–2020, che è cofinanziato dai fondi comunitari e nazionali per un ammontare di circa 490 milioni. Le risorse sono destinate a 5 regioni del Sud sia per le “dotazioni culturali” sia per l’imprenditoria cultural-territoriale. Pubblico e privato. Il finanziamento pubblico del patrimonio artistico-culturale per quanto in crescita non sarà mai bastevole anche per riattivare siti ormai abbandonati. Per questo e tenendo conto dell’indotto privato che esso genera, bisogna sensibilizzare sempre di più imprese, fondazioni, cittadinanza. L’Art bonus introdotto nel luglio del 2014 con la detrazione fino al 65% delle donazioni per interventi sul patrimonio pubblico artisticoculturale è una ottima misura. La stessa può essere molto potenziata sia aumentando la capacità recettiva di enti statali (il che dovrebbe seguire ai nuovi criteri gestionali) sia stimolando le imprese maggiori a finanziare la conservazione di un’opera importante sia convincendo i cittadini che il patrimonio pubblico è loro e che quindi devono sostenerlo. L’Unesco ci attribuisce 50 siti di eccezionale valore umanitario sui 1.007 mondiali collocandoci così al primo posto. Dall’annuario del Mibact “Minicifre della cultura” capiamo subito come si tratta di una formidabile sottovalutazione. Vedendo però tanti casi di abbandono e trascuratezza di beni artistico-culturali e confrontandoci con altri Paesi che, pur meno dotati di patrimonio, sanno valorizzarlo comprendiamo che la proposta della Costituente per la Cultura promossa dal Sole se avrà successo rafforzerà anche l’identità e l’immagine italiana. Alberto Quadrio Curzio 51 ECONOMIA E LAVORO del 03/11/15, pag. 9 Casa, contanti e canone Rai I tecnici bocciano le misure Gli uffici delle Camere contro il taglio della Tasi Roberto Giovannini Normalmente i governi non sono affatto tenuti a considerare le obiezioni dei tecnici incaricati di fare le pulci contabili ai provvedimenti che compongono le varie manovre finanziarie. Quasi certamente neanche stavolta l’Esecutivo Renzi si discosterà da questa prassi. Vero è che stavolta gli esperti di Camera e Senato ci hanno dato veramente sotto, esprimendo dubbi e perplessità su moltissimi elementi chiave. Primo caso tra tutti, l’abolizione della Tasi sulla prima casa e dell’Imu agricola, su cui di fatto però si esprime una sorta di critica politica. Nel dossier delle Camere infatti non si contestano le stime, ma si afferma che l’eliminazione del tributo sulla prima casa rischia tuttavia di comprimere i margini di manovra dei Comuni, poiché la compensazione del mancato gettito con l’aumento del fondo di solidarietà comunale può «determinare un irrigidimento dei bilanci». Il secondo capitolo è quello della sanità e delle risorse per le Regioni. Sostenendo la tesi di queste ultime, il dossier chiede al governo «una valutazione in merito alla effettiva praticabilità» dei tagli previsti. Ancora, non è detto che si riesca a incassare nel 2016 circa un miliardo dal comparto giochi: «non appare affatto certo» che la raccolta da video-lotterie e slot resti uguale agli scorsi anni», come pure per «Scommesse», Bingo e Gioco a distanza. Nemmeno la stretta sugli acquisti della Pubblica amministrazione convince: si rischia che i tagli siano incompatibili con i «fabbisogni necessari ad assicurare i livelli minimi di funzionamento». Sarebbe poi sottostimata la platea dei beneficiari della proroga della decontribuzione per le assunzioni, visto che comunque un po’ di ripresa ci sarà nel corso del 2016. Il governo dovrebbe «chiarire» il gettito atteso dalla voluntary disclosure per gli evasori fiscali. Si afferma che non tutto torna nella quantificazione degli effetti finanziari dell’esenzione Imu per i beni strumentali «imbullonati». Dubbi non mancano anche sull’inserimento del canone Rai in bolletta o sull’innalzamento della soglia del contante, sottoposto troppo spesso a interventi di segno contrapposto. «I provvedimenti economici vengono sistematicamente smontati, punto per punto», spara il capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta. Nel Pd c’è invece chi dice che le obiezioni dipendono dalla riforma che depotenzia il Senato, e che desta malumori tra i funzionari. Ieri nelle audizioni le parti sociali hanno espresso critiche, a partire da Susanna Camusso (Cgil), secondo cui la manovra «favorisce chi ha di più», da proprietari immobiliari a evasori fiscali, e peggiora le condizioni di chi invece si trova già in condizioni disagiate. Cisl e Uil sulla stessa linea lamentano i tagli a Caf e patronati. Mentre il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, pur approvando l’impianto complessivo della legge, evidenzia «i grandi assenti» del 2016: Sud, ricerca e innovazione. 52