Inoltre, il libro risulta per il lettore molto dispersivo sul filo dell
Transcript
Inoltre, il libro risulta per il lettore molto dispersivo sul filo dell
Rassegna bibliografica 89 Inoltre, il libro risulta per il lettore molto dispersivo sul filo dell’aneddotica, in virtù di un gusto del particolare erudito che è insieme forza e limite dell’opera, e diviene difficile cogliere un principio unitario che non sia il tema che schematizzando potremmo definire della « censura » o dell’« autocensura » dell’intellettuale, di un contrasto insa nabile fra libertà della cultura e intervento nella politica, fra verità culturale e ragion di partito: tema forse troppo facile e scontato, e che probabilmente risulta angusto come asse portante della ricostruzione di un intero periodo di storia culturale. Come scrive Ajello, protagonisti del suo libro non sono « quei vasti ceti di white collars che sarebbero emersi nella compagine nazionale con l’accentuato sviluppo tecnologico, l’avvento della società di massa e l’incremento della scolarità, ma una vasta e tuttavia ben individuata cour des savants di cui il partito di Togliatti amava circondarsi: autori di romanzi, di quadri, di film, di opere teatrali, di musiche, critici d’arte e di letteratura, filosofi, storici e poi, in misura minore e in ordine decrescente, sociologi, antropologi, linguisti, cultori di <scienze esatte >» (p. VI). In effetti l’azione più vistosa e ricca di risultati immediati condotta dal Pei fu rivolta in questa direzione; ma non andrebbe dimenticato che lo sforzo più importante nei tempi lunghi fu condotto su un altro terreno. Non si trova cenno nel libro, ad esempio, alla battaglia condotta dai comunisti sul terreno dell’istruzione, neanche quando si parla di Alicata che al tema dedicò particolare passione e impegno. Fra parentesi, ad Alicata Ajello dedica un ritratto fra i più rigidi del libro, mentre in genere questi piccoli « medaglioni » sono fra le cose migliori del l’opera quanto a equilibrio e capacità di sintesi (con una piccola svista a proposito di Sereni, da segnalare in un libro in genere correttamente informato: Sereni non si limitò a « pensare » a un possibile saggio sul cavallo, ma scrisse realmente e pubblicò su « Studi storici » un saggio sulla nomenclatura del cavallo). Ma, dicevamo, non si dà sufficiente spazio alla lotta di lungo periodo nel campo di una nascente cultura di massa, esistente anche se non pienamente dispiegata: l’egemonia in questo campo era democristiana, e clericale, ed è un dato che quasi sempre sfugge a una cultura « laica » che sottovaluta o ignora le dimensioni del fenomeno; la cultura cattolica è un interlocutore tradizionalmente assente nelle ricostruzioni storiche, e c’è da chiedersi quanto questo possa pregiudicare la delineazione dei tratti caratteristici del periodo. Gianpasquale Santomassimo Stampa barbagallo , Il Mattino degli Scarfoglio (1892-1928), Milano, Guanda, 1979, pp. 222, lire 8.500. Francesco « Una storia di Napoli come storia del potere a Napoli tra la fine del secolo e la definizione del regime fascista passa per le stanze del « Mattino » ancor più che per le aule delle locali assemblee elettive. Nel l’assenza di moderne organizzazioni poli tiche, nel difficoltoso emergere dei nuovi partiti di massa, un giornale poteva essere molto più che un partito, poteva rappre sentare — come il « Mattino » rappresen tò — il luogo di mediazione di complessi e mutevoli blocchi di potere, formati dall’in treccio d’interessi economico-finanziari e di rappresentanze politiche e sociali » (p. 9). Rigorosamente aderente a questa ipotesi complessiva, la narrazione di Barbagallo analizza le successive fasi e articolazioni attraverso le quali il quotidiano fondato da Edoardo Scarfoglio riesce a farsi centro aggregatore della realtà locale, ad essere « una sorta d’intellettuale collettivo del l’aristocrazia e della borghesia di Napoli e del Mezzogiorno con ampi margini d’in fluenza su vasti strati delle classi subal terne » (p. 10). La linea di fondo sulla quale si iscrive questa ambizione resta an corata alla difesa intransigente dell’ordine costituito, destinata a sua volta a sfociare — con sempre più scoperta evidenza verso la fine del periodo giolittiano -— nella celebrazione « della violenza borghese in funzione antioperaia e della ribellione su dista contro il malvolere del Nord o del governo, unici esterni responsabili delle piccole e grandi disgrazie di un meridione visto uguale e unito nella sventura, ma tenuto saldamente diviso — per classi so ciali e confini territoriali •— nel fluire 90 Rassegna bibliografica delle sue quotidiane vicende » (p. 129). Si tratta tuttavia di un approdo alimentato da continue variazioni tattiche e complesse dosature di fattori. L’insistenza con la quale Barbagallo rinvia alla « disgregazione me ridionale » e al « disfacimento napoletano » denuncia infatti l’impossibilità, per il gior nale, di mantenere referenti sociali e po litici uniformi. Partito in appoggio a Giolitti (e particolarmente significativa è, in questa fase, la collaborazione di Nitti) il « Mattino » rifluisce ben presto nel « più congeniale terreno crispino sul quale si man terrà sino alla morte dello statista siciliano coltivando soprattutto il vincolo che scatu risce dalla comune prospettiva africana (pp. 37-38). Ma all’inizio del secolo i le gami con la grande proprietà terriera si allentano e il giornale tende piuttosto ad assumere la rappresentanza dei « gruppi finanziari napoletani che vanno riorganiz zandosi e ristrutturandosi in connessione con la legge speciale per l’incremento in dustriale » e di fronte alla quale il « Mat tino », in polemica con le tesi nittiane, punta piuttosto sull’agricoltura specializzata e sullo sviluppo dell’industria alimentare (pp. 92-93). Collocandosi su tale sfondo il riaccostamento a Giolitti assume pertanto, ancora una volta, un connotato essenzial mente tattico, destinato a sgretolarsi non appena la reazione borghese — che il quo tidiano napoletano per tanti versi antici pa — volge decisamente le spalle alla pra tica della « mediazione interclassista » per abbracciare quella dell’azione diretta. I fer menti nazionalistici e imperialistici si sal dano allora alla rivendicazione integrale del privatismo economico e Salandra assur ge a campione dell’ultima stagione del « Mattino » liberale. In essa sono anche prefigurati natura e limiti del conflitto con il nuovo potere fascista, conflitto che non pone certo in discussione la legittimità e necessità del nuovo regime, ma risponde all’esigenza di tutelare, insieme con « l’auto nomia delle tradizionali forme di organiz zazione politica del conservatorismo meri dionale » (p. 178), le ragioni stesse di vita del giornale. L’impossibilità di mantenere « rincontro tra fascismo e mezzogiorno... nei termini degli accordi tradizionali tra il governo centrale e il sistema di potere meridionale » (p. 186) segna così la fine del « Mattino » degli Scarfoglio. Sull’asse centrale del discorso, che abbia mo sin qui riepilogato, vengono via via innestandosi le peculiarità più propriamente giornalistiche del « Mattino », dal suo svi luppo editoriale (dalle 13.000 copie iniziali alle quasi 70.000 del 1905), all’avventuri smo ideologico di Edoardo Scarfoglio (tanto prodigo nell’alimentare l’immagine di sé come personaggio dannunziano quanto attento alla gestione, inestricabilmente in trecciata, degli affari propri e di quelli del giornale), alle cronache mondane di Matilde Serao (ferree custodi della superiore vocazione etica nelle classi alte). Ne esce un quadro complessivo che dà ragione del ruolo non episodico, ma strutturale svolto dal quotidiano napoletano rispetto ai modi di organizzazione dei ceti politici dominanti in età liberale. L’ampiezza e il rilievo del retroterra meridionale al quale il « Mat tino » attinge, spingono quest’ultimo ben al di là dei confini dei fogli legati alla fluida realtà delle clientele politiche, lo trasformano in sede permanente di media zione e dunque di espressione delle con tese in atto tra i gruppi di potere. L’incontro-scontro tra il fascismo trionfante appare perciò doppiamente esemplare del rifiuto almeno iniziale che la conservazione meridionale compie di difendere la propria integrità oligarchica non solo dalle orga nizzazioni operaie e contadine, ma anche — come osserva Barbagallo — dalla « sca lata al potere dei minuti borghesi venuti da diverse sponde al fascismo col sano intento di accoppiare all’attività politica l’avanza mento economico e sociale (p. 198). Certo, la vicenda del « Mattino » converge qui su temi generali che soli possono illuminarne i significati non contingenti. Allo stesso modo nel quale una analisi dall’interno delle pagine del « Mattino » — di necessità qui solo accennata — darebbe nuovo spes sore all’indagine sugli strumenti culturali attraverso i quali la possidenza meridionale vive la propria esperienza di profittatrice estraniata dello stato unitario. Merito in dubbio del volume di Barbagallo è quello di aver fissato le coordinate di base di tale problematica, aprendo la strada ad ulteriori prospettive di ricerca. Massimo Legnani Giu s e p p e talamo , Il Messaggero e la sua città, voi. I, 1878-1918, Firenze, Le Monnier, 1979, pp. X-326, lire 10.000. Studioso dell’Italia risorgimentale e unita ria, Talamo costruisce questa prima parte della storia del « Messaggero » sul propo Rassegna bibliografica sito di verificare in qual misura il quoti diano romano abbia realizzato, nei primi decenni di vita, il programma iniziale di «diventare un giornale per tutti». Si trat ta, occorre sottolinearlo, di un’ambizione per nulla comune al giornalismo italiano del tempo, assai più agevolmente classifi cabile per filiazione diretta dai leaders e dalle clientele politiche (e spesso, nel caso della capitale, dal sottobosco parlamentare) che non per la capacità di dar voce ad una moderna informazione. La ristrettezza del mercato dei lettori ed i toni bassi della vita civile rappresentano gli aspetti com plementari dei condizionamenti negativi. Perciò l’esperimento del « Messaggero » in contra il suo primo banco di prova nella ricerca di un pubblico nuovo, un pubblico che possa, al tempo stesso, servirsi delle notizie che il giornale gli fornisce ed essere stimolato da curiosità che travalichino l’am bito più immediato delle esperienze quoti diane. Sviluppo della cronaca cittadina con l’occhio all’esempio illustre del milanese « Il Secolo », attenzione a quanto della cronaca si presta all’amplificazione dram matica o melodrammatica (di qui, fatto largamente nuovo, i minuti resoconti dei più clamorosi fatti giudiziari), tentativo di interpretare il giudizio dei propri lettori sui grandi problemi. Questo schema — im perniato sul ruolo determinante che, sino alle soglie del Novecento, esercita il fon datore, proprietario e direttore Luigi Cesana — è anche il veicolo dell’ideologia che il « Messaggero » elabora e diffonde. Ra pidamente il giornale entra in sintonia con quei ceti medi burocratici, artigiani e del piccolo commercio che rappresentano la componente in costante ascesa della popo lazione romana post-unitaria. Tra non po che oscillazioni e incongruenze, si precisa, annota Talamo, il volto di « un quotidiano non ministeriale, marcatamente laico e an ticlericale, contrario alle spese facili, sem pre pronto a sostenere le economie più rigide, preoccupato di raggiungere un vero pareggio del bilancio e di assicurare la tranquillità ai contribuenti » (p. 47). Attra verso un approccio fondamentalmente mo derato e legalitario, filtrano problematiche che, per quanto inquinate dal ricorso co stante al « moralismo spicciolo » e al « po pulismo fatto di buone intenzioni » (p. VI), denotano pur sempre una volontà di infor mazione larga e non sorda alla precetti stica democratica: dal sovversivismo socia lista condannato, ma anche interpretato 91 come sbocco della miseria e delle ingiu stizie (di qui l’attenzione alla legislazione sociale, p. 134, e la « comprensione » verso gli scioperi economici, soprattutto nelle campagne, p. 127 sgg.) ai diritti civili (amministrazione della giustizia, p. 174 sgg., reciso atteggiamento divorzista, p. 53), al rifiuto delle avventure coloniali, pp. 207208. Non è tuttavia una linea uniforme e conclusa. Il tentativo di indicare obiettivi di progresso sociale è subalterno non solo alla concezione paternalistica che lo guida, ma anche all’inasprimento di quella vena antiparlamentare che è un tratto distintivo centrale di gran parte della stampa italiana dell’epoca e che nel « Messaggero » si ca rica di rifiuti espliciti della politica. La diffusione conosce, in questo periodo, una costante accelerazione. Negli anni novanta, il Messaggero raggiunge le 45.000 copie, collocandosi con « La Tribuna » e « Il po polo romano » tra i quotidiani più venduti nella capitale. Il quadro muta progressivamente con il nuovo secolo. Il distacco di Cesana dalla direzione coincide con il moltiplicarsi di collaborazioni che modificano l’immagine del giornale in senso « colonialista, antiso cialista, nazionalista » (p. 255). Ma qui, come è evidente, la congiuntura del « Mes saggero » confluisce esemplarmente nella generale svolta della stampa italiana verso un più sistematico assoggettamento ai po tentati economici. Nel rimescolamento di carte portato a termine dalla crisi dell’in tervento, il quotidiano romano passa dap prima nelle mani di un gruppo già pro prietario del « Secolo » e poi, verso la fine della guerra, direttamente nell’orbita dell’Ansaldo dei fratelli Perrone. Talamo segue l’intera parabola intreccian do i dati della lettura interna e di quella esterna del giornale, dando conto, alterna tamente, dei mutamenti editoriali e reda zionali e delle sollecitazioni ambientali. La fusione tra i due livelli è tuttavia più postulata che interpretata. Così il processo di simbiosi tra l’ideologia del « Messagge ro » e la terziarizzazione della società ro mana, se appare sufficientemente analizzato nella fase di affermazione del quotidiano, sfuma nel passaggio al Novecento, proprio laddove riuscirebbe illuminante cogliere le radici della disponibilità di questi strati verso la spinta nazionalista, antisocialista e antidemocratica. Massimo Legnani 92 Rassegna bibliografica m alatesta , II Resto del Carlino. Potere politico ed economico a Bologna dal 1885 al 1922, Milano, Guanda, 1978, m aria pp. 350, lire 7.000. « Non un solo Carlino » -—• chiarisce Ma ria Malatesta nella premessa — « ma due giornali distinti, con due storie differenti ». La prima appartiene al « Carlino » demo cratico, nato per combattere il trasformismo depretisiano (pp. 35 e 40), per affermare che l’antidoto alle agitazioni agrarie non va ricercato nelle « manette » ma nella ri mozione della miseria (p. 19), per cele brare le ragioni delPanticlericalismo (p. 41); la seconda al « Carlino » liberale, dal 1909 espressione diretta dell’agraria, critico sem pre più acerbo del governo giolittiano (pp. 233 sgg.), incline a sfruttare la scia nazio nalista per sbarrare la via al socialismo (p. 277), interventista ed espansionista di fronte alla « grande guerra » (pp. 299-300 e 308-309). Misurata sulle scadenze topiche dell’Italia liberale, la parabola del quoti diano bolognese può così apparire — a cominciare dalla successione stessa tra fase progressiva e fase conservatrice — facil mente decifrabile. Le rispondenze con il quadro nazionale si spiegano da sé sole, secondo una meccanica di parallelismi che la storia politica non sembra facilmente disposta a rimettere in discussione. In realtà la situazione è diversa e più complessa e la struttura del libro la riflette in modo organico e persuasivo. E questo non solo perché essa aderisce alla convinzione ormai diffusa che il giornalismo liberale supplisce all’assenza di una salda organizzazione par titica dell’opinione costituzionale (e va quin di letto e in questa dimensione interpre tato), ma per il fatto che l’indagine della realtà locale è spinta ben oltre l’immediato retroterra del giornale. Sotto tale profilo la vicenda del « Carlino » democratico si condensa nel « fallimento dell’ipotesi ra dicale della creazione di una terza forza situata tra socialisti e conservatori » (p. 187), giudizio che consente di intendere l’evolu zione spesso tortuosa dei pronunciamenti politici che affiorano dalle pagine del quo tidiano. Così l’acceso antitrasformismo dei primi anni può sposarsi al successivo filocrispismo, l’attenzione alla questione sociale e la battaglia contro il blocco moderato e poi clerico-moderato locale alla sostanziale accettazione dell’espansionismo coloniale, l’approvazione della repressione governativa nel ’98 all’adesione alla svolta impressa dal ministero Zanardelli-Giolitti. Sono oscilla zioni che, al di là dei motivi più strettamente contingenti, rimandano ad una so stanziale omogeneità di fondo, al progetto appunto di dar forza e continuità ad una linea di « radicalismo legalitario ». L’analisi del ruolo dei socialisti sta permanentemente al centro del disegno, sia per il riconosci mento, già ricordato, che le lotte agrarie vantano una radice nei rapporti economici non sradicabile senza concessioni e riforme (si vedano, ad es., le pp. 75-76), sia, soprat tutto, perché la dirigenza socialista è vista come strumento indispensabile per tenere a freno il sovversivismo della sua base so ciale (pp. 136-137). L’obiettivo ultimo, s’in tende, sta « nell’alleanza tra capitale e la voro attraverso l’opera concorde di tutte le classi » (p. 69) e le ripercussioni dei mu tamenti di fotta del Psi sono tanto più rilevanti quanto più allontanano questa pro spettiva. In tale contesto il filogiolittismo dei primi anni del secolo vorrebbe rappre sentare la contrassicurazione del progres sismo liberale verso la collaborazione con il riformismo socialista, ma nella realtà esso non occulta l’assenza di nuclei borghesi realmente disponibili per simile politica. Il giornale si riduce pertanto ad una sede di mediazione sempre più fragile e incerta di sé. « Il mito del <Carlino > democratico [...] si infrange — commenta Malatesta — [...] di fronte ad un esame approfondito della sua linea, che vada oltre le sue fre quenti dichiarazioni di umanitarismo e di solidarietà nei confronti delle classi lavo ratrici. Il radicalizzarsi delle lotte nelle campagne agiva da cartina di tornasole per i contenuti apparentemente progressisti del giornale, la cui unica preoccupazione con sisteva nel non veder turbato alle radici quell’assetto politico-sociale nel quale si ri conosceva » (p. 148). Il giudizio va forse oltre il segno degli obiettivi riscontri che il libro offre, ma è fuor di dubbio che il trapasso del « Car lino » all’agraria sia scandito da un nuovo e diverso corso della lotta sociale nella città e nella regione. Come si legge più oltre: « soprattutto nella provincia di Bo logna il monopolio esercitato dagli agrari in gran parte dei settori industriali, com merciali e finanziari aveva impedito lo svi luppo autonomo di una borghesia impren ditoriale e progressista, che avrebbe potuto costituire la base socio-economica per la realizzazione di un progetto politico di tipo radicale » (p. 187). Rassegna bibliografica Il « Carlino » agrario, lungi dall’essere frut to di un colpo di mano, rappresenta per tanto l’adeguamento dell’assetto editoriale al nuovo clima di riscossa borghese. Quali siano i presupposti e gli obiettivi di tale riscossa è indagato in una ampia e densa «digressione» (pp. 191-231), un libro nel libro, tesa a ripercorrere lo sviluppo dei rapporti interni allo schieramento padronale dalla metà dell’Ottocento. La scomposizione e la ricomposizione degli equilibri tra pro prietà fondiaria e grande affittanza, il ruolo declinante della mezzadria e l’estendersi dell’area bracciantile sono collocati sullo sfondo dell’avanzante capitalismo agrario, pronti a riflettersi sul quadro delle relazioni politiche, ora privilegiando comportamenti e alleanze tradizionali ora, via via che si inaspriscono le lotte sulla terra, dando vita a contestazioni che investono il cuore stesso dello stato liberale. È un discorso larga mente autonomo rispetto alla storia del giornale e che ci consente di comprendere ancor meglio le tortuosità e l’aggressività del « Carlino » liberale, stretto nelle maglie di un ordinamento politico nel quale nono stante tutto continua a riconoscersi e l’im periosa proposizione di interessi di classe alla ricerca di nuovi strumenti di afferma zione. Di qui una serie di contraddizioni che sono interne allo schieramento padronale: « la spaccatura esistente tra il progetto di una grande politica agraria accarezzato dai vertici delle organizzazioni e le richieste della base, che al momento dell’intensificarsi della conflittualità rigettava i discorsi sull’autonomia padronale per appellarsi al governo nei riguardi del quale, pure, nu triva un’invincibile ostilità, rendeva estre mamente ardua la costituzione di un nuovo volto della classe agraria » (p. 259). Certo non tutto è meccanicamente rapportabile, ne l’autore lo suggerisce a questo schema interpretativo, sia perché sostanziali modi ficazioni sono prodotte dall’entrata in scena di nuovi progetti economici (prima fra tutti l’industria saccarifera), sia per il ruolo gio cato da singole individualità. Si vedano in proposito la direzione ad impronta forte mente personale di Mario Missiroli, l’av venturismo di Filippo Naldi nella crisi del l’intervento, la breve stagione nittiana nel l’immediato dopogeurra, la precoce caduta del « Carlino » — primo fra i grandi quo tidiani — in mani fasciste. Ma il centro dell’analisi appare di fatto esaurito alla vi gilia della guerra; ciò che segue è piuttosto l’avvio ad una fase nuova per la cui intelli 93 genza va chiamato in causa, al di là dello stesso fascismo, l’intero corso degli anni venti. Massimo Legnani anna folli (a cura di), Vent’anni di cultura ferrarese: 1925-1945. I, Antologia del « Cor riere Padano », II. Cinque interviste. La ricerca della libertà, Bologna, Patron, 1978, 1980, pp. LII-255 + 395, lire 7.000 + 10.000. L’antologia di Anna Folli, docente di let teratura italiana presso l’università di Fer rara, offre una ricca documentazione della terza pagina del « Corriere Padano », quo tidiano fondato da Italo Balbo, nell’aprile 1925, con il finanziamento degli agrari. Il dibattito culturale, che in essa si sviluppò, non era estraneo dall’influenza diretta delle riviste « Soiaria » e « Letteratura », nonché dai fermenti europei e americani. Infatti sulla scia di « Soiaria », veniva riscoperto Tozzi; si riportavano novelle di Proust, Th. Mann, Joyce, Di Giacomo; si rendeva Omaggio a Saba e Svevo, e veniva recensito anche Moravia. All’inizio degli anni trenta, il riferimento a « Soiaria », sempre costante, portava a conoscere Majakowskij; nel con tempo comparivano i nomi « nuovi » della novellistica (Delfini, Piero ed Emilio Gad da), del romanzo (Vittorini), della poesia (Quasimodo e Ungaretti). L’attenta scelta dei brani da parte dell’A. segue la discussione sulla questione del ro manzo, protrattasi per anni e su vari piani (polemica fra rondismo e neorealismo e poi realismo, fra romanzo collettivo e romanzo integrale), e la controversia fra i fautori della poesia pura e i difensori della poesia di contenuto. A sostegno delle proprie tesi, i vari critici portavano altri nomi più o meno nuovi, fra cui Dos Passos, Huxley, Lawrence, Soldati, Kafka, e poi Bertolucci, Montale. Contemporaneamente la cinema tografia si affermava come « arte autono ma » e accanto alla critica cinematografica si affiancava quella teatrale. Bassani, Antonioni, Caretti, Aristarco, Susini, De Pisis, Visconti, Dessi, sono solo alcuni dei mol tissimi altri collaboratori che contribuirono a mantenere vivace ed elevato il tono del dibattito culturale del quotidiano, che si venne pertanto a porre come un punto di riferimento nazionale. A partire dagli anni quaranta questo pano rama culturale si impoveriva: infatti veni vano a mancare i contributi di coloro che, 94 Rassegna bibliografica acquistando consapevolezza politica, aveva no effettuato la scelta per la «libertà». La terza pagina cessava così di esercitare quella funzione stimolante che era stata la sua fondamentale caratteristica per molti anni. Anzi, si poneva in risalto la man canza di impegno degli intellettuali nei con fronti della guerra e, in particolare, la loro assenza «dal fronte del pensiero» (p. 316, II); per di più si proponeva l’immagine di un Pascoli eroico « contro la politica dei rinunciatari» (p. 319, II) e di Dante «pa dre della nazione » (p. 324, II). Ormai la terza pagina veniva riassorbita nelle istanze del periodico che — non bisogna dimenti care — aveva svolto un ruolo di primo piano nell’organizzazione del consenso. In effetti, anche la vitalità della terza pagina, grazie alla direzione abile di Nello Quilici, rientrava sempre in quella politica fascista di legare a sé vasti strati della popolazione e, per quanto riguarda il caso specifico, le nuove generazioni. Assai interessanti sono le cinque interviste che si trovano nell’ultima parte del secondo volume e rilasciate recentemente da An tonioni, Aristarco, Bassani, Caretti e Va rese; inoltre, molto efficaci risultano la pun tuale introduzione e la ricca bibliografia. Luisa Moreschi g uido gonella , Verso la 2a guerra m on diale. Cronache politiche 1933-1940, a cura di Francesco Malgeri, prefazione di G. De Rosa, Bari, Laterza, 1979, pp. 548, lire 19.000. La raccolta di 150 articoli fra i 1076 scritti da Gonella per la rubrica dell’« Osserva tore Romano » A cta Diurna sui problemi internazionali, offre uno stimolante mate riale di riflessione relativo a una proble matica — i cattolici e la politica interna zionale — scarsamente studiata dagli sto rici del movimento cattolico. Tale mate riale risulta tanto più interessante ove si consideri il nome, fin troppo noto, del commentatore di politica internazionale e la sede in cui tali commenti erano pubblicati. Guido Gonella, formatosi negli anni del fascismo all’Università Cattolica di Milano, apparteneva per ispirazione ideale e posi zioni politiche a quel nutrito manipolo di giovani intellettuali cattolici che sotto la guida di I. Righetti aveva costituito il gruppo dirigente della Fuci e dei Laureati cattolici, raggruppandosi intorno alle ri viste « Studium » e «Azione Fucina», le cui posizioni di moderato dissenso dalla politica del regime si differenziavano dal l’aperto filo-fascismo degli ambienti della Cattolica, pur nel quadro di una provata fedeltà alle gerarchie ecclesiastiche. La scelta di Gonella — caldeggiata partico larmente da G.B. Montini — quale colla boratore dell’organo vaticano, mentre non contraddiceva il silenzio o l’avallo ufficioso offerto dalla Santa Sede all’oltranzismo fa scista del gruppo milanese — che poteva essere utile alla distensione dei rapporti fra chiesa e fascismo —, consentiva di esprimere una posizione ufficiale moderata e di prudente distacco dalle iniziative in ternazionali più compromettenti intraprese dal regime. Il filo conduttore di queste cronache inter nazionali, scritte nel periodo ’33-’40, si può facilmente identificare con il fermo e pre giudiziale anticomunismo che emerge dalla gran parte degli articoli, compresi quelli non direttamente riguardanti la politica so vietica. Gli insulti, le invettive contro l’URSS e i suoi rappresentanti politici e di plomatici contrastano singolarmente con il tono pacato, anche se preoccupato, con cui erano trattati avvenimenti quali l’ag gressione italiana all’Etiopia e gli attacchi nazisti contro Austria, Cecoslovacchia e Polonia. Il dissenso dalla politica del re gime era sempre espresso nelle deboli forme di sottintesi, di critiche velate, tal volta in codice, a mezzo di ampie citazioni dalla stampa inglese, mai tradotto in de cise prese di distanza, neppure dopo il 1938, quando sempre più frequenti appari vano le puntate contro il vitalismo (p. 453) e il culto statolatrico della « ragion di Stato » (p. 452). Era l’anticomunismo a do minare anche nelle posizioni che gli A cta Diurna, sotto le scaltre forme della cro naca, andavano assumendo sulle vicende della guerra civile spagnola, tanto da pro vocare interventi critici di Sturzo che con statava « una certa parzialità politica nel l’informazione sulla guerra civile spagnola e sulle vicende interne dell’Unione Sovie tica » (p. XI, n. 9). Il criterio delle « due misure » adottato da Gonella si può anche cogliere nella assoluta mancanza di articoli dedicati alla politica interna del regime fa scista, in contrasto con il considerevole numero di interventi relativi alla situa zione interna dell’URSS, della Spagna e di altri paesi e nonostante egli considerasse «la politica interna... il vero problema» e gli « atteggiamenti esterni » non altro che Rassegna bibliografica dei « diversivi » (p. 74). Per queste ragioni ci sembra difficile poter parlare — con De Rosa — di un antifascismo degli Acta Diurna, le cui posizioni si collocavano piut tosto « all’interno del mondo del consenso alla politica di Mussolini » (p. XIII) e il cui ideale di politica estera era molto vicino a quella politica di appeasement perseguita da Chamberlain, con le connesse aspira zioni ad una pacificazione dell’occidente in funzione antisovietica, che servisse a di fendere la civiltà cristiana dalla barbarie comunista. Era un ideale su cui potevano convergere consistenti settori interni al re gime, soprattutto quelli provenienti — co me scrive De Rosa — dagli « ambienti moderati, cattolici e non cattolici, che an davano dal mondo della diplomazia contariniana al fascismo più temperato, filo-in glese, al medio ceto intellettuale » (p. XI). Tutto ciò, mentre confermava la fondatezza delle osservazioni mosse da Sturzo, eviden ziava altresì la distanza che ormai divideva la generazione dei più anziani « popolari », che avevano scelto la via dell’esilio, dalla più giovane generazione dei Gonella, for matasi negli anni del fascismo all’ombra della Santa Sede, la quale attraverso una politica di intervento nella società civile nelle favorevoli condizioni sancite dal Con cordato, mirava alla formazione di una classe dirigente laica capace di assumere in un futuro non troppo lontano responsa bilità di direzione. L’interesse e lo studio dei problemi inter nazionali — condivisi da diversi altri futuri dirigenti della DC e dallo stesso De Gasperi che proprio negli anni ’33-’38 curerà la rubrica La quindicina internazionale sul1’« Illustrazione Vaticana » — era parte di un più generale interesse per tali questioni sviluppatosi in Italia e all’estero. Lo stesso linguaggio usato da Gonella era per molti versi nuovo rispetto a quello tradizional mente adottato dalla più vecchia genera zione di intellettuali cattolici. Esso faceva propria molta parte di quella terminologia tecnica, di quel «gergo esoterico» (p. Ili) che il collaboratore dell’organo vaticano aveva giudicato quale tratto distintivo del giornalismo e della diplomazia contempora nei. Più moderni erano indubbiamente la capacità di interpretazione di fatti e docu menti diplomatici, la lucida consapevolezza dell’importanza acquistata dai fattori psico logici nelle relazione tra gli stati, la com prensione dei mutamenti delle forme e della mentalità diplomatiche, il distacco 95 adottato nella valutazione del gioco delle forze sullo scacchiere internazionale. Come queste aperture alle nuove forme di cultura politica ed economica intereagissero con il tenace anticomunismo — che ne costituiva il limite principale —, quali fossero i debiti contratti con tutta la cul tura politica più compromessa col regime, quale il loro peso specifico nelle scelte di politica estera operate da questa classe di rigente cattolica nel secondo dopoguerra, rimangono problemi aperti al cui studio questa raccolta di articoli offre un inte ressante contributo documentario. Angelo Montenegro Claudia p a t u z z i , Mondadori, Napoli, Liguori, 1978, pp. 164, lire 3500. Si parla tanto di « spie », di storia « per indizi », di « microstoria ». Molti nuovi Sherlock Holmes della ricerca storiografica hanno puntato le loro investigazioni sul regime fascista, sulla società di massa ne gli anni trenta, sul « consenso », in una nuova ondata di produzione editoriale sulle istituzioni fasciste. Proprio alle « istituzioni culturali » si rivolge la collana della Liguori diretta da Giuliano Manacorda che ha dato il via a un piano di ricerca sor retto da un’ipotesi precisa: colmare quei vuoti, quelle mancanze, quei « rimossi » più volte segnalati dalla più giovane gene razione di storiografi e non solo da essa (penso a un Garin). Il piano è potenzial mente fervido di indicazioni e ben conge gnato a tavolino: l’accademia d’Italia, l’En ciclopedia Treccani, la censura, i Littoriali, le case editrici, la stampa, le politiche cul turali, tutti « casi » che gli studiosi più aggiornati (i Turi, gli Isnenghi, le Mangoni, i Castronovo) hanno già individuato teori camente come sintomi del modo di essere del fascismo e che meritano, dopo tante ipotesi di ricerca, sempre solo abbozzate, dati finalmente concreti e analisi appro fondite. Ci pare, però, che i risultati dell’opera zione deludano un po’ le aspettative; le ricerche pubblicate, in linea di massima, risentono di certa ossessione del « dato »; le informazioni si perdono, a volte, nelle microstorie della cronaca capillare, della ricostruzione minuziosa, tutti « indizi » che non portano mai alla scoperta del « col pevole», che non arrivano mai a fornire una chiave interpretativa, a livello di « ma 96 Rassegna bibliografica crostoria », dei problemi nodali, delle que stioni irrisolte. Insomma, affiorano dei dati, vengono in superfìcie dei reperti; i grandi rimossi restano. Questo sia detto senza nulla togliere alle buone intenzioni e al volonteroso sforzo di indagine condotto da Lazzari, Cesari, dalla Ferrarotto, dalla Patuzzi. Prendiamo il libro di quest’ultima su Mon dadori, un libro pieno di dati ed anche di suggestioni interessanti: la leggenda di un self mode man, Arnoldo Mondadori, ex garzone e buttafuori, tipografo che diventa editore, con la dichiarata ambizione di « ingoiare » la casa Treves, di puntare alla grande industria culturale allora nascente in Italia; una vicenda che passa attraverso il rapporto col fascismo, attraverso il do poguerra, sino ai nostri giorni; attorno a cui ruota gran parte della cultura italiana da un sessantennio. Una vicenda che ha anche le sue sfumature psicanalitiche, co me quella del rapporto tra Arnoldo e Al berto Mondadori, un rapporto di incontroscontro, di amore-odio da cui traspaiono non solo gli edipi personali ma anche più vasti conflitti tra due generazioni, tra due politiche editoriali, tra due ruoli stessi del l’operatore di cultura. Da una parte l’ar tigiano Arnoldo, con le sue sane origini della provincia mantovana, con le sue col lane economiche, i suoi periodici popolari, i suoi fumetti; dall’altra il borghese intel lettuale Alberto, cineasta, poeta, editore raffinato convinto della necessità di una avanguardia colta dell’editoria, tesa più alla qualità che alla « resa » dei prodotti. Il ca pitolo su Alberto Mondadori è forse il più interessante in assoluto del libro: i suoi entusiastici bisogni di fare politica (dal gio vanile quasi filonazismo all’adesione al Pei, poco prima della morte), il suo approccio con la cultura militante (la rivista giovanile «Camminare», il film fatto con Lattuada, l’iniziativa del « Saggiatore » ecc.), la sua tormentata ricerca intellettuale. Si potreb be dire che Alberto Mondadori renda lam panti nel dopoguerra le contraddizioni la tenti nell’industria culturale durante il fa scismo, stretta tra i due poli del consenso e del dissenso. Purtroppo, questo clima contraddittorio de gli anni del regime è messo in secondo piano dalla Patuzzi; il regime come pro blema storiografico avrebbe meritato mag giore spazio, e un discorso sull’editoria avrebbe potuto essere un’occasione per co gliere alcuni nodi significativi della politica culturale di quegli anni. La linea di ricerca, invece (alla maniera di Isnenghi ma senza quelle intuizioni sul ruolo dell’intellettuale organico al regime, « militante » e/o « fun zionario ») è tutta interna al soggetto in dagato, col rischio di fare una cronaca di realizzazioni mondadoriane, dal « Luce! » dei primi anni del secolo agli audiolibri degli ultimi anni settanta, da D’Annunzio a Frutterò & Lucentini. Vito Zagarrio g e n t il i , Giuseppe Bottai e la riforma fascista della scuola, Firenze, La Nuova Italia, 1979, pp. 218, lire 4500. Rino Giuseppe Bottai non si sarebbe certo aspet tato di diventare un personaggio così im portante per i consumatori di miti cultu rali degli anni settanta e ottanta. La sco perta dei chiaroscuri bottaiani rispetto allo sfondo, spesso piatto, del fascismo, ha fatto letteralmente esplodere una saggistica e una pubblicistica a lui dedicata: Giordano Bruno Guerri, con la sua fortunata ma discutibile formula di Bottai « fascista cri tico », l’americano Alexandre De Grand e Anna Panicali (da anni al lavoro sulla macchina culturale fascista) sono con i loro rispettivi volumi i più recenti investigatori di Bottai, nei suoi molteplici aspetti: come fascista revisionista, come capo carismatico delle giovani leve, come punto di riferi mento della fronda, come interprete del corporativismo di sinistra, come mana ger, come « programmatore » e grande burocrate, come ministro delle Corpora zioni. A questi studi si aggiunge il libro di Gen tili, dedicato al Bottai ministro dell’Edu cazione Nazionale, e in particolare alla fase costituente della famosa « carta della scuo la ». Essa fu, con l’altra, più famosa, « car ta del lavoro », uno dei più impegnativi « manifesti » di intervento nel campo del l’ideologia e della cultura. Approvata nel ’39, la « riforma della riforma Gentile », come la chiama l’autore, avviene a ridosso degli eventi bellici, che ne condizionano l’entrata in funzione, e a spalla delle leggi razziali, della romanità esasperata, dell’im perialismo fascista all’ultimo atto, elementi tutti che influiscono sulla sua genesi. Il puntuale lavoro del Gentili ricostruisce le varie fasi della riforma, le varie com ponenti che ne caratterizzarono lo sviluppo, Rassegna bibliografica i vari campi del suo, reale o presunto, sforzo innovativo. Il tema di fondo è la « mobilitazione » della scuola, che diventa uno dei maggiori momenti di organizza zione del consenso; un consenso, però, della crisi, alla maniera della « concordia » di «Primato», un’adesione al regime e un suo puntellamento nel momento dell’im pegno bellico. In questa prospettiva di crisi (e di ripiegamenti personali dell’uomo Bot tai) si colloca poi il progetto di sempre, il leit motiv degli anni trenta: la forma zione dei quadri, la costituzione di una nuova classe dirigente, il rinnovamento del lo Stato. Nella scuola dovrebbero saldarsi il piano di Stato bottaiano e l’etica dello Stato di Gentile, padre della prima riforma. Il quale Gentile, soccombente ormai da vanti al montare della cultura cattolica e all’imperare dei nuovi managers, vede mo rire la sua creazione con emozioni contra stanti, dall’assenso al sospetto (si veda il tono di questa lettera del ’35, all’inizio del dicastero bottaiano, rintracciata dal Gentili nell’archivio privato Codignola: « comincio ad avere qualche preoccupazione pel nuovo ministro che è in buona fede, ma coglione e fanatico: testa dura. Prevenuto contro di me e contro la mia creatura »). Gentile, appunto, e la chiesa sono con Bottai i vertici del triangolo in cui si gioca il dibat tito sulla rifondazione della scuola in Italia; attualismo in crisi, cattolicesimo in ascesa e prassi del gruppo dirigente del partito usano la scuola come cartina di torna sole di un sottile braccio di ferro che av viene in tutti i campi della politica cul turale. Il dibattito pedagogico di quegli anni, dun que, emerge chiaramente dalla ricerca di questo libro (pubblicato, non a caso, dalla Nuova Italia che ebbe in Ernesto Codi gnola il più significativo interprete di quel dibattito, divenuto poi un tradizionale cam po di intervento della casa editrice): il te ma della scuola è un’occasione per idealisti, cattolici, bottaiani, per fare passare inter pretazioni diverse del ruolo della famiglia, dell’individuo, dello Stato. È una sorta di riflessione sul futuro della società fascista, a partire dal suo momento di formazione e di educazione. Nel campo scolastico, insomma, si misu rano le correnti di pensiero, gli schieramenti, le alleanze che si muoveano dietro l’apparente compattezza del regime. Il me rito di Gentili (al di là di certa eccessiva specificità e settorialità della ricerca) è 97 quello di collegare chiaramente un « caso » politico culturale al problema della etero genea composizione del regime e al pro blema più generale della sua crisi. Vito Zagarrio Lettere a Soiaria, a cura di Giuliano Ma nacorda, Editori Riuniti, Roma 1979, pp. LI 1-620, lire 16.000. « Nell’archivio di casa Carocci, custodito oggi a Roma dalla signora Èva, si trovano, ordinate in cartelle anno per anno, alcune migliaia di lettere, cartoline, telegrammi, biglietti, ricevute vaglia, stampe, volantini, ecc. che vanno dal 1926 al 1942 coprendo l’intera attività di Carocci come direttore di Soiaria, La Riforma letteraria e Argo menti [...] Di tutto questo materiale si pubblicano qui 852 pezzi »: così Giuliano Manacorda presenta questo carteggio, che si apre in tono brioso con una lettera di Raffaello Franchi datata 9 ottobre 1926 (la documentazione relativa ai mesi ini ziali di « Soiaria » è andata smarrita) e si chiude con un’amara missiva vergata il 5 settembre 1936 da Cesare Pavese, « di soccupatissimo » nel confino di Brancaleone Calabro e avvilito per lo scarso favore incontrato dall’edizione solariana di Lavo rare stanca. I criteri seguiti nella selezione del materiale (che giunge a noi integrato da note e risconti puntualissimi, e intro dotto da un saggio critico che fa giustizia di molti luoghi comuni, ricco com’è di ri lievi complessivi sostenuti da precise osser vazioni analitiche) vengono limpidamente riassunti dal curatore. Questi ha privile giato gli scritti in grado di rendere il sa pore dell’età, il clima di lavoro e il signi ficato storico-culturale della fitta rete di relazioni che si venne formando attorno alla rivista, ritagliando all’interno delle lettere i passi più notevoli nei casi in cui ciò era opportuno e fattibile senza travi sare il testo. Ha inoltre conservato il mas simo possibile degli scrittori e dei critici più importanti: un massimo che coincide talora con la totalità delle lettere (Mon tale, Svevo, Comisso, Pavese, Vittorini), talora con la quasi totalità (Ferrata, Bonsanti, C.E. Gadda, Debenedetti, Noventa), talora con una larghissima percentuale (Sa ba, Quarantotti Gambini, Arturo Loria, Ferrerò). Ne è risultato un volume di agevole let tura, che può essere apprezzato e analiz 98 Rassegna bibliografica zato a diversi livelli anche da parte di chi non ha specifici interessi critico-letterari. Colpiscono, innanzi tutto, la freschezza e la vivacità di molte missive; si consideri ad esempio, come una malattia di stomaco possa trasformarsi, sotto la penna di Carlo Emilio Gadda, in motivo parodistico: « Ad dio monti di spaghetti sorgenti dall’acque salsose della pommarola che giungeva quasi ’n coppa e con cui m’imbrodolavo (nei mo menti d’oblio) il bavero della giacca e la mia poco rivoluzionaria cravatta! Addio care memorie di spigole, di vongole, di spiedini di majale, di panforte, e di altri vermiciattoli mangiati... facendo finta di discutere lettere e politicaglia tanto per salvare un po’ le apparenze... ». Colpiscono, più spesso, la pregnanza, il peso del docu mento umano: deposti i panni curiali, au tori e critici ci vengono dinanzi, per così dire, in veste da camera, svelandoci, in sieme con le loro debolezze (l’assillo delle preoccupazioni finanziarie e familiari, i dub bi circa la propria autentica identità, le gelosie artistiche non di rado degeneranti in cattiverie gratuite) virtù di solidarietà vicendevole e disposizioni autocritiche tal volta insospettate. Il merito di tanta sincerità d’accenti va certo attribuito in parte all’amabile e pre coce saggezza dell’interlocutore originario, Alberto Carocci, vero factotum oltre che direttore della rivista. Ma questo tono del l’epistolario corrisponde anche al diffuso desiderio di realizzare, non solo nella let teratura e attraverso la letteratura, una società utopica di uomini cólti, di spiriti umanisticamente e perciò aristocraticamen te liberi. È noto del resto che il titolo stesso del periodico significa, secondo la testimonianza di Bonaventura Tecchi, « una città ideale, Sole e Aria, probabilmente, e insieme un che di solitario ». A sua volta, tale aspirazione sottintendeva un giudizio negativo sulle vicende politiche dell’Italia post-bellica e in particolare un atteggia mento per lo più assai critico nei con fronti del fascismo, sentito come manife stazione di un sistema di rapporti umani fondati sulla menzogna. Non ci sembra il caso di soffermarci qui sull’ambiguità di una simile posizione: ci limitiamo a ricor dare come essa vada correlata al distacco, già approfonditosi in età giolittiana, tra intellettuali, gruppi politici dirigenti, classe operaia. Il costituirsi, nel cuore del ventennio fa scista, di una repubblica delle lettere che si pretendeva autonoma implicava peraltro una separatezza spinta al limite del para dossale. In effetti alla scarsezza dei rife rimenti politici (quasi nulli, se si esclude qualche accenno al razzismo a partire dal 1930) fa riscontro, in queste pagine, l’as senza di qualsivoglia riflessione sul pub blico, cosicché ci appare quasi rispondere a un giusto contrappasso il fatto che « So iaria », nonostante l’eccellenza dei collabo ratori, non sia mai riuscita a superare una tiratura di poche centinaia di copie. E si comprende come i solariani si scoprissero d’un tratto impreparati a resistere quando il regime ormai trionfante strinse, anche attraverso precisi atti censori, le maglie dell’oppressione. Ci si accorse allora di quanto fosse precaria e pericolosa la scelta delle mani nette; il risveglio fu tanto più doloroso quanto più tardivo, come ben ri sulta da una lettera di Carocci a Tecchi del 19 luglio 1933: «Poche cose in Italia, da dieci anni a questa parte, sono così minacciate quanto l’intelligenza... E poche cose quanto il costume e la dignità civili sono così dimenticati ». Per altri aspetti, l’epistolario conferma co me il vero punto di forza di « Soiaria » coincidesse con l’assenza di un indirizzo letterario rigidamente predeterminato, il che rese più facile il confluire attorno alla rivista di un fascio di energie altamente individualizzate. Letto in questa chiave, esso si configura come uno strumento di ec cezionale utilità. Così, ad esempio, diventa possibile seguire passo per passo il formarsi dei Saggi critici di Debenedetti, si chiarisce il metodo estemporaneo, da scrittore di appendici, con cui Vittorini procedette alla stesura del Garofano rosso, si ricavano in dicazioni preziose specie su autori noto riamente atipici e appartati (ma tutt’altro che isolati) quali Saba, Carlo Emilio Gadda, Pavese, Noventa. Non a caso le lettere di questi ultimi occupano qui, anche dal punto di vista quantitativo, un posto di assoluto rilievo. Claudio Milanini Intellettuali is n e n g h i , Intellettuali militanti e in tellettuali funzionari. Appunti sulla cul tura fascista, Torino, Einaudi, 1979, lire 7.500. M ario Rassegna bibliografica Mario is n e n g h i , L ’educazione dell’italiano. Il fascismo e l’organizzazione della cultura, Bologna, Cappelli, 1979, lire 7.000. « Diciamo pure che la <gente >, la cultura della gente — con tutta la vaghezza e l’aleatorietà del termine — è il riferimento reale, anche se sottaciuto di questa rac colta di sondaggi e lavori in corso » (p. 14): così Mario Isnenghi presenta nell’Introdu zione al primo dei due volumi che qui segnaliamo, il filo conduttore del differente e composito materiale raccolto. E, in ef fetti, i due volumi pubblicati sono tra loro strettamente legati da un comune campo problematico e da un medesimo taglio sto riografico, oltre che dalla forma frammen taria delle raccolte, le quali si presentano più come una serie di approcci parziali, suggerimenti, indicazioni di ricerca, son daggi, documenti che come organici con tributi di studio. È nel volume einaudiano che l’ottica pre scelta dall’A. — « la cultura della gen te » — per affrontare il discusso problema del consenso al regime fascista trova le applicazioni più approfondite e suggestive con una serie di recensioni e saggi, in buona parte già conosciuti, nei quali è condotta una serrata polemica con quella che I. chiama « la retorica dell’antifasci smo», che si sarebbe trovata unita in tutte le sue componenti — crociana, salveminiana, gramsciana — nel negare 1’esistenza stessa del problema di una cultura fascista « alla luce della vecchia equivalenza tra fascismo e incultura » (p. 30), nel liqui dare la monotona e roboante fraseologia della pubblicistica fascista come vana reto rica, impedendo in tal modo un più at tento studio dei contenuti di quella cul tura — intesa da I. nel senso più ampio: non solo e non tanto in senso «verticale», come alta cultura, ma anche e particolar mente in senso « orizzontale », come va lori diffusi, riti, modelli semantici — e le sue forme di organizzazione. È invece pro prio quest’ultimo l’ambito di ricerca entro cui si muovono i saggi di I., che mettendo a frutto una lunga consuetudine con un vasto materiale pubblicistico e ufficiale del periodo fascista, suggerisce, in forma di ipotesi attendibile, la tesi secondo cui piut tosto che in una originale cultura, lo spe cifico fascista risieda proprio nella « orga nizzazione e dilatazione offerta come una cassa di risonanza largamente ricettiva e polivalente... di tutta una serie di elabo 99 razioni, principi, miti vecchi e nuovi più o meno radicati nella storia d’Italia, idonei a creare l’effetto alone dello stato auto ritario di massa... » (p. 64). Attraverso un uso nuovo e spregiudicato dei mass-media e dei meccanismi di manipolazione delle coscienze, il regime reazionario di massa « riusa » una fitta rete di Accademie e Istituti preesistenti, entro i quali una figura di intellettuale funzionario « dotato di ca risma, ligio al potere costituito e disposto sempre, in politica, a parlare il linguaggio dei tempi... » (p. 10), pone al servizio dello stato le sue specifiche competenze, all’in segna di una politica culturale venata di aspirazioni pedagogiche che vuole conci liare verità e propaganda, informazione e formazione. In tal modo la « cultura della gente » viene ad essere considerata più dal punto di vista delle emittenti di messaggi e valori che da quello del destinatario, più come ricognizione dell’organizzazione della cultura che dei comportamenti di massa. L’A. offre una lunga serie di indicazioni sugli intellettuali che, a seconda della collocazione e del grado di partecipazione, vengono catalogati ora come intellettuali funzionari ora come intellettuali militanti, facendo largo uso di categorie di prove nienza sociologica con una insistenza sulla problematica relativa al rapporto intellet tuali-potere che se può aiutare a definire la collocazione delle fasce intermedie e pe riferiche di intellettuali e operatori cultu rali, conserva, accentuandoli, quegli ele menti di schematismo insiti nell’approccio sociologico a questo tipo di tematica, ripro ponendo in definitiva uno studio sui ruoli che prescinde spesso largamente dai con tenuti della produzione culturale e scienti fica del periodo fascista. Non che I. non si ponga il problema dello studio dei con tenuti, tutt’altro. È egli stesso, in sede di Introduzione, ad auspicare « l’identificazio ne, disciplina per disciplina, degli uomini di cultura riconoscibili insieme come indi vidui e militanti » per « verificare l’ipotesi che il fascismo non rappresenti solo una forma più cruda e prolungata di gestione dell’esistente, ma si esprime anche con contenuti e forme specifiche sul terreno della cultura » (p. 22). Solo che questo si configura come un suggerimento fra altri, non incorporato nel vivo delle ricerche svolte e lasciato piuttosto ai margini. Per muoversi in tale direzione sarebbe stato infatti necessario prendere in maggiore considerazione la produzione e dislocazione 100 Rassegna bibliografica di quell’alta cultura che, per scelta dell’A., e gradi e via dicendo. Si potrebbero ag rimane fuori dal quadro dipinto. Sono in giungere infinite altre osservazioni relative vece i contenuti degli atti ufficiali delle alla parte dedicata alle Università ed Ac Accademie e delle Università, del linguag cademie, per lo studio delle quali l’ap gio giornalistico, in una parola, dell’apolo proccio di I. non ci pare il più fecondo getica e della propaganda a interessare I., — e qui siamo nel campo dell’alta cul che con troppo ampia e discutibile cate tura — e sembra maggiormente soffrire di goria li definisce parte di una « cultura quello schematismo cui accennavamo so orizzontale ». È in questo settore che sono pra. Certo, la scelta della documentazione offerti gli spunti e le esemplificazioni più va giudicata nel suo insieme e appare con interessanti, soprattutto sul versante del grua alle scelte metodologiche dell’A., che l’analisi del linguaggio, della scomposizione si è proposto di darci spaccati di vita vis di articoli di testate e giornalisti di pre suta nel periodo fascista con una attenzione stigio e con i richiami alle « ascendenze se per « i comportamenti culturali » meno ufficiali e professionali « fino al limite del mantiche », ai miti, ai riti. È essenzialmente di questo tipo il mate l’infimo » (Intellettuali militanti..., p. 4). riale documentario — preceduto da un’am Ma proprio in ragione di tale scelta la pia introduzione — di cui si compone il documentazione reperibile diventa talmente secondo dei due volumi, quasi un’appen vasta e variegata che per conseguire risul dice documentaria al primo, che presenta tati apprezzabili e non infondati sarebbe testi di discorsi pubblici, esemplificazioni necessario utilizzare strumenti, applicazioni delle caratteristiche del culto del «Duce», e sistematicità che mancano nel volume e Annuari scolastici, acquisti per le biblio che non è possibile ottenere dall’impegno teche scolastiche, discorsi inaugurali e ce di un solo studioso. È per questo che una rimonie di Accademie e Università, che raccolta di documenti quale ci viene pre sentata, guidata da questo tipo di riferi riflettono quell’accezione di cultura in sen menti interpretativi, oltre a lasciare un so lato adottata dall’A. Questo materiale ampio spazio all’arbitrio e alla casualità, dovrebbe offrire esempi significativi dei rischia — e non sempre I. riesce ad evi contenuti che il regime intendeva trasmet tarlo — di trasformarsi in una impressio tere per la formazione dell’« Italiano nuo nistica galleria di cimeli e curiosità buona vo». Un progetto che — secondo l’A. -— per tutti gli usi. sebbene « inficiato da velleitarismi, contrad Angelo Montenegro dizioni, genericità, reperti tradizionali (...) non sembra di per sé doverci condurre a escludere di prendere sul serio la cosa » (p. 10). E I. la prende sul serio, utilizzando g ia im e pin to r , Doppio diario. 1936-1943, nozioni mutuate dalla linguistica, dalla so Torino, Einaudi, 1978, pp. 235, lire 3.500. ciologia e perfino dall’antropologia. Ma, appunto, solo nozioni, mentre il tipo di La pubblicazione del Doppio diario di Giai materiale qui presentato, per poter fornire me Pintor a cura di Mirella Serri e con dei risultati di un qualche significato, che una presentazione di Luigi Pintor è certa non siano mere suggestioni, spunti, ipotesi, mente un avvenimento di grande impor avrebbe bisogno di ricerche ed elaborazioni tanza per inquadrare meglio la figura e ben altrimenti sistematiche. Di indubbio l’opera di Giaime Pintor. Già in questi interesse, ad esempio, i sondaggi sulle po ultimi anni comunque, alcuni spunti di litiche degli acquisti e dei doni delle bi Asor Rosa nella sua Storia d’Italia e so blioteche scolastiche, ma — domandiamo — prattutto di Luisa Mangoni nell’Intervennon si poteva far parlare un po’ di più sismo della cultura e nella presentazione quegli inanimati elenchi di volumi posti all’antologia di « Primato » che riprende e sotto gli occhi del lettore, quasi ad invi sviluppa le acute intuizioni di Eugenio tarlo ad elaborarseli da sé? I criteri con Garin, hanno permesso di procedere oltre cui sono stati condotti i sondaggi appaiono lo scritto di Valentino Gerratana, premesso ben lungi dall’aver quella caratteristica di a 11 sangue d’Europa, che, per molto tempo, rigore che sarebbe necessaria, né sembra è rimasto l’unico tentativo di ricostruire la che sia stato tenuto nel debito conto il vicenda di Pintor. A questi studi si ag criterio di differenziazione tra scuole di giunge ora l’introduzione di Mirella Serri città e scuole di campagna, scuole del sud che, basandosi sulla nuova documentazione, e scuole del nord, scuole di diversi ordini tenta di svincolare l’itinerario politico e Rassegna bibliografica culturale di Pintor da quello che ella chia ma il « mimetismo demagogico » (p. XI) per esaltare la « forte carica antimitica, in cui risiede la sua ricchezza e il suo possi bile valore di lezione » (p. XIII). Il tenta tivo della Serri non ci sembra particolar mente riuscito e soprattutto lascia molto a desiderare dal punto di vista metodologico, sia perché riduce l’introduzione di Gerratana, che anche se scritta nel 1949 non ci sembra che scada in un appiattito inter vento di politica culturale, a interpretare gli scritti « alla luce della ragione lukacsiana, come il progressivo percorso di uno scrittore dagli oscuri abitacoli del decaden tismo... al realismo e ad una unità solare e progressiva » (p. XXXVI), sia perché si stematicamente si dimentica di citare i contributi che sono apparsi dopo quella introduzione, lasciando credere all’ignaro lettore che negli anni successivi tutto fosse rimasto al punto di partenza e che si fosse cercato di relegare Pintor ad una critica rozza e settaria. In realtà questo « libro della vita », come lo ha definito Rossana Rossanda in una bella recensione, si pre sta — a nostro avviso — ad una lettura intensa ed in alcuni casi amara degli ap porti diversi e difficili che vennero con vogliandosi nella Resistenza e che trova rono anche nella soluzione finale, anche nell’impegno estremo, una traccia, un se gno della loro formazione. Siamo quindi d’accordo con Fortini e Rossanda nel con siderare la parte centrale del diario certa mente quella più densa e stimolante, men tre abbiamo letto e riletto con una certa difficoltà le lettere inviate alla famiglia o i rapidi appunti sui suoi impegni culturali. « Amico di mezza Italia, collaboratore del più grande giornale e del più grande edi tore, considerato da tutti uno degli uomini di punta della mia generazione », come scrive in una nota del diario, Pintor sem bra muoversi a suo agio tra quella classe dirigente a cui da sempre era appartenuto; e se il suo sarcasmo, il suo disprezzo per la povertà culturale e politica dell’Italia del tempo saranno bene riassunti nell’ul tima lettera al fratello, ciononostante le pagine del suo diario ce lo presentano fermo e deciso nella consapevolezza di po ter rappresentare anche nel futuro un punto di riferimento per la cultura e la vita civile italiana. E questa consapevolezza gli è più cosciente quando paragona la pro pria vita a quella dei suoi coetanei a « quelli che ora si divertono nei cortili 101 dell’università mentre io sto in biblioteca » e che in seguito « avranno poi da servire a una vita faticosa di cui io sarò il pa drone ». Sono certamente espressioni gio vanili, a cui se ne possono aggiungere altre, di chi però già si sentiva investito dalla sua classe sociale di un ruolo di guida che poco ha da imparare e che, al contrario, molto deve essere capace di indirizzare e dirigere. Non ci meraviglia quindi che nel diario ricorrano parole come tecnica, senso del dovere, asprezza con sé stessi, efficienza e manchino alcuni sentimenti che, proprio perché ci troviamo davanti ad un diario, vi dovrebbero essere contenuti. Al con trario delle Lettere e taccuini di Regina Coeli di Mario Alicata dove tutto viene rimesso in discussione con « atteggiamento fiero e quarantottesco », dove anche il pro prio privato è legato alla maturazione po litica, nel Doppio diario le amicizie con Balbo, Stille, Lombardo Radice vengono filtrate attraverso la propria formazione culturale. Ecco perché la guerra finisce per diventare per Pintor un momento perio dizzante, « il primo ostacolo veramente in superabile, il primo mare senza porto », il rifiuto definitivo di quello storicismo che per tanti versi non gli era mai appartenuto. Nella sua vita personale in cui ogni fatto viene riportato alla sua volontà seguendo « la linea del successo », la guerra sposta continuamente la linea su cui attestarsi obbligandolo ad una verifica pratica delle proprie convinzioni. La sua generazione si trova così al momento giusto ad essere chiamata a misurarsi con un compito sto rico, il superamento del fascismo, che ave va visto in parte fallire gli sforzi del fa scismo cospirativo e del fuoriuscitismo. Pintor ha la consapevolezza che questo appuntamento non può essere mancato pe na il pericolo per sé e per tutta la sua generazione di ritornare « al punto di par tenza», di vedere cancellati «almeno dieci anni di vita » (p. 127). La rilettura de « La Voce » assume quindi per Pintor un significato peculiare, non tanto quello di riproporre un concetto di impegno mu tuandolo dagli intellettuali della prima guer ra mondiale, quanto quello di una verifica « fra la cultura letteraria scolastica e quella che doveva coincidere con la mia espe rienza diretta » (p. 50). La « Dea Ragio ne », che dalle pagine di « Primato » con tanta sicurezza aveva respinto ogni cedi mento romantico, viene nuovamente chia mata in causa per indicare con lucidità la 102 Rassegna bibliografica necessità di guardare oltre il fascismo, di sconfìggere con l’impegno ciò che non era parentesi. Anche in questo l’antifascismo di Pintor rimane coerente con la sua vita ed è ancora oggi per noi un insegnamento. Gianfranco Tortorelli nando briamonte , La vita e l’opera di Eugenio Curiel, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 188, lire 3000. La vita e l’opera di Eugenio Curiel sono state in questi anni spesso al centro del l’attenzione di numerosi storici e uomini politici. L’attenzione è derivata sia dalla difficoltà nel dire una parola definitiva sulla sua militanza nel partito comunista e con temporaneamente nel centro interno socia lista, sia da quella « originalità » di pen siero che si sviluppò soprattutto nel lavoro « legale » all’interno delle organizzazioni fa sciste e nella formulazione della « demo crazia progressiva». Dopo gli studi di Enzo Modica e gli scritti di numerosi militanti, che ricordano soprattutto il coraggio e l’abnegazione di Curiel, è stata l’introdu zione di Amendola agli Scritti, pubblicati nel 1973, a contrapporsi rigidamente allo studio di Stefano Merli sul Cis in cui l’opera di Curiel veniva staccata dalla ela borazione dei comunisti e dotata di una « originalità » spesso alternativa a quella del centro estero. Continuando dunque una ricerca che in più occasioni si è sforzata di ritrovare al di fuori delle posizioni dei partiti il « primato della classe » e degli organismi autonomi che essa si dà nella lotta antipadronale, Merli, rileggendo gli scritti di Curiel, interpretò la sua figura come quella di un antifascista che, per formazione culturale e politica, non si limi tava ad applicare la linea dei comunisti nel lavoro legale, ma al contrario rendeva co sciente l’emigrazione di una determinata situazione interna e perciò, muovendosi su una posizione unitaria, « la correggesse, la spingesse in avanti, la interpretasse creati vamente ». A questa posizione storiografica si riattacca il recente lavoro di Nando Briamonte, La vita e il pensiero di Eugenio Curiel, che ha il merito di fornirci per la prima volta una biografia completa del l’antifascista triestino. Briamonte ripercorre con sicurezza, nelle pagine iniziali del vo lume, le varie tappe della formazione cul turale di Curiel, le sue letture preferite, gli interessi scientifici, che continueranno anche negli anni successivi e che faranno di lui uno dei pochi intellettuali antifascisti con una formazione non umanistica, le amicizie rade ma intense. Incise in queste prime scelte l’interesse per l’antroposofia, per una vita rigorosa e ascetica che sele zionasse anche persone ed affetti. Nasce in questi anni l’interesse per Gentile e la scarsa attenzione, ed è anche questo un tratto importante nella storia degù intel lettuali degli anni ’30-’40, per Benedetto Croce. In Gentile, sottolinea Briamonte (p. 29), Curiel ritrova due punti fermi della sua vita personale: una concezione fortemente etica della vita e della politica e una stretta compenetrazione tra teoria e prassi che lo porterà qualche anno dopo, nel ’34-’35, a vedere in Giustizia e Li bertà quell’attivismo pragmatistico e radi cale importante per scuotere l’apatia al fa scismo. La delusione che Curiel proverà dopo que sta esperienza lo spingerà a trovare nuove vie di intervento più agganciate alla realtà italiana. La collaborazione alla rivista di Rigola « I problemi del lavoro », da cui Curiel in un saggio del ’39 prenderà le distanze, lo avvicineranno alle tematiche del sindacalismo e alle diverse esperienze del movimento operaio internazionale. Inizierà da questi anni l’interesse per il ruolo del sindacato e soprattutto per un lavoro in tenso e spregiudicato all’interno delle or ganizzazioni giovanili, una realtà che Curiel contribuirà in modo rilevante a far cono scere anche ai dirigenti del partito comu nista. Non vi è dubbio a questo proposito, come giustamente mette in luce Briamonte, che in Curiel spesso si riscontrasse una conoscenza più approfondita della realtà italiana e soprattutto giovanile di quanto invece prospettassero gli interventi dei mi litanti più anziani. La risposta di Gennari, ad esempio, è illuminante nel rilevare certo una coerenza encomiabile, ma allo stesso tempo appare un po’ astratta e lontana dalle reali possibilità di lavoro createsi al l’interno delle organizzazioni giovanili. At traverso la collaborazione a « Il Bo », Cu riel, nei limiti consentiti dalla censura fa scista, cercò sempre di forzare la fraseo logia antifascista « fino a spingerla in un contesto del tutto diverso ed antagonistico a quello del regime » (p. 59) mettendo allo stesso tempo in guardia gli universitari che lavoravano nel campo sindacale, ed è un tema trattato con lucidità nell’articolo Ope rai e universitari del 1937, a non accostarsi Rassegna bibliografica alla realtà del mondo operaio con « gli schemi che si apprendono a scuola o sui libri». Ci sembra che Curiel in questi anni si misuri con il grande compito che i partiti antifascisti di sinistra si trovarono di fron te: spostare masse rilevani di intelletttuali e di operai dalla generica opposizio ne al terreno dello scontro frontale con il regime. L’unità intorno alla classe operaia avrebbe permesso, sottolineava Curiel a più riprese, di sviluppare anche quella dissidenza che da tempo fermentava in alcuni ambienti cattolici. Il volume di Briamonte permette di gettare ulteriore luce su questi punti ricercando attraverso la lettura dei suoi scritti, di scavare nel concetto di « demo crazia progressiva » che, soprattutto du rante la Resistenza, sarà un tema posto di frequente da Curiel al centro del suoi in terventi. In non pochi casi tuttavia ci sembra che l’autore del volume operi for zature non sempre pertinenti. Avrebbe gio vato, a questo proposito, tenere maggior mente presenti i contributi recenti di Garin e Spriano che, pur accettando alcuni risul tati della ricerca del Merli, ne hanno sot tolineato anche i limiti. Il Curiel di Bria monte, al contrario, risulta completamente staccato dalle posizioni dei partiti antifa scisti, portatore di una linea organica e alternativa incentrata tutta sulla riscoperta delle potenzialità di lotta della classe ope raia. Non è un caso quindi che Briamonte veda già negli articoli pubblicati su « Il Bo » il tentativo di Curiel di scoprire nei sin dacati anticipazioni dei nuovi organismi di democrazia diretta che si affermeranno, in alcuni casi, durante la Resistenza (p. 74) e negli scritti del 1937-39 uno sforzo di definire una « teoria della rivoluzione » (p. 72). Forse a stemperare queste affer mazioni avrebbe certamente giovato con frontare l’elaborazione di Curiel con quella di altri giovani antifascisti; manca, a que sto riguardo, qualsiasi riferimento alle re centi pubblicazioni di Pintor, Alicata e soprattutto di Eugenio Colorai, i cui scritti non risultano neanche citati nelle note; così come un’attenzione più puntuale agli studi di storia del fascismo avrebbe per messo all’autore di abbandonare un’impo stazione troppo polemica e di inserire la figura di Curiel in un quadro più vasto della storia degli intellettuali negli anni trenta e quaranta. Gianfranco Tortorelli 103 Carlo e nello r o ssel li , Epistolario fami liare. Carlo, Nello, Rosselli e la madre (1914-1937), Introduzione di Leo Valiani, Milano, SugarCo, 1979, pp. 590, lire 15.000. Nel giorno del suo compleanno, il 15 gen naio 1925, Carlo Rosselli finisce una lettera alla madre con questo post scriptum: « Pen so con orrore alla pubblicazione del nostro epistolario. Il mio posto nella storia è in pericolo ». Giudizio più errato è difficile conoscere; evidentemente, infatti, i posteri non sono stati dello stesso parere; le quattrocento lettere di questo Epistolario familiare, in vece di porre in pericolo la fama di Carlo Rosselli, ne confermano l’altezza morale, non solo, ma accanto a lui fanno rilucere l’alta dignità della famiglia che lo circonda. Il lettore si trova di fronte ad un raro quadro familiare, che ha il suo centro nella figura di Amelia Rosselli, la madre, dalla quale irradiano le virtù più nobili che si sono poi riflesse nella vita dei tre figli fino alla morte. L’arco di tempo va dal 1914 al 1937, dal l’inizio della prima guerra mondiale fino all’anno in cui Nello e Carlo, il 9 giugno 1937, furono massacrati dai sicari fascisti nella foresta di Bagnoles de l’Orne. La corrispondenza si conduce in forma al terna attraverso ventitré anni che segnano la morte del figlio maggiore Aldo sul fronte alpino, fino al sacrificio dei suoi fratelli. Nel mezzo, accanto alla madre, nascono e fioriscono le famiglie di Carlo e di Nello, che fanno degna corona intorno alla can dida e forte figura di Amelia Rosselli, che sta come l’inesauribile e limpida fonte della forza e del coraggio, che non cedono mai. Chi legge tutte le quattrocento lettere si trova di fronte alla parte forse più dram matica della storia d’Italia nella prima metà del secolo XX, dalla prima guerra mondiale alle soglie della seconda; l'avvento del fa scismo, il delitto Matteotti, l’affermazione del regime, le persecuzioni e le cospirazioni, il Tribunale Speciale e i suoi processi. I Rosselli li troviamo presto sulla scena, sia che si tratti del processo di Savona nel 1926 per la fuga di Filippo Turati, sia che si tratti di un’altra fuga, quella dal confino di Lipari, sia che si giunga alla fondazione di Giustizia e Libertà nell’ago sto 1929 a Parigi, dopo la fuga da Lipari. Carceri e confino saranno le note costanti di questo epistolario, che avrà per attore un intero complesso familiare legato per 104 Rassegna bibliografica la vita e per la morte. Sullo sfondo della scena si muovono figure che nobilitano la cultura, alla quale i due fratelli sarebbero stati interamente dedicati in tempi tran quilli; Carlo studioso di problemi di eco nomia e di politica; Nello di problemi sto rici, materie tutte delle quali lasciarono testimonianze valide anche per gli studiosi di oggi. Nel turbine della loro esistenza in essi tutto fu vivo, gli affetti familiari proiettati in un mondo di rettitudine, di dignità e di fedeltà alla tradizione. Da Londra, il 15 settembre 1924, pochi mesi dopo il de litto Matteotti, Carlo scriveva alla madre: « Puoi immaginare l’impressione che mi hanno fatto le notizie dall’Italia. Non si può assolutamente andare avanti così... Ep pure bisogna tener duro anche a costo di dover continuare a logorarsi per tutta la vita. Almeno per me è un imperativo mo rale». La tristezza della situazione politica ita liana li affligge; Nello nel novembre 1926, dopo le leggi eccezionali scrive alla madre: « Sarà un periodo doloroso quello dell’op pressione legale perché ci sentiremo in po chi, isolati, almeno in apparenza, dal resto della nazione ». Più tardi la madre osservava: « Lady Macbeth diceva che tutta l’acqua del mare e della terra non sarebbe bastata a lavare le sue mani macchiate: e io dico che a to gliermi l’amaro dal cuore non basterebbe tutto lo zucchero che si raccoglie nel mon do... Non a Ustica sola c’è il confino! Ci sono dei <confini > morali altrettanto dolo rosi, anche se si ha tutta l’Italia a propria disposizione ». Dal carcere giudiziario di Como Carlo ave va scritto nel maggio 1927: « Quando si accetta di iniziare una tacita transazione ci si pone su di un terribile piano incli nato; non ci si ferma più; cade ogni limite e tutto è lecito... Sento, ti ripeto, per istinto che l’esempio potrà servire solo se sarà puro perfetto, incontaminato, solo se ser virà a dimostrare che c’è stato qualcuno che ha saputo seguire, malgrado tutto, una linea di moralità, di intransigenza asso luta ». Questa sarà la legge e questa legge viril mente seguita porterà alla morte. Le vi cende della vita di Carlo, in obbedienza a questa legge, trascineranno con sé anche quelle di Nello che pur spesso tollera, ad esempio, di mantenere rapporti di indul gente cordialità con uomini come G. Volpe che fu noto ed autorevole seguace del re gime e che era stato suo maestro negli studi storici, a proposito del quale, tuttavia, scri ve a Carlo: « Scriverò a Volpe. Voglio che si capisca in base a quali presupposti mo rali inderogabili un uomo come me, che non appartiene a partiti politici, non ha responsabilità del passato né formule né appetiti per l’avvenire, tiene a mantenere in momenti come questi una linea di as soluta dignità e fermezza » (Ustica - gen naio 1928). Purtroppo, leggendo queste lettere, a chi non conosce o per esperienza o per studi il succedersi dei fatti che segnarono la nostra storia in quegli anni, dal delitto Mat teotti alla morte dei Rosselli, è facile in contrare a tratti lacune che difficilmente può colmare, come, ad esempio, quella serie di vicende importantissime che si riferiscono agli arresti ed al processo degli intellettuali di Giustizia e Libertà, che ebbe momenti drammatici dall’ottobre 1930 al maggio 1931 e che in questo epistolario sono resi con una frammentarietà inespli cabile che ne sminuisce la tragicità e scon certa colui che è bene informato delle vicende. Un’altra lacuna che rende un po’ confusa a volte la lettura di queste quattrocento lettere è la mancanza di un indice dei nomi, che in una pubblicazione di tal ge nere sarebbe estremamente necessario, quan to una serie di note destinate a coilegare, sia pur brevemente, la successione dei fatti, poiché sarebbe desiderabile che quest’opera fosse letta da molti, soprattutto dai gio vani, che ignorano troppo spesso l’eroismo e il sacrificio dei maggiori. A compensare largamente queste lacune può certo bastare l’ampia introduzione di Leo Valiani, che getta una luce storica mente valida sulle figure di Carlo e Nello Rosselli e sulle loro tragiche vicende. Bianca Ceva ba uer , Breviario della democra zia, Milano, Pan, 1978, pp. 216, lire 3.000. riccardo A breve distanza di tempo dall’apparizione (presso lo stesso editore e nella stessa « col lana di divulgazione ») del volume II dram ma dei giovani, in cui ha ordinato articoli di giornale e capitoli inediti dedicati al l’analisi di problemi etico-politici del mon do d’oggi, Riccardo Bauer pubblica questo Breviario che, anche se non è dichiarato Rassegna bibliografica esplicitamente, è rivolto prima di tutti ai giovani. Se si ricordano precedenti, importanti, rac colte di suoi scritti, come Alla ricerca della libertà, in cui venivano dibattute dal punto di vista teorico e sulla base di riflessioni iniziate in carcere e al confino molte delle questioni legate alla introduzione delle isti tuzioni democratiche nell’Italia post fasci sta, e Kermesse italica, in cui le medesime questioni erano considerate, di riflesso, nel comportamento « asociale » dell’italiano me dio, diseducato da vent’anni di dittatura e dai successivi di cattivo uso della demo crazia, si può constatare come Bauer ora continui il suo discorso di pedagogia civile in termini di più pacata meditazione, di ammonimento quasi confidenziale, intento più a persuadere che a polemizzare. Il libro si presenta sostanzialmente come un manuale di educazione civica, anche se non ha nulla di scolastico, di sistematico: gli argomenti (la nascita della democrazia moderna, le condizioni per il costituirsi di una democrazia efficiente, i diritti dell’uomo e del cittadino, il formarsi della democrazia italiana attraverso la dialettica fra i mag giori partiti, la libertà del socialismo) sono toccati in tono discorsivo, senza enuncia zioni apodittiche, ma ripercorrendo l’itine rario personale che ha consentito all’autore di chiarirsi le idee, di verificarne la validità, di porle a confronto con la realtà. Vi è al fondo del discorso di Bauer una radicata fiducia nella forza della ragione, nella pos sibilità di modificare e migliorare il mondo servendosi di strumenti socialmente utili quali quelli del « ripensamento concettua le » degli elementi della democrazia, del confronto tra il loro atteggiarsi concreto nella situazione italiana e il modello cui dovrebbero essere adeguati, del chiarimento delle prospettive di sviluppo da proporsi. Questa fiducia, che traspare da tutto il libro, volutamente privo di riferimenti dot trinali, di « ogni apparato erudito », della forma stessa del comune manuale di studio e informazione, è più evidente nell’ultimo capitolo. In esso, sotto forma di « chiose », sono infatti raccolte pagine di più diretta effusione dell’autore nel giudizio sulla storia contemporanea italiana, sui mali della no stra democrazia, le sue insufficienze, le de bolezze del carattere italiano, il peso di una eredità storica negativa, ma anche, più ottimisticamente, sulla possibilità e~il dovere di affermare quella « gradualità ri formatrice » che potrà determinare un 105 « avanzamento economico-sociale » solo se vi corrisponderà una adeguata « matura zione culturale ». La lezione di Bauer, espressa nei termini intenzionalmente di messi di queste pagine da cui è lontana ogni tentazione di magniloquenza, è tratta dall’esperienza di tutta la sua vita, ed è una lezione di pazienza, di chiarezza di idee, di assiduità nel lavoro, di fastidio per le soluzioni improvvisate, di fermezza nei principi di libertà e nella loro vigilante difesa. Giuseppe Armani arturo colombo , Riccardo Bauer e le ra dici ideologiche dell’antifascismo democra tico, Sala Bolognese, Forni, 1979, pp. 66 + 158 non numerate continuativamente, lire 7.800. Una delle figure più straordinarie dell’an tifascismo italiano è sicuramente Riccardo Bauer, giunto ormai alla soglia dei suoi ottantacinque anni, e sul quale (a parte alcuni articoli — dello stesso Colombo ve n’è uno, significativo, pubblicato nel 1975 in « Nuova Antologia » — e gli spunti che lo riguardano compresi nei lavori dedicati alle vicende di cui è stato protagonista o partecipe) fino ad ora mancava uno studio esauriente. Questo libro di Colombo adempie ottima mente allo scopo di dare un profilo sin tetico dell’attività di Bauer, rendendone esplicite le motivazioni ideologiche e colle gandole a quelle dell’antifascismo che, con l’autore, per delinearne per esclusione i contorni da un punto di vista formale, si può bene definire democratico (nelle sue articolazioni gielliste e poi azioniste). A tale proposito Colombo si giova di un prezioso inedito di Bauer (un fascicolo di Memorie autobiografiche di 220 pagine che si vorrebbe presto vedere pubblicato con una completa bibliografia degli scritti di lui, tuttora non catalogati e dispersi in pubblicazioni non sempre conosciute, e in parte segnalate nel volume), il quale con sente di seguirne la presenza in momenti decisivi della nostra storia recente, dalla prima guerra mondiale alla liberazione. Animatore del gruppo milanese degli amici di «Rivoluzione Liberale», influenzato di rettamente dal pensiero di Gobetti e come Gobetti attento alle ragioni dell’operaismo torinese e ai problemi del rinnovamento 106 Rassegna bibliografica dei partiti tradizionali, Bauer fu infatti, fin dal ’22, fra coloro che più lucidamente videro nell’opposizione intransigente, nella completa dedizione personale alla lotta an tifascista, un impegno necessario per sal vaguardare ciò che ancora si poteva difen dere in termini di libertà politica, e, in seguito, per prepararne il recupero. L’esperienza del «Caffè», di cui, insieme a Parri, fu il vero promotore, è analizzata da Colombo come uno dei capitoli salienti di questo programma, che accompagnò il pìccolo gruppo dei suoi redattori (tolte al cune defezioni) dall’antifascismo legale o paralegale alla cospirazione. Un primo cen simento delle carte conservate nell’archivio di Bauer, fatto nelle note che accompa gnano il saggio, permette di rilevare come, fin dall’apparire del periodico, fosse ricca la rete dei corrispondenti (a parte Dorso, che collaborò al giornale, vi si trovano i nomi di Ruffini, Murri, Zuccarini, Spellanzon) e come « Il Caffè » apparisse al l’opinione antifascista una delle ultime trincee non clandestine da cui combattere. Decretata la definitiva chiusura del foglio, nell’estate del ’25, Bauer non ebbe esita zioni a continuare l’attività politica nella illegalità: fu tra gli organizzatori della fuga di Turati, subì le prime assegnazioni al confino dove ebbe incontri decisivi (con Rosselli a Ustica, con Lussu a Lipari), di ritorno a Milano nell’aprile del ’28 co minciò poco dopo a costituire l’organiz zazione interna di Giustizia e libertà, di cui fu il capo effettivo, insieme a Ernesto Rossi. Tra il ’25 e il ’30 (quando, come Rossi, fu arrestato per delazione di Carlo Del Re, per essere poi condannato a venti anni di reclusione dal Tribunale speciale) Bauer fu in primissimo piano nell’attività cospi rativa, e il libro di Colombo ne documenta gli aspetti in modo puntuale, e per alcuni aspetti pressoché inedito: è il caso della rivista « La lotta politica », progettata con Nello Rosselli, e di cui nella primavera del ’29 apparve il primo ed unico numero, come dei quattro opuscoli clandestini di «Nuova Libertà», stampati in Francia nel ’29 e diffusi in Italia con la falsa indica zione tipografica di Roma. In questi opu scoli veniva definito il programma ultimo del movimento di GL, fino alla proclama zione di una repubblica democratica il cui ordinamento sarebbe stato stabilito da una costituente popolare, ma si dettavano an che criteri pratici di comportamento, at tuabili da chiunque per una resistenza pas siva al fascismo, accanto ad informazioni per la propaganda cui il gruppo Bauer-Rossi si dedicava in modo intensissimo. La loro lettura, ora consentita dal libro di Co lombo, può essere compiuta utilmente tanto per conoscere la storia generale del movi mento giellista prima del ’30, che per inte grare le notizie, non sempre fino ad ora bene ordinate, che si hanno sui suoi espo nenti maggiori (si tratta di 11 primo do vere: conquistare la Nuova Libertà, in cui Salvemini ricapitola le vicende dell’affer mazione del fascismo, distingue le posi zioni di GL da quelle comuniste, invita per l’immediato ad astenersi dalla parteci pazione al plebiscito; di Stato fascista e stato liberale, dovuto alla collaborazione di Bauer e Rossi, testo di grande importanza per i giudizi sul fascismo, considerato non altro che una somma dei « difetti che i più intelligenti e lungimiranti nostri uomini politici, dall’unità in poi, hanno ad uno ad uno analizzati », e la rivendicazione dei valori dell’Italia risorgimentale; di Bernard Show e il fascismo di Salvemini e de La Conciliazione di Bauer, entrambi già in precedenza ripubblicati). Per quanto riguarda più strettamente Bauer, l’opuscolo su Stato fascista e stato liberale è da accostare ad un altro del ’25, apparso sotto il nome di Demetrio e scritto in col laborazione con Parri (Casi d’Italia, ripro posto in appendice al libro di Colombo unitamente a La politica estera di Musso lini di Sforza), per ricostruire un profilo la cui dimensione morale è già tutta nella lettera al presidente del Tribunale speciale del ’31, pubblicata nel ’48 in un fascicolo del « Ponte » col titolo Diritti e doveri di un uomo libero. Mentre per gli anni pre cedenti e di poco successivi all’arresto que sti testi di Bauer sono ora disponibili, per il periodo della carcerazione e del confino sono ben pochi i documenti pubblicati di cui si possa tener conto per seguirne il pensiero. Una raccolta delle sue lettere familiari potrebbe in proposito essere di notevole interesse, integrando le lettere del suo sodale Ernesto Rossi già pubblicata in Elogio della galera e quelle dello stesso Rossi scritte da Ventatene e di imminente pubblicazione presso Feltrinelli, in non po che delle quali ricorrono il nome e la presenza di Bauer. Sarebbe da ricercare in tali scritti la « radice » dell’attività svolta da Bauer dopo la liberazione di Roma, nel periodo della Resistenza e del primo post Rassegna bibliografica fascismo, di cui il libro di Colombo indica uno degli aspetti più rilevanti nella condu zione, fra il ’44 e il ’46, della rivista azio nista « Realtà politica ». Giuseppe Armani sandeo setta , Croce il liberalismo e l’Italia postfascista, Roma, Bonacci, 1979, pp. 274, lire 8000. Setta ricostruisce, in maniera circostanziata e con una periodizzazione attenta, l’itine rario politico dell’ultimo Croce, i rapporti con la Resistenza e le nuove forze poli tiche. Assumono particolare rilievo le vi vaci e già note polemiche con il Partito d’azione, l’inasprirsi del giudizio su socia lismo e comuniSmo, il contrastato legame col rinato partito liberale, dall’appoggio iniziale alla presidenza onoraria fino al di stacco nel periodo delle accentuazioni rea zionarie impresse al partito da Lucifero, il rapporto (o l’assenza di rapporti) con l’Uo mo qualunque, già ricostruito da Setta nel suo libro precedente. Sul piano critico, i suggerimenti interpre tativi più importanti ci sembrano quelli relativi al mutamento di giudizio e di at teggiamento di Croce su alcune questioni di grande rilievo, come la questione catto lica e i temi, connessi a questa, della laicità dello Stato e del rapporto con la DC, e la documentazione di una breve fase di teorizzazione di un liberalismo aperto, pro gressivo e non dogmatico prima dell’inasprirsi delle vicende politiche, nazionali e internazionali, che si connetteva a prece denti spunti formulati dal Croce durante il fascismo, come nella polemica con Ei naudi. Il discorso è accentrato sulle scelte poli tiche di Croce, documentate in maniera diffusa e a volte sovrabbondante; una con nessione più stretta con la produzione meno direttamente politica avrebbe forse consen tito in alcuni casi di motivare in maniera più convincente l’inquadramento critico. Ad esempio, i toni dell’ultimo Croce sulla « fine della civiltà », la tematica, che destò scal pore, sull’« Anticristo che è in noi», pos sono e debbono esser viste in diretto rap porto con le vicende politiche del tempo e con un atteggiamento che non fu proprio del solo Croce; ma la categoria della « scle rosi anticomunista » non spiega la pecu liarità di un atteggiamento e di una dispo sizione critica che, come ha ricordato recen temente Galasso, aveva contrassegnato già 107 nel corso degli anni trenta una riconside razione di tutta la tematica connessa al l’irrazionalismo contemporaneo, resa più assorta e sollecita da una riflessione che in maniera originale e personale si collegava a quella propria di parte della cultura euro pea. Mancano cenni alle belle lezioni del l’ultimissimo Croce su Storiografia e iden tità morale, che costituiscono, da un certo punto di vista, un tentativo di sviluppo di quella tematica e un parziale tentativo di soluzione. Le interpretazioni di Setta sulla involuzione politica dell’ultimo Croce, già anticipate in articoli, hanno suscitato qual che polemica fra i crociani di più stretta osservanza, come Alfredo Parente: si veda la polemica intercorsa a suo tempo sull’an nata 1973 della « Rivista di studi crociani ». Con gusto del paradosso, ha notato G. Sab b a tic i su «L’Espresso » del 27 marzo 1979 che il vero problema consisterebbe, sem mai, nello spiegare gli spunti di riformismo avanzato presenti nel Croce dell’immediato dopoguerra. Ritenendo fondamentalmente giusta la ricostruzione dei fatti condotta dall’autore, pensiamo però che essi vadano inquadrati e motivati sulla base di criteri non puramente politicistici, ma di storia culturale, come in fondo Croce merita. Gianpasquale Santomassimo Comunicazioni di massa GIAN PIERO bru netta , Storia del cinema italiano 1895-1945, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 624, lire 25.000. Nel momento in cui la « scuola freudiana » chiude i battenti, nel momento in cui la semiotica pare arrancare affaticata insieme a certo patrimonio della cultura francese anni sessanta, torna di moda la Storia. Una storia che si autointerroga, che si ar rovella sui suoi limiti e sui suoi nuovi bi sogni, ma che riprende sostanzialmente fiato dopo l’attacco convergente che veniva dalle altre discipline, più « à la page » ma altret tanto rigorose; si sono fatte sentire in ri tardo quelle esigenze di interdisciplinarietà che venivano soprattutto dalla generazione più giovane e che significavano interesse per la psicanalisi, per l’antropologia cultu rale, per la sociologia, per la psicologia di massa, i fenomeni di costume, i problemi dell’industria culturale, il linguaggio, per strumenti e aree nuove di indagine. Uno di questi strumenti è stato certamente, tra la 108 Rassegna bibliografica fine degli anni sessanta e i settanta, il ci nema. Come alla fine degli anni venti si concedeva dignità di « arte » al cinema, oggi gli si concede quella di campo da in dagare scientificamente, con l’apporto di una o più discipline tradizionali. Gli sto riografi arrivano forse in ritardo in questa rivalutazione del mezzo-cinema, sia come strumento di diffusione di una cultura sto rica, sia come « fonte » diretta, come do cumento storico di primaria importanza. Non è un caso l’uscita in Italia di una raccolta di articoli sul cinema firmati da Marc Ferro, uno degli storici delle « Annales » (M. Ferro, Cinema e storia, Milano, Feltrinelli, 1980). Viceversa gli studiosi di cinema riscoprono la storia (è recente l’uscita della ricerca di Pietro Pintus su Storia e film, Roma, Bulzoni, 1980), risco prono il « contesto » accanto al « testo ». Queste osservazioni ci vengono in mente nel leggere il volume di Gian Piero Bru netta, uno studioso che è riuscito a con ciliare l’amore per il testo (proprio dei cinefili) e l’interesse per il contesto (più proprio dello storiografo) e che ha prodotto numerosi contributi di ricerca sulla storia e sul dibattito ideale italiani attraverso lo spaccato-cinema. Una storia del cinema italiano, infatti (la prima impresa di largo respiro dopo quella nota, ma ormai datata, fatta da Carlo Lizzani) si misura anche con la storia so ciale e culturale del nostro paese, ponendo alla stessa storiografia l’esigenza di nuove metodologie e zone di ricerca, insieme al l’apertura verso fonti altrimenti censurate. Brunetta ha lavorato, non a caso, a con tatto con l’area storiografica padovana e, sulle posizioni di Mario Isnenghi, si è de dicato fra i primi al cinema e alla politica culturale durante il fascismo: (ricordiamo Intellettuali, cinema e propaganda tra le due guerre-, Cinema italiano tra le due guerre. Fascismo e politica cinematografica-, Il fascismo nel cinema italiano del venten nio in « Cinema Sessanta »). Anche il ci nema, infatti, può essere visto come uno strumento di « organizzazione del consen so » (lo hanno fatto i vari Cannistraro, Panicali e Isnenghi), punta di diamante di quella politica di uso dei mass media e di intervento nella società di massa che fu tipica del regime anni trenta. È una poli tica, del resto, quella cinematografica, che configura le stesse contraddizioni della po litica culturale complessiva del fascismo: la presenza e il ruolo di Umberto Barbaro (di cui Gian Piero Brunetta, del resto, è un allievo) sono l’esempio di una trasgres sione e di un dissenso all’interno del piano del regime verso gli intellettuali. Proprio questo dibattito sugli anni trenta è una dimostrazione di come altre disci pline abbiano « tirato » la storiografia: la rivisitazione delia società fascista era av venuta, in un primo tempo, a parte alcuni isolati, nobili esempi (su tutti il Garin) da un punto di vista di storia del costume, tanto da diventare ben presto una moda culturale; poi, sull’onda delle polemiche su scitate da De Felice, era esploso l’interesse degli storici per gli anni trenta; un inte resse che aveva segnato, però, a un tratto, il passo; gli studi sul regime dimostravano una certa stanchezza. Parallelamente, in vece, il dibattito sul cinema fascista, pur partito in ritardo, si sviluppava con am piezza nei convegni per gli addetti ai lavori (Pesaro, Ancona, ecc.) e sulle cronache dei giornali. Ebbene, ora che l’interesse storio grafico per il fascismo si riaccende, si può dire che da quei contributi settoriali sul cinema, sulla radio, sul teatro, sulla stam pa, sulla società di massa in generale, sono venute probabilmente nuova linfa e nuove prospettive (se non altro di svecchiamento) alla ricerca. Nel caso degli anni trenta, insomma, c’è stato un « feed-back » tra storia e cinema e viceversa, un interscambio tra due zone della cultura non più inconci liabili come un tempo. Il cinema tra le due guerre, dunque, è uno dei momenti salienti del volume di Bru netta, che si ferma, per ora, alla caduta del fascismo (ma il piano dell’opera giunge sino ai tempi nostri). L’altro grande capi tolo è la storia del cinema muto, un’impresa diffìcile, data la scarsa reperibilità delle fonti, che dà l’idea della metodologia di lavoro del Brunetta: una ricerca di « trac ce», di «indizi» che, magari apparente mente insignificanti, potrebbero portare nuo vi elementi alla conoscenza; un progressivo avvicinamento alla totalità dell’informazio ne, con l’uso di materiali eterogenei e di contributi disparati. Ricostruire la storia del cinema muto, in particolare, attraverso le riviste, i documenti filmici rimasti, le re sidue documentazioni finanziarie delle case produttrici, significa ricostruire anche uno spaccato di società industriale delle origini, agli albori del secolo, dove « nazione » e « lavoro » si congiungevano, magari nell’im magine emblematica di Francesca Bertini. Vito Zagarrio Rassegna bibliografica m ino a rgentieri , L ’occhio del regime. In formazione e propaganda nel cinema del fascismo, Firenze, Vallecchi, 1979, pp. 202, lire 6500. « Il cinema è l’arma più forte » è la nota formula coniata dal fascismo (parafrasando un simile slogan leniniano) e lanciata a simbolo dell’intervento del regime nella so cietà di massa, quale essa si forma tra la metà degli anni venti e gli anni trenta. Le comunicazioni di massa, la stampa, la ra dio, e soprattutto il cinema, mezzo nuovo, tutto da sperimentare e da inventare, sono i nuovi gangli vitali di un tessuto sociale che va evolvendosi, sulla scia dei modelli occidentali più evoluti, gli Stati Uniti so pra tutti. Su questa società in trasforma zione, si innesta poi l’altro grande modello, quello sovietico, col fascino delle sue istan ze « collettiviste ». Con lo sguardo a questi due illustri modelli, il regime fonda quel settore della sua macchina persuasiva che fa perno sul mezzo-immagine. Un’« arma », come si è ormai cominciato a studiare, pericolosa e a doppio taglio, tanto da poter essere rivoltata, dalla generazione più gio vane, contro lo stesso creatore, contro il « padre ». Il merito del libro di Argentieri è di aver calcato l’indagine nel momento di incuba zione di questa politica, e nel cuore del meccanismo principale creato dal fascismo per produrre i suoi miti e il suo « imma ginario », l’Istituto LUCE. Nato alla metà degli anni venti e cresciuto soprattutto con l’introduzione del sonoro, all’inizio dei trenta, gestito da alcuni tipici rappresentanti di quella classe di tecnocrati che si andò formando in quegli anni all’in terno degli apparati dello Stato, il Luce è il luogo dove si pianifica e si mette in pra tica la propaganda. Simbolo delle ambizioni totalitarie e persino delle suggestioni lingui stiche del regime (Luce è una sigla che sta per « L’Unione Cinematografica Educati va », l’Istituto è posto alla dipendenza del capo del governo e di quell’ufficio Stampa da cui verranno, con la mediazione di Cia no, il sottosegretariato per la stampa e la propaganda e il Minculpop. La sua storia è intrecciata con quella dello stesso fascismo, dal suo primo approccio con gli strumenti di una politica culturale all’aggressione totalizzante e capillare dei veicoli dell’informazione e del consenso. Laboratorio teorico e tecnico della psico logia di massa, riflette le varie « anime » 109 del regime: quella tecnologica che ha nel futurismo le sue origini, quella rurale e strapaesana, che si fonda sul mito della terra, della famiglia, della nazione, quella frivola e piccolo-borghese che subisce il fascino dei «grandi magazzini», della so cietà dei consumi, dei divi hollywoodiani, e naturalmente, quella più greve e retorica, impiantata sui trionfi del duce. Quest’ul timo assetto è quello più noto, quello che ci ha tramandato le immagini dell’imperialismo fascista, di quelle che Argentieri chia ma, parafrasando Mack Smith, le « guerre del Luce ». Sono le cronache dell’impero, le celebrazioni dei fati coloniali, la spetta colarizzazione della piazza e della « star » Mussolini che hanno dato fama ai cine giornali. Ma accanto a questa angolazione, c’è l’obiettivo rivolto, con una propaganda più sottile, alla vita quotidiana del paese fascista, ai suoi riti, alle sue feste, alla sua religione; e ci sono le immagini del mondo esterno, che fanno assaporare climi diversi. Il Luce, insomma, non documenta una po litica e una società compatte; fa trapelare, anzi, i sintomi delle sue lacerazioni. « Il Luce dispiace » titola Argentieri un suo paragrafo dedicato alle diverse accoglienze dei prodotti di propaganda. E infatti attac cano un Longanesi (annoiato dalle banalità propinate) un Freddi (che teorizza ben altro cinema), un Chiarini (sostenitore della pura arte); sono scontenti per motivi diversi i giovani del « fascismo di sinistra », che anzi vorrebbero vedere scomparire le scorie più frivole, le cronache mondane. Il Luce do cumenta, insomma, i limiti dell’intervento del regime, la sua impossibilità di creare un consenso compatto. Non è un caso che uno dei pochi tentativi di sintesi di queste varie anime del Luce e del fascismo fal lisca: si tratta del film Camicia nera di Gioacchino Forzano, poi manager dell’in dustria cinematografica e creatore degli stabilimenti di Terrenia. In questo colossal del ’33 si mescolano il documentario e la fiction, il trionfalismo retorico e il populi smo paternalistico, la cronaca diretta dei discorsi del duce e gli esperimenti di cinema d’avanguardia, l’informazione e Io spetta colo. L’esperimento fallì e il regime si orientò verso altre forme e stili atti ad ottenere un controllo sociale. Oggi, però, rivedendo un film come questo, si possono scoprire, al di là del messaggio ideologico, certe suggestioni formali. Come si possono scoprire, al di là della retorica del Luce, dei professionisti del documentario e dei 110 Rassegna bibliografica cineasti di qualità (Argentieri cita ad esem pio Corrado D’Errico, inventore tra l’altro del «film rivista», una versione più godi bile e spettacolare dei cinegiornali). Questo libro, insomma, è uno dei contri buti più seri, in una letteratura ormai am pia e non sempre «scientifica», sul cinema durante il fascismo; e uno stimolo, insieme, a riprendere con un’ottica nuova gli studi sul regime. Vito Zagarrio VIRGILIO SAVONA, MICHELE STRANIERO, Canti dell’Italia fascista, Milano, Garzanti, 1979, pp. 473, lire 4500. La canzone fascista nasce nel ’19 e finisce dieci giorni prima della caduta di Mussolini, il 15 luglio 1943 quando il «Canzoniere della Radio » interrompe la pubblicazione dei « Canti ed Inni della Patria in armi ». Canti dell’Italia fascista, il libro recen temente pubblicato da Garzanti, è il risul tato dell’accurata ricerca compiuta da Vir gilio Savona e da Michele Straniero, uno dei più attenti studiosi della canzone popo lare. L’esaltazione del Duce, il mito della violenza, il nazionalismo ottuso, l’eroismo d’accatto, l’imperialismo straccione, il mo ralismo piccolo-borghese col culto della mamma e della sposa a sanatoria delle minaccie distribuite a mezzo mondo, insom ma i motivi attraverso i quali il fascismo si proponeva di conquistare un consenso di massa ci vengono restituiti da questa allu cinante raccolta. All’inizio la canzone fascista prende a pre stito il repertorio socialista o anarchico, spesso limitandosi a cambiarne soltanto i versi; assieme a Nitti, Misiano, Giolitti, Sturzo, uno degli obiettivi dei picchiatori neri è quel Nicola Bombacci che più tardi, cambiata bandiera, sarà fucilato a Dongo assieme ai gerarchi fascisti. La rivoluzione e la marcia su Roma ven gono cantate sui motivi dell’arditismo di guerra: i versi « Giovinezza giovinezza primavera di bellezza » facevano parte di un inno che gli Arditi cantavano nel set tembre del ’17. E gli Arditi a loro volta l’avevano estrapolata da un canto goliardico scritto nel 1909 da Nino Oxilia. Il delicato autore di « Addio giovinezza » non avrebbe certo immaginato che i suoi versi avreb bero accompagnato per un quarto di secolo la storia del fascismo. La melodia del vec chio canto goliardico era stata composta da Giuseppe Blanc che infine gli dette la sua veste definitiva di Inno trionfale del Partito nazionale fascista, con la collabora zione di un altro attivissimo cantore di regime, Salvator Gotta. Dagli anni di « Manganel - tu che spac chi - il social cervel » e di « Pugnai fra i denti - le bombe a mano - macello uma no - macello umano » al fascismo-regime, con la sua aria di rispettabilità borghese, il recupero di una Roma imperiale co struita in cartapesta, più tardi le guerre coloniali con le sue motivazioni filantropico-civilizzatrici. Al re viene riservato un angolino, in citazioni globali assieme al Duce e alla Patria; soltanto più tardi, nel clima glorioso della conquista dell’Impero e della seconda guerra mondiale, il re viene gratificato di qualche verso tutto per lui: « Re Vittorio Nume di gloria - ti salutiamo Imperatori», e «Tricolor vince ognor! Per il Re vince ognor! ». La battaglia del grano — « Evviva agri coltori! Tripudia la terra d’Italia - c’è un sol Duce Mussolini! » scrive Giuseppina Zei — ispira un Inno del grano a E.A. Ma rio, il poeta della leggenda del Piave che lavora parecchio anche per il fascismo, da Noi tireremo diritto a Me ne frego: ma l’autorizzazione a riprodurre le sue canzoni è stata negata agli autori del libro, come è stata negata l’autorizzazione a riprodurre l’Inno per questa guerra di un autore in realtà meno legato al ventennio nero, Ugo Betti. Ma non manca il Pietro Mascagni del Canto del lavoro per il quale, oltre all’autore di Cavalleria rusticana, scendono in campo il più celebrato dei sindacalisti del fascio, Edmondo Rossoni, e il poeta napoletano Libero Bovio. E un altro fa moso poeta napoletano, Raffaele Viviani, reca il suo piccolo contribuito: « Appare l’Idolo - fore ’o balcone! - Tutte s’o guar dano - cu religione ». La guerra d’Etiopia trova il suo inno in Faccetta nera di Ruccione, un inno che non piace del tutto alle più alte gerarchie per l’eccessiva familiarità nei confronti del le indigene; piace di più Etiopia, nella quale composizione l’instancabile Blanc, in coppia questa volta con Bravetta, travasa i motivi coi quali il fascismo giustifica l’ag gressione, « La nostra gente - or non emigra più - per soffrir! - Il fecondo lavor - dei coloni - tutta l’Etiopia - farà fiorir». Si approssima la minaccia di un conflitto mondiale, e Mussolini, col suo intervento alla conferenza di Monaco del ’38, tocca Rassegna bibliografica il punto più alto del consenso, quale « sal vatore della pace »: su copione prepara togli da Hitler. Agli autori di Canti del l’Italia fascista è sfuggita una canzonetta che all’epoca fa subito presa e viene ese guita con partecipazione sincera: « Se il mondo vuol la pace - dovrà sentir la voce di un popolo che dice - Duce Duce Duce! ». Le canzoni della guerra, dopo il chiassoso e jettatorio Vincere, sono una stanca ripe tizione di minaccie terribili quanto vuote, di celebrazione di sconfitte dall’Amba Alagi a Giarabub, di promesse di un ritorno su territori occupati dal nemico: « Africa no stra - Noi - Ritornerem - Ritornerem Ritorneremo a te! ». Si ride in faccia a Monna Morte ed al Destino, su motivo di Zorro e Ruccione, ma in quasi tutte le canzoni c’è un solda tino che pensa alla morte — « Se cadessi per la mia Bandiera - la tua preghiera su nel cielo mi giungerà » —, e persino una fidanzata che non è sicura di sopravvivere al conflitto, « Un dì ritornerai - e allor mi sposerai - se morta non sarò». Il mo tivo della mamma ritorna quasi sempre, più spesso in una versione dolorosa, « Vai vai col tuo destin - la tua mammina ti stringerà sul cuor ». Tra il dicembre del ’42 e il gennaio del ’43 centomila soldati italiani scompaiono nella ritirata di Russia. « Bruno bersaglier di Ucraina - che in licenza vai pel tuo valor salutami passando una bambina - in quella stazioncina che romba nel mio cuor», sug gerisce il maestro Cherubini, in una delle ultime canzoni del tempo di guerra. Sergio Valentini Resistenza CAMILLA CEDERNA, MARTINA LOMBARDI, MA RM A som are , Milano in guerra, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 271, lire 10.000. Preceduto da una breve introduzione di Camilla Cederna, il volume si sorregge su una ricca documentazione iconografica trat ta da archivi pubblici e privati, su un ampio e intelligente collage di immagini, docu menti, articoli della stampa ufficiale e clan destina. L’introduzione della Cederna, che ricostrui sce sul filo della memoria e sulla scorta di un avvincente epistolario familiare, la vita 111 della città in quegli anni, più che come un saggio si presenta come una intelligente ricostruzione di un lessico familiare e am bientale, di uno stile di vita e di un modo di vivere la tragedia della guerra tutto per sonale e pervaso di valori laici e borghesi che impongono il loro ordine al caos e alla tragedia e quasi prefigurano i criteri della ricostruzione. Su questa esile e personalissima trama si innesta la cronaca della città, costruita se condo uno schema abbastanza originale nel tentativo di ricostruire tutti gli aspetti po litici, economici, sociologici (alimentazione, lavoro, trasporti, divertimenti, propaganda, i repubblichini, i tedeschi, la resistenza). Argomenti tutti ricchi di interesse, ma di diverso peso e valore, tutti appiattiti in una cronaca che si vuole la più ricca ed eva siva, cronaca che affastella affiches pubbli citarie, locandine teatrali, volantini, articoli del « Corriere della sera » ed epistolari, e in cui il compito di dare corpo e rilievo storiografico è affidato alle didascalie attente ed informate (anche se non raramente in contrasto con il testo della Cederna, come nel caso dei morti di Gorla). Restano quindi molte incertezze sul taglio e sulla selezione dei singoli temi: una do cumentazione più attenta sulla situazione abitativa, sull’entità delle distruzioni e la loro localizzazione, un’indicazione meno ge nerica sulla situazione e sulla produzione industriale, sul pendolarismo operaio, sa rebbe stata possibile e più utile sulla scorta della produzione bibliografica ormai molto ricca, che non la vasta e a volte generica iconografia. L’assenza di precise indicazioni sulle fonti accentua il carattere occasiona le di questa e di molte opere analoghe. Inutile dire a questo punto che la parte dedicata alla resistenza (pp. 246-271) rap presenta un corollario necessario ma non sufficiente, per documentare la vita politica, la militanza, le iniziative, ampie e a livello di massa, di « quell’altra Milano » che nella clandestinità conduceva la lotta di libera zione e pagava nelle fabbriche e nelle car ceri il prezzo più alto. Nanda Torcellan Pier nello m ar telli , La Resistenza nell’alta Maremma, Pisa, Giardini ed., 1978, pp. XX+252, con 2 carte geog. e 16 tav. f.t., lire 8.000. L’interesse ed il valore della lotta di libe razione nella fascia sud-occidentale della 112 Rassegna bibliografica Toscana sono stati ripetutamente sottoli neati, anche da chi scrive, non solo al fine di una più approfondita conoscenza della storia nazionale di quegli anni, ma anche perché, a nostro modo di vedere, è possi bile seguirvi, in ogni fase e con particolare facilità, l’evolversi dell’intreccio politico militare della Resistenza dall’iniziale guer riglia, in larga parte spontanea, ad un mo vimento politicamente maturo e militar mente organizzato, anche se tutt’altro che privo di contrasti interni. Infatti in questa zona dal composito assetto socio-economico e dalle particolari tradizioni politiche e cul turali — l’uno e le altre in gran parte ancora da studiare sia separatamente, che nelle reciproche interazioni — le forze più moderate e conservatrici del fronte anti nazifascista riuscirono a svolgere una larga opera di contenimento delle spinte innova trici emergenti dal movimento resistenziale; operazione che ebbe il suo fulcro in pro vincia di Siena e le sue principali artico lazioni nell’Aretino da un lato e nel Gros setano dall’altro. Alla scarna bibliografia sulla Resistenza nella Toscana sud occidentale si aggiunge oggi il contributo del Martelli, centrato sulla figura del maggiore Mario Chirici, uno dei comandanti partigiani che operarono nella zona a cavallo fra le provincie di Livorno e di Grosseto. L’argomento, di per sé assai circoscritto, ha un interesse di particolare rilievo per le oscillazioni fra il collegamento coi CIn e la dipendenza dal comando ba dogliano del Raggruppamento Monte Arma ta che contraddistinse la condotta del Chi rici e che s’inquadra nello scontro fra le componenti politiche conservatrici e quelle progressiste, cui accennavamo più sopra. Conseguenza immediata di questo dissidio, che aveva ben precisi riflessi sull’andamento dell’attività militare, fu la frantumazione delle forze che, se unite, avrebbero potuto creare ai nazifascisti dei problemi assai più gravi di quelli che in effetti vennero a co stituire. Detto questo, risulta evidente l’im portanza che riveste non solo la ricostru zione delle operazioni militari effettuate dai partigiani, ma anche, e soprattutto, una puntuale analisi delle vicende politiche che stavano alla base dell’attività militare o che da questa erano innescate. In questa pro spettiva la figura del Chirici potrebbe avere un valore quasi emblematico, qualora ve nissero evidenziate le motivazioni della sua condotta e le relative conseguenze sul piano operativo, fossero precisati i caratteri, la composizione e l’attività dei centri politici che su di lui influirono e i canali attraverso i quali le loro sollecitazioni gli pervennero. Da questo punto di vista il lavoro del Mar telli —- essenzialmente fondato sulle carte dell’archivio Chirici, reperite dopo una lun ga e paziente quanto lodevole ricerca —risulta assai carente, essendo prevalente mente dedicato alla ricostruzione dell’atti vità militare svolta dai reparti comandati dal Chirici. Né è valso ad allargare il di scorso ai contrasti politici, di cui il Chirici fu, oltre che soggetto, anche oggetto, la pubblicazione, risalente al 1965, della « Ri soluzione votata dai delegati e militari della III Brigata d’Assalto Garibaldi, riuniti a S. Vincenzo il 2 dicembre 1945» nel vo lume La provincia di Grosseto alla macchia, che il Martelli avrebbe dovuto, a nostro modo di vedere, prendere in considerazione e che, invece, non risulta ricordata nel volume. Certo l’aver voluto restringere la base do cumentaria della ricerca alle carte Chirici, trascurando il materiale archivistico esisten te presso l’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, l’Archivio Centrale dello Stato e l’Istituto Nazionale per la Storia del Mo vimento di Liberazione in Italia, nel timore, forse, che, allargando troppo il discorso, la figura del Chirici non spiccasse a dovere, non ha giovato al lavoro del Martelli al pari della ristrettezza della base bibliogra fica, in cui è inspiegabile la mancanza di pubblicazioni essenziali, quali, tanto per citarne un paio, la già ricordata Provincia di Grosseto alla macchia ed il volume a cura del De Michelis, Comando Raggrup pamento bande Italia centrale: settembre 1943-luglio 1944, Roma 1945. Il risultato è un lavoro che, pur avvertendo alcuni dei problemi sopra ricordati, non approfondisca in maniera omogenea l’analisi dei vari aspet ti e delle diverse componenti dell’argomento prescelto e finisce con lo stemperare e rele gare in secondo piano le caratteristiche socio-economiche, politiche e culturali della zona considerata (talvolta in modo ecces sivo: si veda, ad esempio, lo spazio dedi cato alla cospirazione antifascista piombinese, senz’altro la più viva e vigorosa della zona) al pari delle vicende politiche che agitarono il fronte resistenziale per privi legiare la figura del Chirici, che risulta, così, in gran parte staccata dall’ambiente in cui egli si trovò a operare. Malgrado queste osservazioni critiche non va dimenticato che il Martelli ha il merito Rassegna bibliografica di aver affrontato per primo uno degli aspetti più controversi della Resistenza to scana, portando un contributo fondato su una documentazione finora inedita, di cui l’A. pubblica in appendice — assieme a utili prospetti riassuntivi e carte d’imme diata lettura — una larga scelta di impor tanti documenti. È quindi da auspicare che il Martelli voglia riprendere l’argomento, integrandolo con la documentazione che va emergendo, per approfondire ed estendere la ricerca anche alla luce delle tematiche che l’elaborazione storiografica va progres sivamente individuando e definendo per una più corretta ricostruzione e comprensione della lotta di liberazione, in tutti i suoi non sempre univoci aspetti, e degli eventi successivi su cui questa in qualche modo influì. Giovanni Verni f ed er ig i , Versilia Linea Gotica, Roma, edizioni Versilia Oggi, 1979, pp. 335, lire 10.000. liborio g uccio n e , Il Gruppo Valanga e la Resistenza in Garfagnana, a cura dell’Am ministrazione Provinciale di Lucca, Lucca, ed. M. Pacini Fazzi, 1979, pp. 319, sip. fabrizio La storia della Resistenza in provincia di Lucca coincide in gran parte con quella della linea Gotica, ultima difesa che i te deschi apprestarono nel settembre 1944 do po la caduta di Firenze e sulla quale resi stettero accanitamente fino allo sfondamen to alleato della primavera 1945. La pro vincia di Lucca si trovò divisa in due: al di qua della linea il territorio liberato, al di là lo schieramento tedesco, in mezzo una ristretta « zona di nessuno » che per tutto l’inverno ’44-’45 vide i continui attacchi alleati esaurirsi contro la tenace difesa delle truppe naziste. Partendo dalla foce del Cinquale, a poca distanza dall’abitato di Forte dei Marmi, la linea seguiva il corso del torrente Ver silia, risalendo verso Seravezza, raggiun gendo le Alpi Apuane e scendendo nella valle del Serchio (Barga), da dove prose guiva per la provincia di Modena. I tede schi vi si attestarono al termine della san guinosa ritirata da Firenze, culminata nelle stragi di S. Anna di Stazzema del 12 agosto 1944 (570 vittime) e S. Terenzo (53 morti) e in numerosi altri eccidi (Valpromaro, Sas saia di Montramito, Nocchi, Compignano, Certosa di Farneta ecc.). Mentre si svilup 113 pava un’intensa attività partigiana, che con tribuì tra l’altro alla liberazione di Lucca, Viareggio e Bagni di Lucca (5, 16 e 27 set tembre ’44), i tedeschi poterono ritirarsi senza eccessive difficoltà sulle difese già predisposte della « Gotica », mentre stava no entrando in linea i reparti di colore della 92“ Divisione americana « Buffalo ». Da questo momento iniziò una lunga fase di stagnazione, caratterizzata dagli innume revoli quanto sterili attacchi americani lun go tutto il fronte, di cui Federigi fornisce una cronaca esatta e circostanziata. Una prima offensiva in direzione di Massa fallì in ottobre, un’altra (combinata con la Di visione partigiana « Lunense ») in Garfa gnana si concluse senza risultati alla fine di novembre; a fine dicembre i tedeschi riuscirono addirittura a sfondare il fronte del Serchio, del resto prontamente ricacciati dalla 8“ Divisione indiana al termine di sanguinosi combattimenti. Il fallimento più clamoroso fu comunque quello dell’offen siva sul Cinquale del febbraio 1945, respinta con gravi perdite americane. Come afferma Federigi, alla base di questi continui insuc cessi stavano gravi carenze tattiche della 92“ Divisione: dispersione operativa, scarsa efficienza delle truppe di colore anche sul piano della combattività individuale, errori grossolani nella scelta delle direttrici di at tacco ecc. D’altre parte simili errori tattici si inserivano in un quadro strategico do minato da una scelta sostanzialmente immobilista dei comandi alleati (all’interno della quale si spiega anche il proclama del gen. Alexander ai partigiani). In complesso la dettagliata ricostruzione di Federigi con ferma il giudizio dello Shepperd sulla si tuazione del settore costiero della V Ar mata USA nell’inverno ’44-’45: « Gli al leati non avevano mai cercato di penetrare profondamente nelle montagne, acconten tandosi di difendere le pendici meridionali, a una distanza sufficiente a coprire il porto di Livorno » (La campagna d’Italia, Gar zanti, Milano 1975, p. 413). Per l’offensiva finale i reparti della « Buffalo » vennero riorganizzati, con la massiccia immissione di truppe di origine giapponese, che per unanime giudizio fornirono prove migliori di quelle negre utilizzate fino ad allora. La ricostruzione di Federigi è molto attenta agli avvenimenti militari (nonché alle con seguenze della guerra sulle popolazioni ci vili), seguiti con precisione estrema. II pre gio del libro è però anche il suo limite, in quanto poche volte si esce dal cronachismo 114 Rassegna bibliografica (eccellente in sé) per delineare una sintesi o spunti interpretativi di più ampio respiro. Anche l’attività delle formazioni partigiane viene seguita quasi esclusivamente nei suoi aspetti militari, con pochi cenni all'orientamento ideologico, al dibattito politico che certamente si svolgeva al loro interno e al contesto generale (politico-militare) della guerra partigiana. Limiti a cui non si sottrae nemmeno il volume di Guccione, che ricostruisce le vi cende della Resistenza in Garfagnana, con particolare attenzione all’attività del gruppo autonomo « Valanga », costituito dal gio vane studente universitario Leandro Puccetti all’Alpe di S. Antonio nel febbraio 1944. La sua attività — dopo la morte in combattimento di Puccetti alla fine di ago sto — si svolse in stretto collegamento con le formazioni autonome di Manrico Ducceschi (« Pippo ») che coprivano l’XI Zona Patrioti (dalle Apuane alla Garfagnana all’Appennino pistoiese) e con la stessa Di visione Garibaldi « Lunense » guidata dal maggiore inglese Antony Oldham, di cui era commissario politico Roberto Battaglia (che raccontò le vicende della guerra in questa zona nel celebre Un uomo, un par tigiano del 1945, ried. 1965). Anche in questo caso l’attenta ricostruzione dei fatti non riesce a superare un tono eccessiva mente cronachistico. In ogni modo i due volumi si presentano come utili contributi allo studio della guerra di liberazione in una zona particolarmente importante nel quadro complessivo della campagna d’Italia e alla quale finora non erano stati dedicati studi critici di grande rilievo (ma come dimenticare, su un altro piano, quel capolavoro della narrativa resi stenziale che è 11 clandestino di Mario Tobino, le cui vicende si svolgono proprio sul fronte versiliese?). Da segnalare in appen dice al volume di Guccione il diario di don Paimiro Pinagli parroco di Filicaia (a cui attinge largamente anche Federigi), che segue giorno per giorno le vicende della guerra in Val di Serchio dal 30 aprile 1944 al 22 aprile 1945. Francesco Bogliari La provincia di Forti nella resistenza e nella guerra di liberazione. Immagini e do cumenti, Forlì, Istituto storico della Resi stenza, 1979, pp. 182, sip. La funzione degli Istituti storici della resi stenza, di affiancare alle ricerche scientifi che, pensate prevalentemente per gli addetti ai lavori, opere di « divulgazione », nel sen so più serio del termine, è troppo spesso dimenticata o trascurata e sempre più sem bra prevalere la tendenza a trasformare gli Istituti in organismi parauniversitari che svolgano quelle ricerche che gli Atenei non vogliono o non sono più in grado di svol gere. In tal modo viene però a cancellarsi quello stretto rapporto fra cultura e politica che era alla base delle ipotesi di Ferruccio Parri quando diede vita alla « catena » de gli Istituti per la storia della resistenza. Questo volume edito dall’Istituto di Forlì e curato da Claudio Albonetti, Vladimiro Flamigni e Orazio Marchi sembra invece ri portare ad ottimo livello la vecchia ipotesi di lavoro, presentando una fotostoria che, affiancando immagini alla riproduzione dei più significativi documenti relativi al For livese (con qualche confusione, come spesso accade, con l’intera Romagna...), costituisce contemporaneamente una messa a punto scientifica della storia resistenziale locale ed uno strumento didattico di estrema validità ed utilità. Ciò che la fotostoria fa perdere (né può essere altrimenti) di sintesi storico politica organica, lo fa riguadagnare larga mente nella presa di contatto diretto con l’immagine e con lo scritto, e quindi in ter mini di storia sociale. Luciano Casali Consiglio regionale della Liguria, La donna nella Resistenza in Liguria, a cura di G. Benelli, B. Montale, G. Petti Balbi, N. Simonelli, D. Veneruso, Firenze, La Nuova Italia, 1979, pp. 236, lire 12.000. Il fine principale degli autori sembra essere stato quello di mettere in risalto l’impor tanza delle donne all’interno della lotta di liberazione. Questa preoccupazione, però, li ha portati a diversi «errori»: a genera lizzare fenomeni nella realtà ben più circoscritti (leggendo il libro sembrerebbe che tutte le contadine avessero un partigiano nascosto in casa); oppure a dare per scon tate situazioni che sarebbero invece da di mostrare (ad esempio che le donne ebbero un ruolo decisivo nell’isolamento dei fa scisti); a spiegare alcune situazioni sulla base di luoghi comuni o di presunte qualità, che di storico o di scientifico hanno ben poco (ad esempio il fatto che le donnestaffette riuscissero a superare abbastanza facilmente i posti di blocco non viene mo tivato in base al fatto che, essendo il loro Rassegna bibliografica compito, avessero elaborato delle « tatti che », oppure che, essendo donne, proba bilmente, nel pensiero dei fascisti, erano potenzialmente meno pericolose degli uomi ni; ma solo perché « essendo donne, occul tavano con astuzia l’atteggiamento ribelle »). Manca invece totalmente la volontà di su perare una specie di tentativo di « riabili tazione » del ruolo che le donne hanno avuto nella Resistenza, tanto che si arriva ad attribuire loro una funzione che, nella realtà, non hanno svolto; a scapito di una analisi sulle cause per cui le donne non ebbero, di fatto, un ruolo di primaria im portanza nella Resistenza, fine che la ri cerca, almeno nei suoi presupposti, si era invece prefissato. La motivazione, tra l’al tro generica e superficiale, che emerge, nel tentativo di spiegarsi la mancanza di un discorso politico più specifico dei soggetti femminili, è nella tradizionale diffidenza e riservatezza delle contadine liguri. Positivo è il tentativo di presentare, per ogni sezione del volume, un panorama sto rico-economico della situazione, analisi che, però, avrebbero dovuto avere una utilizza zione maggiormente finalizzata alla ricerca specifica, più di quanto non sia stato fatto. Simonetta Pillon angelo Francesco babini , Giovecca. Anche qui è nata la Resistenza, Giovecca, Comi tato antifascista, 1980, pp. 537, lire 15.000. Vent’anni or sono lo stesso A. diede alle stampe 1323 pagine che, attraverso una visione della storia e della preistoria uni versali aventi come centro di irradiazione la piccola località di Conselice nella bassa ravennate, ricostruiva tutti gli avvenimenti dell’orbe terracqueo a partire da Adamo fino alla Resistenza. Il volume andò, giusta mente, ignorato. Ora lo stesso Babini pro pone una nuova storia universale con al centro una località ancor più piccola, Gio vecca di Lugo, ma in compenso ridimen siona l’arco cronologico che parte « sol tanto » dal 24 gennaio 1437, per giungere egualmente alla Resistenza. Anche questo volume, nonostante le fatiche dell’A., sa rebbe da far sparire velocemente nell’an golo più buio degli orrori, se non fosse per il fatto che in esso sono inserite (senza alcun riferimento al testo, se non casual mente) alcune centinaia delle più belle fo tografie scattate in Romagna fra gli ultimi anni dell’800 e il 1945, la maggior parte 115 delle quali assolutamente inedite. Il lavoro dei campi, le abitazioni, gli attrezzi, le feste e le manifestazioni religiose e politiche ap paiono da immagini chissà dove recuperate (quasi mai ne è indicata la fonte!). Le bel lissime foto della lavorazione della canapa (pp. 198-202), delle lavandaie al fiume (pp. 171-175, 188), dell’« operaio fochista alla fornace di Campotto » (p. 177), le mondine (pp. 61, 157-160), la mietitura (pp. 89-93), gli emigrati (p. 104), gli scarriolanti (pp. 126-141) rappresentano da sole un quadro di storia sociale di inimmaginabile valore. E non abbiamo ricordato che poche delle « serie » che compaiono nel libro. Peccato che, a fianco di tante magnifiche fonti, l’A. abbia sentito la necessità di scrivere tante pagine... Luciano Casali Movimenti femminili franca pier o n i bortolotti , Femminismo e partiti politici in Italia. 1919-1926, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 416, lire 4.800. Una miriade di figure e figurine della sinora sconosciuta storia del femminismo italiano ed internazionale giunge finalmente alla chiarezza delle coordinate storiche dalle pa gine dell’ultimo lavoro di Franca Pieroni Bortolotti: « Femminismo e partiti politici in Italia. 1919-1926», Roma, Ed. Riuniti, 1978. L’Autrice con la competenza propria della studiosa e l’aggressività d’obbligo della fem minista, senza mai polemizzare direttamente e inutilmente, continua in questo libro l’ope ra iniziata da tempo, tesa a togliere dal l’occultamento e dal surgelamento a cui la società fascista e postfascista l’aveva con dannata, la storia della « causa della don na », come si diceva un tempo, mostrando non solo come negli anni succitati tale « causa » fosse al centro della vita nazio nale e internazionale, non solo la varietà delle persone che ad essa si dedicarono, ma soprattutto come la mancata tenuta dei partiti su questo fondamentale principio di vita democratica fosse l’inizio del frana mento del socialismo e l’avvio tortuoso, anche se in parte mimetizzato, dei processi di fascistizzazione e d’involuzione degli anni Venti e Trenta. « È un fatto a cui gli sto rici non fanno caso, ma è pure un fatto, che il femminismo, come il socialismo, è 116 Rassegna bibliografica uscito dalla prima guerra mondiale col se gno di una profonda, intima sconfìtta: sono movimenti che hanno subito una violenza da parte dei governi che hanno dichiarato la guerra. Il fine della Seconda Internazio nale, come ha scritto il Cole, non era, nel l’immediato il socialismo; ma era, sempre, la difesa della pace. Qualche cosa del ge nere si può dire del femminismo: di fronte alla dichiarazione di guerra, il femminismo ufficiale ha sempre contrattato la sconfìtta, e chiesto il suffragio come risarcimento » (P- 37). Il principio fourieristico della posizione so ciale della donna come misura della civiltà d’un popolo, visto alla luce delle vicende degli anni roventi del primo dopoguerra, pur nella sua inscindibilità, presenta qui connotati diversi e concretissimi e impone più vaste analisi di quelle svolte sinora tendenti a confinare in un ghetto mentale la questione femminile o, per lo meno, a ridurla ad appendice del discorso socio-po litico. E se, per la destra, sancente il prin cipio della divisione della società in classi, il mantenere ancora in vita la classe donna non implicava un rabberciamento di prin cipi, un’allarmante stasi alle sue implacabili marce verso il progresso, per la sinistra il problema diventava essenziale, funesto il negarlo in se stesso, come in fondo si fece alla terza conferenza della Terza Interna zionale, i cui limiti e le cui motivazioni storiche non sfuggono ovviamente all’Autri ce. La spaccatura tra femminismo ufficiale e femminismo operante — si pensi in pro posito alle decise lotte delle donne per la pace negli anni 1916-17 e alla loro testi monianza pratica di femminismo oltre alla loro scarsa utilizzazione politica — altro non furono in fondo che il preannunzio della spaccatura tra vertice e base, almeno quella dei centri più proletarizzati del pae se, che si vide poi macroscopicamente nel più studiato e sofferto momento dell’occu pazione delle fabbriche. Sbagliarono i par titi politici che non videro come l’argo mento del suffragio avrebbe dovuto essere inteso: non come « prezzo dell’anima», ma come contraddizione del sistema, appiglio per una più vasta opera di solidarietà che fosse argine e lievito nella lotta contro l’evitabile ascesa del fascismo: « Soltanto una vigorosa sottolineatura dei valori de mocratici, ovunque reperibili, tanto nelle zone avanzate del pensiero borghese e delle <repubbliche borghesi > quanto nelle impli cazioni giuridiche e morali della rivoluzione sovietica, nelle energie straordinarie che la prospettiva egualitaria aveva liberato nella società sovietica, soltanto un coraggioso ri fiuto della tradizione, della divisione dei ruoli sociali tra i sessi avrebbero potuto consentire ai comunisti dei due sessi di quegli anni di contestare e distruggere cri ticamente fino in fondo la morale regres sista del fascismo » (p. 300). Ma il maschismo partitico, e in generale l’incapacità di teorizzare e propagandare il nuovo, di sfruttare le contraddizioni, elu dendo il presente, aveva determinato il di scredito, il marchio di battaglia borghese ai problemi della specifica oppressione fem minile. Invece di lanciarsi a studiare eco nomicamente le dimensioni del doppio la voro femminile o all’ottimale strategia d’at tacco di tali masse, davanti alla legge Acer bo per il « voto alle signore » — momento dell’abile manovra mussoliniana per to gliere a tutti il diritto elettorale in un im mediato futuro — i partiti di massa si misero di lena a rigettare con repellenza il termine stesso di femminismo: « Da quel momento, all’interno della democrazia ita liana e del corrispondente movimento ope raio, il termine <femminismo > sarà asso ciato, nell’inconscio, a posizioni antidemo cratiche e antisocialiste, e come tale sarà inconsciamente respinto. Questo è stato il risultato di una di quelle operazioni pro pagandistiche — in questo caso generata dall’anticomunismo — di basso conio che con tanta frequenza uomini e donne com piono se credono davvero che il <politique d’abord> legittimi l’imbroglio; l’unico fine che viene in tal modo raggiunto è la dif fusione di equivoci verbali che ritardano e intralciano lo sviluppo in senso progressista di qualsiasi società nazionale » (p. 244). Il rigetto del termine è certo fenomeno che va ancora approfondito, per la giusta acquisizione di coscienza illuministica o freudiana che sia, ma non ci pare che esso sia dovuto al trauma collettivo della classe operaia di fronte alla legge Acerbo; il pro cesso purtroppo era già rigogliosamente in atto negli anni della guerra e dell’imme diato dopoguerra, come certificano tante pagine de « Il Grido del Popolo », de « L’Or dine Nuovo » e di tutta la stampa di sini stra di quegli anni. E ancor oggi ne sen tiamo i postumi: la repulsione della pa rola, e quindi del concetto, rende spesso difficile la convinta mobilitazione di masse e di apparati, con lo scotto di avere le organizzazioni della classe operaia impegna Rassegna bibliografica te a combattere non come parte dirigente o d’avanguardia ma spesso nella pur im portante qualità di triari le battaglie dei diritti civili interessanti in modo precipuo le donne. Altro merito indiscusso del libro sono le varie digressioni, non estranee ma tendenti a chiarire i rapporti esistenti tra il com plesso movimento femminista italiano e il suffragismo inglese e americano, oltre che quello russo e tedesco. Si fanno così cono scere al nostro pubblico i nomi di Gunley Finn, di Silvia Pankhurst, di Elizabeth Stanton, di Lucy Stone, di Chapman Catt, oltre a quelli già noti di Alessandra Kollontaj, e d’Inesse Armand, nonché di tante dimenticate compagne italiane, ad esempio — tanto per citarne qualcuna — di Teresa Recchia, di Maria Gioia, di Abigaille Zanetta. Non si capisce invece l’aggressività della Bortolotti verso una figura di tutto rispetto del femminismo italiano come Ma ria Giudice, principale protagonista del grande sciopero dei tessili valsesiani nel 1914, direttrice nel 1916 de « Il Grido del Popolo » torinese e, per un certo periodo dello stesso anno, segretaria della Camera del Lavoro di Torino, in prima fila tra i combattenti dei moti d’agosto del 1917 in quella stessa città. Il proudhonianesimo di cui è accusata è ancora tutto da dimo strare e certo non compare né nella sua azione, sempre coraggiosa e generosa, né nei suoi scritti, spiacevoli se mai per limiti di stile. Giustamente valorizzate, pur nelle diverse dimensioni, ci paiono invece le figure di Camilla Ravera e di Teresa Noce, mentre Rita Montagnana attende ancora il biografo che ne chiarisca il profilo di dirigente di valore nazionale già in periodo pretogliattiano e sappia interpretare il suo ultimo dignitoso silenzio rompendo quello molto meno giustificato degli storiografi. Oltre alla variegata gamma del femminismo socialista vengono puntualmente definiti gli slanci e i limiti del femminismo cattolico come i grossi equivoci di quello nazionalfascista, del tutto suggestionato dalla de magogia sansepolcrista. E continui spiragli di conoscenza si aprono sui nodi della po litica sovietica e italiana che, come nel caso della dissertazione sul perché della pre senza del divorzio nella Carta del Carnaro, non possono che sorprenderci piacevolmen te. L’unica pagina che non ci pare s’intoni perfettamente con il resto dell’opera, né per sincronia né per criticità, è l’elogio del 117 machiavellismo di Togliatti proprio oggi che numerosi memoriali e saggi storici ne mostrano i pesanti e non sempre inevitabili costi durante il periodo staliniano, tragico per troppi aspetti. Ma l’opera della Bortolotti è anche avvin cente per l’energia e l’amore da appassio nata archeologa che pone nello strappare rovi e sterpaglie dall’antico sentiero, ripor tandone alla luce tratti, pregi e difetti, co me per la composta sincerità con cui, nelle sue conclusioni, in obbedienza al canone femminista del personale-politico, ci spiega la sua via intellettuale al femminismo e alla sua storia. Certo fatalmente s’incon trano qua e là piccoli errori su aspetti pe riferici della questione, ma incomparabile è la ricchezza di spunti e di stimoli per nuovi studi che possono giungere da questa lettura. Senso politico vigilante, sincera co scienza femminista, abilità nell’uso e nei riferimenti degli strumenti scientifici svol gono, sullo sterminato materiale raccolto, una funzione ordinatrice e per certi aspetti fondatrice della mai scritta, prima d’ora, storia del femminismo italiano considerato in uno dei suoi più intensi periodi. Rachele Farina and jil l norris , One Hand Tied Behind Us. The Rise of thè Women’s Suffrage Movement, London, Virago, 1978, pp. 304. j il l liddington Un libro che contiene elementi di storia locale e storia nazionale, storia orale e storia delle donne attira inevitabilmente l’at tenzione data l’attuale congiuntura storio grafica; in questo caso l’impegno del lettore è ampiamente ripagato. In realtà si tratta di uno studio di storia politica del movi mento di base a favore del voto femminile in alcune zone del Lancashire attorno al 1900, specificamente nelle zone dei cotoni fici dove la manodopera era in larga mag gioranza femminile. L’attenzione maggiore è rivolta ai cosiddetti «suffragisti radicali», i gruppi con una forte base operaia che combinavano con l’obiettivo del voto una serie di richieste politiche e sociali intese a cambiare drasticamente le condizioni e i rapporti di lavoro nelle fabbriche locali, e a rivendicare uno status nuovo per la don na come riconoscimento del suo ruolo nel l’economia nazionale. Oltre alle famose Pankhurst (che qui ven gono smitizzate in modo drastico) esisteva nel Lancashire e nel Cheshire una fitta rete 118 Rassegna bibliografica di comitati di lotta e di associazioni di base costruita da donne che in un modo o l’altro riuscivano a trovare l’energia e il tempo per discutere e per organizzarsi nonostante la mole di impegni di lavoro e di famiglia di cui erano oberati. Ovviamente erano donne eccezionali, e ove possibile vengono nominate una per una e viene ricostruita la loro biografia. I complessi rapporti con i partiti del mo vimento laburista e i trade unions costitui scono la parte centrale della narrazione, fino al punto in cui le suffragiste radicali formano la propria organizzazione nazio nale, il National Union of Women’s Suffrage Societies nel 1897. Fra corporativismo e massimalismo (o il voto adulto totale o niente) i trade unions in particolare costi tuivano spesso un’opposizione formidabile quanto l’establishment e il padronato, e senza l’appoggio costante di Keir Hardie, neanche l’Independent Labour Party avreb be dato il contributo significativo che spesso invece diede. La « trama » del libro parte da urta descri zione chiara e efficace della situazione della donna-operaia nel contesto sociale locale, e della struttura dell’industria cotoniera in particolare. Segue poi il racconto degli alti e bassi del movimento suffragista man ma no che esso passa, con molte difficoltà, dalla base locale al piano nazionale con la for mazione del National Union già menzio nato. Con la scissione fra l’Ilp e le suffra gette delle Pankhurst, e la distanza sempre maggiore fra quest’ultime e le suffragiste radicali dopo il 1905-06, il movimento co minciava ad affievolirsi, diviso com’era sul problema della violenza, sugli obiettivi e sui rapporti con il nascente Labour Party (che adottò il suffragio delle donne come obiettivo solo nel 1911). L’inizio della Gran de Guerra sembrò dare il colpo di grazia, in realtà offrì alle donne inglesi opportunità senza precedenti di rompere i rapporti tra dizionali e di aprire la strada alla vittoria elettorale e ad un certo progresso sociale; le autrici dimostrano come si sviluppò que sta nuova situazione. Sia la Liddington che la Norris lavorano ora come insegnanti nel campo dell’educa zione adulta, e si vede che e soprattutto a questo tipo di platea che il libro è indi rizzato. Il linguaggio è chiarissimo e diretto; la storia viene dalle labbra delle protagoniste; il quadro di riferimento è strettamente il loro (specificamente quello delle suffragiste radicali). Un tale metodo rischia tuttavia di restringere il panorama storico, di indurre la concettualizzazione ai livelli minimi essenziali e di presentare i problemi grossi, come per esempio quello del rap porto fra donne operaie e donne del ceto medio (quest’ultime dominanti a livello na zionale) semplicemente come sono vissuti allora, cioè pragmáticamente. Ma l’aver ri costruito quasi da zero (con l’uso di fonti locali e di fonti nazionali di tutti i tipi) la storia di questo momento eccezionale di mobilitazione delle donne in un modo rigo rosamente scientifico e allo stesso tempo attraente e comprensibile da chiunque, rap presenta una conquista sempre rara. David Ellwood aleksandra kollontaj , Vivere la rivolu zione, a cura di Alix Holt, Milano, Gar zanti, 1979, pp. 267, lire 5.500. Il 9 marzo 1952, a ottant’anni, moriva a Mosca, in solitudine, Aleksandra Kollontaj, senza che i maggiori quotidiani russi ricor dassero il contributo che la Kollontaj aveva dato alla rivoluzione, senza che la stampa borghese europea ricordasse l’abile e bril lante ambasciatrice sovietica. Rivalutata negli anni Settanta dai movi menti di liberazione della donna come teo rica del femminismo comunista degli anni Venti, solo in questi anni sono riapparsi in lingua italiana molti dei suoi scritti, com presa l’edizione integrale della sua autobio grafia. In «Vivere la Rivoluzione», oggi edito da Garzanti, tornano all’attenzione del nostro pubblico alcuni saggi scritti dalla Kollontaj negli anni che vanno dal 1909 al 1948, pazientemente ricuperati da Alix Holt, curatrice del libro. Il discorso sulla Kollontaj, dato il numero ormai notevole di sue pubblicazioni in ita liano, richiederebbe tuttavia più che la mo desta segnalazione dei suoi scritti, un ampio lavoro di puntualizzazione dei principali cardini del suo pensiero, così come degli inquietanti interrogativi delle sue vicende umane e storiche. Un convegno su questa figura, riemersa con forza dall'oblio cui pareva condannata, potrebbe inoltre aiutar ci a stabilire l’odierno livello di conoscenze storiche del femminismo in Urss, chiarendo possibilmente quanto le teorie della libera zione sessuale e dell’abolizione della fami glia tradizionale, sostenute dalla Kollontaj negli anni 1917-21, si configurassero come realizzato socialismo o come marcusiana utopia. Rachele Farina Rassegna bibliografica m irella a llo isio , Marta AJÒ, La donna nel Socialismo Italiano, prefazione di Riccardo Lombardi, Cosenza, Lerici, 1978, pp. 172, lire 3.500. Che direbbero Anna Maria Mozzoni, Anna Kuliscioff, Abigaille Zanetta se potessero leggere quest’amara storia della donna nel socialismo italiano? Il volumetto storico scritto da Mirella Alloisio e Marta Ajò, presentato dall’editore Lerici, percorrendo velocemente — dal 1892 al 1978 — la questione femminile nell’ambito del partito socialista, propone varie tesi: la non tra smissibilità ai compagni della « causa della donna » — anche ad un compagno della levatura di Riccardo Lombardi — l’assur dità di credere, come le succitate protoso cialiste credettero, che il socialismo possa, di per sé, senza analisi, dibattiti, gioco di forze, risolvere anche la questione femmi nile; l’impossibilità che nell’ambito di un partito il solo credo democratico permetta una funzione attiva e dirigente, e non pu ramente rappresentativa, delle compagne impegnate nella liberazione di sé e del l’organizzazione stessa dagli ormai insop portabili e sterili corporativismi e paterna lismi maschili. « Dal ’45 ad oggi la presenza femminile a posti di responsabilità ha piuttosto subito un calo che un’ascesa: una sola donna deputata, nessuna nella direzione, 15 don ne soltanto nel Comitato Centrale su 227 membri; nessuna responsabile, a livello na zionale, di sezioni di lavoro, nessuna segre taria di Federazione, nessun sindaco. Non ti sembra una contraddizione con quanto il partito sostiene a proposito dell’inseri mento della donna nella società? ». A questa domanda rivolta a Riccardo Lom bardi nelle prime pagine del libro, leggiamo una risposta tranquilla e senza Yindignatio che in genere caratterizza lo stile di quest’illustre compagno: la colpa è delle don ne che non sono state abbastanza aggressive nell’ambito dell’apparato. Ci chiediamo se si risponderebbe con lo stesso semplicismo a proposito della questione operaia, negra, coloniale, e in genere di un qualunque mo vimento di rivendicazione politica. Certo non è che anche in questa ovvietà non vi sia un pizzico di vero, ma come sempre nelle questioni storiche l’analisi è più com plessa e le argomentazioni dei politici do vrebbero dare luce e non genericizzazioni rozze e approssimate. Altra affermazione a pag. IV di Lombardi: 119 « La funzione di un partito politico infatti, non è quella di essere sempre in anticipo, anche organizzativo, rispetto alla coscienza delle masse. Ed il Partito socialista, così come tutti gli altri partiti, non soltanto non si è trovato nella condizione di anticipare — né lo potevamo — ma devo riconoscere che si è trovato in ritardo quando questa coscienza si è risvegliata con l’impetuoso movimento femminista ». Molto ci sarebbe da dire su tale affermazione, in senso ge nerale e specifico, ma è certo che nessun partito in Italia come il Psi può vantare, e quindi sprecare, una così lunga tradizione d’impegno femminile e femminista. È dif ficile capire come lo stesso partito che negli anni 1916-’17 aveva posto due donne nelle segreterie della Camera del Lavoro più im portanti d’Italia (Torino e Milano), che aveva una donna alla segreteria della Federterra, che affidava ad una donna la «Critica sociale», che mandava una donna a rappresentarlo a Zimmerwald, etc. etc., e in un periodo in cui il mondo borghese negava il voto alle donne, oggi offra alle sue iscritte una così difficile militanza e non abbia assicurato neppure un seggio nel parlamento europeo ad una compagna. La storia delle donne socialiste, che segue la prefazione-intervista a Riccardo Lom bardi, non fa altro che portare alla luce questa lunga ed assurda incomprensione fra donne socialiste e potere partitico, senza patetici patriottismi di schieramento e senza vittimismi, con la precisione concettuale dell’autentica denuncia. È quindi un li bretto di meditazione, di proficuo stimolo al ricupero del tempo e delle forze perdute, necessarie anche alla vitalità e al rinnova mento salutare di un partito insopportabil mente addormentato su questo tema. Ma leggeranno i compagni un tale volumetto scritto da donne sulla « causa delle donne »? Rachele Farina Libri ricevuti aa.w ., Il nuovo servizio sanitario nazionale (Legge 833-78): evoluzione storica ordina mento, organizzazione, partecipazione popo lare, Milano, Regione Lombardia, 1980, pp. 159, sip. [Quaderni di documentazione regionale. Ns.] ., Dal ’68 a oggi. Come siamo come eravamo, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 433, lire 12.000. aa. w 120 Rassegna bibliografica Contiene saggi di Gambino, II quadro inter nazionale, Galli, La politica italiana, Col letti, Le ideologie, Di Mauro, La cultura, Ruffolo, L'economia, Federici, Il costume, Ravaioli, Le donne, Borgna, I giovani. aa. vv . , Questioni di storia agricola lombar da nei secoli XVIII-XIX, Milano, Vita e pensiero, 1979, pp. 343, lire 30.000. MARIA VITTORIA BALLESTRERO, Dalla tutela alla parità. La legislazione italiana sul la voro delle donne, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 292, lire 5.000. [Universale Papersbacks. 99] (a cura di Wolfgang benz ) Miscellanea. Festschrift fiir Helmut Krausnick zum 75. Geburstag, Stuttgart, DVA, 1980, pp. 222. franco de f e l ic e , L ’età giolittiana, Torino, Loescher, 1980, pp. 318, lire 5.800. Manlio del bosco , Il « Mondo » e i radicali, prefazione di Rosario Romeo, Roma, ERI, 1980, pp. 280, lire 6.800. Il volume, pubblicato nel trentesimo anni versario della pubblicazione del giornale, raccoglie una serie di saggi e di articoli significativi. del negro , Esercito, stato, società, Firenze, Cappelli, 1980, pp. 269, lire 6.000. Analisi dei meccanismi e dell’istituzione mi litare italiana dal ’700 alla prima guerra mondiale. Contiene tra l’altro uno studio particolareggiato della leva militare in Italia dal 1860 alla grande guerra. pierò d i Dom enico , Saggio su « Socie tà». Marxismo e politica culturale sul do poguerra e negli anni ’50, Napoli, Guida, 1980, pp. 172, lire 3.500. ornella b ia n ch i , Sviluppo industriale e lotte operaie in Puglia. Gli anni del centro sini stra (1963-1969), Roma, Bulzoni, 1980, pp. 273, lire 8.500. Giovanni Da don Milani a Orbilius. Breve storia di un « riflusso » nel dibattito sulla scuola italiana, Bari, De Donato, pp. 167, lire 3.500. David Giorgio b in i , bogliari , Il movimento contadi no dall’Unità al fascismo, Torino, Loescher, 1980, pp. 346, lire 6.000. [Documenti della storia. 28] Francesco Storia della Resistenza a Modena. I. Il rifiuto del fascismo, Modena, Anpi, 1980, pp. 390, lire 6.000. LUCIANO CASALI, Macchine scuola in dustria. Dal mestiere alla professionalità operaia, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 263, lire 10.000. isabella zanni rosiello , L ’ar chivio della scuola professionale di arti e mestieri Aldini Valeriani, Bologna, Comu ne, 1980, pp. 157, sip. co m u n e di Bologna, Questi due volumi sono frutto di una ri cerca organizzata dal Comune di Bologna sull’Istituto professionale Aldini Valeriani. La ricerca condotta da una equipe coordi nata da Carlo Poni si è realizzata in una mostra, Macchine scuola industria di cui questo volume costituisce il ricchissimo ca talogo. Isabella Zanni Rosiello ha riordina to, nel quadro della stessa iniziativa, l’ar chivio dell’Isttituto Aldini Valeriani. brezzi , I partiti democratici cri stiani d’Europa, Milano, Teti, 1980, pp. 301, lire 4.000. f ie l d h o u s e , Politica ed economia del colonialismo (1870-1945), Bari, Laterza, 1980, pp. 124, lire 4.500. Giovenale giaccardi, Le formazioni « R » nella lotta di liberazione, Cuneo, L’Arciere, 1980, pp. XXXII-480, lire 10.000. Clientelismo e sistema po litico. Il caso dell’Italia, Milano, Angeli, 1980, pp. 199, lire 6.000. [Istituto di scienze politiche « Gioie Solari » dell’Università di Torino] l u ig i graziano , La comune di Vienna e l’antifascismo italiano, prefazione di Simona Colarizi, Cosenza, Lerici, 1980, pp. 172, lire 4.000. Analizza il dibattito aperto fra gli antifa scisti italiani in seguito alla repressione di Dolfuss della comune socialista di Vienna. ariane landuyt , GIOVANNI la zza r i , I littoriali della cultura e dell’arte. Intellettuali e potere durante il fascismo, Napoli, Liguori, 1980, pp. 175, lire 3.500. NIKLAS LUHMANN, CLAUS OFFE, JOACHIM HIRSCH, GUSTAVO GOZZI, GIULIANO BUSELLI, Ch r ist ia n m arazzi , Le trasformazioni dello stato. Tendenze nel dibattito in Germania e in USA, a cura di Gustavo Gozzi, Fi renze, La Nuova Italia, 1980, pp. 211, li re 5.000. [Quaderni di aut-aut, n. 9] camillo anna maria martellone ), La « questione » dell’immigrazione negli Stati (a c u ra di Rassegna bibliografica Uniti, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 334, lire 12.000. Antologia sul problema dell’immigrazione. Il volume comprende saggi di Qualey, Schlesinger, Hansen, Handlin, T.L. Smith, Vecoli, Blegen, Gossett, Corwin, Gleason, Hourwich, Murray e Higham. I. MATTOZZI, L. BONEMAZZI, E. PERILLO, P. Brunello , s. lanaro , Una via alla storia. Rinnovamento didattico e raccolta delle fonti orali, Venezia, Arsenale Cooperativa, 1980, pp. 181, lire 6.000. m a z z e i , Il capitalismo giapponese. Gli stadi di sviluppo, Napoli, Liguori, 1980, pp. 276, lire 8.500. [Collana di storia mo derna e contemporanea] 121 Provincia di Milano, Catalogo dei periodici, Milano, pp. 178, sip. Catalogo generale dei periodici esistenti presso la Biblioteca centrale della Provincia di Milano, e presso gli enti dipendenti o confluiti nella amministrazione provinciale. romano , I Caprotti. L ’avventura economica e umana di una dinastia indu striale della Brianza, Milano, Franco An geli, 1980, pp. 309, lire 12.000. ROBERTO rondolino , Storia del cinema, To rino, Utet, 1980, pp. 691, lire 25.000. g ian n i franco MASSIMO MAZZETTI, FRANCESCO PERFETTI, Storia dell’Italia contemporanea, voi. Ili, Napoli, ESI, 1980, pp. 523, sip. Collana di storia d’Italia dall’Unità ai no stri giorni, Terzo volume dell’opera diretta da Renzo De Felice. In questo tomo Mas simo Mazzetti ha trattato la parte relativa alla prima guerra mondiale (pp. 166) mentre Francesco Perfetti ha trattato l’Italia fra le due guerre (pp. 170-447). (a cura di Claudio m il a n in i ), Neorealismo, poetiche e polemiche, Milano, Il Saggiatore, 1980, pp. 249, lire 6.000. Antologia di saggi tratti dalle più impor tanti riviste del periodo. Contiene scritti di Alvaro, Brancati, Gadda, Moravia, Pa vese, Pasolini ecc. Una cultura del privato. Morfologia e significato della stampa devo zionale italiana, Torino, Claudiana, 1980, pp. 245, lire 7.300. ARNALDO n e s t i, •all nuovo spettatore», a. I, n. 1, aprile 1980, lire 1.500. Periodico dell’Archivio nazionale cinemato grafico diretto da Gianni Rondolino e Pao lo Gobetti. sabbatucci , La stampa italiana del combattentismo 1918-1925, Bologna Cappelli, 1980, pp. 287, lire 7.000. Giovanni franco sbarberi , I comunisti italiani e lo stato. 1929-1945, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 260, lire 8.000. salvatore s e c h i , La pelle di zigrino. Storia e politica del Pei, Bologna, Cappelli, 1980, pp. 324, lire 6.000. Raccolta di vari saggi sulla storia e la po litica comunista dalle origini ai nostri giorni. serra , Una cultura dell'autorità. La Francia di Vichy, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 257, lire 13.000. Storia della cultura francese degli anni trenta e della sua influenza sulla politica della repubblica di Vichy. Ma u r iz io Socialisti riformisti, Introduzione a cura di Carlo cartiglia , Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 351, lire 10.000. Fascismo antifascismo Reristenza in una città operaia. 1. Piombino dalla guerra al crollo del fascismo. 19181943, Firenze, Clusf, 1980, pp. 238, sip. ivan to gnarini , gianni toniolo , L ’economia dell’Italia fa scista, Bari, Laterza, 1980, pp. 353, lire 11. 000 . ALESSANDRO ORLANDINI, GIORGIO VENTURINI, Padrone arrivedello a battitura. Lotte mez zadrili nel Senese nel secondo dopoguerra. Prefazione di Giovanni Mottura, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 222, lire 4.000. v o l pi , La democrazia autoritaria. Forma di governo laburista e V Repubblica francese, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 229, lire 10.000. m auro