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IL MARGINE
IL MARGINE
1-2 GENNAIO-FEBBRAIO 2016
ISSN 2037-4240
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno 36 (2016)
n. 1-2
Francesco Ghia
LA SPERANZA
LE PAURE
L’UTOPIA
3
Utopia, 500 anni di novità
4
La lettera e lo spirito. Rileggere oggi
Utopia di Thomas More
Lia Guardini
11
La mia traduzione dell’isola di Tommy
Silvano Zucal
12
L’utopia della nascita
Marcello Farina
24
L’utopia della tenerezza
Piergiorgio Cattani
28
L’utopia della “guarigione”
Giovanni Colombo
31
Il bel corpo
Paolo Caroli
36
Joan Baez, usignolo utopico
Paolo Ghezzi
40
Animal Farm
Emanuele Curzel
43
L’utopia senza umanità
Paolo Miorandi
48
Alfabeti della sopravvivenza.
A proposito del Lessico di Hiroshima
Paolo Marangon
53
La rivoluzione gentile
Giorgio Antoniacomi
59
Dietro alle cose, la promessa
64
Un anno di Utopia
Il Margine 36 (2016), n. 1-2
Il Margine 36 (2016), n. 1-2
Utopia, 500 anni di novità
La lettera e lo spirito
Rileggere oggi Utopia di Thomas More
FRANCESCO GHIA
P
er la casa editrice “Il Margine” l’anno 2016 è all’insegna dell’Utopia, o
per la precisione all’insegna della rilettura dello scritto che Thomas
More scrisse nel 1516, e per intitolare il quale l’autore coniò una parola
nuova: Utopia, il luogo che non c’è, il luogo che ci dovrebbe essere.
Il libro (traduzione di Lia Guardini, introduzione di Francesco Ghia) è stato presentato all’interno
di tre giorni di letture e riflessioni che si sono tenute a Trento, dapprima il 15 e 16 gennaio presso il
Caffè Galilei, quindi domenica 17 presso il Museo
delle Scienze. Nei primi due giorni in molti si sono
alternati per raccontare la “loro” utopia, il loro rapporto con il volume di More o più in generale con
questioni che interpellano gli uomini e le donne di
oggi. Domenica 17 alcuni esponenti politici locali
hanno letto brani del volume e hanno così introdotto l’intervento di Miguel Benasayag (L’utopia di
restare umani). Si è trattato solo dell’inizio di una serie di appuntamenti che
proseguiranno per tutto il 2016: già domenica 31 gennaio c’è stato l’incontro
con Zygmunt Bauman (L’utopia del futuro dell’utopia); di altri diamo
l’annuncio nelle pagine che chiudono questo fascicolo.
In questo numero doppio, che apre la trentaseiesima annata della rivista,
abbiamo raccolto alcuni degli interventi proposti nel corso della doppia
giornata di presentazione e altri testi che, nello stesso spirito, alcuni collaboratori hanno voluto scrivere. Contiamo, nel seguito dell’annata, di poter
pubblicare anche altre parole che raccontino la speranza, le paure, l’utopia
degli uomini e delle donne del nostro tempo.
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«Mi sono sovente chiesto: scriverei ancora, oggi, se mi dicessero
che domani una catastrofe cosmica distruggerà l’universo, così
che nessuno possa domani leggere quello che oggi scrivo? In
prima istanza, la risposta è no. Perché scrivere, se nessuno potrà
leggermi? In seconda istanza la risposta è sì, ma solo perché nutro la disperata speranza che, nella catastrofe delle galassie, qualche stella possa sopravvivere, e domani qualcuno possa decifrare
i miei segni. Allora scrivere, anche alla vigilia dell’Apocalisse,
avrebbe ancora un senso».
(Umberto Eco, Sulla letteratura)
S
uccesse qualche anno fa, in una città della pianura padana nota ai più
per le sue nebbie e per aver dato i natali a un ex segretario dell’attuale
partito di maggioranza relativa. Mi trovavo colà in visita, con alcuni amici,
presso una casa di riposo per religiosi di una data congregazione. Il nostro
caro ospite, prima di congedarci, volle presentarci un suo confratello che –
per dirla con Jannacci – inseguiva già da tempo (…e come biasimarlo?) un
bel sogno d’amore. Il suo bel sogno consisteva nella regestazione di una
buona migliaia di libri. Li prendeva delicatamente in mano, con cura ne passava in rassegna le pagine per vedere se non fossero danneggiate, ne foderava la copertina e assegnava a ciascuno un codice di catalogazione.
Tutti quanti noi, bibliofili un po’ per passione e un po’ per mestiere,
fummo commossi dallo zelo amoroso di quest’uomo che stava consacrando
a tale faticoso progetto (del quale, con ogni probabilità, non avrebbe mai visto la fine) gli ultimi anni di un’esistenza terrena che, come ci raccontò poi
in confidenza il nostro caro ospite, era stata non poco travagliata di affanni e
amarezze. Incautamente, ci venne spontaneo chiedere a quel sacerdote
quando e come pensasse di aprire al pubblico la biblioteca che con tanta de-
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dizione stava allestendo. Un velo di terrore misto a orrore si dipinse
d’improvviso sul suo volto stanco. «Aprirla al pubblico? No... No, non ci ho
proprio mai pensato…».
Insomma: il prete regestatore di libri stava approntando una biblioteca
che nessuno avrebbe mai visitato. Un sacrario privato in cui devotamente
riporre, come in un’urna, le morte lettere di un libro e officiare diuturnamente le esequie per le spoglie di un testo che fu.
Sì, pensammo all’unisono, proprio un episodio degno della penna di un
Borges…
«È stato scritto per me»
I libri, si sa, sono come i talenti della parabola evangelica. Se vengono
sepolti sotto terra (o negli scaffali chiusi di una biblioteca inaccessibile), se
non vengono “trafficati”, muoiono. Diventano, nel migliore dei casi, spuntino per roditori.
Un grande filosofo italiano del diritto, Giuseppe Capograssi, a chi gli
chiedeva perché scrivesse libri, rispondeva sempre che li scriveva pensando
a un ignoto e ignaro lettore che, aggirandosi come per caso tra le bancarelle
di un rigattiere in una remota e sperduta città, e trovandovi, sottratto chi sa
come alle insidie della polvere e del tempo, proprio un suo libro, lo prendesse in mano e, sfogliandolo, esclamasse: «questo libro è stato scritto per
me!».
Ogni libro degno del nome merita infatti di ritrovare, da qualche parte
sulla terra, il proprio lettore. Qualcuno che possa dire: «sì, esso è per me».
«Pro captu lectoris habent sua fata libelli», sentenziava Terenziano Mauro: è il favore del lettore a determinare la sorte di un libro. Una volta che
l’autore lo abbia congedato, il libro è consegnato al suo destino. Compirà, da
solo, la sua strada. In attesa di chi lo riconosca come il proprio compagno di
viaggio.
Mi piace pensare che sia anche in ossequio alla sentenza di Terenziano
Mauro che Thomas More abbia voluto designare la sua Utopia con
l’appellativo di «libellus vere aureus ne minus salutaris quam festinus», «libello invero aureo, e non meno utile che dilettevole». «Libello»: il medesimo appellativo, da intendersi non in senso dispregiativo, ma come un tenero
vezzeggiativo, con cui Dante chiama la sua Vita nuova; perché, a ben vedere, una nuova vita può ricominciare, quasi fosse un miracolo d’amore, anche
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grazie a un piccolo libro, da leggere e rileggere, idem et alius, come il sole
che, nel Carmem saeculare di Orazio, fa capolino all’alba di ogni giorno,
sempre uguale, eppure sempre diverso.
«Come se»
Come leggere, dunque (o meglio: come ri-leggere), oggi, Utopia?
Faremmo – credo – un pessimo servizio all’opera e al suo autore se volessimo leggerla prendendola alla lettera. Quasi, cioè, si trattasse di un manuale di istruzioni per costruire lo Stato perfetto.
«La lettera uccide, lo spirito invece dà vita», si legge in 2Cor 3,6. Il modo migliore per far morire un testo è leggerlo secondo la lettera e non secondo lo spirito. Come non avvedersi che, ogni volta che, per esempio, leggiamo in maniera letteralistica un testo biblico lo facciamo immediatamente
sprofondare nell’assurdo e nel ridicolo, mortificandone la vitalità spirituale?
Chi potrebbe razionalmente e sensatamente credere che il racconto della fuga in Egitto di Mt 2,13 sia da prendere alla lettera e non invece da interpretare, secondo lo spirito, come il compimento in Gesù della parabola interrotta
di Mosé che, fuggito dall’Egitto, aveva indicato ai suoi la destinazione della
terra promessa senza tuttavia poterla, lui, raggiungere?
Così, si parva licet, vale anche per Utopia di Thomas More. Un testo da
leggere secondo lo spirito e non secondo la lettera. Due secoli e mezzo dopo
la pubblicazione della prima edizione di Utopia, Immanuel Kant sottolineerà
l’importanza di un uso regolativo (secondo appunto lo spirito) e non costitutivo (secondo invece la lettera) dei concetti.
La struttura dell’uso regolativo dei concetti è l’analogia, il «come se».
Con l’analogia, resta sempre distinto il piano della realtà effettiva da quello
della realtà descritta, pur se molto spesso la seconda si presenta con una forza tale da riuscire a influenzare la prima.
È in questo senso che la struttura del «come se» può persino risultare una
delle strutture fondamentali dell’etica, dell’agire morale. Agisci «come se»
le massime che guidano la tua azione fossero massime di un agire universale, valido e vincolante per tutti gli uomini: così Kant formula il suo imperativo categorico. L’imperativo di questo «come se» evoca una sospensione
dello spazio e del tempo, la costruzione di un mondo virtuale, che non esiste, ma anche la speranza e la volontà di una prospettiva, di uno sguardo rivolto al futuro.
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Esso è dunque l’invito a serbare piena fedeltà a sé stessi, ossia ad agire
responsabilmente pur nella consapevolezza dell’imperfezione che ci domina. Del resto, già Paolo sottolineava questa sorta di tensione vitale tra il già
e il non ancora, quando, nella Prima Lettera ai Corinti, esortava a rimanere
saldi nella propria vocazione e al tempo stesso a vivere «come se» la posizione attuale che si occupa nel mondo non fosse comunque quella definitiva,
in attesa del Mondo in cui tutte le contraddizioni saranno, come all’inizio di
una nuova primavera, definitivamente sanate.
«Peregrinationis magis quam sepulchri curiosus», più interessato
all’andare ramingo per il globo che del luogo dove sarà sepolto: così, come
il prototipo dell’homo viator, viene descritto da More l’io narrante di Utopia, Raffaele Itlodeo. E non è in fondo questo non sentirsi autenticamente di
casa «in nessun luogo» l’essenza stessa di Utopia? Vivere nel mondo realmente esistente «come se» non si appartenesse del tutto a esso, in perenne
peregrinazione verso un altrove sperato: «inquietum cor nostrum donec requiescat in Te», «il nostro cuore è inquieto finché non riposi in Te», direbbe
Agostino (una citazione amata da More).
A ben vedere, dunque, scrivere, pensare, progettare, parlare, persino
amare, sono tutte strutture del «come se»: nutrono infatti la speranza che il
nostro sentire, il nostro mondo interiore, il nostro agire trovino un interlocutore, qualcuno che sappia andare oltre il detto, che sappia leggere non secondo la lettera, ma secondo lo spirito. Per consentirci, non in senso ripetitivo e rassegnato, ma autenticamente creativo, di porre un nuovo inizio, di
ricominciare a tessere, lentamente e faticosamente, una trama del vivere.
«Utinam aliquando contigeret»
«Utinam aliquando contigeret», «vorrei proprio che questo, prima o poi,
si verificasse»: con queste parole Thomas More, congedando il lettore, si
augura che si diano in futuro ancora altre occasioni per discutere degli usi,
dei costumi e della forma di governo degli Utopiani.
L’avverbio latino «utinam» ha, come è noto, un carattere ottativo, dischiude cioè lo spazio a un desiderio, a una speranza sempre e necessariamente aperta… Che sia dunque proprio questo avverbio a introdurre il congedo dell’autore dal lettore della sua opera ha quasi lo scopo di consegnare
nelle mani del lettore stesso il compito di continuare lui la «costruzione» di
Utopia, ossia quella che in tedesco si chiamerebbe la sua Vergegenwärti-
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gung, il suo renderla attivamente presente nello hic et nunc sempre provvisorio della storia quotidiana.
Certo, Thomas More, che era un «uomo di mondo», poteva concludere la
sua opera con quello sguardo ironico e disincantato con cui ha sempre guardato all’esistenza terrena. «Riconosco volentieri che nello Stato di Utopia ci
sono molti aspetti che vorrei vedere applicati nei nostri Stati: ma non ci spero molto…».
Si sa, soprattutto in politica, è sempre buona norma di salute mentale non
farsi troppe illusioni. Eppure, spes contra spem, non ci si può – né ci si deve
– sottrarre neppure alla giusta seduzione dell’utinam.
Così, nel seguito, in ordine sparso e quasi a mo’ di appunti, vorrei provare, sommessamente, quasi in pianissimo, a elencare qualche aspetto dello
Stato di Utopia che, pur anch’io non sperandoci molto, vorrei, almeno in
parte e secondo lo spirito, veder applicato nei nostri Stati.
Il primo «utinam» è legato alla forma delle leggi. In Utopia, esse sono
poche e scritte in maniera tale da non dare adito a eccessivi conflitti di interpretazione e quindi da non cadere preda dell’arbitrio di chi le deve interpretare. È proprio la loro chiarezza e univocità a rendere superflua – sottolinea
l’avvocato More – la presenza sull’isola di avvocati! Ora, di quante leggi dei
nostri ordinamenti si può affermare che sono ben scritte, organizzate con
chiarezza e coerenza e in maniera tale da non innescare ardimentose ermeneutiche?
Il secondo «utinam» è legato alla mitezza del diritto. Con una lungimiranza straordinaria, e che sorprende, More sottolinea, nel Primo Libro di
Utopia, che non solo l’intensità della pena deve essere proporzionata alla
gravità del reato commesso, ma anche che l’inasprimento indebito della pena sortisce come effetto non un’attenuazione, bensì una recrudescenza del
reato. Insomma, il diritto dev’essere mite non solo per ragioni etiche, di rispetto cioè della dignità della persona che resta intangibile anche quando si
tratti di un reo, ma anche per ragioni di efficacia: una notevole piccola summa di filosofia e sociologia del diritto che, in cinquecento anni, non ha davvero perso nulla della sua originaria ed eversiva carica profetica.
Il terzo «utinam» è legato all’organizzazione del lavoro. Gli Utopiani
lavorano solo sei ore al giorno, tre al mattino e tre al pomeriggio. Il modello
organizzativo è, a ben vedere, ritmato, come nella vita monastica,
dall’alternarsi di otium e negotium, di vita contemplativa e vita attiva. Questa alternanza, se per un verso conferisce al lavoro la sua piena dignità di
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mezzo di realizzazione della persona attraverso l’esercizio delle abilità individuali, per altro verso lo vincola al fabbisogno collettivo: si lavora cioè
quel tanto che è necessario per produrre ciò di cui la comunità ha bisogno (e
non più di questo) e facendo in modo che nessuno si trovi a essere inattivo.
Ben in anticipo su Marx, More già intravede pertanto le insidie diaboliche
del nesso tra pluslavoro e plusvalore: da qui, in Utopia, l’assenza di circolazione del denaro (inutile, giacché tutti hanno la possibilità di procurarsi gratuitamente ciò di cui necessitano) e l’abolizione della proprietà privata e delle sperequazioni sociali tra ricchi e poveri. Riconferendo la giusta dimensione al bisogno, More ci invita quindi a riflettere su come affrancarci da quella
tirannia del bisogno di cui necessitano oggi, sempre più, le nostre economie
globalizzate e che sono troppo spesso il prodromo per legittimare indebitamente il bisogno della tirannia.
Il quarto «utinam» è legato alla assistenza sanitaria. In Utopia, tutti gli
ammalati sono curati in ospedali pubblici, tanto grandi da sembrare essi
stessi delle piccole città: questo sia per ragioni di confort del paziente, perché cioè un numero anche consistente di malati non si venga a trovare in
spazi ristretti, e dunque a disagio, sia per ragioni di profilassi, per evitare
cioè che pazienti affetti da una malattia contagiosa possano trasmetterla ad
altri. Gli ospedali, dice More, sono così ben strutturati, forniti in abbondanza
di tutti i mezzi utili per far guarire i malati e con un modo di curare tanto
sensibile e attento (continua è infatti la presenza dei medici più esperti), che,
anche se mai nessuno viene ricoverato contro la sua volontà, in tutta l’isola
di Utopia non vi è persona che, colpita da qualche malattia, non preferisca
per la degenza il letto dell’ospedale a quello di casa propria. More dimostra
dunque, in Utopia, di avere ben chiaro come i malati non siano soltanto oggetto di cura, ma primariamente soggetti da riconoscere nella loro incoercibile dignità. Un insegnamento validissimo ancora oggi, in tempi in cui la
medicina difensiva sembra più spesso preoccupata della applicazione ossessiva e pedissequa dei protocolli e delle procedure che non dell’attenzione
alla soggettività e ai diritti della persona malata.
Il quinto e ultimo «utinam» è legato alla concezione religiosa. È questo,
com’è noto, uno dei punti più controversi dalla critica, in quando vi è stato
anche chi ha adombrato che la sezione di Utopia dedicata alla religione possa essere stata una interpolazione di Erasmo o di qualche erasmiamo, essendo poco compatibile con il More apologeta degli anni successivi. Ora, a parte il fatto che non è obbligatorio postulare sempre come necessità assoluta la
coerenza di un autore (si può infatti anche cambiare idea…), resta comun-
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que che proprio la prospettazione di Utopia come un’idea regolativa e non
costitutiva ci suggerisce come vi sia una differenza sostanziale tra il parlare
da teologo ad intra, come fa More nei suoi scritti apologetici, e parlare invece ad extra e in chiave universale, come fa More in Utopia. L’essere intimamente (e razionalmente) convinto della veridicità della propria opzione
confessionale non è necessariamente in contraddizione con la postulazione
di una religione che, per dirla con Cusano, si articola in una varietà di riti e
di forme espressive che possono pacificamente coesistere una accanto
all’altra («una religio in rituum varietate»). Dunque, se gli Utopiani riconoscono la legittimità di culti diversi, a patto e condizione che convivano reciprocamente in pace, se le loro preghiere sono pensare in maniera tale da non
“imprigionare” Dio negli angusti confini di definizioni o di recinti dottrinari
e se il fine ultimo della vita religiosa è quello di ampliare sempre più lo spazio interiore della coscienza, perché non vedere in tutto ciò la via possibile
per purificare oggi la nostra concezione religiosa da ogni, sempre e da ogni
parte ritornante, tentazione di violenza, sopraffazione, dogmatismo e fondamentalismo?
L’isola e il libro
In una lettera ad Antonio Bonvisi Thomas More definisce Utopia «un libro che credo meriti di andare a nascondersi per sempre nella sua isola».
Forse, una tale affermazione andrebbe presa un po’ più sul serio che se si
trattasse di un semplice, e in fondo convenzionale, esercizio di modestia: a
ben vedere, se il luogo di elezione del libro è l’isola di cui il libro narra, trovato il libro, si sarà trovata, infine, anche l’isola….
Sul sito http://www.il-margine.it/Rivista sono ora on-line tutte le annate
del “Margine”, dal 1981 al 7/2015
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Il Margine 36 (2016), n. 1-2
La mia traduzione
dell’isola di Tommy
LIA GUARDINI
I
l titolo, proposto da Paolo Ghezzi, va giustificato un po’. Tommy? Detto
di lui che è Sir del regno d’Inghilterra e (per di più) santo? Troppa confidenza? Per quello che mi riguarda no, proprio no, per alcuni motivi.
In primo luogo Tommy è diventato per me un buon amico, per via della
magia delle sue parole, del loro colore e sapore, del loro valore assoluto,
quello del quale parla Cesare Pavese (“L’Unità”, 8 maggio 1946: «C’è un
tono delle parole che ti tradisce per quello che sei»). Il suo latino non è cattedratico e obsoleto, non è una lingua lontana: è un latino magico, strumento
splendido di un gioco ironico che oscilla sempre tra serietà e sorriso. Ha la
leggerezza della quale Italo Calvino dice «speciale modulazione lirica ed
esistenziale che permette di contemplare il proprio dramma come dal di fuori e dissolverlo in malinconia e ironia»; ed ha la rapidità che è «economia
espressiva, ritmo, logica essenziale della narrazione orale».
Tommy è diventato un buon amico anche per la sua passione per il mondo greco. Inventa una nuova parola (e le parole tradiscono quello che sei e le
tue idee) che per me resta ou/topos. E poi tutte le fughe e le utopie che ci
sono nella letteratura greca, forse in assoluto la più “politica” di tutte. Come
non pensare alle fughe di Aristofane con la «città ricreata» di Uccelli e la
«città perduta» delle Rane?
La storia di Iambulo di Diodoro Siculo (I secolo a.C.) assomiglia molto
alla storia di Tommy, anche se è molto più amara e pessimistica. Iambulo,
mercante, è catturato e spedito, per compiere un rituale, verso sud, verso
un’isola di forma rotonda, che ha un perimetro di 5.000 stadi (vale a dire
900 km; per cui la superficie è di circa 64.000 kmq. Utopia ha una superficie
di più di 200.000 kmq). Gli abitanti assomigliano tanto a E.T., perché hanno
un corpo molle; hanno una strana (ed affascinante, e moderna) particolarità,
cioè una lingua biforcuta che consente loro di parlare con due persone con-
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temporaneamente. Iambulo e il compagno restano sette anni, poi sono cacciati via contro la loro volontà: l’ utopia – che ancora non si chiama così – è
annientata e distrutta. Non si può non pensare al Barone rampante di Calvino e al suo desiderio – fallito – di tornare a una vita secondo natura. Maggiore ottimismo, per quanto ironico, di Tommy?
E poi c’è l’Euboico di Dione di Prusa (I secolo d.C.). Dione racconta la
sua avventura: fa naufragio e viene accolto da una piccola comunità e in particolare da un cacciatore che, in mezzo a prati e boschi, vive una vita secondo natura, trasfigurata in utopistico idillio che poi diventa un ragionamento
sulla condizione delle plebi urbane. Dione propone di riportare queste plebi
nelle campagne e di far riprendere in questo modo la coltivazione dei terreni. Ma l’Eubea – teatro dell’avventura – non è un’isola sperduta e lontana:
l’Eubea sta esattamente di fronte alla pianura di Maratona, che è uno dei
luoghi più significativi della memoria storica e politica degli Elleni.
Infine Tommy è un buon amico perché è specchio inquietante e straniante del nostro presente. A p. 115 del nostro libro si può leggere come funzionano i magistrati, i politici dell’utopia. Leggere e stupire: per la rapidità e le
modalità delle decisioni che riguardano il bene pubblico. Brivido utopico, se
guardiamo al nostro presente. È una bella ironia che Tommy sia diventato il
patrono dei politici.
Utopia è davvero un posto che non c’è, se non nella testa di chi ha la forza, la voglia e il coraggio di essere visionario.
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Il Margine 36 (2016), n. 1-2
L’utopia della nascita*
SILVANO ZUCAL
I
l panorama filosofico del Novecento è stato dominato da un ritorno imponente della riflessione sulla morte con molti protagonisti, da Martin
Heidegger a Max Scheler, da Vladimir Jankélévitch a Paul Ludwig Landsberg (di cui la casa editrice “Il Margine” ha pubblicato L’esperienza della
morte), da Karl Jaspers a Gabriel Marcel e, con un riscontro anche sul piano
teologico, con Karl Rahner, Gisbert Greshake, Ladislaus Boros e Eberhard
Jüngel. Interpretazioni spesso molto dissonanti della morte ma che hanno
portato in evidenza lo statuto esistenziale dell’umano: esistere come “essereper-la-morte”, per usare il linguaggio heideggeriano.
“Essere-per-la-morte” o “essere-per-la-nascita”?
Come un fiume carsico, in modo meno imponente, è andato però affermandosi anche un paradigma alternativo, non più focalizzato sulla morte ma
piuttosto sul «venire al mondo», sulla nascita. Non più quindi, al centro, lo
statuto esistenziale dell’uomo come “essere-per-la-morte” ma, piuttosto,
come “essere-per-la-nascita”. Protagonisti su tale terreno – in chiave negativa (ovvero con giudizi stroncanti sull’evento della nascita còlto come autentica tragedia esistenziale) – sono in modo particolare Emil Cioran e Günter
Anders. Per pensatori come questi la nascita non è mai utopia ma distopia
assoluta.
In chiave positiva – con una lettura straordinariamente feconda
dell’evento natale e del suo carico utopico – troviamo in prima linea il pensiero femminile del Novecento, soprattutto con la pensatrice di origine
ebraica Hannah Arendt e con la filosofa spagnola María Zambrano (due
*
Anticipo in queste brevi considerazioni quanto sarà oggetto della mia monografia Filosofia della nascita, in corso di pubblicazione.
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donne che hanno subito entrambe la persecuzione politica e hanno conosciuto l’esilio). Nel panorama filosofico, per così dire “maschile”, del Novecento i pensatori che hanno dedicato attenzione teoretica all’evento della nascita
sono due filosofi tedeschi ancora viventi: Hans Saner e Peter Sloterdijk.
La nascita è, per tutti, l’esperienza straordinaria dell’accesso all’umano.
Eppure non è stata pensata filosoficamente dal pensiero occidentale, almeno
fino alle pensatrici e ai pensatori che ho in precedenza indicato. Prioritario,
non solo nel Novecento, è da sempre il pensiero della morte. Scrive giustamente Adriana Cavarero: «Rispetto alle due condizioni ontologiche fondamentali dell’essere umano [...] che sono la nascita e la morte, l’inizio e la
fine, la metafisica, lungi dal considerare interessante e fondativa la nascita,
la ignora totalmente e misura, definisce l’essere umano a partire dalla morte.
Nella lingua greca, fin dall’inizio, da Omero, gli uomini sono chiamati i
mortali. Questo significa definire gli esseri umani [solo] per la loro condizione di morte, di finitezza, di contingenza, per l’angoscia di sparizione» e
non per il loro straordinario esser-venuti-al mondo. I mortali dunque e non –
come invece dovrebbe essere (anche se non soprattutto) – i “natali”.
In realtà occorre correttamente relazionare morte e nascita, mentre troppi
commettono l’errore di considerare la morte come l’opposto della vita, dimenticando che l’opposto della morte è la nascita, non la vita. La vita è un
fiume: la nascita è la sua sorgente, la morte è la sua foce. Entrambe, nascita
e morte, non sono che soglie.
“Viene al mondo” un singolo unico e irripetibile
Con un pensiero filosofico che sposta finalmente il proprio baricentro
dalla morte all’evento della nascita, in primo luogo si smaschera la grande
menzogna sottesa al pensiero occidentale: esorcizzare la paura della morte
non soltanto con il dualismo antropologico di ascendenza platonica (la scissione anima-corpo) ma, soprattutto, con la logica onni-inglobante del Tutto
che porta all’esclusione o all’irrilevanza del singolo che viene al mondo con
la sua identità, unicità e irripetibilità. Un elemento per sé sempre terremotante ogni schema e ogni previsione e quindi straordinariamente “utopico”.
Contemporaneamente, lo slittamento dalla morte alla nascita porta a una
demolizione della logica auto-affermativa individualistica e solipsistica
dell’Io per accedere alla dimensione fondativa dell’umano esistere come relazione originariamente intersoggettiva e dialogica. Con la nascita emerge
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l’insensatezza dell’individualismo: chi nasce non si mette al mondo da solo
ma viene messo al mondo da altri, meglio, da quell’altra unica e irripetibile,
con quel nome e cognome, con quella storia di vita nella sua estrema singolarità.
La nascita come evento relazionale
È Martin Buber a definire con chiarezza la connessione originaria tra la
nascita (còlta non solo come evento biologico) e l’intersoggettività relazionale-dialogica: «Quando noi consideriamo il bambino, lo sviluppo dell’Io
nel bambino, vediamo che lo sviluppo dell’Io è identico allo sviluppo della
coscienza dell’Io: sono assolutamente indivisibili l’uno dall’altro». Il parto
dell’Io, il suo nascere e venire all’essere non può darsi, in prima istanza, se
non attraverso la ferita e la separazione natali: «In origine non c’è nessun Io.
La vita originaria e indifferenziata, la vita naturale [fetale], dalla quale e nella quale cresce l’essere umano, questa vita non conosce alcun Io e nessun Tu
o Lui, ma è proprio la vita indifferenziata». Sono in gioco – per Buber – due
mondi diversi e due diversi legami: una cosa era il rapporto simbiotico con
la madre nella realtà fetale pre-natale, un «legame come unione», assoluta
nell’indifferenziazione (e quindi senza Io e senza Tu), altra cosa è un «legame come relazione» Io-Tu. Relazione che il bambino scopre progressivamente avvicinandosi al mondo del Tu e ritrovandosi solo in tal modo finalmente come Io. Nella vita prenatale c’è un rapporto simbiotico, un legame
naturale assoluto con la madre (e per suo tramite anche con il mondo) che
andrà poi ritrovato nella relazione pienamente consapevole Io-Tu con gli altri esseri umani e anche con il mondo, trasformando quel «legame naturale»
in un autentico «legame relazionale»:
«La vita prenatale del bambino è un puro legame naturale, scambievole flusso,
reciprocità corporea; qui, in modo peculiare, l’orizzonte vitale dell’essere che si
sta formando appare segnato – e tuttavia anche non segnato – in quello
dell’essere che lo porta; perché il bambino non riposa solo nel grembo della madre umana. La natura mondana di questo legame è tale da suscitare lo stesso incanto dell’incompiuta decifrazione di un’iscrizione preistorica. E infatti, nel linguaggio mitico ebraico, si dice che nel grembo materno l’uomo conosce
l’universo, e lo dimentica alla nascita. E questo legame gli rimane impresso, come misteriosa immagine di desiderio».
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Occorre però non equivocare con questo desiderio, non si può ritornare
alla vita pre-natale e alla sua dimensione fusionistica di «legame naturale».
Piuttosto occorre trovare nel faticoso percorso dell’esistenza – a partire dalla
stessa infanzia – un «legame spirituale-relazionale» Io-Tu. Buber afferma
che non è che l’anelito di quel «legame naturale» possa significare la pretesa
di un ritorno allo stato indifferenziato fetale. Certo il prezzo da pagare per
passare dal «legame naturale» al «legame spirituale-relazionale Io-Tu» è
quella traumatica separazione che
«accade in modo improvviso e catastrofico [...] la separazione dalla madre naturale; al figlio dell’uomo è dato del tempo per passare dal legame naturale che va
perdendo al legame spirituale con il mondo, cioè alla relazione [...]. Come ogni
essere che sta per venire al mondo ogni figlio d’uomo riposa nel grembo della
grande Madre, di quell’indiviso mondo originario che precede la forma. Sciogliendosene, si apre alla vita personale; è solo nelle ore buie che gli siamo di
nuovo vicini, in quanto sfuggiamo alla vita personale (ma questo, di notte in notte, capita anche a chi è sano)».
Il tentativo (illusorio) di tornare al «legame naturale» originario è sempre
il sintomo di una grave patologia spirituale e relazionale. Il destino personale che permette al bambino l’autentico decollo identitario e la fuoruscita dal
caos dell’indifferenziato naturale è l’incontro dialogico con il mondo degli
altri e delle cose:
«[Il neonato] dalla rovente oscurità del caos è entrato nella fresca radiosità della
creazione: ma non è ancora sua, deve prima farla veramente emergere e renderla
realtà per lui, deve guardarsi il suo mondo, mettersene in ascolto, esplorarlo a tastoni, progettarselo. È nell’incontro che la creazione rivela il suo essere una forma; non si riversa in sensi che stanno lì ad aspettare, ma va incontro a quelli che
l’abbracciano. […] [Questa è] l’azione più faticosa dell’uomo che sta sorgendo.
[...] Nessuna cosa si dà se non nella potenza, suscitatrice di azione reciproca, di
ciò che ci sta di fronte. Il bambino vive tra un sonno e l’altro (anche una gran
parte della veglia è ancora sonno) nella luce fulminea, accesa e restituita,
dell’incontro».
Solo nella “frontalità” si dà l’incontro insieme rispettoso dell’alterità e
famelico d’essa.
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«come dualità dallo statuto paradossale dove il più indifeso, il bambino, è affidato al più forte, la madre, e dove il senza potere comanda a chi ha potere sottraendoglielo. Così la maternità assurge a simbolo per eccellenza dell’umano
come dualità di affidamento e responsabilità».
Si nasce da una donna ed è solo apparentemente ovvio
Il nascere poi è sempre un nascere da una madre, da una donna. Anche
se spesso lo si dimentica o sottovaluta o, addirittura, lo si rimuove. Per questo la filosofia della nascita, del «venire al mondo», è anche e nel contempo,
inevitabilmente, filosofia di genere: filosofia del femminile o della maternità
che, per essenza, è dualità paradossale e asimmetrica dove il più debole e
impotente – il bambino nel corpo della madre – vive nello spazio della relazione e ospite della sua “casa”: l’utero, che della casa è e resta la metafora
esemplare come mostrerà, con particolare acume teorico, Peter Sloterdijk.
Cancellando di fatto la nascita, il pensiero occidentale ha cancellato e
rimosso il femminile producendo – come afferma Adriana Cavarero – un
pensiero totalmente unidirezionale. L’analisi del Simposio platonico da lei
proposta mostra come in quel paradigma il vero amore non è più legato alla
generazione dei corpi – il cui potere è e rimane nelle mani della donna – ma,
piuttosto, alla generazione delle anime. Questo potere è totalmente nelle
mani del filosofo che, per antonomasia, può essere soltanto maschio. La
donna, per il pensiero greco, appare incapace di partorire le idee e i “bei discorsi”, i veri figli non più fragili e mortali ma imperituri e immortali:
«Questa è un’operazione strategica di grande importanza: da una parte il generare, e quindi la potenza generatrice materna, l’àmbito del nascere, viene dislocato
nel non essenziale e depotenziato nella sua significazione positiva; dall’altra, tutto l’immaginario del generare – l’essere gravido, l’avere le doglie, il partorire –
viene rubato dalla filosofia e ne diventa il lessico stesso (esemplare è il “concetto”, chiaramente da “concepire”)».
Il carico utopico del “venire al mondo”
La vera identità dell’umano non può dunque manifestarsi se non alla luce di un pensiero capace di mettere davvero al centro della propria prospettiva teorica non soltanto la morte ma, e ben più, il «venire al mondo» con il
suo carico utopico. Grazie alla nascita e alla maternità che la permette, l’Io
non appare più come sigillato e recluso nella propria individualità, non si
coglie come autosufficiente e sovrano. Neppure organico appare più l’Io,
ovvero parte della totalità o del sistema che lo ingloba e lo inghiotte. Proprio
in virtù della nascita si vive originariamente, scrive Carmine Di Sante,
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Lo statuto proprio dell’Io ne esce radicalmente modificato, orientato
strutturalmente al suo Tu che lo costituisce. Abbiamo quindi non più
un’auto-costituzione dell’Io, ma piuttosto un’etero-costituzione dell’Io grazie al Tu.
La tentazione teorica di rimuovere la nascita – e tutto ciò che essa implica come dimensione satura di senso – per concentrarsi solamente sulla morte
appare dominante e arriva fino alla contemporaneità. Come scrive giustamente Christina Schües, nella sua ampia monografia Philosophie des Geborenseins (Filosofia dell’essere partoriti/dati alla luce), la gran parte dei “più
grandi pensatori” ha totalmente dimenticato l’evento cruciale dell’«essere
partoriti», del «venire al mondo», del nascere. Si sono piuttosto ed esclusivamente concentrati sulla fine della vita ovvero sulla morte con una conseguenza di tutto rilievo sul piano antropologico: le persone umane sono ormai
appiattite sul loro essere mortali e non vengono considerate nel loro essere
in primis natali. Per Christina Schües tutto ciò ha delle conseguenze enormi:
si smarriscono troppe cose di assoluto rilievo esistenziale. Vien meno la vivacità, il senso della corporeità, l’imprevedibilità degli eventi futuri, la genealogia femminile (non a caso determinante nel mondo ebraico) e – soprattutto – il costante rinnovamento della vita comune. Tutto ciò avviene proprio e in virtù dei sorprendenti nuovi arrivi, dei neo-nati, come mostrerà in
modo convincente Hannah Arendt. È la nascita, annota Hans Jonas, ciò dove
accade e ci sorprende ogni volta il vero e unico novum nella storia
dell’umanità: «con ogni bambino che viene partorito, l’umanità ricomincia il
suo cammino sia pure sotto il segno della mortalità».
Non basta però prendere atto con rammarico di questo vuoto filosofico
imponente, scoperto di recente e denunciato soprattutto da grandi donne
pensatrici come Hannah Arendt o María Zambrano. Occorrerebbe piuttosto
chiedersi in qual modo e perché si tende a occultare sul piano teorico il proprio “esser-nati-da-donna”, interrogarsi su cosa si sovrappone e inibisce la
riflessione su questo stupefacente inizio umano straordinariamente concreto
che tutti ci riguarda e che tutto innova. Solo a partire da ciò può decollare
l’interrogativo decisivo: come cambia la nostra auto-percezione se riconduciamo il nostro inizio – che è nel corpo di una donna – al centro delle nostre
riflessioni? Che profilo può assumere la libertà se questa originaria dipen-
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denza viene messa a tema? Dipendenza che è sempre inter-dipendenza ovvero incrocio di responsabilità.
Sono molte quindi le sollecitazioni che il tema del «venire al mondo»,
con il suo carico utopico, propone e ne riprendiamo alcune, seguendo le riflessioni di María Zambrano.
Ogni nascita è un’alba dolorosa e vinta dalla luce
Ogni nascita umana è utopica perché è un’alba e ciò dice insieme il travaglio doloroso del parto e l’irrompere violento della luce nell’oscurità:
«L’alba dell’uomo [...] là dove apparve per la prima volta, apparve come
un’aurora, come una ferita da cui filtra come sangue la luce della Creazione». L’alba – afferma Zambrano – è l’ora più tragica del giorno poiché,
dall’apparente riposo e dalla sospensione dell’oscurità, si fa poco a poco
strada, con sempre maggiore virulenza, l’irrompere della luce. Una luce che
«appare come una ferita che si apre nell’oscurità», uno squarcio non privo di
violenza come avviene del resto in ogni parto.
L’alba veicola incertezza, come sarà egualmente per la nascita e per il
futuro (incombente) del neonato: per l’alba è «come se l’oceano del tempo e
della luce – ossia del tempo-luce – si affacciasse completamente, in bilico
tra lo straripare e il prosciugarsi. Per chiara che sia, l’alba è sempre indecisa.
E così l’alba dà la certezza del tempo e della luce e l’incertezza di quanto il
tempo e la luce porteranno con sé». L’alba è e rimane – per Zambrano – la
rappresentazione più indovinata che l’uomo possa farsi della propria vita,
del proprio essere nella vita,
«perché anche l’essere dell’uomo albeggia sempre. Dinanzi all’alba l’uomo si
trova con sé e dinanzi a sé, in quel suo avviarsi a straripare e a occultarsi; in
quella sua indecisa libertà semi-sognata. E dinanzi all’alba sua, quella del giorno
[natale], si sveglia andandole incontro. È la sua primigenia azione trascendentale.
[Come] Don Chisciotte [ogni uomo] si mette in cammino all’alba».
L’alba, diversamente dal tramonto, reca sempre in sé il dramma della
possibile incompiutezza: «l’alba è risveglio e promessa che può restare incompiuta. Il tramonto, invece, porta con sé il giorno ormai trascorso, con la
malinconia di ciò che fu, ma anche con la sua certezza e il suo compimento»
che può essere, in tal senso, paradossalmente anche fonte di consolazione.
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Il nostro destino è nascere e rinascere
Così è anche per l’“alba umana”: ogni nascita d’uomo è un esordio totalmente segnato dall’incompiutezza, come accade per ogni cammino utopico. Il neonato segnerà con questa incompiutezza tutta l’esistenza e in tutte le
sue tappe. La vita umana sarà per l’appunto un esserci come “essere-per-lanascita” e insieme come “essere-per-la-rinascita”. Siamo sempre, in tutto il
corso dell’esistenza, “neonati” chiamati sempre nuovamente a nascere, a rinascere, a sfidare con sofferenza la luce che ci ha tolto dall’oscurità e che
continua ad abbagliarci. Scrive Zambrano:
«L’uomo non è mai compiuto [non è mai davvero e compiutamente nato], la sua
promessa supera in tutto la sua riuscita e continua la sua lotta costante, come se
l’alba, invece di avanzare, si estendesse, si dilatasse, e la sua ferita si aprisse più
in profondità per dare modo a questo essere incompiuto di nascere. E come la
luce dell’alba annuncia e profetizza la luce che sorgerà da lei stessa, che lei stessa sarà al suo compimento, l’uomo annuncia sé stesso dal primo momento in cui
appare».
L’essere umano è destinato a questa dimensione incessantemente dinamica e processuale: è un essere permanentemente in viaggio alla ricerca di
sé che cerca di compiere la propria nascita attraverso una sequenza di scelte,
parole, relazioni, silenzi, accettazioni, rifiuti ovvero e, in ultima analisi,
esperienze. Si nasce (e si rimane) gravati da un’incompiutezza drammatica e
si riceve in dono del tempo per realizzarsi, portando a pienezza ciò che si
respira nella propria interiorità e appare però solo abbozzato: ogni essere
umano «deve dunque finire di nascere interamente e crearsi il proprio mondo, il proprio posto, il proprio luogo, deve incessantemente partorire sé stesso e la realtà che lo ospita». Non c’è per l’uomo che viene al mondo né una
vocazione né un progetto già confezionati, già scritti, cui basta apporre la
propria firma: c’è tutta una storia da vivere, plasmando progressivamente la
propria identità attraverso l’esperienza e la libertà di scegliere e di attribuire
un senso alla propria vita.
Nascita, speranza e utopia
Il divenire del processo natale in tutta l’esistenza dipende dal mantenimento della propria capacità di sperare in tutte le condizioni esistenziali. La
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speranza nutre ogni forma di utopia. La speranza, correttamente intesa, è,
infatti, desiderio di compimento, fame di nascere del tutto. Scrive la pensatrice:
sforma in un incubo, come ci dice Baudelaire con esattezza poetica. La patiamo
senza capirla, essendo il suo oggetto più del suo soggetto, e così l’uomo finisce
per perdere la sua dignità ultima, l’essere soggetto della sua vita».
«Il doversi creare il proprio essere si manifesta precisamente con ciò che chiamiamo speranza. [...] La speranza è fame di nascere del tutto, di portare a compimento ciò che portiamo dentro di noi in modo solo abbozzato. In questo senso,
la speranza è la sostanza della nostra vita, il suo fondo ultimo; grazie a essa siamo figli dei nostri sogni, di ciò che non vediamo e non possiamo verificare. Affidiamo così il compito della nostra vita a un qualcosa che non è ancora, a
un’incertezza. Per questo abbiamo tempo, siamo nel tempo; se fossimo già formati del tutto, se fossimo già nati interamente e completamente, non avrebbe
senso consumarci in esso. L’uomo è una strana creatura a cui non basta nascere
una volta: ha bisogno di venire riconcepito (reengendrado)».
La speranza di rinascere costantemente, quest’anelito d’esistere in pienezza, però non è semplice immaginazione, non è l’esito di una dinamica
pateticamente autoconsolatoria, piuttosto è il frutto di una certezza che
Zambrano ha tratto dalla propria esperienza: «non c’è inferno che non sia il
viscere di qualche cielo». In altri termini, si può sempre rinascere, anche se
portare a compimento il proprio essere non è mai un trionfo, ma sempre e
piuttosto una difficile e sofferta esperienza vissuta di spogliazione:
Quello che si chiama “spirito” ben può essere questa necessità e potenza
di riconcepimento (reengendramiento) che l’uomo ha, mentre alle altre creature basta nascere una sola volta: abbiamo bisogno di nascere sempre di
nuovo. E così la speranza è il fondo ultimo della vita umana, ciò che reclama ed esige la nuova nascita, il suo strumento, il suo veicolo. Perciò
l’essere umano non riposa perché tutte le volte che è rinato, non ha potuto
raggiungere la nascita definitiva, perché mai ha trovato, né forse può trovare, quell’essere intero e compiuto che va cercando. Il grande interrogativo
che sempre ci si deve porre è il seguente: riuscirà l’uomo a rinascere? Riuscirà a ritrovare il proprio essere intero e compiuto? A trovare, nell’intero
suo percorso biografico, una “nuova rivelazione” della vita nella sua pienezza, nella sua dinamicità, che permetta la fuoruscita da ogni stagnazione e
staticità, da ogni forma di dispersione? Solo la fedeltà radicale a questo statuto vitale di permanente dialettica tra nascita e rinascita fa sì che la vita non
si trasformi in un incubo come affermava – annota Zambrano – Baudelaire.
La vita non va subìta solo come un che di incomprensibile e di insensato, va
piuttosto accolta nella sua potenza rivelatrice e disvelatrice. Lo è stata
all’inizio, con la nostra prima nascita, lo sarà in tutte le successive rinascite
della nostra esistenza:
«Siccome si nacque nudi, non si può rinascere senza nudità, senza spogliarsi o
venire spogliati di tutto ciò che si ha indosso, senza rimanere senza baldacchino,
e perfino senza tetto, senza sentire la vita intera come non la si è potuta sentire
allorché si nacque la prima volta; senza protezione, senza appoggio, senza punto
di riferimento».
Il paradigma paradossale potrebbe essere, per tale processo, il clochard.
L’Occidente filosofico ha creduto e ha scommesso soprattutto sulla morte piuttosto che sull’alba e sulla nascita, ha fatto di una componente particolare della crisi una sorta di categoria esistenziale assoluta, ha disteso – come
ha fatto Heidegger – la morte sull’intera esistenza chiedendone
l’anticipazione esistenziale. In tal modo ha smarrito la speranza e l’utopia
autentica surrogate da angoscia assoluta e disperazione.
Per Zambrano ciò che invece deve estendersi all’intera vita è proprio
l’alba natale, è essa che deve essere continuamente ritrovata come perla preziosa e come indicatore esistenziale:
«In questi anni si è creduto [...] nella morte in quanto tale [...]. E chi è colpito da
questa morte, anziché superarla, la estende a tutto il resto. È come se in autunno
gli alberi credessero che sia la natura intera a morire, invece di lasciar cadere le
foglie secche e raccogliersi in attesa del ritorno della linfa la primavera successiva. [...] Le due cose insieme, la morte e l’alba danno una crisi. Ma l’alba ha più
valore della morte nella storia umana, l’alba della condizione umana che si annuncia più e più volte e torna a riapparire dopo ogni sconfitta».
«La vita ha bisogno di esserci rivelata, per la ragione che non siamo compiuti,
che non siamo. Se fossimo […] interamente, se riposassimo sul nostro essere integro e raggiunto, non avremmo bisogno di trasparenza. E ogni volta che si apre
una nuova direzione della speranza, bisogna cercare di nuovo la trasparenza. […]
Quando la rivelazione è parziale, o ritarda, o non viene accettata, la vita si tra-
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L’alba è il cuore di ogni utopia.
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Il Margine 36 (2016), n. 1-2
Riferimenti bibliografici
Adriana Cavarero, Il femminile negato. La radice greca della violenza occidentale,
Pazzini, Verucchio (RN) 2007.
Martin Buber, Religione come presenza, Morcelliana, Brescia 2012.
Carmine Di Sante, Lo straniero nella Bibbia. Ospitalità e dono, San Paolo, Cinisello
Balsamo (Mi) 2012.
Christina Schües, Philosophie des Geborenseins, Alber, Freiburg-München 2008.
Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi,
Torino 1993.
María Zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondadori,
Milano 2000.
María Zambrano, Il sogno creatore, Bruno Mondadori, Milano 2002.
María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina Editore, Milano
1996.
María Zambrano, L’agonia dell’Europa, Marsilio, Venezia 1999.
María Zambrano, Chiari del bosco, Bruno Mondadori, Milano 2004.
L’utopia della tenerezza
MARCELLO FARINA
Questa piccola riflessione ha trovato il suo filo conduttore
nell’articolo di B. Antonini, Tenerezza, in “Servitium”, n. 183,
2009, pp. 15-21.
S
crive Guido Ceronetti: «La tenerezza è rara, è moneta fuori corso
nell’indistinguibilità pan-tecnologica, e nello stupore del riceverne in
un pugno di versi c’è qualcosa di specialmente strano, che somiglia a una
trafittura». La tenerezza e la poesia possono addolcire «il ruggito incessante
delle disperazioni umane», afferma lo scrittore.
Tenerezza e alterità
La tenerezza non è solo questione delle spirito, ma è esperienza globale
della persona che risale alla radice «di ogni relazione, là dove il bisogno e il
desiderio si congiungono» (Roland Barthes). È nel cuore della vita la tenerezza. E dell’amore. E impossibile e mortale (mortifero) pensare la vita senza la tenerezza.
«Là dove ti dimostri tenero (capace di tenerezza), là individui il tuo plurale» (R. Barthes). Il desiderio-bisogno di tenerezza è anche bisogno di essere tenero con l’altro. Pur intrecciandosi sempre con l’amore, la tenerezza è
forse più libera rispetto alla tentazione di possesso. La sua levità facilita
sempre il riconoscimento dell’alterità; essa fa parte, infatti, di quell’oltre che
è presente in ogni esperienza d’amore.
La dolcezza di uno sguardo, quella che viene da una mano, quella che
modula la parola, quella che dà voce al silenzio, fanno parte di quella assoluta gratuità, senza la quale nessun segno di tenerezza può essere autentico.
Una carezza, ad esempio, è un gesto che riconosce e genera vita, soprattutto
là dove la vita sembra languire o avere apparenze di anormalità.
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«Nel gesto della carezza – scrive Emmanuel Levinas – si esprime proprio il miracolo della relazione, perché la mano tocca il tepore dell’amato, e, mossa da
un’antica fame insanabile, sa di cercare nel contatto con il volto e il corpo
dell’altro un mistero che non conosce. La carezza va al di là di noi stessi, incrina
la superficie della solitudine che ci stringe. La carezza è il rito d’ingresso nella
conoscenza e nell’amore, che raccoglie in sé il desiederio del corpo e quello del
cuore. Ma avvicinarsi con grazia richiede un tempo lungo e disteso, di qualità
nuova, tessuta d’anima, non misurata con l’orologio ma con la metrica della poesia o il ritmo musicale delle emozioni».
In particolare, ci sembra di poter dire che la nostra tenerezza deve volgersi anche (e forse soprattutto) con passione verso le persone piagate nel
corpo e nello spirito e sfilare, come dice Erri De Luca, «i guanti di plastica
alle mani moderne e invitarle a toccare anche le piaghe». Toccare, sì, anche
con gli occhi, la voce, il sorriso, per condividere e custodire il mistero
dell’altro. Toccare, poiché «la carezza consiste nel non impadronirsi di niente, è apertura alla presenza dell’altro nella sua particolarità» (Ivan Nicoletto).
Essere teneri richiede maturità, per non essere irretiti da intrecci mielosi
e degradanti e un po’ di follia, come l’amore. Secondo Friedrich Nietzsche il
corpo è caos, ma non nel senso negativo, bensì nel senso della massima
apertura a ogni possibilità futura. Come dice nel proemio di Zarathustra: «Io
vi dico: bisogna avere ancora il caos in sé per poter partorire una stella danzante. Io vi dico: avete ancora il caos in voi».
La tenerezza non è un dovere, ma un’esigenza dell’anima e del corpo, attraverso la quale fiorisce l’amore; così si diventa capaci di incontrare e accogliere lo sguardo dell’altro, per far vivere meglio anche noi in forza
«di quel muto appello che ogni volto racchiude e che va sempre interpretato. In
fin dei conti, anche per l’uomo d’oggi resta vero o dovrebbe continuare a valere
che ciò che conta è vivere esperienze in prima persona, in carne ed ossa, tornando così ad ascoltare più attentamente la voce del corpo in tutta la complessità dei
suoi richiami» (Franco Toscani).
Infatti i gesti (di ogni tipo, anche le lacrime) sono come la vita del corpo
e senza di essi sarebbe quasi inerme, come senza parole. La tenerezza è una
possibilità miracolosa per infrangere con amore la solitudine o quanto meno
per mitigare l’amarezza. I gesti possono rivestire il corpo di grazia, perché le
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persone sentano meno il peso della carne e tendano a sprigionare quella forza creatrice che fa di ogni azione un’esperienza irripetibile,
Tenerezza e femminilità
A volte si afferma, con troppa facilità, che la tenerezza sia caratteristica
femminile, spesso legando, tradizionalmente, il senso materno ad essa. Questo senso di cura appartiene, certo, a ogni donna, sia essa madre fisicamente
o meno. Ma tale atteggiamento, essenziale alla storia dell’essere umano, può
diventare – anzi deve – uno degli aspetti fondamentali del tessuto sociale: un
elemento di cui gli uomini di ogni tempo hanno più bisogno nel loro vivere
in comunità.
Del resto, una società che non mette in primo piano una tenera attenzione ai deboli e ai piccoli, ai vecchi e agli stranieri, alle categorie di cui è più
urgente prendersi cura è una società senza futuro. «Avrò cura di te, sì, avrò
cura di te», cantava anni fa un famoso cantautore. Avere cura, spesso istintivamente collegato al senso femminile e materno, è, ai nostri giorni come e
più di sempre, una provocazione e un invito a tutti, donne e uomini.
L’atteggiamento tenero e materno (che è soprattutto di Dio, per chi crede) è anche forte e fiducioso, capace di dono e magari di rinuncia, per far
volare libero colei-colui di cui ci si prende cura: accogliere, ospitare, far
sentire bene, emanare calore e freschezza, secondo i bisogni di ognuno. È
anche questo la tenerezza del materno come categoria universale, degli uomini e della terra che li ospita e li nutre, dei loro amori e perfino del loro
Dio.
Anche la rivendicazione teologica della maternità di Dio parte dal presupposto che di una tale esperienza non possa fare a meno la vita. Accogliere e non imprigionare, abbracciare e non trattenere; la psicanalisi ci ha insegnato che questa è la tenerezza ineludibile e sana di cui tutti, ma proprio tutti, abbiamo bisogno: sia come destinatari, sia come protagonisti attivi. Qualcuno che di umanità si intendeva, un giorno disse: «mi ami? Allora prenditi
cura dell’umanità intera». È facile allora dire che la tenerezza non è altro
dalla vita, anzi che non c’è vita senza tenerezza, che essere teneri è un modo
normale di vivere. L’essere umano è “sempre nascente” e quindi sempre bisognoso di cura. Tenerezza è consentire agli altri di entrare nella propria vita
come costitutivo del proprio io. Non c’è esperienza o condizione, anche
estrema, in cui la tenerezza non abbia il proprio spazio. Dal campo di ster-
26
Il Margine 36 (2016), n. 1-2
minio, Anna Frank scrive, alla fine del suo diario: «Nonostante tutto, io credo nella bontà dell’uomo». E ancora, Clemente Rebora, dalle trincee della
grande guerra, testimonia: «I nostri soldati sono incredibilmente ricchi di
dolce umanità». E lo scrittore Paul Dexter confessa: «In quel periodo della
vita, in cui non ero sicuro di niente, la tenerezza era la mia unica possibilità».
Se è vero che lo spazio della tenerezza coincide con lo spazio della vita e
che l’amore non può esserci senza tenerezza, allora si comprende anche che
la tenerezza rivela la verità dei rapporti umani, li rende autentici, fugando
ogni ipocrisia e camuffamento. La tenerezza è capace di un totale, armonico
rispetto della carne e dello spirito.
L’utopia della “guarigione”
PIERGIORGIO CATTANI
«E per quanto concerne la malattia:
non saremmo forse quasi tentati di chiederci
se di essa in generale possiamo fare a meno?»
Friedrich Nietzsche,
Prefazione alla seconda edizione de La gaia scienza
Breve conclusione
La tenerezza (anche con le sue negazioni) accompagna la storia
dell’umanità con i colori dell’arcobaleno. Il Cantico delle creature, come il
Cantico dei cantici, sono per eccellenza canto della tenerezza.
È ancora vivo il cantico del papa buono da quella sera romana dell’11 ottobre 1962, con il magistero della sua voce calda: «Quando andrete a casa,
fate una carezza ai vostri bambini e dite loro: questa è la carezza del papa».
La formula sembra eucaristica, come umano sacramento.
E la donna dei profumi (Giovanni 12), icona perfetta della tenerezza
umana, dovrebbe illuminare il nostro cammino in tutto il mondo, per tutti i
secoli; lei che di lacrime (quanta tenerezza nelle lacrime!) ha lavato i piedi
del «figlio dell’uomo». Li ha asciugati con la carezza dei suoi capelli e ha
sparso profumo prezioso sul suo capo.
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C
ome sa chi mi conosce, per me parlare di guarigione, più che essere
un’utopia, è un paradosso. Così scrivo nel mio libro che appunto porta
come titolo la parola Guarigione. Un disabile in codice rosso (Il Margine,
2015): «La mia patologia generale però, fino adesso, non ha cura, benché le
ricerche continuino incessanti. Ci sono passi in avanti e sono convintissimo
che, come sempre avvenuto in passato, pure questa malattia verrà debellata,
attraverso interventi genetici o farmacologici, attraverso cellule staminali»
(p. 146).
La scienza sconfiggerà questa malattia ma sicuramente poi ne arriveranno altre, ci saranno altri “inguaribili”. La mia utopia dunque non prevede un
mio ritorno completo alla salute. Non aspetto i miracoli della scienza medica. Mi consolo perché so che gli utopisti sono di fatto inguaribili: ottimisti,
sognatori, artisti, pure politici. Non sono finiti bene, non sono guariti, nonostante i tentativi di farli ritornare alla salute, considerata non come assenza
di malattia, ma come normalità “sociale”. Ogni trattamento, ogni rieducazione è inutile per gli utopisti. Rimarranno sempre tali e quali.
La mia guarigione dunque può essere considerata un’utopia, perché appunto vorrebbe approdare a un luogo che non c’è. In un certo senso conta di
più il viaggio, il cammino verso Utopia e non la descrizione dell’isola stessa; e ancora di meno il tentativo di concretizzare nella realtà
quell’immaginazione utopica.
28
Scrivo ancora nel mio libro: «Come numerose parole italiane che finiscono in -ione, il termine guarigione indica un movimento, un processo,
un’azione che si evolve nel tempo, un qualcosa di non ancora compiuto.
Anche la mia particolare guarigione è quindi un evento in pieno svolgimento, con passi avanti e con cadute insospettate. Forse neppure con la morte si
concluderà questo cammino» (p. 155).
Penso che la vita sia un continuo apprendistato. In un certo senso tutti
dobbiamo guarire da qualcosa: innanzitutto dalle nostre paure (in particolare
dalla paura della morte), poi dall’idea di bastare a noi stessi e di essere onnipotenti. Comprendere i nostri limiti cercando una positiva relazione con gli
altri è ciò che io nel libro chiamo “guarigione”: è la tensione verso
un’armonia con il mondo che ci circonda, ma anche con il nostro corpo che,
sano o malato non importa, può ugualmente trovare un suo positivo equilibrio.
Il termine “guarigione” ha poi un’importanza fondamentale nelle religioni. Soprattutto il buddhismo insiste molto su questo concetto, in quanto
per quella sensibilità occorre guarire dalla vita stessa. Esiste addirittura il
“Buddha della guarigione” che, guarda caso (credo per una coincidenza imprevedibile), è raffigurato dell’identico colore azzurro/blu della copertina
del mio libro. Il blu è il colore della guarigione. Va da sé che, nel buddhismo, essa è considerata come la consapevolezza dell’inanità della nostra vita
individuale e dei nostri desideri, che vanno “limitati”, se non addirittura
cancellati completamente. La guarigione tuttavia, per usare una terminologia
occidentale, riguarda “il corpo e l’anima” cioè tutta la persona.
Noi abbiamo dimenticato che prime comunità cristiane, appellavano Cristo come “medico” dell’anima ma, sicuramente, anche del corpo: ci si ricollegava all’attività pubblica di Gesù, contrassegnata da azioni tipiche di un
guaritore e di un taumaturgo, e poi anche dalle capacità di far recuperare,
più o meno miracolosamente, la salute agli ammalati, potere che avrebbero
avuto anche i discepoli.
Nel libro ho cercato di raccontare la mia “guarigione dell’anima”, non il
recupero della salute e ancora meno il desiderio di una salvezza appannaggio della fede. Sono guarito dalle tre emergenze che mi avevano condotto
all’ospedale, ma ciò che volevo narrare riguarda la maturazione di una nuova consapevolezza della vita e in particolare dei limiti che la nostra biologia
e la nostra esistenza stessa impongono.
“Conosci te stesso!”, questo il motto più celebre ereditato dalla civiltà
degli antichi greci. Non si tratta però di una conoscenza astratta. Mi piace
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interpretare questo concetto secondo l’accezione ebraica, biblica, cioè concreta, concretissima, quasi carnale. Il cantico di Zaccaria, nel Vangelo di
Luca, parla di una “conoscenza della salvezza” che vuol dire la partecipazione a un evento storico, non la comprensione di un concetto.
La mia guarigione, mai comunque raggiunta, sempre provvisoria e precaria, vorrebbe essere appunto la concreta accettazione del limite, indispensabile condizione per ottenere risultati impensati, appunto utopici.
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Il Margine 36 (2016), n. 1-2
Il bel corpo
GIOVANNI COLOMBO
N
on è un luogo, è un corpo. Detto in inglese, in onore di sir Thomas,
l’Ubody. Dove il prefisso “u” non è la contrazione di “ou “ (non c’è)
ma di “eu “(felice). Felice corpo, buon corpo, bel corpo. Quel corpo che oggi invece si trascina stanco.
Il corpo dell’uomo occidentale è stanco per eccesso di emozioni, informazioni, sollecitazioni, attese. Subisce bombardamenti quotidiani e non ce
la fa più, alza bandiera bianca, si esaurisce, si ammala. Un tempo i nostri avi
dovevano fare i conti con la peste, oggi le patologie predominanti sono neuronali: il sole nero della depressione, i disturbi della personalità e
dell’attenzione, l’iperattività, la nevrastenia paralizzante, la follia. Al centro
del tourbillon ci sono i nostri sensi. In buona salute, ne abbiamo a disposizione cinque, ma nella pratica non li curiamo e affiniamo come si dovrebbe,
quindi finiamo per vivere male.
Cinquecento anni dopo, Raffaele Itlodeo non deve più andare lontano: la
destinazione è letteralmente a portata di mano. Raffaele (il suo nome è un
programma: medico di Dio) può provare a descriverci la mappa dei sensi
così come la sente senza troppa ansia di prestazione. Senza neanche prendersi troppo sul serio. Resta pur sempre Itlodeo: un raccontatore di favole.
Chi mi ha toccato?
Aristotele, nella sua scala dei sensi, lo mette al terzo posto: ma al mattino, al momento del risveglio, il tatto è il primo che mettiamo in attività. Deve essere stato così anche quand’eravamo nella pancia. E, dopo la nascita,
abbiamo continuato. Attraverso il tatto abbiamo fatto esperienza della realtà:
il freddo e il caldo, il familiare e l’estraneo, lo sconforto e la consolazione.
Con la pelle siamo partiti per i nostri viaggi interminabili senza i quali non
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saremmo quelli che siamo. Il tatto è un instancabile produttore e decodificatore di linguaggi, che seducono e respingono, interrompono e prolungano,
accarezzano e isolano. Il tatto ci permette di non andare a sbattere gli uni
contro gli altri e, al contrario, rende possibile l’incontro. Ci trasmette ciò che
sta sulla pelle, ma anche tutto quello che può stare (e può starci tutto
l’universo) nella risonanza di un semplice tocco. Il tocco, infatti, è concreto
e puntuale ma nello stesso tempo è indelebile: la sua durata in noi può essere
incalcolabile.
Per questo la domanda che un giorno Gesù ha posto, in mezzo alla folla,
continua a essere emblematica: «Chi mi ha toccato?» (Mc 5,31). I discepoli
avevano un bel tentare di dissuaderlo, rammentando che c’era una massa di
gente ad assediarlo, ma invano, perché quello che Gesù affermava è che c’è
modo e modo di toccare. Proprio così: c’è modo e modo di toccare. Al mattino è la prima cosa da ricordare.
Sapore è sapere
Facciamo la colazione sempre di corsa, e quindi il primo appuntamento
col gusto fallisce. Anch’esso nel ranking dei sensi è sempre stato considerato di serie inferiore. Invece è ormai assodato che ha svolto un ruolo chiave
nell’evoluzione della specie umana. Il mondo non esiste per essere oggetto
di contemplazione, esiste per essere mangiato, per essere trasformato in
banchetto. Il crudo deve diventare cotto. La comparsa della cottura ha svolto
un ruolo chiave nell’evoluzione della specie umana, ha permesso ai nostri
antenati di triplicare le dimensioni del cervello e tale espansione ha reso
possibili mirabilie, la pittura delle caverne, il componimento di sinfonie,
l’invenzione di internet.
Utilizzare bene il gusto vuol dire tornare a distinguere l’amaro, il dolce,
il salato, l’aspro e l’umami (la categoria più recente: si scrive così, non ha
una traduzione, in giapponese significa “saporito”) e utilizzarli tutti quanti
per una conoscenza più incisiva, non solamente mentale, cerebrale. Il latino
testimonia un’intuizione che sembra assente in molte lingue moderne. Le
parole che indicano “sapere “ e “gustare” hanno la medesima radice: sapere.
Qualcosa è rimasto in italiano con “sapere” e “sapore”. Mangiare e conoscere hanno la stessa origine. Conoscere qualcosa è gustarne il sapore, sentirne
l’effetto sul corpo.
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Le cose non sono nulla in sé stesse. Le cose chiedono di essere trasformate nella cucina del desiderio, di esser gustate così bene fino al punto di
provocare un radicale capovolgimento. Siamo mangiati dal cibo, è il cibo ad
assimilarci. Siamo bevuti dal vino, è il vino che ci tiene nel suo bicchiere.
Diveniamo ciò che mangiamo, ciò beviamo.
Il profumo non manchi mai
Iniziamo la giornata addentrandoci in un linguaggio invisibile. Questo
linguaggio non occupa spazio, eppure pervade la realtà, si nasconde e si manifesta, non ha una forma ben precisa e tuttavia si propaga rapidamente.
L’olfatto ci trasmette caratteristiche dell’ambiente e dei movimenti intorno a
noi. L’olfatto è un magnifico centro interpretativo della realtà. Ogni istante
ha il suo odore. Ogni stagione. Ogni luogo. Gli odori arrivano e impregnano
la memoria e gli affetti. Quante volte, in modo imprevisto, una percezione
olfattiva strappa dal fondo remoto del nostro inconscio un ricordo: la casa
della nostra infanzia, un giocattolo, una spiaggia, una persona che abbiamo
amato. E dal riconoscimento di un odore ci aspettiamo di più che da qualunque ricordo: ci aspettiamo niente di meno che il privilegio di esser consolati.
Nell’odore possiamo scorgere una sorta di narrazione. Il mio odore mi
racconta. Non mente. Non conosce né frontiere né limiti di spazio. Mi permette di spargermi, di aprirmi, di diluirmi in un’ubiquità che altrimenti mi
sarebbe preclusa. Quindi, prima di uscire da casa, conviene fare un’attenta
verifica. «In ogni tempo le tue vesti siano bianche e il profumo non manchi
mai sul tuo capo» così consiglia il saggio Qoelet. Succede qualcosa di bello:
quando una persona sparge sulla pelle qualche goccia di profumo, quello
stesso profumo diventa soltanto suo. Diventa la sua fragranza. Il corpo rende
ogni profumo unico, perché lo assorbe e lo riproduce in un modo che è soltanto suo.
Curiamo di più il nostro profumo e seguiamo di più quello degli altri.
Ciascuno di noi va alla ricerca della traccia che ha sentito prima di tutto con
il naso. Siamo segugi che, attraverso accidentati paesaggi di montagna o pascoli imprevedibili, inseguono non senza un po’ di paura la memoria di quel
profumo. Non sarà forse il profumo della donna a portarci alla donna? Non
sarà forse il profumo di Dio a portarci a Dio?
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Lo sguardo dell’artista
Scesi in strada in strada alziamo lo sguardo e quasi non ci accorgiamo
del miracolo che avviene. Tra i cinque sensi, la vista sembra godere di un
privilegio: come se non avesse bisogno di mediazioni, come se non dovesse
essere educata. Invece l’occhio è strumento di altissima definizione, non è
semplicemente un senso, ma la sintesi di tanti altri sensi: quello
dell’intensità luminosa, quello del colore, quello della profondità e della distanza. Utilizzarlo al meglio è roba da artisti. Artisti decisi a guardare la
realtà e non gli specchi fasulli. «Specchio specchio delle mie brame, chi è la
più bella del reame?» è un ritratto del nostro modo di vedere, lo stesso della
matrigna della fiaba. Cerchiamo gli specchi perché confermino la nostra illusione di potere o di autosufficienza.
Ma a volte, come nella fiaba, anche lo specchio si ribella, perché è inutile insistere nella finzione, Biancaneve è più bella di te. L’artista rigetta gli
specchi e osserva la realtà nella sua interezza. Niente occhio blasé, stanco e
superficiale. Niente occhio furbo, che nelle cose ogni cosa sa cogliere solo
l’aspetto mercantile e utilitarista. Lo sguardo dell’artista non è un osservare
qualunque; è vedere da fermo, è un rivedere più minuzioso della prima volta, è un “secondo sguardo” che intende riscattare tutte quelle occhiate superficiali che di solito dedichiamo alle cose e agli altri. L’artista vede i dettagli
e la meravigliosa semplicità delle cose. A destra un germoglio, a sinistra un
bimbo che gioca, sopra la testa due nuvole che si rincorrono nel cielo ventoso. È difficile spiegare come ciò lo rallegri, e quanto gli basti.
L’orecchio del cuore
Siamo in giro per il mondo e il mondo è totalmente sonoro. Di questo
paesaggio immenso, l’orecchio umano coglie soltanto una parte: la frequenza inferiore a 20 hertz (gli infrasuoni) ci è preclusa, non siamo l’elefante che
la percepisce facilmente e senza dover appoggiare l’orecchio al suolo, poiché le sue zampe captano anche le onde sonore. La frequenza superiore ai
20.000 hertz (gli ultrasuoni) non l’avvertiamo, non siamo cani e gatti che
arrivano anche al doppio. Ci piacerebbe essere qualche volta la balenottera
azzurra, i cui segnali sonori possono essere captati a centinaia di chilometri
di distanza, invece siamo solo dei pesciolini che sfrecciano nell’acquario. La
diversità sonora ci avvolge con i suoi misteri.
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Il Margine 36 (2016), n. 1-2
Le nostre orecchie iniziano a sentire i rumori del mondo esterno, il
chiasso, le voci, la musica che ci consola. L’ascolto affina l’ascolto, anche
se non diventeremo mai come quel Padre del deserto che riusciva a distinguere un ago che cadeva a sette metri.
Più l’udito si fa fine, più siamo in sintonia con quanto previsto dalla regola benedettina: «Tendi l’orecchio del tuo cuore». È con il cuore (il senso
dei sensi) che si ascolta. E aprendolo, che cosa si deve ascoltare? Forse solo
quello che scriveva Clarice Lispector (poetessa e pittrice ucraina-brasiliana):
«Ascoltami, ascolta il silenzio. Quello che ti dico non è mai quello che ti dico, bensì qualcos’altro. Capta questa cosa che mi sfugge e di cui tuttavia vivo, perché io da sola non posso».
Nudi verso il nudo Essere
A che serve l’Utopia? A camminare, diceva il poeta uruguayano Eduardo Galeano. La presembianza di ciò che è ancora latente nel mondo spinge il
mondo ad andare avanti. A che serve l’Ubody, il bel corpo? A camminare
ancora di più verso noi stessi. Nel nome dell’Utopia si sono promosse dispersioni e scappatoie di ogni tipo. Ora, cinquecento anni dopo, nel nome
dell’Ubody si va nella direzione opposta e si incoraggiano concentrazioni e
immersioni nell’unico patrimonio a nostra disposizione. Il percorso di riattivazione dei cinque sensi ci porterà a sperimentare la nudità. Saremo nudi e
non proveremo la vergogna che attanagliò Adamo e Eva nella scena
dell’inizio. L’esperienza utopica sarà un’esperienza di nudità. Sotto due
aspetti. Il primo: il corpo tornerà pulsare e si accontenterà di questo, solo di
questo, senza cercare premi, riconoscimenti di status e di soldo, senza adorare quegli idoli che «hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono,
hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano, hanno mani e non
palpano» (Salmo 115, 5-7). Il secondo: il corpo cercherà il fondamento ultimo di queste vibrazioni e accetterà di non trovarlo dentro di sé.
L’Essenziale sta oltre, non si trova da nessuna parte, ma si fa vivo in chi
stappa i suoi sensi. “Credo nella nudità della mia vita. Credo che il mio corpo potrà sfiorare l’Impalpabile nelle carezze su un viso, assaporare il Desiderio in un piatto di spaghetti, impregnarsi di Vento con un mazzo di fiori,
vedere l’Infinito in una sera di primavera, ascoltare l’Eternità nel grido di un
povero». Per ubodico che possa sembrare, è un bel credo che ci aiuta a sperare.
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Joan Baez, usignolo utopico
PAOLO CAROLI
compito molto facile, quello assegnatomi dalla casa editrice Il Margine
Èper celebrare il suo decimo compleanno e al tempo stesso quello
dell’opera Utopia di Thomas More. Declinare il filo conduttore degli interventi, il tema dell’utopia appunto, in relazione al mio libro Le battaglie di
Joan Baez – La voce della non violenza attiene infatti al nucleo stesso del
libro e al motivo per cui è stato scritto. Non si tratta di un lavoro di un coetaneo della leggendaria folksinger, classe 1941, che rievochi i bei tempi della gioventù, quando si protestava contro la guerra in Vietnam, ascoltando
l’usignolo di Woodstock. Al contrario, il sottoscritto di anni ne ha ventinove
ed ha pensato questo libro per chi, come lui, vive il tempo presente, così politicamente confuso e dove, per dirla con Guccini, «più che il tempo passa –
più – il nemico si fa d’ombra e si ingarbuglia la matassa». In questo disordine politico, etico e culturale, ho cercato di ripartire dalle basi e di tenere saldi alcuni riferimenti; è lì che ho incontrato Joan Baez. Il mio libro ha avuto
quindi lo scopo di raccontare perché Joan Baez sia una guida imprescindibile per l’oggi.
Tutto ciò ha, dicevo, molto a che fare con l’utopia. A questo punto però,
credo di dover dare una definizione, seppur sommaria, di questo concetto, su
cui tanti hanno a lungo discusso. Non penso che, per quanto mi sforzassi,
potrei trovare parole migliori di quelle usate dallo scrittore uruguaiano
Eduardo Galeano, i cui versi sono suggestivi sin dal titolo: Finestra
sull’utopia.
«Lei è all’orizzonte […]. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi.
Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a
questo: a camminare».
Anche chi si ricordi di Joan Baez solo per il suo We shall overcome in
una marcia accanto a Martin Luther King, a un presidio prima di essere arre-
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stata o sul palco di Woodstock, incinta e con il marito in galera per renitenza
alla leva, capisce l’intima connessione fra la Baez e il concetto di utopia.
Tuttavia le battaglie di Joan Baez non sono terminate allora, ma proseguono
fino ad oggi. Addirittura dopo l’uscita del libro lo scorso marzo, ad esempio,
Joan Baez ha partecipato a diversi concerti di protesta in Turchia contro la
politica di Erdogan e ha sfilato al gay pride di Istanbul, represso dagli idranti
della polizia. Joan era presente in prima linea in innumerevoli proteste, dove
attaccava l’aggressione americana al Vietnam, accusando gli Usa di genocidio e andando di persona ad Hanoi, una voce fra i cadaveri del pesante
“bombardamento di Natale”. Eppure in pochi ricordano che fu lei a denunciare pubblicamente, a guerra finita, le torture che il Vietnam del Nord infliggeva ai prigionieri politici, attirandosi così le ire delle sinistre che
l’avevano precedentemente osannata. In quegli anni si doveva stare da una
parte o dall’altra, ma Joan Baez, coerentemente, lottava trasversalmente con
chiunque sostenesse la nonviolenza. In prima linea con concerti clandestini
nei paesi latinoamericani governati da dittature militari di destra, lo sarà parimenti, con le stesse canzoni, accanto a Sacharov, Walesa, Havel. Gli
esempi potrebbero continuare a lungo. Il senso della coerenza di Joan, trasversale alle singole battaglie in cui gli altri avevano un interesse diretto, si
coglie in particolare nel suo rapporto con Martin Luther King, al cui fianco
Joan è presente sin dagli inizi, in momenti significativi come la marcia di
Selma o quella di Washington o nell’accompagnare i bambini neri nella
scuola bianca di Grenada. Joan rivendica di essere stata fra quelli che hanno
spinto King a fare quella scelta che l’ha portato a firmare la sua condanna a
morte: la scelta tra continuare a chiedere solo più diritti per i neri, mantenendo una linea privilegiata con la Casa Bianca, o invece schierarsi (come
fece) apertamente contro la guerra in Vietnam, trasformando il movimento
nazionale per i diritti civili in un movimento internazionale per la nonviolenza.
Sarebbe tuttavia sbagliato parlare dell’utopia di Joan Baez presentandola
solo come un’attivista. Non è possibile infatti scindere l’attivismo dalla musica, perché l’uno è espressione dell’altra. Nell’America in guerra con il
Vietnam, Joan cantava le storie di una sposa di Saigon, il cui marito andava
a combattere contro gli invasori, ma anche dei soldati americani, chiamati
alla leva e costretti a morire. Joan cantava le vicende dei lavoratori messicani, sfruttati illegalmente nei campi americani e poi rimpatriati, di una coppia
omosessuale, delle madri cilene che ballano la cueca per i loro figli uccisi.
La musica di Joan Baez è un incontro con gli ultimi e la loro dignità, ma al
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tempo stesso è un’esaltazione della bellezza della vita, nella sua diversità. È
proprio da questa parrhesia musicale, dall’incontro con l’altro, riconoscendovi la propria medesima umanità (quel concetto che Gramsci chiamava
“medesimezza umana”), dal senso di bellezza per la vita, che nasce
l’indignazione e la protesta, laddove la vita viene calpestata. Per questo la
musica e le battaglie di Joan Baez continuano ancora oggi, indipendentemente dal passaggio degli anni o dal crollo delle ideologie, perché non seguono né un mero bisogno individuale, né un ideologia imposta dall’alto.
Quel percorso, che la stessa Baez definisce “di poche vittorie e tante sconfitte” è una tensione verso l’alto, ma che nasce dal basso. Per usare un linguaggio bonhoefferiano, caro agli amici de “Il Margine”, è un guardare al
cielo, stando con entrambi i piedi ben piantati sulla terra, consapevoli che
solo chi ama la Terra (non chi la disprezza in funzione del Regno dei Cieli)
giunge, paradossalmente, a Dio.
Lungi dal voler fare un’agiografia di una donna che resta, prima di tutto,
una grande musicista con una vita meravigliosa fatta, oltre che di lotte, di
successi e di amori importanti, da Bob Dylan a Steve Jobs, invito a riscoprire proprio la musica di Joan Baez. Si pensi ad esempio ai primi versi di un
giovanissimo e ancora sconosciuto Dylan, che Joan ascoltò nel 1963, restandone rapita. Da quei versi straordinari e ancora attualissimi, la carriera
della Baez muta radicalmente: invita Dylan ad aprire i suoi concerti, lo rende famoso e se ne innamora. Lui le donerà i testi più belli della storia della
musica, quegli stessi inni nonviolenti che lei poi, individualmente, trasformerà anche in azione, rispondendo a un bisogno di coerenza fra parole cantate e vita vissuta. Quei primissimi versi, tradotti in italiano nel libro, sono
quelli del brano With God on our side (Con Dio dalla nostra parte).
Voglio citare un altro momento esemplificativo dell’utopia di Joan Baez.
Siamo nel terribile assedio di Sarajevo, con la gente che muore di fame e il
costante pericolo di essere colpiti dai cecchini, vicinissimi, appena si mette
il piede fuori dalla porta di casa. Joan, in giubbotto antiproiettile, cammina
per quelle stesse vie per mostrare la propria vicinanza alla popolazione e infondere coraggio. Ed è lì che incontra un violoncellista, la cui famiglia era
stata assassinata. Egli, rimasto solo e con un’enorme angoscia da placare,
era uscito di casa con il violoncello, suonando per le vie della città. Quando
lui e Joan si incontrano, per caso, lui la riconosce, si commuove, la abbraccia e le lascia la sedia, pregandola di cantare. Ed è così che in una strada
qualsiasi di una Sarajevo assediata, circondata da uno scenario di morte,
Joan intona quella preghiera, che da sempre per lei rappresenta un inno alla
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bellezza straordinaria della vita, una lode alla vita e un canto di speranza
salvifica: Amazing Grace.
Concludo invitando a riascoltare le parole di un brano, che rappresenta
per me al meglio il senso profondo dell’utopia di Joan Baez e del suo cantare al Cielo, amando la Terra. Si tratta di un brano celeberrimo, scritto dalla
cantautrice cilena Violeta Parra. È un brano che si differenzia dagli altri della Parra, molto politici, perché costituisce una dichiarazione d’amore alla
vita, che riesce a essere semplice e profonda al tempo stesso, acquisendo
una dimensione universale. Tuttavia la morte per suicidio della stessa Parra
poco dopo aver composto il brano, unita a un’ambiguità semantica del testo
(data dall’uso del passato prossimo), hanno fatto sì che quel brano venisse
sempre interpretato in chiave tragica o carico di un’ironia amara. Gracias a
la vida, questo il titolo della canzone, viene incisa dalla Baez nel 1974,
all’interno di un omonimo album in lingua spagnola, realizzato per protesta
contro il golpe cileno del settembre precedente, nell’indignazione per la
complicità americana. È Joan Baez la prima a ridare al brano la dignità di
celebrazione festosa della bellezza della vita.
«Grazie alla vita che mi ha dato tanto. Mi ha dato il sorriso e mi ha dato il pianto,
così distinguo la gioia dal dolore, i due materiali che costruiscono il mio canto e
il vostro, che è il mio stesso, e il canto di tutti, che è il mio proprio canto. Grazie
alla vita, che mi ha dato tanto».
Nella vita di Joan Baez c’è coerenza fra musica e impegno, c’è la storia
di mezzo Novecento con i suoi più grandi personaggi, ci sono le pagine rosa
e quelle patinate, c’è l’arte come comprensione ed esaltazione della vita e
come indignazione, quando questa è calpestata o discriminata; c’è infine,
sicuramente, tanto camminare con i piedi ben piantati a terra, ma cercando
sempre di raggiungere quell’orizzonte di cui parlava Galeano. Joan Baez
sembra aver preso alla lettera quell’augurio che Roberto Vecchioni faceva
alla neonata figlia Francesca, in una delle sue più note canzoni: «vorranno la
foto col sorriso deficiente, diranno “Non ti agitare, che non serve a niente”,
e invece tu grida forte la vita contro la morte».
Animal Farm
PAOLO GHEZZI
C
olui che, nel 1948, due anni prima di morire a 46 anni d’età, ha scritto
la più potente e famosa anti-utopia del Novecento, cioè 1984, ha coltivato per tutta la vita una passione e una speranza genuinamente utopiche:
l’idea che lo scrivere (narrativa o giornalismo, poco importa) sia un’arte intrinsecamente politica, necessaria per denunciare i mali della società e per
cambiare in meglio il mondo.
La mia prima edizione della Fattoria degli animali di George Orwell fu
una Medusa Mondadori, copertina verde, copia già malmessa e quasi sfascicolata quando finì nelle mie mani di adolescente assetato di prosa “impegnata”.
La favola di Animal Farm, breve perfetto esempio di apologo antiutopico scritto tra il novembre 1943 e il febbraio 1944 (quando l’Inghilterra
capitalistica e coloniale era alleata dell’Unione sovietica) che apre la strada
alla fosca visione del mondo dominato dal Grande Fratello, mi sembrò un
impeccabile esercizio di stile e di humor e nel contempo una insuperabile
demolizione del comunismo, da parte di un socialista che durante la guerra
di Spagna aveva visto all’opera (un’opera omicida...) la peggiore incarnazione dei nipoti di Marx: gli stalinisti.
Omaggio alla Catalogna (1938), reportage magnificamente partecipato e
insieme distaccato su una pagina buia di storia in cui l’autore si era buttato
con il generoso coraggio che era un suo imprescindibile tratto esistenziale,
sta al livello dei suoi due romanzi anti-utopici e ne costituisce una sorta di
premessa necessaria.
Nel saggio Perché scrivo, che opportunamente precedeva la storia finita
male dei maiali comunisti in quell’edizione Medusa, Orwell lo spiegava con
la sua tipica chiarezza:
«La Guerra civile spagnola e altri avvenimenti del 1936-37 hanno contribuito a
farmi prendere una decisione, e da allora ho capito da che parte stavo. Ogni riga
di lavoro serio che ho prodotto dal 1936 l’ho scritta, direttamente o indirettamen-
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te, contro il totalitarismo e per il socialismo democratico così come lo intendo
io».
E questo non per una scelta politica, ma in primis per un’istanza etica:
«Il mio punto di partenza è sempre un senso di partigianeria, un senso
d’ingiustizia». Scrive, aggiunge, perché «c’è qualche bugia che voglio smascherare».
Giustizia e verità sono dunque i due fari della scrittura politica orwelliana.
È per questo che la riscrittura menzognera della storia ad uso del potere
totalitario è forse il carattere più insopportabile dei sistemi politici descritti
sia in Animal Farm sia in 1984. In quest’ultimo romanzo il ministero della
verità ha il compito appunto di riscrivere costantemente la storia ad uso del
Big Brother, così come il ministero dell’amore è dedicato alla pratica della
tortura dei dissidenti. Ciò che in 1984 si chiama verità è dunque inganno, e
il progetto di una “neolingua” serve appunto a violentare e asservire lo stesso linguaggio agli scopi del Partito al comando.
Analogamente, nella Fattoria la propaganda orchestrata dal solerte disinformatore Piffero prevale facilmente sulla residua labile memoria degli animali sottoposti a nuova misera schiavitù dai loro stessi fratelli maiali, e così
l’eroica epopea di Palladineve (Trockij) che combatté contro il padrone signor Jones, viene riscritta come la storia di un traditore nato, che fin
dall’inizio stava dalla parte del nemico.
E quando, di notte, uno zoccolo di porco aggiunge con il pennello in
vernice bianca la frase «ma alcuni sono più uguali degli altri» allo storico
principio rivoluzionario predicato dal Vecchio Maggiore, «Tutti gli animali
sono uguali», nessuno si ribella, perché la rassegnazione alla menzogna ormai ha avvelenato gli animali della fattoria.
Ho sempre amato Orwell proprio per la sua fede utopica nella scrittura
anti-utopica come capace di smascherare le bugie e le ingiustizie, per quella
sua scelta di campo di romanziere e giornalista militante: poliziotto imperiale, lavapiatti, raccoglitore di fragole, commesso di libreria o combattente
antifranchista che fosse, ha riversato le sue esperienze di vita («che hanno
accresciuto il mio odio innato per l’autorità», spiegò) nei suoi libri, affinché
i libri riscattassero le vite degli altri, le vittime della storia.
In Omaggio alla Catalogna il lungo capitolo in cui difende argomentatamente i trockijsti dall’accusa di cospirare insieme a Franco rovina il ritmo
del libro con una dose massiccia di giornalismo, come lo accusò un critico?
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«Aveva ragione, ma io non avrei potuto fare altrimenti. Mi era capitato infatti di
venire a conoscenza di qualcosa che pochissimi sapevano in Inghilterra, cioè che
persone innocenti venivano ingiustamente accusate. Se quel fatto non mi avesse
indignato non avrei mai scritto il libro».
Indignazione e passione, ecco gli ingredienti della scrittura orwelliana.
Non c’è grande giornalismo e neppure grande letteratura senza questi due
atteggiamenti esistenziali.
Ma vanno filtrati, raffreddati, trattenuti, per lasciare che l’ironia diventi
arte. Come nel finale della Fattoria degli animali, quando attraverso le finestre della casa padronale dove si sono insediati i maiali (che pure avevano
giurato che mai avrebbero dormito nei letti e bevuto gli alcolici degli uomini), gli animali sfruttati e oppressi assistono esterrefatti alla trasformazione
finale dei compagni, seduti al tavolo con gli ex nemici capitalisti, a giocare a
carte e a fare affari sulla pelle del popolo a quattro zampe.
«Dodici voci urlavano rabbiose, ed erano tutte uguali. Non c’era più alcun dubbio su ciò che era successo alla faccia dei maiali. Dall’esterno le creature volgevano lo sguardo dal maiale all’uomo, e dall’uomo al maiale, e ancora dal maiale
all’uomo: ma era già impossibile distinguere l’uno dall’altro».
Non tutti gli scrittori sono uguali. Alcuni sono più bravi degli altri.
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L’utopia senza umanità
EMANUELE CURZEL
C
‘è chi ama gli animali e la natura ed è tanto sensibile / che sogna un
mondo senza più umani. Con questi due versi Luca Carboni (Luca lo
stesso, 2015) ha sintetizzato quella che è una delle più diffuse, se non
l’unica vera, seria, grande utopia al momento in circolazione. L’utopia che
immagina un pianeta azzurro libero (o liberato) dalla specie umana, rea di
portare alla Terra solo squilibri e devastazioni e di spingerla verso la distruzione, a fronte di un “resto” della Natura (l’iniziale maiuscola è d’obbligo)
che senza l’homo sapiens sarebbe invece in grado di autoregolarsi e svilupparsi in modo armonico, sostenibile, “giusto”.
L’enunciato ha bisogni di tre precisazioni. La prima riguarda la collocazione di tale prospettiva. Va detto infatti che essa è davvero un’utopia, e non
una distopia. Nel corso del XX secolo sono nate tante utopie negative (= distopie); tante immagini del futuro sono state create per spaventarci, per metterci sull’avviso, per far cambiare una direzione che sembrava segnata; le
aspettative positive, i “soli nascenti”, con i loro fondamenti socioingegneristici o tecnologici (concepiti nell’Ottocento e rinati per breve tempo nel secondo dopoguerra), si sono invece quasi dissolti. Coloro che, in
modo più o meno consapevole, pensano a una Terra senza umanità non considerano però tale scenario come un approdo disastroso (una distopia, appunto), ma lo vedono come la via d’uscita per porre termine ad un antropocene che sta invece devastando il pianeta. L’era geologica causata
dall’iniziativa umana deve finire appena possibile.
Tale tesi non viene diffusamente esposta e sarebbe ben difficile associarla in modo nitido a una posizione politica o sociale, ma si colloca implicitamente sullo sfondo di tanto animalismo estremo e più in generale di una
“sensibilità” che sembra capace di ignorare il dolore dei propri simili (o persino il proprio) più di quanto sia capace di sopportare il dolore animale o lo
squilibrio dell’ecosistema. Ma ci si può chiedere se la scelta, che molti fanno, di non dare un seguito alla vita umana attraverso il fluire delle genera-
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zioni (qualcosa come: “visto quel che abbiamo fatto e che facciamo, non è il
caso di avere figli”) non abbia a che fare anche con un’adesione implicita a
tale posizione.
Una seconda precisazione riguarda la responsabilità della nostra specie.
Per quanto schematico e semplificato, è difficile dire che il ragionamento
sopra esposto sia insensato. Si può certo dare un giudizio più o meno drastico circa la stupida avidità o la gratuita crudeltà che uomini e donne dimostrano, non da oggi, nella gestione dei rapporti con i loro simili e con il resto
della creazione. Ma è indiscutibilmente vero che da settant’anni gli umani
sarebbero in grado di rendere inabitabile il pianeta (inabitabile non solo per
essi stessi, ma anche per tutti i vertebrati e gran parte degli invertebrati), e
che si ostinano a mantenere pronto all’uso il potenziale distruttivo che permetterebbe tale risultato. Anche volendo sperare che gli homines sapientes
non scateneranno mai le armi nucleari contro sé stessi, la miopia che mostrano nella gestione quotidiana dei beni della terra – con i conseguenti inquinamenti, avvelenamenti e bruschi mutamenti dell’ecosistema – mette in
dubbio, sul medio periodo, la vita per come l’abbiamo finora conosciuta. Si
può aggiungere che l’utopia dis-umana non ha neppure bisogno di interrogarsi se nel fare tutto ciò l’azione umana sia libera (e dunque responsabile) o
determinata intrinsecamente dalla sua “natura”: se nel primo caso meritiamo
di essere puniti, nel secondo il nostro destino è di essere scartati
dall’evoluzione stessa, considerati un “errore” che perturba una creazione
altrimenti ordinata.
La terza precisazione riguarda l’atto di fede nei confronti del (resto
del)la Natura: un atto di fede implicito, e talvolta esplicito, nell’esposizione
in termini generali dell’utopia in questione. L’utopista a-umano porta infatti
alle estreme conseguenze il culto della Vita (sul tema si veda quanto ho
scritto su “Il Margine” n. 10/2010)1. Dopo aver individuato, come detto,
nell’essere umano il colpevole del male che esiste sulla Terra (un male del
quale la Vita non sarebbe responsabile), vede nel mondo animale il luogo
dell’innocenza, della purezza, dell’armonia. Si tratta, a suo modo, di una ricerca di Dio nell’immanenza, per trovare ciò che si ritiene non sia stato corrotto e compromesso dalla civiltà umana. In passato tale ricerca aveva portato dapprima all’elaborazione del mito del “buon selvaggio”, capace di conservare un rapporto armonioso con la Natura, rapporto che l’Occidente aveva perduto; poi all’esaltazione delle classi subalterne come portatrici, attra1
http://www.il-margine.it/Rivista/Archivio/2010/10/In-regime-di-biolatria.
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verso la sofferenza, di un riscatto per l’intera umanità e come possibili fondatrici di un ordine giusto; infine all’identificazione tra i bambini e gli esseri
angelici non ancora guastati dal mondo degli adulti. Si è trattato di entusiasmi cui sono corrisposte cocenti delusioni (detto en passant, solo chi non
ricorda di essere stato bambino può davvero pensare che i bambini siano naturalmente “buoni”).
Come si è detto sopra, l’utopista a-umano vede allora nell’animale la purezza, perché l’animale è (presuntivamente) privo di libertà e dunque innocente; vede nell’ecosistema solo armonia e stabilità, ossia l’opposto di ciò
che l’uomo avrebbe saputo e voluto imporre al pianeta negli ultimi millenni;
non vede affatto, invece, gli aspetti più violenti e distruttori di una Natura
della quale si apprezza solo ciò che vive accanto a noi mostrandoci dolcezza
e devozione. Non lo vede fino al punto di pensare e dire che il “nostro” animale – quello “domestico”, appunto – sia più vicino al disegno divino di
quanto l’uomo potrà mai essere (si veda un esempio di questo atteggiamento
in quanto scrive Paolo De Benedetti in “Il Margine” 3/20052).
Un’immagine nitida di questa utopia (o per lo meno dei presupposti che
la fondano) sta in uno dei capolavori di Bruno Bozzetto, un film uscito alla
metà degli anni Settanta: Allegro ma non troppo. All’interno di quello che si
presenta un po’ come una parodia e un po’ come un remake del disneyano
Fantasia si colloca una lunga sequenza in cui Bozzetto applica un disegno
animato al celebre Bolero di Maurice Ravel. La sequenza si apre con
un’ironica Genesi (la vita arriva sulla terra sul fondo di una bottiglia di bibita abbandonata da chissà quali alieni); quella goccia è il brodo primordiale
dal quale nasce il primo essere. Dapprima con lentezza e prudenza e poi con
sempre maggiore energia egli – seguendo le note del celebre “bolero” –
prende a muoversi, e poi a camminare, a evolvere, in una marcia che è un
vortice di forme viventi di sempre maggiore compiutezza e bellezza… fino
al punto in cui un essere simile a una scimmia si stacca dal gruppo, comincia
a servirsi degli altri, a tendere agguati, a uccidere; infine fa terminare quella
marcia trionfale in un recinto di mura e filo spinato, al di sopra del quale si
erge, mostruosa, un’enorme statua antropomorfa (dentro la quale, peraltro, si
cela ancora la disgustosa e avida scimmietta). Insomma: il vero problema
della Terra siamo noi.
2
http://www.il-margine.it/Rivista/Archivio/2005/03/La-Bibbia-e-gli-animali,%E2%80%9Cprossimo-dell%E2%80%99uomo%E2%80%9D.-Intervista-a-PaoloDe-Benedetti.
45
«Voi siete il sale della terra»
Sia i grandi scenari, sia la cronaca quotidiana sembrano fatti apposta per
condurci ad assentire, implicitamente, a queste tesi “utopiche”; davvero
l’uomo non sembra all’altezza del suo compito di “coltivare il giardino”.
Per reagire non basta fare appello a una sorta di “patriottismo biologico”,
a uno “specismo” che ci spingerebbe emozionalmente a difendere i “diritti
dell’uomo” contro quelli della Natura. È un atteggiamento che ha dato per
secoli dei risultati ma che oggi rischia di essere debole sia sul piano dialettico, sia di fronte all’evidenza che il rispetto dell’ecosistema e degli altri esseri viventi è presupposto all’esistenza stessa dell’uomo, in una solidarietà cosmica che non ammette sconti. Non basta neppure fare riferimento alla capacità umana di creare arte, scienza e pensiero. È ben vero che – a quanto ci
è dato sapere – l’essere umano è il primo e finora l’unico esempio di essere
auto-cosciente, l’unica parte dell’Universo capace di riflettere su di sé e di
conquistare la consapevolezza della sua condizione; è evidente che le creazioni spirituali, artistiche, scientifiche prodotte dagli uomini e dalle donne di
questo pianeta non sono comparabili con alcuna bellezza e grandezza “naturale”, e che la rete di rapporti presente in qualunque società animale non è
paragonabile con la complessità che mantiene in vita una famiglia, una comunità, una società. Perfino la capacità, tutta umana, di sublimare le proprie
debolezze e i propri limiti in imprese belle e meravigliose potrebbe non bastare. La possibilità, nemmeno tanto remota, che la grande avventura umana
si concluda con l’autodistruzione getta infatti un’ombra su tutto il percorso,
e qualunque risultato parziale può venire annichilito da quello finale.
L’utopia anti-umana non può dunque essere semplicemente negata: va
presa sul serio. La sensatezza ultima dell’agire umano non può (più) essere
considerata un presupposto indiscutibile. La convinzione che l’umanità sia e
sarà capace di usare responsabilmente le propria capacità e – per dirlo con
linguaggio biblico – sappia e saprà “dare gloria a Dio” è davvero un atto di
fede, la cui possibile “verità” sarà nota solo escatologicamente.
Chi scrive deve riconoscere che in tempi recenti, per rinnovare tale atto
di fede, è stato aiutato da un film, ovvero Il sale della terra di Wim Wenders
(2014). La descrizione del percorso biografico del fotografo brasiliano Sebastião Salgado è, nella pellicola, il punto di partenza per un ragionamento
sulle responsabilità e le possibilità dell’essere umano sulla terra. Salgado ha
potuto fare quello che ha fatto – la laurea in economia, la carriera di fotografo, i viaggi per documentare e denunciare le atrocità e le ingiustizie del No-
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Il Margine 36 (2016), n. 1-2
vecento – grazie alla ricchezza della sua famiglia, e in particolare quella
prodotta da suo nonno, che aveva messo a frutto un ampio territorio, tagliato
gli alberi, fatto pascolare il bestiame fino a trasformare in un deserto quello
che era stato un paradiso. Tornato, in età matura, al suo paese natale, Salgado si è reso conto di quello che era successo e ha avviato (con il decisivo
aiuto della moglie) un processo inverso, fatto di lenta rinascita della stessa
foresta che il nonno – un nonno capace di vivere con orgoglio, ma non con
gioia – aveva desertificato. L’apologo, che dà senso al film al di là della sua
natura apparente di “documentario”, è chiaro: abbiamo compromesso il pianeta per riuscire a raggiungere un più alto livello di conoscenza e di coscienza; sta ora a noi fare uso di quanto abbiamo imparato per riparare ciò
che abbiamo danneggiato.
È qualcosa di più di un colpo di scena all’interno di un film: è un atto di
fede nella possibilità che il Logos continui ad accompagnarci, spostando la
sua tenda pur di rimanere in mezzo a noi. Anche al di là di ciò di cui saremmo degni. D’altronde i versi che, nella canzone di Luca Carboni, seguono quelli citati in apertura, sono questi: c’è chi pensa che l’amore debba andare solo a chi se lo merita / ma non conosce giustizia l’amore.
Alfabeti della sopravvivenza
A proposito del Lessico di Hiroshima
PAOLO MIORANDI
C’
è un’immagine che, almeno per me, sta idealmente al centro del mio
Lessico di Hiroshima (Il Margine 2015). Vi si vede un uomo chinato
sopra un tavolino di fortuna. Tiene in mano un piccolo pennello e traccia
segni sulla distesa bianca della carta: un’immagine familiare se non fosse
che, allargando il campo visivo, si potrebbe notare che sì, l’uomo sta semplicemente scrivendo, ma lo sta facendo esattamente al centro di un mondo
che è andato in frantumi.
Danza
«Ogni qual volta il mondo cade in pezzi – e quel mattino il mondo venne ridotto
a nulla più di una nuvola di polvere soffiata via dal vento – c’è qualcuno, magari
anche uno solo, che, senza capirne bene il motivo, fruga con le mani tra la polvere e raccoglie parole – le poche rimaste, sporche e rotte, quasi irriconoscibili – e
le distende sopra un tavolo di fortuna, come fa un archeologo con i frammenti
dell’antico vaso che ha disseppellito.
Quel giorno lo fece per noi Hachiya Michihiko, direttore dell’Ospedale delle
Comunicazioni di Hiroshima. Il destino, come sempre a caso, scelse lui per celebrare la sopravvivenza, non dei corpi, e nemmeno delle anime, perché c’è un
punto in cui anche le anime si rompono, ma di qualcosa che dell’anima è il principio generativo.
Il 6 agosto del 1945 Hachiya Michihiko inizia a scrivere il suo diario e noi, dalla
nostra lontananza, possiamo scorgere ancora la sua ombra chinarsi, come la sagoma controluce di un pescatore sull’orlo dell’abisso, e ricominciare a rammendare la rete che tiene insieme i pezzi del mondo e ad essi dà forma.
Le maglie della rete potrebbero ricordare a qualcuno lo zampettare di un insetto,
un andirivieni apparentemente insulso che pur tuttavia è una danza d’amore».
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L’uomo che scrive è un medico, si chiama Hachiya Michihiko e cerca di
darsi da fare nell’ospedale arrangiato tra le macerie di una città che proprio
quel mattino è letteralmente esplosa. L’ospedale, dove non è rimasto quasi
niente di ciò che servirebbe, è diventato in poche ore una specie di girone
infernale. Vi arriva una dolente processione; sono uomini e donne con i corpi martoriati dalle ustioni e dalle ferite. Persone che ancora non sanno di essere già state condannate, in gran parte, a un’esecuzione ritardata; di lì a poco infatti avrebbero cominciato a sviluppare sintomi di una malattia la cui
causa era ancora sconosciuta.
Il medico, a sua volta ferito, si dà da fare come può. Cerca di alleviare
qualche dolore, di medicare qualche ferita con quel quasi niente che è rimasto nell’ospedale. Poi, nelle pause del lavoro, si siede davanti ad una pagina
bianca e scrive. Il suo diario inizia il 6 agosto del 1945, il giorno del bombardamento atomica su Hiroshima.
me i pezzi del mondo, i pezzi delle nostre vite, e di legare gli uni alle altre, e
le nostre vite con quelle dei nostri simili.
L’orrore e la bellezza
«“La premessa morale della verità è, oggi, l’immaginazione”, ha scritto Günther
Anders nel suo Diario di Hiroshima e Nagasaki.
Domani mattina di buon ora salite dunque in collina e guardate giù la vostra città, da nord a sud e poi da est a ovest, percorrendola in tutta la sua grandezza;
guardatela stendersi e stropicciarsi sotto di voi al momento del risveglio.
E poi immaginate che solo terra bruciata, il polveroso vuoto che resta dopo il
passaggio del fuoco, abbia preso il posto di tutto ciò che il vostro sguardo era
riuscito ad abbracciare. Camminate dentro a quel vuoto e, ad ogni passo, ricordate che state calpestando le ceneri di duecentomila persone che come voi quel
mattino avevano aperto gli occhi e spiato il cielo dalla finestra per sapere se ci
fosse il sole. Solo in questo modo, forse, potrete vedere Hiroshima».
Parole
«I sopravvissuti, quando qualcuno chiese loro di raccontare cosa fosse successo,
dovettero inventarsi una parola nuova – la prima di altre che sarebbero venute in
seguito – perché nessuna delle parole che già conoscevano era in grado di descrivere ciò che avevano veduto.
Dicevano pikadon, saldando assieme due termini onomatopeici, pika (lampo) e
don (boato). Uno di loro si spinse oltre e disse che la luce accecante che aveva
colpito le cose facendole scolorire pareva riflessa dalla smisurata e scintillante
lama di una spada».
Un uomo che scrive il proprio diario tra le rovine del mondo – questa è
l’immagine che io oggi porto qui, in questo luogo che è stato chiamato Utopia –, un uomo che prova a saldare tra loro parole come fossero i frammenti
di un vaso andato in pezzi. Ed è, ai miei occhi, una straordinaria immagine
di sopravvivenza, non dei corpi dicevo, ma della capacità così intimamente
umana, forse la più umana tra le capacità, di fare segni che provino ogni volta a dare un senso all’insensato, e di farlo perfino in condizioni disperate,
quando tutto si è rotto e sono venute meno anche le parole per descrivere ciò
che si è veduto.
Perché – lo sappiamo – in fondo sono i segni che facciamo a tessere il filo, fragile e sempre sul punto di spezzarsi, con cui proviamo a tenere insie-
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Dopo settant’anni, camminando nei luoghi dell’esplosione atomica, a Hiroshima e Nagasaki, ho pensato che nel vuoto del cimitero atomico che oggi
solo l’immaginazione può permetterci di vedere, continuassero a fluttuare
parole, come scialuppe di naufraghi, e che, in questo tempo di guerra continua, ci fosse bisogno, una volta ancora, di raccoglierle e ridirle.
Attraverso le trentaquattro parole che compongono il Lessico ho cercato
di raccontare l’orrore indicibile della guerra atomica, ma, al contempo anche
di custodire le tracce di una possibile sopravvivenza. Ho provato a puntare,
per quanto mi è stato possibile, lo sguardo verso l’abisso per poter riconoscere persino là, dentro a quell’inferno disumano che è stata la morte atomica, segni di umanità, di rinascita, di gentilezza. Di sopravvivenza appunto. Il
libro inizia con un breve prologo, in cui questo intento viene implicitamente
dichiarato.
«Ti voglio descrivere un’immagine che soltanto da poco sono tornato a rivedere
così mi avevi detto quella sera
da bambino, durante i brevi periodi di vacanza nel paese d’origine di mia madre,
ero solito accompagnare la nonna nella sua passeggiata quotidiana. Quel giorno
– perché è di quell’unica passeggiata che conservo il ricordo – ci eravamo incamminati lungo la stradicciola che dall’ultima casa del paese saliva verso le fal-
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de della montagna. Era un semplice viottolo di campagna delimitato, su entrambi
i lati, da muretti a secco poco più alti di un bambino.
Arrivati ad una svolta della strada, tolsi la mano dalla custodia della mano della
nonna e, dopo essere corso qualche passo avanti a lei – sai come fanno i bambini
– iniziai ad arrampicarmi sul muretto che mi ero trovato di fronte mosso
dall’improvviso desiderio di vedere quello che nascondeva alla vista. Quasi subito la voce della nonna tuonò per bloccare la mia intenzione. Ricordo perfettamente le sue parole. «Non guardare – disse – perché lì dietro c’è la morte.»
Ma io, tirandomi su con le braccia, avevo già potuto gettare una rapida occhiata
oltre il muro. Ho ancora davanti agli occhi quello che vidi quel giorno: un prato
estivo trapuntato da centinaia di fiori viola».
Io, come forse tutti noi, faccio fatica a stare di fronte all’orrore; non riesco ad esempio a sostenere lo sguardo delle persone che sono ritratte sulle
fotografie esposte nel museo di Hiroshima; donne e uomini che mostrano i
loro corpi ustionati, le gambe e le braccia accartocciate come pezzi di plastica messi vicino a una fiamma; che espongono le loro cicatrici visibili e invisibili e nei cui occhi si può osservare, e questa è forse la cosa più raggelante,
un’incancellabile paura.
Di fronte a quei corpi giro lo sguardo dall’altra parte. L’orrore, lo sappiamo, ci fa sentire immediatamente insicuri, ci toglie la terra da sotto i piedi, ci sconquassa nel profondo forse perché ci dice che il male è intimamente presente nella natura dell’uomo, tanto che basta una giustificazione da
poco perché un uomo possa contribuire a mandare a morte, e di una morte
terribile, migliaia di propri simili.
Eppure, come il bambino della storia, in qualche modo, anch’io so di
avere bisogno di sporgermi ogni tanto oltre il muro, di poter vedere cosa c’è
dietro. Per questo provo a vedere attraverso le parole, di vedere da una certa
distanza, quella che le parole scavano tra loro e l’oggetto che viene descritto; è come se cercassi di trovare parole che mi diano la possibilità di stare
sull’orlo dell’abisso e guardare giù senza né fuggire via né esserne risucchiato; come se cercassi di costruirmi un parapetto di parole, una corda di
sicurezza di parole per potermi sporgere e guardare.
Penso di averlo fatto in Ospiti (Il Margine 2010), per gettare uno sguardo
dentro a quelle ultime stazioni della vita che sono le case di riposo, i reparti
per malati inguaribili, i luoghi di confine che accolgono chi se ne sta andando, gli ospiti che stanno terminando la loro visita sulla terra; l’ho fatto in
Nannetti (Il Margine 2012) per guardare dentro al vuoto orrore dei manicomi.
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E quello che mi è successo, così come è accaduto al bambino della storia, è che, quando sono riuscito a gettare un’occhiata oltre il muro, proprio
là dove ti dicono di non guardare, anch’io ogni tanto ho potuto vedere fiori,
tracce di vita che ritorna esattamente nello stesso luogo dove finisce: la carezza di uno sconosciuto, il diario di un medico circondato dal dolore o il
gesto di sopravvivenza di Oreste Fernando Nannetti che incide ostinatamente le sue parole sul muro del padiglione del manicomio dove è rinchiuso.
Sono i fiori cresciuti sulle macerie di Hiroshima quando nessuno pensava fosse più possibile. Per questo l’ultima voce del Lessico descrive qualcosa di molto caro ai giapponesi, quella tradizione che viene chiamata hanami,
ovvero la contemplazione della fioritura, soprattutto dei fiori di ciliegio, che
sono tra i fiori, i più fragili, quelli che un’ora in più e una folata di vento
porta già via, quelli che ci parlano di una bellezza legata indissolubilmente
all’impermanenza, all’attimo che se ne va, che non ci verrà più restituito, e
che, proprio per questo, è così struggente e necessario.
Ciliegi
«Raccontano che molti di quelli che erano morti e stavano cercando di tornare a
vivere si precipitarono a vederli, ad iniziare dal sindaco provvisorio della città
che aveva l’ufficio proprio lì davanti. Quei pochi miseri alberi di ciliegio vicino
alla facciata del Municipio di Hiroshima erano, come quanti li videro quel giorno, dei sopravvissuti. Anche quei tronchi e quei rami anneriti dal fuoco si erano
salvati dall’esplosione ed erano stati risparmiati dall’inverno successivo, quando
anche un po’ di legna da ardere era diventata un lusso.
Ma adesso, in quella mattina d’aprile, tra le pieghe di quegli scheletri bruciati, si
cominciava a intravedere qualcosa, come il luccicare rosato di fiocchi di neve
all’alba.
In quel momento ci fu chi pensò ai propri amici, a quelli cancellati assieme alle
case, a quelli consumati dall’interno dei propri corpi, ai pochi rimasti, e desiderò
che tutti quanti, i morti e i vivi, fossero lì con loro e potessero vederli».
52
Il Margine 36 (2016), n. 1-2
La rivoluzione gentile
PAOLO MARANGON
N
ell’isola di Utopia descritta da Tommaso Moro i rapporti familiari sono molto tradizionali: «Le mogli sono assoggettate ai mariti, i figli ai
genitori e, in generale, i più piccoli ai più grandi». Anche l’educazione pubblica è ispirata a una visione analoga: «i bambini e i ragazzi vengono educati
dai sacerdoti, che non si curano della letteratura, più che dei costumi e della
virtù; infatti si impegnano al massimo per istillare da subito, negli animi ancora teneri e duttili dei bambini, idee buone ed utili per il benessere dello
Stato». Senza negare che questi passi contengano una sottile ironia nei confronti dell’educazione pubblica del tempo, bisogna attendere due secoli e
mezzo e le geniali intuizioni di Jean-Jacques Rousseau nell’Emilio perché la
pedagogia metta il bambino al centro del processo educativo e un altro secolo abbondante perché nasca un movimento internazionale che, rielaborando
e integrando profondamente quelle intuizioni, le traduca in pratiche educative vere e proprie, basate sull’osservazione e sull’esperienza, obbligando pedagogisti ed educatori a quella «rivoluzione puerocentrica» che si affermerà
compiutamente solo nel corso del Novecento.
Janusz Korczak
A questo movimento internazionale per l’educazione nuova, diffuso in
tutto l’Occidente con vari centri sparsi, si riallaccia in modo originale una
straordinaria e ancora poco nota figura di educatore, pedagogista e scrittore:
l’ebreo polacco Janusz Korczak (1878-1942), il quale, dopo aver rinunciato
a una famiglia propria e a una brillante carriera di medico, dedicò tutta la
sua vita ai bambini più poveri di Varsavia, ebrei e non ebrei, in particolare
orfani. Dopo l’occupazione nazista della Polonia e la dura esperienza del
ghetto, rinunciò anche alla possibilità di salvarsi per andare a morire nel
centro di sterminio di Treblinka con i “suoi” 203 ragazzi. Laura Giuliani,
53
che ne ha appena ricostruito la vita e l’opera pedagogica in un bel libro della
casa editrice “Il Margine”, descrive in modo impressionante il momento
dell’abbandono del ghetto il 6 agosto 1942: «Attraverso le vie cittadine
avanza, in silenzio e disciplinatamente, il corteo dei bambini: accanto a loro
gli educatori, con Stefania Wilczynska; in testa c’è Janusz Korczak». Prima
di salire sul treno egli viene riconosciuto dal comandante nazista che dirige
le operazioni. «Il tedesco dice: “I bambini possono partire, lei è libero”. Ma
Korczak si rimette in fila, insieme ai bambini». Nulla di certo si sa della loro
vita a Treblinka e della tragica fine della loro esistenza. C’è qualcosa non
solo di altamente simbolico, ma anche di immensamente misterioso nella
vicenda di questo ebreo, pioniere e precursore dei diritti universali
dell’infanzia, che decide di morire in un lager nazista per non lasciare neppure un istante i “suoi” ragazzi.
Originale e particolarmente innovativo per il suo tempo è il fondamento
giuridico che l’educatore polacco dà a tutta la sua opera educativa e sul quale Laura Giuliani opportunamente si diffonde. Da questo fondamento si irradia, in una sorta di movimento centrifugo, la critica durissima che Korczak
rivolge a tutte le istituzioni sociali, specialmente a quelle educative, ancora
legate alla concezione tradizionale per la quale il fanciullo è semplicemente
un adulto incompiuto. In Come amare il bambino (1918-20) egli individua i
diritti essenziali dell’infanzia, i cui corollari sviluppa nel saggio specifico su
Il diritto del bambino al rispetto (1929). Anzitutto i figli non sono proprietà
privata dei genitori, non sono degli adulti in miniatura, fragili e immaturi,
non sono semplicemente i destinatari passivi di servizi che la società predispone per loro: sono persone che hanno la piena dignità di esseri umani, veri
soggetti di diritti inalienabili, che devono essere rispettati. Il rispetto è
l’atteggiamento adeguato che sta alla base di tutto e dal quale scaturisce
l’effettiva percezione dei doveri richiesti agli adulti e alle istituzioni. I bambini appartengono a sé stessi e quindi hanno diritto che venga rispettata la
loro vita, in primo luogo da parte dei genitori: «Per timore che la morte possa strapparci il bambino, spesso strappiamo il bambino alla vita; per impedire che muoia non lo lasciamo vivere». Di qui il diritto del bambino anche a
una morte prematura, nel senso che, quando non vi sia imprudenza o negligenza da parte di chi è responsabile della sua sicurezza, egli ha il diritto a
vivere il rischio della propria crescita senza paure, senza ossessioni o impedimenti esterni: ha diritto alla fiducia. Ne consegue il rispetto della libertà
del fanciullo, della sua volontà di autodeterminarsi, della capacità di fare
delle scelte, anche nel campo delle amicizie e dell’amore. «È un ammoni-
54
mento alle madri eccessivamente ansiose e ai genitori iperprotettivi», commenta la Giuliani.
In secondo luogo il bambino ha diritto alla sua vita presente, a vivere
pienamente la propria età, la propria infanzia, fanciullezza, adolescenza senza che queste siano considerate solo fasi di uno sviluppo, magari predeterminato, perché hanno un valore inestimabile in sé stesse. Il bambino è già
persona, già soggetto, già un essere completo e perfetto oggi in quanto bambino. Questo implica, per ogni età, il rispetto dei sentimenti, dei segreti e
delle proprietà personali, della stessa ignoranza dovuta all’inesperienza, delle sconfitte e degli sbagli. «Voler accelerare e superare in fretta l’età
dell’infanzia – spiega Laura Giuliani – è un vero furto, perché priva il bambino di qualcosa che gli appartiene e gli spetta, appunto, di diritto».
In terzo luogo il bambino ha diritto a essere quel che è, quindi a essere
accettato, apprezzato e amato per quello che è, non per quello che si vorrebbe che fosse. Ha diritto a giocare, a rimanere in silenzio oppure a dire quello
che sente, pensa o desidera, anche se contraddice il punto di vista degli adulti. «Nella sfera dei sentimenti, cui egli ancora non sa porre dei freni, ci è di
gran lunga superiore» afferma Korczak, perché proprio in questa mancanza
di limite, in questa immediatezza risiede la sua superiorità, mentre gli adulti
filtrano i loro sentimenti attraverso l’autocontrollo, la ragione pratica e
l’utilità sociale: essi dicono ciò che è conveniente, solo talvolta ciò che provano e credono veramente. Ipocrisia, imbroglio e menzogna tra gli adulti
sono addirittura scontati e nessuno insegna a riconoscerli e a diffidarne. Al
contrario i bambini non fingono, non nascondono ciò che sentono, se non
quando per colpa degli adulti hanno paura, si vergognano o sono costretti a
dire la verità che non vogliono o non possono dire. Noi invece «scherziamo
sulle loro lacrime, che ci sembrano poco gravi e che a volte ci irritano», senza lasciarci interrogare da esse. «Se tratterai con superiorità, in tono canzonatorio o paternalista le loro preoccupazioni, i loro desideri e le loro domande – ammonisce Korczak – finirai sempre con il ferirli».
Inoltre i bambini hanno diritto a essere nutriti, educati e istruiti. Korczak
sa che cibo e sicurezza, amore e considerazione sono bisogni fondamentali
del bambino come di ogni essere umano. Per questo, in linea generale, è necessario creare un ambiente ricco e stimolante, nel quale il fanciullo possa
gradualmente formare la propria identità. Ogni educatore deve in tal senso
impegnarsi per il bambino e con il bambino, il quale ha comunque bisogno
di qualcuno che lo sostenga, lo orienti, talora lo corregga e gli dia quella sicurezza che è condizione indispensabile per ogni sviluppo sul piano fisico,
55
affettivo e intellettuale. Non c’è dunque educazione dove vi sia
un’imposizione autoritaria di soli doveri, né istruzione quando si pretende da
tutti i risultati migliori. Ciascuno ha le proprie capacità e la propria personalità, ma tutti hanno diritto a sviluppare le loro potenzialità e può essere sviluppato solo ciò che c’è allo stato potenziale, non quello che non c’è. Questo
discernimento tra il potenziale e l’impossibile è compito essenziale
dell’educatore. Si dà quindi un processo educativo solo se e quando gli educatori e gli insegnanti conoscono e rispettano le peculiari caratteristiche del
soggetto e, insieme, le potenziano. Il diritto del bambino all’educazione non
è altro che «il diritto di volere, di chiedere e di reclamare, ovvero di crescere
e di maturare e, giunto alla maturità, di dare i propri frutti». Il rapporto tra
l’educatore e il bambino si delinea dunque come un rapporto di equilibrio
tra l’autorevolezza del primo e la libertà del secondo e la chiave di questo
equilibrio si dà essenzialmente in due verbi: conoscere e amare. L’amore
muove nella relazione l’uno verso l’altro e costituisce «l’alimento essenziale, una volta che sia stato temperato e canalizzato dal rispetto che l’adulto
deve al bambino».
I fanciulli hanno anche diritto a conoscere la verità e a mettersi in comunione con Dio. «Nella visione korczarkiana – spiega la Giuliani – l’infanzia
è un’età altamente spirituale: le domande relative all’origine della vita e alla
morte, alla paura e al destino dell’umanità, rivolte spesso agli adulti, sono
l’espressione di tale dimensione spirituale. Ma anche la curiosità sui fenomeni naturali – forse per l’istintiva tendenza infantile all’animismo – conducono i bambini a riflessioni di carattere religioso». Se l’educatore non coglie
l’importanza di tali domande o di tali curiosità, non ci può essere crescita
nell’educazione religiosa. «Per lungo tempo – confessa Korczak – ho creduto che ai bambini bisognasse parlare in maniera facile, comprensibile, interessante, pittoresca, convincente. Oggi penso in maniera diversa: dobbiamo
parlare brevemente dal cuore e senza star tanto a scegliere parole ed espressioni complesse». In questo contesto si inserisce l’approccio dei bambini
alla Bibbia. L’infanzia di alcune figure bibliche – come Mosè, Davide, Salomone, Geremia e altre – è per il pedagogista ebreo la via privilegiata per
un proficuo avvicinamento, ma i bambini non possono essere passivi recettori di racconti, ma vanno considerati, a modo loro, “cercatori della verità” e
capaci di conquistarla in un cammino che è, anzitutto, personale. Hanno
perciò diritto a porre domande, sollevare dubbi, esprimere pensieri e riflessioni, con cui l’educatore è chiamato a confrontarsi nel rispetto della loro
diversità.
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Infine i bambini sono titolari di diritti anche nei confronti dello Stato e in
generale delle istituzioni pubbliche. Essendo deboli e dipendenti, privi del
diritto a votare, facilmente possono essere considerati solo potenziali cittadini, dei quali non è necessario guadagnarsi il voto. In realtà nei paesi occidentali sono almeno un quarto della popolazione, sono cittadini veri, anche
se diversi dai maggiorenni, e titolari di precisi diritti. Hanno in primo luogo
il diritto a essere difesi e tutelati da ogni forma di violenza, diretta o indiretta, a vivere in abitazioni igienicamente sane e costruite anche a loro misura,
a essere adeguatamente curati in caso di malattia. Hanno diritto a giardini
pubblici nei quali giocare in mezzo alla natura e a istituti educativi – dalla
scuola dell’infanzia fino alle superiori – nei quali tutti i loro diritti personali
siano conosciuti e rispettati. Per questo lo Stato ha il compito di formare
educatori, insegnanti e medici non solo competenti nelle loro discipline, ma
soprattutto capaci di relazione e di rispetto. In tutte le istituzioni educative,
là dove è possibile, i bambini hanno diritto a un «tribunale interno», composto anche da loro rappresentanti, in modo che vi sia la possibilità di instaurare un ordine di relazioni più giusto, nel quale «il grande non faccia torto al
piccolo e il piccolo non disturbi il grande». I bambini hanno anche il diritto
di far sentire pubblicamente la loro voce attraverso i mass-media, non solo
di avere libri, riviste e programmi adeguati alla loro fascia d’età. In tutte le
questioni che li riguardano, il pericolo più grande è che il politico decida
senza conoscere adeguatamente le loro esigenze e i loro diritti. Perciò ogni
cittadino che esercita un potere pubblico deve poter avvalersi di validi consulenti per l’infanzia e l’adolescenza.
Una civiltà semplicemente più umana
Questi sono i tratti essenziali dell’umanesimo a misura di bambino per il
quale Korczak, insieme ad altri ma più di altri, ha vissuto, lottato e sacrificato la vita. Porta senza dubbio alcuni segni del tempo in cui si è formato, ma i
suoi valori ispiratori, la sua prospettiva educativa di fondo, la forza della testimonianza con cui è stato vissuto conservano un’attualità ancora capace di
mettere in discussione, di provocare e stimolare i nostri stili di vita frenetici
e imborghesiti, spesso funzionali a coscienze intorpidite e accomodanti. Si
tratta di un umanesimo che rimane per molti aspetti ancora rivoluzionario,
tanto vero quanto utopico, anche se parecchi e significativi passi in avanti in
questa direzione, piccoli e grandi, sono stati compiuti dalla fine della secon-
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da guerra mondiale ai nostri giorni: tra questi, per la loro particolare importanza storica, la Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959 e soprattutto
la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, approvate all’unanimità dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Quest’ultima, composta da 54 articoli, è stata ratificata da 196 stati, tra i
quali l’Italia nel 1991. Più di 25 anni sono passati e questa Convenzione –
elaborata prima della grande rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni,
prima dei sensibili cambiamenti climatici che stiamo vivendo, prima
dell’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, prima delle migrazioni bibliche dall’Est europeo, dall’Africa e dal Medio Oriente, prima
dell’età degli smartphone e dei social network così diffusi tra i nostri ragazzi
– richiederebbe forse un aggiornamento, una nuova stagione di diritti. Ma
prendiamola così com’è, anzi, prendiamo il suo nucleo già contenuto negli
scritti di Korczak e immaginiamo che tutti i comuni degli Stati che l’hanno
legalmente ratificata la mettano a disposizione e la facciano sistematicamente conoscere agli adulti del proprio territorio.
È stato giustamente affermato che un’utopia diventa realtà nella misura
in cui fa presa nei nostri animi e li conquista, trasformando almeno in parte i
nostri comportamenti. Possiamo ammettere che una larga maggioranza di
adulti portino nel cuore i loro figli? Cosa accadrebbe se pian piano i diritti
essenziali dei nostri figli fossero effettivamente conosciuti e rispettati? Non
cambierebbero forse profondamente la mentalità e gli stili di vita di noi
adulti non solo nei riguardi dei nostri figli, ma anche dei bambini degli altri,
anzi dei bambini in generale? Ecco, davanti a noi si aprirebbe una lunga
strada verso una nuova civiltà, nella quale la globalizzazione
dell’indifferenza verrebbe culturalmente sconfitta e il rispetto dell’altro, in
particolare del più piccolo, sarebbe la norma e la forma mentis universalmente accettata. Non solo una civiltà a misura di bambino, ma una civiltà
che attraverso il rispetto dei diritti dei nostri figli diventa “semplicemente”
più umana. Perché mai dovremmo rinunciare a questa utopia che, per quanto
realizzata anche solo nella misura del possibile, costituirebbe un enorme
passo in avanti nella storia dell’umanità?
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Il Margine 36 (2016), n. 1-2
Dietro alle cose, la promessa
Vangelo, torniamo a nascere. Ci assicura (Filastrocca di un inverno come
tanti) che un amore profondo riesce a superare la barriera estrema della morte.
GIORGIO ANTONIACOMI
Un racconto, Caetana e il vestito più bello, qui riassunto, riassume il significato comune a tutti i racconti.
«Il papà e la mamma di Caetana avevano deciso di andare per qualche giorno
nella grande città. La bambina, tre anni compiuti da poco, sarebbe rimasta con la
nonna... Caetana era una bimba garbata ed affettuosa e tutti le volevano bene. Ma
era nata con un’imperfezione; con quello che, in termini garbati, si chiama una
disabilità... I genitori le avevano promesso che, al loro ritorno, le avrebbero portato un bellissimo regalo... Pensarono intensamente alla loro piccola, a quale sarebbe stata la sua vita, parlarono di quello che avrebbero potuto fare, ma forse
anche no. Caetana era stata a lungo in ospedale – quando era appena nata – e sapevano che sarebbe potuta andare anche peggio. Per loro quello che avevano ricevuto restava un dono del cielo, sebbene con quella inaspettata ipoteca... Si avvicinava il momento di ritornare a casa. Ma quale regalo? Qualcosa di speciale…Qualcosa che la facesse sentire speciale. Finché, in una vetrina della città
bassa, in un negozio elegante, videro un vestito: camicia bianca di lino, motivi a
colori, ricami e, soprattutto, una gonna: qualcosa che Caetana avrebbe adorato
(ne furono certi entrambi), che avrebbe usato per restare a guardarsi, per ore, davanti allo specchio. Lui disse: “Non potrà mai indossarlo fuori casa: la prenderebbero in giro”. Lei guardò il vestito un’altra volta. “E’ bella la nostra bambina”. “E’ bella, è la nostra bambina, ma…”. “Deve sentirlo di essere bella”. “Mi
sembrerebbe di imbrogliarla”. “Ma questo vestito sembra fatto apposta per lei: è
la sua taglia, sono i colori che preferisce”. Lo comperarono. Ritornarono. Caetana corse loro incontro: “Che bello che siete tornati”. “Ti abbiamo portato questo
regalo”. Caetana vide il vestito. Rimase un poco a pensare. “E’ per dirti che sei
bella, tesoro”. Lei lo indossò. “Davvero è per me? Questo è il vestito più bello di
tutto il Portogallo”».
I
l concetto di utopia custodisce in sé una ineliminabile ambivalenza.
Un’ambivalenza forse anche tragica nel senso greco antico del termine:
quello dell’urto fatale fra leggi divergenti. È una categoria bifronte: da un
lato, può essere resa come “eutopia”, come una necessaria, positiva tensione
verso ciò che non è ancora, verso ciò che può essere, verso un ideale, verso
una speranza irriducibile, che sfida ogni male, ogni dolore, ogni ingiustizia e
si spinge fin oltre i confini stessi della vita; dall’altro lato, può trasformarsi
in dis-topia, in una dimensione negativa, nell’accanimento verso una “felicità obbligatoria”, nel dogmatismo, nell’intransigenza, nell’incapacità di accettare fragilità e il senso stesso del limite e della precarietà che appartiene
allo statuto stesso dell’umano esistere.
Ho cercato di accreditare questa tesi per via narrativa anziché argomentativa, in due libri di differente ispirazione e incommensurabili per linguaggio. Si tratta di Terza persona plurale; Racconti portoghesi (2010) e Bestiario di incerta umanità (2015), entrambi editi da Publistampa.
Racconti portoghesi lascia spazio alla meraviglia, al senso della magìa
dell’esistenza, parla della bellezza e della poesia di ogni fase e di ogni condizione della vita. Racconta (Impossibile preghiera) di un bambino sordomuto, abbandonato dalla madre, che vive per strada, ma sa cogliere la luce
della vita e se ne sente accolto quando, in una chiesa, legge il sorriso che gli
rivolge Maria che tiene stretto a sé il Bambino. Ci accompagna (Teresa sulla
riva del mare) verso un mondo sconosciuto, di là dal mare, oltre l’orizzonte
dove tramonta il sole, seguendo una bambina che sale sul dorso di una
enorme balena e, al suo ritorno, avrà solo un ricordo, forse un sogno, da
conservare per sé. Ci ricorda (L’uomo che scriveva una lettera al mare) che
il concetto di normalità è relativo e convenzionale e che certe cose possiamo
comprenderle solo se ritroviamo lo sguardo di un bambino; se, come dice il
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Bestiario di incerta umanità si muove su un registro completamente diverso. Avrebbe potuto intitolarsi “Nostra Signora dell’ipocrisia”, prendendolo a prestito da una canzone di Francesco Guccini. È un libro arrabbiato. Chi
lo scrive (e, si assume, anche chi lo legge) appartiene alla razza delle persone che si ostinano ancora credere che il mondo è fatto per essere cambiato.
Quando non ci riescono, cioè quasi sempre, pensano due cose: che bisogna
insistere, ma non a qualunque costo, perché forse la verità non esiste; e che è
giusto arrabbiarsi, a condizione di farlo anche con sé stessi e di non prender-
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sa ne sarebbe?
- Dunque, le leggi le applica o no?
- Certo che le applichiamo: in maniera letterale. Se si tratta di vietare, di regolamentare, di frenare, di impedire, le applichiamo.
- E se no?
- Se no bisogna vedere.
- Guardi, sono venuto perché le avevo scritto con la posta elettronica certificata.
- Ma non l’ha ancora aperta. Sa, sono oberato...
- Ma sono passate tre settimane...
- Sono oberato da sei mesi, da due anni, da sempre: se devo guardare anche la
PEC me lo dice lei dove trovo il tempo per lavorare?
- Ma in che cosa consiste, esattamente, il Suo lavoro?
- Nel controllo, nell’emanazione di direttive, nella verifica delle sussistenza dei
requisiti!
- E se le norme non ci sono?
- Se non ci sono, che diamine, si applicano lo stesso! In bollo! Triplice copia autenticata carpiata rovesciata!
- Signor burocrate, tornando a noi: avrei una soluzione da proporle.
- Una soluzione? Non esistono soluzioni, solo problemi.
- Credo di non capire...
- Lei, per esempio, è un problema: viene qui e mi dice che c’è una via più semplice, un passaggio più breve: se ne rende conto? È devastante.
- Sì, però si potrebbe semplificare...
- Semplificare? Questa parola mi fa soffrire, mi ha dato un dolore, non sa quale
dolore!
- Ma, mi scusi, quelli che per esempio devono fare ***? Dopo sei mesi e dopo
tante informazioni discordanti, possono sentirsi – non crede? – un poco disorientati, magari anche arrabbiati.
- Impossibile! C’è il modulo FCK/2-bis, come convertito dal combinato disposto
del comma 75 ter e dall’art. K lett. b) terzo alinea che lo vieta in maniera tassativa!
- Vieta tassativamente che cosa?
- Non lo so che cosa, ma lo vieta!
- Insomma, alla fine che cosa mi consiglia?
- Non lo chieda a me: paghi la marca da bollo e per il resto... per il resto lasci
perdere.
si sul serio. I racconti non vogliono generalizzare: le figure descritte in queste irriverenti e indignate istantanee sono la parte sbagliata, il lato B,
dell’umanità: non sono l’umanità tout court. Non c’è nemmeno un approccio nichilista: le figure “sbagliate” e inaccettabili che sono descritte assomigliano, qualche volta in maniera anche imbarazzante, a noi stessi; ma ci ricordano, attraverso una sorta di pedagogia dell’alterità, che un altro mondo è
possibile. Lo fanno passando in rassegna il lato oscuro, intollerante, ottuso e
totalitario dell’utopia: non solo dell’utopia con la U maiuscola, ma anche di
quelle mille utopie con la “u” molto minuscola che ci fanno confondere la
giustizia con il giustizialismo (Il giudicante), confondono moralità e moralismo (Lo scagliatore della prima pietra) e ci allontanano dal senso, comunque difficile, del perdono (L’inquisitore). Questi racconti ci fanno vedere il
lato opportunistico della politica (Il pisciatore controvento) e come sia facile
piegare il senso della Storia alle ragioni dell’ideologia e dell’immediata
convenienza (Lo storico).
Anche in questo caso ci permettiamo una citazione: il Dialogo fra un burocrate e un venditore di almanacchi (prima), che prende spassionatamente
in esame la differenza che c’è fra chi è convinto che il fine di
un’amministrazione pubblica sia quello di produrre utilità collettiva e chi,
invece, crede che ci si debba limitare all’ossequio della norma.
- Signor burocrate, mi scusi...
- Ho da fare, non vede?
- Sì, ma volevo solo dirle che avrei una soluzione, sa...
- Una soluzione? Non credo.
- Certo, anche semplice, se posso aggiungere.
- Adesso, guardi, no: sono oberato. Magari un’altra volta. Ma sul concetto di soluzione bisogna essere estremamente prudenti.
- In che senso, scusi?
- Nel senso che... Ma prima di tutto, l’ha messa la marca da bollo?
- Certo. Poi anche i diritti.
- Controlleremo. Ma ha usato il modulo BK 712?
- Certo: ho fatto un po’ fatica, però. Non c’era su internet...
- Se devo perdere tempo a mettere le cose su internet non mi resta più quello per
lavorare.
- Ci sarebbe una legge, se mi permette...
- Ma che cosa ne sanno quelli che fanno le leggi? Poi siamo qui noi, oberati, sovraccaricati, a vigilare sull’ortodossia, sul rispetto della virgola: che cosa ne sarebbe, senza di noi, delle virgole? Dei commi? Degli alinea? Me lo dica, che co-
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Quali conclusioni è possibile trarre? Forse ci aiuta il cenno ad una leggenda, riportata da Claudio Magris nel suo (per restare in tema) Utopia e
disincanto (Garzanti, 1999). In una commedia di Ferdinand Raimund si racconta di una fata, Lucina, che dona al protagonista, Ewald, una fiaccola. È
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Il Margine 36 (2016), n. 1-2
una luce che fa vedere la bellezza e la bontà dove ci sono miseria e abiezione; che fa vedere speranza dove c’è disperazione, gioia dove c’è dolore. Ma
Lucina svela ad Ewald il segreto di quella fiaccola, gli fa capire che quello
che vede non è reale, ma illusorio. Ci si chiede: quella fiaccola, allora, è un
inganno? La risposta ci riporta al titolo della raccolta di saggi: quella luce è
un inganno se rinunciamo a mantenere uno sguardo critico sulla realtà; ma
altrettanto sciocco sarebbe rinunciare alla tensione verso l’oltre, l’altrove,
verso un possibile infinito che non potremo mai raggiungere, ma al quale
dobbiamo tendere: «Dietro alle cose come sono – dice Magris – c’è anche
una promessa, l’esigenza di come potrebbero essere; c’è la potenzialità di
una realtà “altra”, che preme per venire alla luce, come la farfalla nel bozzolo».
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Un anno di Utopia
C
ome detto in apertura, già nel corso del mese di gennaio la casa editrice
“Il Margine” ha organizzato a Trento alcuni incontri ed eventi pubblici
sotto il segno dell’“utopia”, a cinquecento anni dal testo di Thomas More.
Dopo Benasayag e Bauman, il 22 febbraio è stato il turno di Goffredo Fofi,
Mao Valpiana e Florian Kronbichler, che hanno ricordato Alexander Langer
e le sue “utopie concrete” a 70 anni dalla nascita. Il 28 marzo, presso la
chiesa di San Lorenzo, Alex Zanotelli e Vincenzo Passerini parleranno sul
tema Il coraggio dell’utopia. I profughi, i migranti e l’ingiustizia mondiale.
Il 30 marzo, presso la chiesa di San Carlo, Francesco Comina ricorderà
L’utopia di Romero (Comina ha curato l’edizione del suo Diario).
Il 5 aprile sarà a Trento Ágnes Heller (Utopie e distopie: il vento e il vortice); il 16 aprile Massimo Recalcati, nell’ambito del weekend di “Educa”,
parlerà di L’Utopia della felicità. Il 16 aprile Renzo Fracalossi parlerà
dell’utopia della resistenza in Europa (Fra poco, tutto è finito).
A maggio, l’utopia comparirà anche al TrentinoFilmFestival; il 17 sarà
invece a Rovereto Frei Betto (L’utopia della liberazione. L’America latina
tra speranza e disillusione). Il 28 maggio Andrea Brunello metterà in scena
L’utopia di salvare la Terra (Premio nuova scena 2015).
A giugno, nei giorni in cui a Trento si tiene il Festival dell’Economia,
avremo Riccardo Petrella (L’utopia della giustizia planetaria) e Raul Zibechi (L’utopia dei beni comuni).
Andando più oltre nell’anno, il programma si fa inevitabilmente un po’
meno definito… durante l’estate speriamo però di avere in Trentino la grande Joan Baez; vorremmo poi, nel centenario della Prima Guerra Mondiale,
ricordare L’utopia dei pacifisti: resistere contro la Grande Guerra, mentre
in settembre contiamo di poter avere il presidente della Repubblica Sergio
Mattarella per un dialogo con gli studenti sul tema L’utopia della Costituzione: democrazia e partecipazione.
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Poi, l’11 settembre, avremo Gustavo Pietropolli Charmet (L’utopia di
educare tra crisi, disagio e nuove tecnologie); il 13 settembre Cecilia Strada
(L’utopia di un mondo senza guerra e di una sanità per tutti); il 25 settembre Roberta De Monticelli (Al di qua del bene e del male. Sull’esperienza di
valore). Due spettacoli che si terranno in contesto teatrale: Corrado d’Elia e
la Compagnia Teatro Libero, il 7 ottobre (Le utopie di Cirano: amore, poesia, lealtà ) e l’Orchestra Haydn il 9 ottobre (Le utopie di Don Chisciotte).
Lo stesso giorno Vito Mancuso parlerà dell’utopia dell’amore.
Si chiuderà infine a dicembre: il giorno 10 celebreremo l’anniversario
della dichiarazione dei diritti dell’uomo con un evento dal titolo L’utopia di
affermare i diritti umani (per tutti). Ma durante l’anno gli appuntamenti saranno molto più numerosi: consigliamo di tenere sott’occhio siti internet e
pagine facebook che verranno allestiti e costantemente aggiornati.
Altre novità
della casa editrice Il Margine
Florian Kronbichler, Alexander Langer il mite lottatore, 176 pp., 15 euro
Alexander Langer, sudtirolese di lingua tedesca, è nato nel 1946 nel profondo
nord di Sterzing/Vipiteno, attraverso le esperienze nella gioventù francescana e in
Lotta continua, diventa uno dei leader dei Verdi italiani. Ed europei, con l’approdo al
Parlamento di Strasburgo. Le cento battaglie di un nonviolento, la sua testimonianza
in prima linea contro la guerra di Bosnia, la scelta di stare dalla parte dei deboli sulla
scia di don Milani e padre Balducci, la sofferenza personale di fronte alle contraddizioni della politica e della storia, fino al suicidio sulle colline fiorentine, nel 1995, a
49 anni d’età. Il combattente inerme si è sentito sconfitto, impotente. Ma ha lasciato
un biglietto ai mille amici: continuate in ciò che era giusto. E lo è ancora.
Esce per la prima volta in italiano, con una nuova introduzione, il fondamentale
ritratto di Langer di Florian Kronbichler (Was gut war. Ein Alexander-Langer-Abc,
Raetia 2003). L’autore è un giornalista, e oggi deputato di Verdi-Sel, che lo conosceva molto bene. E ne racconta la storia, le idee, le vittorie e le sconfitte di uno dei
politici più anomali, geniali e amati del secondo Novecento.
Ernesto Balducci, Un’imprevedibile simpatia per il mondo. La Chiesa del
Concilio, 72 pp., 9 euro
Giusto cinquant’anni fa, un giovane irruente e già «eretico» sacerdote fiorentino
– padre Ernesto Balducci – raccontava appassionatamente agli studenti universitari
di Pisa le cose straordinarie accadute durante i lavori del Concilio Vaticano II: la
Chiesa cattolica – convocando a Roma i vescovi di tutto il mondo – aveva riscoperto
la sua universalità e aperto le porte alla cultura contemporanea. La Chiesa dei dogmi
e della tradizione manifesta per la prima volta, come dice Balducci,
«un’imprevedibile simpatia per il mondo». In poche, efficacissime pagine, il teologo
toscano racconta in presa diretta la sua esperienza di testimone del Concilio e delle
sue novità, sconvolgenti per una Chiesa fondata sull’autorità del papa e
sull’obbedienza dei laici muti.
Casa editrice Il Margine, via Taramelli 8 – 38122 Trento
tel. e fax: 0461 983368 e-mail: [email protected]
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editore della rivista:
A SS OC IA ZI O NE
OSC A R
R O ME R O
Fondata nel 1980 e già
presieduta da Agostino
Bitteleri, Vincenzo Passerini, Silvano Zucal, Paolo
Ghezzi, Paolo Faes, Alberto Conci, Piergiorgio Cattani.
Presidente: Silvano Zucal. Vicepresidente: Alberto Gazzola. Segretaria: Veronica Salvetti
I L MA R G IN E
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Fondato nel 1981 e già
diretto da Paolo Ghezzi,
Giampiero Girardi, Michele Nicoletti.
Direttore:
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Curzel. Vicedirettore:
Francesco Ghia. Responsabile a norma di
legge: Paolo Ghezzi.
Amministrazione: Pierangelo Santini. In redazione vi sono anche:
Celestina
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Paris, Silvano Zucal.
S
Altri collaboratori: Roberto Antolini, Anita Bertoldi, Dario Betti, Omar Brino, Fabio Caneri, Monica
Cianciullo, Giovanni Colombo, Francesco Comina,
Mattia Coser, Daniela
Dalmeri, Fulvio De Giorgi, Mirco Elena, Claudio
Fontanari, Eugen Galasso,
Lucia Galvagni, Giampiero Girardi, Paolo Grigolli,
Alberto Mandreoli, Paolo
Marangon, Milena Mariani, Silvio Mengotto, Giuseppe Morotti, Walter
Nardon, Michele Nicoletti,
Vincenzo Passerini, Lorenzo Perego, Stefano
Pezzè, Matteo Prodi, Emanuele Rossi, Mauro Stenico,
Urbano Tocci, Grazia Villa,
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gratuito a chi lo chiede), solo pdf euro 10,
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i stupiscono del fatto che un materiale per sua
natura così inutile come l’oro oggi sia considerato tanto prezioso che l’uomo, in virtù del quale
ha acquisito il suo gran valore, venga considerato in
verità meno prezioso dell’oro stesso, al punto che un
furbastro qualsiasi, che ha meno intelligenza di un
ciocco di legno ed è disonesto non meno che stupido,
riesce comunque ad avere al suo servizio molte persone sagge e oneste soltanto per il fatto di possedere un
gran mucchio di denaro (…) Più di tutto, però, gli
Utopiani si meravigliano – e ne condannano la follia
– di quelli che tributano onori quasi divini a dei ricconi (ai quali non devono nulla e a quali non sono
soggetti), se non fosse perché sono ricchi.
Thomas More, Utopia (1516)
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