Inoltre, il libro risulta per il lettore molto dispersivo sul filo dell

Transcript

Inoltre, il libro risulta per il lettore molto dispersivo sul filo dell
Rassegna bibliografica
89
Inoltre, il libro risulta per il lettore molto dispersivo sul filo dell’aneddotica, in virtù
di un gusto del particolare erudito che è insieme forza e limite dell’opera, e diviene
difficile cogliere un principio unitario che non sia il tema che schematizzando potremmo
definire della « censura » o dell’« autocensura » dell’intellettuale, di un contrasto insa­
nabile fra libertà della cultura e intervento nella politica, fra verità culturale e ragion
di partito: tema forse troppo facile e scontato, e che probabilmente risulta angusto come
asse portante della ricostruzione di un intero periodo di storia culturale.
Come scrive Ajello, protagonisti del suo libro non sono « quei vasti ceti di white collars
che sarebbero emersi nella compagine nazionale con l’accentuato sviluppo tecnologico,
l’avvento della società di massa e l’incremento della scolarità, ma una vasta e tuttavia
ben individuata cour des savants di cui il partito di Togliatti amava circondarsi: autori
di romanzi, di quadri, di film, di opere teatrali, di musiche, critici d’arte e di letteratura,
filosofi, storici e poi, in misura minore e in ordine decrescente, sociologi, antropologi,
linguisti, cultori di <scienze esatte >» (p. VI). In effetti l’azione più vistosa e ricca di
risultati immediati condotta dal Pei fu rivolta in questa direzione; ma non andrebbe
dimenticato che lo sforzo più importante nei tempi lunghi fu condotto su un altro terreno.
Non si trova cenno nel libro, ad esempio, alla battaglia condotta dai comunisti sul
terreno dell’istruzione, neanche quando si parla di Alicata che al tema dedicò particolare
passione e impegno. Fra parentesi, ad Alicata Ajello dedica un ritratto fra i più rigidi
del libro, mentre in genere questi piccoli « medaglioni » sono fra le cose migliori del­
l’opera quanto a equilibrio e capacità di sintesi (con una piccola svista a proposito di
Sereni, da segnalare in un libro in genere correttamente informato: Sereni non si limitò
a « pensare » a un possibile saggio sul cavallo, ma scrisse realmente e pubblicò su
« Studi storici » un saggio sulla nomenclatura del cavallo). Ma, dicevamo, non si dà
sufficiente spazio alla lotta di lungo periodo nel campo di una nascente cultura di massa,
esistente anche se non pienamente dispiegata: l’egemonia in questo campo era democristiana, e clericale, ed è un dato che quasi sempre sfugge a una cultura « laica » che
sottovaluta o ignora le dimensioni del fenomeno; la cultura cattolica è un interlocutore
tradizionalmente assente nelle ricostruzioni storiche, e c’è da chiedersi quanto questo
possa pregiudicare la delineazione dei tratti caratteristici del periodo.
Gianpasquale Santomassimo
Stampa
barbagallo , Il Mattino degli
Scarfoglio (1892-1928), Milano, Guanda,
1979, pp. 222, lire 8.500.
Francesco
« Una storia di Napoli come storia del
potere a Napoli tra la fine del secolo e
la definizione del regime fascista passa per
le stanze del « Mattino » ancor più che per
le aule delle locali assemblee elettive. Nel­
l’assenza di moderne organizzazioni poli­
tiche, nel difficoltoso emergere dei nuovi
partiti di massa, un giornale poteva essere
molto più che un partito, poteva rappre­
sentare — come il « Mattino » rappresen­
tò — il luogo di mediazione di complessi e
mutevoli blocchi di potere, formati dall’in­
treccio d’interessi economico-finanziari e di
rappresentanze politiche e sociali » (p. 9).
Rigorosamente aderente a questa ipotesi
complessiva, la narrazione di Barbagallo
analizza le successive fasi e articolazioni
attraverso le quali il quotidiano fondato da
Edoardo Scarfoglio riesce a farsi centro
aggregatore della realtà locale, ad essere
« una sorta d’intellettuale collettivo del­
l’aristocrazia e della borghesia di Napoli e
del Mezzogiorno con ampi margini d’in­
fluenza su vasti strati delle classi subal­
terne » (p. 10). La linea di fondo sulla
quale si iscrive questa ambizione resta an­
corata alla difesa intransigente dell’ordine
costituito, destinata a sua volta a sfociare
— con sempre più scoperta evidenza verso
la fine del periodo giolittiano -— nella
celebrazione « della violenza borghese in
funzione antioperaia e della ribellione su­
dista contro il malvolere del Nord o del
governo, unici esterni responsabili delle
piccole e grandi disgrazie di un meridione
visto uguale e unito nella sventura, ma
tenuto saldamente diviso — per classi so­
ciali e confini territoriali •— nel fluire
90 Rassegna bibliografica
delle sue quotidiane vicende » (p. 129). Si
tratta tuttavia di un approdo alimentato
da continue variazioni tattiche e complesse
dosature di fattori. L’insistenza con la quale
Barbagallo rinvia alla « disgregazione me­
ridionale » e al « disfacimento napoletano »
denuncia infatti l’impossibilità, per il gior­
nale, di mantenere referenti sociali e po­
litici uniformi. Partito in appoggio a Giolitti (e particolarmente significativa è, in
questa fase, la collaborazione di Nitti) il
« Mattino » rifluisce ben presto nel « più
congeniale terreno crispino sul quale si man­
terrà sino alla morte dello statista siciliano
coltivando soprattutto il vincolo che scatu­
risce dalla comune prospettiva africana
(pp. 37-38). Ma all’inizio del secolo i le­
gami con la grande proprietà terriera si
allentano e il giornale tende piuttosto ad
assumere la rappresentanza dei « gruppi
finanziari napoletani che vanno riorganiz­
zandosi e ristrutturandosi in connessione
con la legge speciale per l’incremento in­
dustriale » e di fronte alla quale il « Mat­
tino », in polemica con le tesi nittiane,
punta piuttosto sull’agricoltura specializzata
e sullo sviluppo dell’industria alimentare
(pp. 92-93). Collocandosi su tale sfondo il
riaccostamento a Giolitti assume pertanto,
ancora una volta, un connotato essenzial­
mente tattico, destinato a sgretolarsi non
appena la reazione borghese — che il quo­
tidiano napoletano per tanti versi antici­
pa — volge decisamente le spalle alla pra­
tica della « mediazione interclassista » per
abbracciare quella dell’azione diretta. I fer­
menti nazionalistici e imperialistici si sal­
dano allora alla rivendicazione integrale del
privatismo economico e Salandra assur­
ge a campione dell’ultima stagione del
« Mattino » liberale. In essa sono anche
prefigurati natura e limiti del conflitto con
il nuovo potere fascista, conflitto che non
pone certo in discussione la legittimità e
necessità del nuovo regime, ma risponde
all’esigenza di tutelare, insieme con « l’auto­
nomia delle tradizionali forme di organiz­
zazione politica del conservatorismo meri­
dionale » (p. 178), le ragioni stesse di vita
del giornale. L’impossibilità di mantenere
« rincontro tra fascismo e mezzogiorno...
nei termini degli accordi tradizionali tra
il governo centrale e il sistema di potere
meridionale » (p. 186) segna così la fine del
« Mattino » degli Scarfoglio.
Sull’asse centrale del discorso, che abbia­
mo sin qui riepilogato, vengono via via
innestandosi le peculiarità più propriamente
giornalistiche del « Mattino », dal suo svi­
luppo editoriale (dalle 13.000 copie iniziali
alle quasi 70.000 del 1905), all’avventuri­
smo ideologico di Edoardo Scarfoglio (tanto
prodigo nell’alimentare l’immagine di sé
come personaggio dannunziano quanto
attento alla gestione, inestricabilmente in­
trecciata, degli affari propri e di quelli del
giornale), alle cronache mondane di Matilde Serao (ferree custodi della superiore
vocazione etica nelle classi alte). Ne esce
un quadro complessivo che dà ragione del
ruolo non episodico, ma strutturale svolto
dal quotidiano napoletano rispetto ai modi
di organizzazione dei ceti politici dominanti
in età liberale. L’ampiezza e il rilievo del
retroterra meridionale al quale il « Mat­
tino » attinge, spingono quest’ultimo ben
al di là dei confini dei fogli legati alla
fluida realtà delle clientele politiche, lo
trasformano in sede permanente di media­
zione e dunque di espressione delle con­
tese in atto tra i gruppi di potere. L’incontro-scontro tra il fascismo trionfante
appare perciò doppiamente esemplare del
rifiuto almeno iniziale che la conservazione
meridionale compie di difendere la propria
integrità oligarchica non solo dalle orga­
nizzazioni operaie e contadine, ma anche
— come osserva Barbagallo — dalla « sca­
lata al potere dei minuti borghesi venuti da
diverse sponde al fascismo col sano intento
di accoppiare all’attività politica l’avanza­
mento economico e sociale (p. 198). Certo,
la vicenda del « Mattino » converge qui su
temi generali che soli possono illuminarne
i significati non contingenti. Allo stesso
modo nel quale una analisi dall’interno
delle pagine del « Mattino » — di necessità
qui solo accennata — darebbe nuovo spes­
sore all’indagine sugli strumenti culturali
attraverso i quali la possidenza meridionale
vive la propria esperienza di profittatrice
estraniata dello stato unitario. Merito in­
dubbio del volume di Barbagallo è quello
di aver fissato le coordinate di base di tale
problematica, aprendo la strada ad ulteriori
prospettive di ricerca.
Massimo Legnani
Giu s e p p e talamo , Il Messaggero e la sua
città, voi. I, 1878-1918, Firenze, Le Monnier, 1979, pp. X-326, lire 10.000.
Studioso dell’Italia risorgimentale e unita­
ria, Talamo costruisce questa prima parte
della storia del « Messaggero » sul propo­
Rassegna bibliografica
sito di verificare in qual misura il quoti­
diano romano abbia realizzato, nei primi
decenni di vita, il programma iniziale di
«diventare un giornale per tutti». Si trat­
ta, occorre sottolinearlo, di un’ambizione
per nulla comune al giornalismo italiano
del tempo, assai più agevolmente classifi­
cabile per filiazione diretta dai leaders e
dalle clientele politiche (e spesso, nel caso
della capitale, dal sottobosco parlamentare)
che non per la capacità di dar voce ad
una moderna informazione. La ristrettezza
del mercato dei lettori ed i toni bassi della
vita civile rappresentano gli aspetti com­
plementari dei condizionamenti negativi.
Perciò l’esperimento del « Messaggero » in­
contra il suo primo banco di prova nella
ricerca di un pubblico nuovo, un pubblico
che possa, al tempo stesso, servirsi delle
notizie che il giornale gli fornisce ed essere
stimolato da curiosità che travalichino l’am­
bito più immediato delle esperienze quoti­
diane. Sviluppo della cronaca cittadina con
l’occhio all’esempio illustre del milanese
« Il Secolo », attenzione a quanto della
cronaca si presta all’amplificazione dram­
matica o melodrammatica (di qui, fatto
largamente nuovo, i minuti resoconti dei
più clamorosi fatti giudiziari), tentativo di
interpretare il giudizio dei propri lettori
sui grandi problemi. Questo schema — im­
perniato sul ruolo determinante che, sino
alle soglie del Novecento, esercita il fon­
datore, proprietario e direttore Luigi Cesana — è anche il veicolo dell’ideologia che
il « Messaggero » elabora e diffonde. Ra­
pidamente il giornale entra in sintonia con
quei ceti medi burocratici, artigiani e del
piccolo commercio che rappresentano la
componente in costante ascesa della popo­
lazione romana post-unitaria. Tra non po­
che oscillazioni e incongruenze, si precisa,
annota Talamo, il volto di « un quotidiano
non ministeriale, marcatamente laico e an­
ticlericale, contrario alle spese facili, sem­
pre pronto a sostenere le economie più
rigide, preoccupato di raggiungere un vero
pareggio del bilancio e di assicurare la
tranquillità ai contribuenti » (p. 47). Attra­
verso un approccio fondamentalmente mo­
derato e legalitario, filtrano problematiche
che, per quanto inquinate dal ricorso co­
stante al « moralismo spicciolo » e al « po­
pulismo fatto di buone intenzioni » (p. VI),
denotano pur sempre una volontà di infor­
mazione larga e non sorda alla precetti­
stica democratica: dal sovversivismo socia­
lista condannato, ma anche interpretato
91
come sbocco della miseria e delle ingiu­
stizie (di qui l’attenzione alla legislazione
sociale, p. 134, e la « comprensione » verso
gli scioperi economici, soprattutto nelle
campagne, p. 127 sgg.) ai diritti civili
(amministrazione della giustizia, p. 174
sgg., reciso atteggiamento divorzista, p. 53),
al rifiuto delle avventure coloniali, pp. 207208. Non è tuttavia una linea uniforme e
conclusa. Il tentativo di indicare obiettivi
di progresso sociale è subalterno non solo
alla concezione paternalistica che lo guida,
ma anche all’inasprimento di quella vena
antiparlamentare che è un tratto distintivo
centrale di gran parte della stampa italiana
dell’epoca e che nel « Messaggero » si ca­
rica di rifiuti espliciti della politica. La
diffusione conosce, in questo periodo, una
costante accelerazione. Negli anni novanta,
il Messaggero raggiunge le 45.000 copie,
collocandosi con « La Tribuna » e « Il po­
polo romano » tra i quotidiani più venduti
nella capitale.
Il quadro muta progressivamente con il
nuovo secolo. Il distacco di Cesana dalla
direzione coincide con il moltiplicarsi di
collaborazioni che modificano l’immagine
del giornale in senso « colonialista, antiso­
cialista, nazionalista » (p. 255). Ma qui,
come è evidente, la congiuntura del « Mes­
saggero » confluisce esemplarmente nella
generale svolta della stampa italiana verso
un più sistematico assoggettamento ai po­
tentati economici. Nel rimescolamento di
carte portato a termine dalla crisi dell’in­
tervento, il quotidiano romano passa dap­
prima nelle mani di un gruppo già pro­
prietario del « Secolo » e poi, verso la fine
della guerra, direttamente nell’orbita dell’Ansaldo dei fratelli Perrone.
Talamo segue l’intera parabola intreccian­
do i dati della lettura interna e di quella
esterna del giornale, dando conto, alterna­
tamente, dei mutamenti editoriali e reda­
zionali e delle sollecitazioni ambientali. La
fusione tra i due livelli è tuttavia più
postulata che interpretata. Così il processo
di simbiosi tra l’ideologia del « Messagge­
ro » e la terziarizzazione della società ro­
mana, se appare sufficientemente analizzato
nella fase di affermazione del quotidiano,
sfuma nel passaggio al Novecento, proprio
laddove riuscirebbe illuminante cogliere le
radici della disponibilità di questi strati
verso la spinta nazionalista, antisocialista e
antidemocratica.
Massimo Legnani
92 Rassegna bibliografica
m alatesta , II Resto del Carlino.
Potere politico ed economico a Bologna
dal 1885 al 1922, Milano, Guanda, 1978,
m aria
pp. 350, lire 7.000.
« Non un solo Carlino » -—• chiarisce Ma­
ria Malatesta nella premessa — « ma due
giornali distinti, con due storie differenti ».
La prima appartiene al « Carlino » demo­
cratico, nato per combattere il trasformismo
depretisiano (pp. 35 e 40), per affermare
che l’antidoto alle agitazioni agrarie non
va ricercato nelle « manette » ma nella ri­
mozione della miseria (p. 19), per cele­
brare le ragioni delPanticlericalismo (p. 41);
la seconda al « Carlino » liberale, dal 1909
espressione diretta dell’agraria, critico sem­
pre più acerbo del governo giolittiano (pp.
233 sgg.), incline a sfruttare la scia nazio­
nalista per sbarrare la via al socialismo
(p. 277), interventista ed espansionista di
fronte alla « grande guerra » (pp. 299-300
e 308-309). Misurata sulle scadenze topiche
dell’Italia liberale, la parabola del quoti­
diano bolognese può così apparire — a
cominciare dalla successione stessa tra fase
progressiva e fase conservatrice — facil­
mente decifrabile. Le rispondenze con il
quadro nazionale si spiegano da sé sole,
secondo una meccanica di parallelismi che
la storia politica non sembra facilmente
disposta a rimettere in discussione. In realtà
la situazione è diversa e più complessa e
la struttura del libro la riflette in modo
organico e persuasivo. E questo non solo
perché essa aderisce alla convinzione ormai
diffusa che il giornalismo liberale supplisce
all’assenza di una salda organizzazione par­
titica dell’opinione costituzionale (e va quin­
di letto e in questa dimensione interpre­
tato), ma per il fatto che l’indagine della
realtà locale è spinta ben oltre l’immediato
retroterra del giornale. Sotto tale profilo
la vicenda del « Carlino » democratico si
condensa nel « fallimento dell’ipotesi ra­
dicale della creazione di una terza forza
situata tra socialisti e conservatori » (p. 187),
giudizio che consente di intendere l’evolu­
zione spesso tortuosa dei pronunciamenti
politici che affiorano dalle pagine del quo­
tidiano. Così l’acceso antitrasformismo dei
primi anni può sposarsi al successivo filocrispismo, l’attenzione alla questione sociale
e la battaglia contro il blocco moderato e
poi clerico-moderato locale alla sostanziale
accettazione dell’espansionismo coloniale,
l’approvazione della repressione governativa
nel ’98 all’adesione alla svolta impressa dal
ministero Zanardelli-Giolitti. Sono oscilla­
zioni che, al di là dei motivi più strettamente contingenti, rimandano ad una so­
stanziale omogeneità di fondo, al progetto
appunto di dar forza e continuità ad una
linea di « radicalismo legalitario ». L’analisi
del ruolo dei socialisti sta permanentemente
al centro del disegno, sia per il riconosci­
mento, già ricordato, che le lotte agrarie
vantano una radice nei rapporti economici
non sradicabile senza concessioni e riforme
(si vedano, ad es., le pp. 75-76), sia, soprat­
tutto, perché la dirigenza socialista è vista
come strumento indispensabile per tenere
a freno il sovversivismo della sua base so­
ciale (pp. 136-137). L’obiettivo ultimo, s’in­
tende, sta « nell’alleanza tra capitale e la­
voro attraverso l’opera concorde di tutte
le classi » (p. 69) e le ripercussioni dei mu­
tamenti di fotta del Psi sono tanto più
rilevanti quanto più allontanano questa pro­
spettiva. In tale contesto il filogiolittismo
dei primi anni del secolo vorrebbe rappre­
sentare la contrassicurazione del progres­
sismo liberale verso la collaborazione con
il riformismo socialista, ma nella realtà esso
non occulta l’assenza di nuclei borghesi
realmente disponibili per simile politica.
Il giornale si riduce pertanto ad una sede
di mediazione sempre più fragile e incerta
di sé. « Il mito del <Carlino > democratico
[...] si infrange — commenta Malatesta —
[...] di fronte ad un esame approfondito
della sua linea, che vada oltre le sue fre­
quenti dichiarazioni di umanitarismo e di
solidarietà nei confronti delle classi lavo­
ratrici. Il radicalizzarsi delle lotte nelle
campagne agiva da cartina di tornasole per
i contenuti apparentemente progressisti del
giornale, la cui unica preoccupazione con­
sisteva nel non veder turbato alle radici
quell’assetto politico-sociale nel quale si ri­
conosceva » (p. 148).
Il giudizio va forse oltre il segno degli
obiettivi riscontri che il libro offre, ma è
fuor di dubbio che il trapasso del « Car­
lino » all’agraria sia scandito da un nuovo
e diverso corso della lotta sociale nella
città e nella regione. Come si legge più
oltre: « soprattutto nella provincia di Bo­
logna il monopolio esercitato dagli agrari
in gran parte dei settori industriali, com­
merciali e finanziari aveva impedito lo svi­
luppo autonomo di una borghesia impren­
ditoriale e progressista, che avrebbe potuto
costituire la base socio-economica per la
realizzazione di un progetto politico di tipo
radicale » (p. 187).
Rassegna bibliografica
Il « Carlino » agrario, lungi dall’essere frut­
to di un colpo di mano, rappresenta per­
tanto l’adeguamento dell’assetto editoriale
al nuovo clima di riscossa borghese. Quali
siano i presupposti e gli obiettivi di tale
riscossa è indagato in una ampia e densa
«digressione» (pp. 191-231), un libro nel
libro, tesa a ripercorrere lo sviluppo dei
rapporti interni allo schieramento padronale
dalla metà dell’Ottocento. La scomposizione
e la ricomposizione degli equilibri tra pro­
prietà fondiaria e grande affittanza, il ruolo
declinante della mezzadria e l’estendersi
dell’area bracciantile sono collocati sullo
sfondo dell’avanzante capitalismo agrario,
pronti a riflettersi sul quadro delle relazioni
politiche, ora privilegiando comportamenti
e alleanze tradizionali ora, via via che si
inaspriscono le lotte sulla terra, dando vita
a contestazioni che investono il cuore stesso
dello stato liberale. È un discorso larga­
mente autonomo rispetto alla storia del
giornale e che ci consente di comprendere
ancor meglio le tortuosità e l’aggressività
del « Carlino » liberale, stretto nelle maglie
di un ordinamento politico nel quale nono­
stante tutto continua a riconoscersi e l’im­
periosa proposizione di interessi di classe
alla ricerca di nuovi strumenti di afferma­
zione. Di qui una serie di contraddizioni che
sono interne allo schieramento padronale:
« la spaccatura esistente tra il progetto di
una grande politica agraria accarezzato dai
vertici delle organizzazioni e le richieste
della base, che al momento dell’intensificarsi della conflittualità rigettava i discorsi
sull’autonomia padronale per appellarsi al
governo nei riguardi del quale, pure, nu­
triva un’invincibile ostilità, rendeva estre­
mamente ardua la costituzione di un nuovo
volto della classe agraria » (p. 259). Certo
non tutto è meccanicamente rapportabile,
ne l’autore lo suggerisce a questo schema
interpretativo, sia perché sostanziali modi­
ficazioni sono prodotte dall’entrata in scena
di nuovi progetti economici (prima fra tutti
l’industria saccarifera), sia per il ruolo gio­
cato da singole individualità. Si vedano in
proposito la direzione ad impronta forte­
mente personale di Mario Missiroli, l’av­
venturismo di Filippo Naldi nella crisi del­
l’intervento, la breve stagione nittiana nel­
l’immediato dopogeurra, la precoce caduta
del « Carlino » — primo fra i grandi quo­
tidiani — in mani fasciste. Ma il centro
dell’analisi appare di fatto esaurito alla vi­
gilia della guerra; ciò che segue è piuttosto
l’avvio ad una fase nuova per la cui intelli­
93
genza va chiamato in causa, al di là dello
stesso fascismo, l’intero corso degli anni
venti.
Massimo Legnani
anna folli (a cura di), Vent’anni di cultura
ferrarese: 1925-1945. I, Antologia del « Cor­
riere Padano », II. Cinque interviste. La
ricerca della libertà, Bologna, Patron, 1978,
1980, pp. LII-255 + 395, lire 7.000 + 10.000.
L’antologia di Anna Folli, docente di let­
teratura italiana presso l’università di Fer­
rara, offre una ricca documentazione della
terza pagina del « Corriere Padano », quo­
tidiano fondato da Italo Balbo, nell’aprile
1925, con il finanziamento degli agrari. Il
dibattito culturale, che in essa si sviluppò,
non era estraneo dall’influenza diretta delle
riviste « Soiaria » e « Letteratura », nonché
dai fermenti europei e americani. Infatti
sulla scia di « Soiaria », veniva riscoperto
Tozzi; si riportavano novelle di Proust, Th.
Mann, Joyce, Di Giacomo; si rendeva Omaggio a Saba e Svevo, e veniva recensito
anche Moravia. All’inizio degli anni trenta,
il riferimento a « Soiaria », sempre costante,
portava a conoscere Majakowskij; nel con­
tempo comparivano i nomi « nuovi » della
novellistica (Delfini, Piero ed Emilio Gad­
da), del romanzo (Vittorini), della poesia
(Quasimodo e Ungaretti).
L’attenta scelta dei brani da parte dell’A.
segue la discussione sulla questione del ro­
manzo, protrattasi per anni e su vari piani
(polemica fra rondismo e neorealismo e poi
realismo, fra romanzo collettivo e romanzo
integrale), e la controversia fra i fautori
della poesia pura e i difensori della poesia
di contenuto. A sostegno delle proprie tesi,
i vari critici portavano altri nomi più o
meno nuovi, fra cui Dos Passos, Huxley,
Lawrence, Soldati, Kafka, e poi Bertolucci,
Montale. Contemporaneamente la cinema­
tografia si affermava come « arte autono­
ma » e accanto alla critica cinematografica
si affiancava quella teatrale. Bassani, Antonioni, Caretti, Aristarco, Susini, De Pisis,
Visconti, Dessi, sono solo alcuni dei mol­
tissimi altri collaboratori che contribuirono
a mantenere vivace ed elevato il tono del
dibattito culturale del quotidiano, che si
venne pertanto a porre come un punto di
riferimento nazionale.
A partire dagli anni quaranta questo pano­
rama culturale si impoveriva: infatti veni­
vano a mancare i contributi di coloro che,
94 Rassegna bibliografica
acquistando consapevolezza politica, aveva­
no effettuato la scelta per la «libertà».
La terza pagina cessava così di esercitare
quella funzione stimolante che era stata
la sua fondamentale caratteristica per molti
anni. Anzi, si poneva in risalto la man­
canza di impegno degli intellettuali nei con­
fronti della guerra e, in particolare, la loro
assenza «dal fronte del pensiero» (p. 316,
II); per di più si proponeva l’immagine di
un Pascoli eroico « contro la politica dei
rinunciatari» (p. 319, II) e di Dante «pa­
dre della nazione » (p. 324, II). Ormai la
terza pagina veniva riassorbita nelle istanze
del periodico che — non bisogna dimenti­
care — aveva svolto un ruolo di primo
piano nell’organizzazione del consenso. In
effetti, anche la vitalità della terza pagina,
grazie alla direzione abile di Nello Quilici,
rientrava sempre in quella politica fascista
di legare a sé vasti strati della popolazione
e, per quanto riguarda il caso specifico, le
nuove generazioni.
Assai interessanti sono le cinque interviste
che si trovano nell’ultima parte del secondo
volume e rilasciate recentemente da An­
tonioni, Aristarco, Bassani, Caretti e Va­
rese; inoltre, molto efficaci risultano la pun­
tuale introduzione e la ricca bibliografia.
Luisa Moreschi
g uido gonella , Verso la 2a guerra m on­
diale. Cronache politiche 1933-1940, a cura
di Francesco Malgeri, prefazione di G. De
Rosa, Bari, Laterza, 1979, pp. 548, lire
19.000.
La raccolta di 150 articoli fra i 1076 scritti
da Gonella per la rubrica dell’« Osserva­
tore Romano » A cta Diurna sui problemi
internazionali, offre uno stimolante mate­
riale di riflessione relativo a una proble­
matica — i cattolici e la politica interna­
zionale — scarsamente studiata dagli sto­
rici del movimento cattolico. Tale mate­
riale risulta tanto più interessante ove si
consideri il nome, fin troppo noto, del
commentatore di politica internazionale e la
sede in cui tali commenti erano pubblicati.
Guido Gonella, formatosi negli anni del
fascismo all’Università Cattolica di Milano,
apparteneva per ispirazione ideale e posi­
zioni politiche a quel nutrito manipolo di
giovani intellettuali cattolici che sotto la
guida di I. Righetti aveva costituito il
gruppo dirigente della Fuci e dei Laureati
cattolici, raggruppandosi intorno alle ri­
viste « Studium » e «Azione Fucina», le
cui posizioni di moderato dissenso dalla
politica del regime si differenziavano dal­
l’aperto filo-fascismo degli ambienti della
Cattolica, pur nel quadro di una provata
fedeltà alle gerarchie ecclesiastiche. La
scelta di Gonella — caldeggiata partico­
larmente da G.B. Montini — quale colla­
boratore dell’organo vaticano, mentre non
contraddiceva il silenzio o l’avallo ufficioso
offerto dalla Santa Sede all’oltranzismo fa­
scista del gruppo milanese — che poteva
essere utile alla distensione dei rapporti
fra chiesa e fascismo —, consentiva di
esprimere una posizione ufficiale moderata
e di prudente distacco dalle iniziative in­
ternazionali più compromettenti intraprese
dal regime.
Il filo conduttore di queste cronache inter­
nazionali, scritte nel periodo ’33-’40, si può
facilmente identificare con il fermo e pre­
giudiziale anticomunismo che emerge dalla
gran parte degli articoli, compresi quelli
non direttamente riguardanti la politica so­
vietica. Gli insulti, le invettive contro
l’URSS e i suoi rappresentanti politici e di­
plomatici contrastano singolarmente con il
tono pacato, anche se preoccupato, con
cui erano trattati avvenimenti quali l’ag­
gressione italiana all’Etiopia e gli attacchi
nazisti contro Austria, Cecoslovacchia e
Polonia. Il dissenso dalla politica del re­
gime era sempre espresso nelle deboli
forme di sottintesi, di critiche velate, tal­
volta in codice, a mezzo di ampie citazioni
dalla stampa inglese, mai tradotto in de­
cise prese di distanza, neppure dopo il
1938, quando sempre più frequenti appari­
vano le puntate contro il vitalismo (p. 453)
e il culto statolatrico della « ragion di
Stato » (p. 452). Era l’anticomunismo a do­
minare anche nelle posizioni che gli A cta
Diurna, sotto le scaltre forme della cro­
naca, andavano assumendo sulle vicende
della guerra civile spagnola, tanto da pro­
vocare interventi critici di Sturzo che con­
statava « una certa parzialità politica nel­
l’informazione sulla guerra civile spagnola
e sulle vicende interne dell’Unione Sovie­
tica » (p. XI, n. 9). Il criterio delle « due
misure » adottato da Gonella si può anche
cogliere nella assoluta mancanza di articoli
dedicati alla politica interna del regime fa­
scista, in contrasto con il considerevole
numero di interventi relativi alla situa­
zione interna dell’URSS, della Spagna e di
altri paesi e nonostante egli considerasse
«la politica interna... il vero problema» e
gli « atteggiamenti esterni » non altro che
Rassegna bibliografica
dei « diversivi » (p. 74). Per queste ragioni
ci sembra difficile poter parlare — con
De Rosa — di un antifascismo degli Acta
Diurna, le cui posizioni si collocavano piut­
tosto « all’interno del mondo del consenso
alla politica di Mussolini » (p. XIII) e il
cui ideale di politica estera era molto vicino
a quella politica di appeasement perseguita
da Chamberlain, con le connesse aspira­
zioni ad una pacificazione dell’occidente in
funzione antisovietica, che servisse a di­
fendere la civiltà cristiana dalla barbarie
comunista. Era un ideale su cui potevano
convergere consistenti settori interni al re­
gime, soprattutto quelli provenienti — co­
me scrive De Rosa — dagli « ambienti
moderati, cattolici e non cattolici, che an­
davano dal mondo della diplomazia contariniana al fascismo più temperato, filo-in­
glese, al medio ceto intellettuale » (p. XI).
Tutto ciò, mentre confermava la fondatezza
delle osservazioni mosse da Sturzo, eviden­
ziava altresì la distanza che ormai divideva
la generazione dei più anziani « popolari »,
che avevano scelto la via dell’esilio, dalla
più giovane generazione dei Gonella, for­
matasi negli anni del fascismo all’ombra
della Santa Sede, la quale attraverso una
politica di intervento nella società civile
nelle favorevoli condizioni sancite dal Con­
cordato, mirava alla formazione di una
classe dirigente laica capace di assumere
in un futuro non troppo lontano responsa­
bilità di direzione.
L’interesse e lo studio dei problemi inter­
nazionali — condivisi da diversi altri futuri
dirigenti della DC e dallo stesso De Gasperi che proprio negli anni ’33-’38 curerà
la rubrica La quindicina internazionale sul1’« Illustrazione Vaticana » — era parte di
un più generale interesse per tali questioni
sviluppatosi in Italia e all’estero. Lo stesso
linguaggio usato da Gonella era per molti
versi nuovo rispetto a quello tradizional­
mente adottato dalla più vecchia genera­
zione di intellettuali cattolici. Esso faceva
propria molta parte di quella terminologia
tecnica, di quel «gergo esoterico» (p. Ili)
che il collaboratore dell’organo vaticano
aveva giudicato quale tratto distintivo del
giornalismo e della diplomazia contempora­
nei. Più moderni erano indubbiamente la
capacità di interpretazione di fatti e docu­
menti diplomatici, la lucida consapevolezza
dell’importanza acquistata dai fattori psico­
logici nelle relazione tra gli stati, la com­
prensione dei mutamenti delle forme e
della mentalità diplomatiche, il distacco
95
adottato nella valutazione del gioco delle
forze sullo scacchiere internazionale.
Come queste aperture alle nuove forme di
cultura politica ed economica intereagissero con il tenace anticomunismo — che
ne costituiva il limite principale —, quali
fossero i debiti contratti con tutta la cul­
tura politica più compromessa col regime,
quale il loro peso specifico nelle scelte di
politica estera operate da questa classe di­
rigente cattolica nel secondo dopoguerra,
rimangono problemi aperti al cui studio
questa raccolta di articoli offre un inte­
ressante contributo documentario.
Angelo Montenegro
Claudia p a t u z z i , Mondadori, Napoli, Liguori, 1978, pp. 164, lire 3500.
Si parla tanto di « spie », di storia « per
indizi », di « microstoria ». Molti nuovi
Sherlock Holmes della ricerca storiografica
hanno puntato le loro investigazioni sul
regime fascista, sulla società di massa ne­
gli anni trenta, sul « consenso », in una
nuova ondata di produzione editoriale sulle
istituzioni fasciste. Proprio alle « istituzioni
culturali » si rivolge la collana della Liguori diretta da Giuliano Manacorda che
ha dato il via a un piano di ricerca sor­
retto da un’ipotesi precisa: colmare quei
vuoti, quelle mancanze, quei « rimossi »
più volte segnalati dalla più giovane gene­
razione di storiografi e non solo da essa
(penso a un Garin). Il piano è potenzial­
mente fervido di indicazioni e ben conge­
gnato a tavolino: l’accademia d’Italia, l’En­
ciclopedia Treccani, la censura, i Littoriali,
le case editrici, la stampa, le politiche cul­
turali, tutti « casi » che gli studiosi più
aggiornati (i Turi, gli Isnenghi, le Mangoni,
i Castronovo) hanno già individuato teori­
camente come sintomi del modo di essere
del fascismo e che meritano, dopo tante
ipotesi di ricerca, sempre solo abbozzate,
dati finalmente concreti e analisi appro­
fondite.
Ci pare, però, che i risultati dell’opera­
zione deludano un po’ le aspettative; le
ricerche pubblicate, in linea di massima,
risentono di certa ossessione del « dato »;
le informazioni si perdono, a volte, nelle
microstorie della cronaca capillare, della
ricostruzione minuziosa, tutti « indizi » che
non portano mai alla scoperta del « col­
pevole», che non arrivano mai a fornire
una chiave interpretativa, a livello di « ma­
96 Rassegna bibliografica
crostoria », dei problemi nodali, delle que­
stioni irrisolte. Insomma, affiorano dei dati,
vengono in superfìcie dei reperti; i grandi
rimossi restano. Questo sia detto senza
nulla togliere alle buone intenzioni e al
volonteroso sforzo di indagine condotto da
Lazzari, Cesari, dalla Ferrarotto, dalla Patuzzi.
Prendiamo il libro di quest’ultima su Mon­
dadori, un libro pieno di dati ed anche di
suggestioni interessanti: la leggenda di un
self mode man, Arnoldo Mondadori, ex
garzone e buttafuori, tipografo che diventa
editore, con la dichiarata ambizione di
« ingoiare » la casa Treves, di puntare alla
grande industria culturale allora nascente
in Italia; una vicenda che passa attraverso
il rapporto col fascismo, attraverso il do­
poguerra, sino ai nostri giorni; attorno a
cui ruota gran parte della cultura italiana
da un sessantennio. Una vicenda che ha
anche le sue sfumature psicanalitiche, co­
me quella del rapporto tra Arnoldo e Al­
berto Mondadori, un rapporto di incontroscontro, di amore-odio da cui traspaiono
non solo gli edipi personali ma anche più
vasti conflitti tra due generazioni, tra due
politiche editoriali, tra due ruoli stessi del­
l’operatore di cultura. Da una parte l’ar­
tigiano Arnoldo, con le sue sane origini
della provincia mantovana, con le sue col­
lane economiche, i suoi periodici popolari,
i suoi fumetti; dall’altra il borghese intel­
lettuale Alberto, cineasta, poeta, editore
raffinato convinto della necessità di una
avanguardia colta dell’editoria, tesa più alla
qualità che alla « resa » dei prodotti. Il ca­
pitolo su Alberto Mondadori è forse il più
interessante in assoluto del libro: i suoi
entusiastici bisogni di fare politica (dal gio­
vanile quasi filonazismo all’adesione al Pei,
poco prima della morte), il suo approccio
con la cultura militante (la rivista giovanile
«Camminare», il film fatto con Lattuada,
l’iniziativa del « Saggiatore » ecc.), la sua
tormentata ricerca intellettuale. Si potreb­
be dire che Alberto Mondadori renda lam­
panti nel dopoguerra le contraddizioni la­
tenti nell’industria culturale durante il fa­
scismo, stretta tra i due poli del consenso
e del dissenso.
Purtroppo, questo clima contraddittorio de­
gli anni del regime è messo in secondo
piano dalla Patuzzi; il regime come pro­
blema storiografico avrebbe meritato mag­
giore spazio, e un discorso sull’editoria
avrebbe potuto essere un’occasione per co­
gliere alcuni nodi significativi della politica
culturale di quegli anni. La linea di ricerca,
invece (alla maniera di Isnenghi ma senza
quelle intuizioni sul ruolo dell’intellettuale
organico al regime, « militante » e/o « fun­
zionario ») è tutta interna al soggetto in­
dagato, col rischio di fare una cronaca di
realizzazioni mondadoriane, dal « Luce! »
dei primi anni del secolo agli audiolibri
degli ultimi anni settanta, da D’Annunzio a
Frutterò & Lucentini.
Vito Zagarrio
g e n t il i , Giuseppe Bottai e la riforma
fascista della scuola, Firenze, La Nuova
Italia, 1979, pp. 218, lire 4500.
Rino
Giuseppe Bottai non si sarebbe certo aspet­
tato di diventare un personaggio così im­
portante per i consumatori di miti cultu­
rali degli anni settanta e ottanta. La sco­
perta dei chiaroscuri bottaiani rispetto allo
sfondo, spesso piatto, del fascismo, ha fatto
letteralmente esplodere una saggistica e
una pubblicistica a lui dedicata: Giordano
Bruno Guerri, con la sua fortunata ma
discutibile formula di Bottai « fascista cri­
tico », l’americano Alexandre De Grand e
Anna Panicali (da anni al lavoro sulla
macchina culturale fascista) sono con i loro
rispettivi volumi i più recenti investigatori
di Bottai, nei suoi molteplici aspetti: come
fascista revisionista, come capo carismatico
delle giovani leve, come punto di riferi­
mento della fronda, come interprete del
corporativismo di sinistra, come mana­
ger, come « programmatore » e grande
burocrate, come ministro delle Corpora­
zioni.
A questi studi si aggiunge il libro di Gen­
tili, dedicato al Bottai ministro dell’Edu­
cazione Nazionale, e in particolare alla fase
costituente della famosa « carta della scuo­
la ». Essa fu, con l’altra, più famosa, « car­
ta del lavoro », uno dei più impegnativi
« manifesti » di intervento nel campo del­
l’ideologia e della cultura. Approvata nel
’39, la « riforma della riforma Gentile »,
come la chiama l’autore, avviene a ridosso
degli eventi bellici, che ne condizionano
l’entrata in funzione, e a spalla delle leggi
razziali, della romanità esasperata, dell’im­
perialismo fascista all’ultimo atto, elementi
tutti che influiscono sulla sua genesi.
Il puntuale lavoro del Gentili ricostruisce
le varie fasi della riforma, le varie com­
ponenti che ne caratterizzarono lo sviluppo,
Rassegna bibliografica
i vari campi del suo, reale o presunto,
sforzo innovativo. Il tema di fondo è la
« mobilitazione » della scuola, che diventa
uno dei maggiori momenti di organizza­
zione del consenso; un consenso, però, della
crisi, alla maniera della « concordia » di
«Primato», un’adesione al regime e un
suo puntellamento nel momento dell’im­
pegno bellico. In questa prospettiva di crisi
(e di ripiegamenti personali dell’uomo Bot­
tai) si colloca poi il progetto di sempre,
il leit motiv degli anni trenta: la forma­
zione dei quadri, la costituzione di una
nuova classe dirigente, il rinnovamento del­
lo Stato. Nella scuola dovrebbero saldarsi
il piano di Stato bottaiano e l’etica dello
Stato di Gentile, padre della prima riforma.
Il quale Gentile, soccombente ormai da­
vanti al montare della cultura cattolica e
all’imperare dei nuovi managers, vede mo­
rire la sua creazione con emozioni contra­
stanti, dall’assenso al sospetto (si veda il
tono di questa lettera del ’35, all’inizio del
dicastero bottaiano, rintracciata dal Gentili
nell’archivio privato Codignola: « comincio
ad avere qualche preoccupazione pel nuovo
ministro che è in buona fede, ma coglione
e fanatico: testa dura. Prevenuto contro
di me e contro la mia creatura »). Gentile,
appunto, e la chiesa sono con Bottai i
vertici del triangolo in cui si gioca il dibat­
tito sulla rifondazione della scuola in Italia;
attualismo in crisi, cattolicesimo in ascesa
e prassi del gruppo dirigente del partito
usano la scuola come cartina di torna­
sole di un sottile braccio di ferro che av­
viene in tutti i campi della politica cul­
turale.
Il dibattito pedagogico di quegli anni, dun­
que, emerge chiaramente dalla ricerca di
questo libro (pubblicato, non a caso, dalla
Nuova Italia che ebbe in Ernesto Codi­
gnola il più significativo interprete di quel
dibattito, divenuto poi un tradizionale cam­
po di intervento della casa editrice): il te­
ma della scuola è un’occasione per idealisti,
cattolici, bottaiani, per fare passare inter­
pretazioni diverse del ruolo della famiglia,
dell’individuo, dello Stato. È una sorta di
riflessione sul futuro della società fascista,
a partire dal suo momento di formazione e
di educazione.
Nel campo scolastico, insomma, si misu­
rano le correnti di pensiero, gli schieramenti, le alleanze che si muoveano dietro
l’apparente compattezza del regime. Il me­
rito di Gentili (al di là di certa eccessiva
specificità e settorialità della ricerca) è
97
quello di collegare chiaramente un « caso »
politico culturale al problema della etero­
genea composizione del regime e al pro­
blema più generale della sua crisi.
Vito Zagarrio
Lettere a Soiaria, a cura di Giuliano Ma­
nacorda, Editori Riuniti, Roma 1979, pp.
LI 1-620, lire 16.000.
« Nell’archivio di casa Carocci, custodito
oggi a Roma dalla signora Èva, si trovano,
ordinate in cartelle anno per anno, alcune
migliaia di lettere, cartoline, telegrammi,
biglietti, ricevute vaglia, stampe, volantini,
ecc. che vanno dal 1926 al 1942 coprendo
l’intera attività di Carocci come direttore
di Soiaria, La Riforma letteraria e Argo­
menti [...] Di tutto questo materiale si
pubblicano qui 852 pezzi »: così Giuliano
Manacorda presenta questo carteggio, che
si apre in tono brioso con una lettera di
Raffaello Franchi datata 9 ottobre 1926
(la documentazione relativa ai mesi ini­
ziali di « Soiaria » è andata smarrita) e si
chiude con un’amara missiva vergata il
5 settembre 1936 da Cesare Pavese, « di­
soccupatissimo » nel confino di Brancaleone Calabro e avvilito per lo scarso favore
incontrato dall’edizione solariana di Lavo­
rare stanca. I criteri seguiti nella selezione
del materiale (che giunge a noi integrato
da note e risconti puntualissimi, e intro­
dotto da un saggio critico che fa giustizia
di molti luoghi comuni, ricco com’è di ri­
lievi complessivi sostenuti da precise osser­
vazioni analitiche) vengono limpidamente
riassunti dal curatore. Questi ha privile­
giato gli scritti in grado di rendere il sa­
pore dell’età, il clima di lavoro e il signi­
ficato storico-culturale della fitta rete di
relazioni che si venne formando attorno
alla rivista, ritagliando all’interno delle
lettere i passi più notevoli nei casi in cui
ciò era opportuno e fattibile senza travi­
sare il testo. Ha inoltre conservato il mas­
simo possibile degli scrittori e dei critici
più importanti: un massimo che coincide
talora con la totalità delle lettere (Mon­
tale, Svevo, Comisso, Pavese, Vittorini),
talora con la quasi totalità (Ferrata, Bonsanti, C.E. Gadda, Debenedetti, Noventa),
talora con una larghissima percentuale (Sa­
ba, Quarantotti Gambini, Arturo Loria,
Ferrerò).
Ne è risultato un volume di agevole let­
tura, che può essere apprezzato e analiz­
98
Rassegna bibliografica
zato a diversi livelli anche da parte di chi
non ha specifici interessi critico-letterari.
Colpiscono, innanzi tutto, la freschezza e
la vivacità di molte missive; si consideri
ad esempio, come una malattia di stomaco
possa trasformarsi, sotto la penna di Carlo
Emilio Gadda, in motivo parodistico: « Ad­
dio monti di spaghetti sorgenti dall’acque
salsose della pommarola che giungeva quasi
’n coppa e con cui m’imbrodolavo (nei mo­
menti d’oblio) il bavero della giacca e la
mia poco rivoluzionaria cravatta! Addio
care memorie di spigole, di vongole, di
spiedini di majale, di panforte, e di altri
vermiciattoli mangiati... facendo finta di
discutere lettere e politicaglia tanto per
salvare un po’ le apparenze... ». Colpiscono,
più spesso, la pregnanza, il peso del docu­
mento umano: deposti i panni curiali, au­
tori e critici ci vengono dinanzi, per così
dire, in veste da camera, svelandoci, in­
sieme con le loro debolezze (l’assillo delle
preoccupazioni finanziarie e familiari, i dub­
bi circa la propria autentica identità, le
gelosie artistiche non di rado degeneranti
in cattiverie gratuite) virtù di solidarietà
vicendevole e disposizioni autocritiche tal­
volta insospettate.
Il merito di tanta sincerità d’accenti va
certo attribuito in parte all’amabile e pre­
coce saggezza dell’interlocutore originario,
Alberto Carocci, vero factotum oltre che
direttore della rivista. Ma questo tono del­
l’epistolario corrisponde anche al diffuso
desiderio di realizzare, non solo nella let­
teratura e attraverso la letteratura, una
società utopica di uomini cólti, di spiriti
umanisticamente e perciò aristocraticamen­
te liberi. È noto del resto che il titolo
stesso del periodico significa, secondo la
testimonianza di Bonaventura Tecchi, « una
città ideale, Sole e Aria, probabilmente, e
insieme un che di solitario ». A sua volta,
tale aspirazione sottintendeva un giudizio
negativo sulle vicende politiche dell’Italia
post-bellica e in particolare un atteggia­
mento per lo più assai critico nei con­
fronti del fascismo, sentito come manife­
stazione di un sistema di rapporti umani
fondati sulla menzogna. Non ci sembra il
caso di soffermarci qui sull’ambiguità di
una simile posizione: ci limitiamo a ricor­
dare come essa vada correlata al distacco,
già approfonditosi in età giolittiana, tra
intellettuali, gruppi politici dirigenti, classe
operaia.
Il costituirsi, nel cuore del ventennio fa­
scista, di una repubblica delle lettere che
si pretendeva autonoma implicava peraltro
una separatezza spinta al limite del para­
dossale. In effetti alla scarsezza dei rife­
rimenti politici (quasi nulli, se si esclude
qualche accenno al razzismo a partire dal
1930) fa riscontro, in queste pagine, l’as­
senza di qualsivoglia riflessione sul pub­
blico, cosicché ci appare quasi rispondere
a un giusto contrappasso il fatto che « So­
iaria », nonostante l’eccellenza dei collabo­
ratori, non sia mai riuscita a superare una
tiratura di poche centinaia di copie. E si
comprende come i solariani si scoprissero
d’un tratto impreparati a resistere quando
il regime ormai trionfante strinse, anche
attraverso precisi atti censori, le maglie
dell’oppressione. Ci si accorse allora di
quanto fosse precaria e pericolosa la scelta
delle mani nette; il risveglio fu tanto più
doloroso quanto più tardivo, come ben ri­
sulta da una lettera di Carocci a Tecchi
del 19 luglio 1933: «Poche cose in Italia,
da dieci anni a questa parte, sono così
minacciate quanto l’intelligenza... E poche
cose quanto il costume e la dignità civili
sono così dimenticati ».
Per altri aspetti, l’epistolario conferma co­
me il vero punto di forza di « Soiaria »
coincidesse con l’assenza di un indirizzo
letterario rigidamente predeterminato, il che
rese più facile il confluire attorno alla
rivista di un fascio di energie altamente
individualizzate. Letto in questa chiave, esso
si configura come uno strumento di ec­
cezionale utilità. Così, ad esempio, diventa
possibile seguire passo per passo il formarsi
dei Saggi critici di Debenedetti, si chiarisce
il metodo estemporaneo, da scrittore di
appendici, con cui Vittorini procedette alla
stesura del Garofano rosso, si ricavano in­
dicazioni preziose specie su autori noto­
riamente atipici e appartati (ma tutt’altro
che isolati) quali Saba, Carlo Emilio Gadda,
Pavese, Noventa. Non a caso le lettere di
questi ultimi occupano qui, anche dal punto
di vista quantitativo, un posto di assoluto
rilievo.
Claudio Milanini
Intellettuali
is n e n g h i , Intellettuali militanti e in­
tellettuali funzionari. Appunti sulla cul­
tura fascista, Torino, Einaudi, 1979, lire
7.500.
M ario
Rassegna bibliografica
Mario is n e n g h i , L ’educazione dell’italiano.
Il fascismo e l’organizzazione della cultura,
Bologna, Cappelli, 1979, lire 7.000.
« Diciamo pure che la <gente >, la cultura
della gente — con tutta la vaghezza e
l’aleatorietà del termine — è il riferimento
reale, anche se sottaciuto di questa rac­
colta di sondaggi e lavori in corso » (p. 14):
così Mario Isnenghi presenta nell’Introdu­
zione al primo dei due volumi che qui
segnaliamo, il filo conduttore del differente
e composito materiale raccolto. E, in ef­
fetti, i due volumi pubblicati sono tra loro
strettamente legati da un comune campo
problematico e da un medesimo taglio sto­
riografico, oltre che dalla forma frammen­
taria delle raccolte, le quali si presentano
più come una serie di approcci parziali,
suggerimenti, indicazioni di ricerca, son­
daggi, documenti che come organici con­
tributi di studio.
È nel volume einaudiano che l’ottica pre­
scelta dall’A. — « la cultura della gen­
te » — per affrontare il discusso problema
del consenso al regime fascista trova le
applicazioni più approfondite e suggestive
con una serie di recensioni e saggi, in
buona parte già conosciuti, nei quali è
condotta una serrata polemica con quella
che I. chiama « la retorica dell’antifasci­
smo», che si sarebbe trovata unita in tutte
le sue componenti — crociana, salveminiana, gramsciana — nel negare 1’esistenza
stessa del problema di una cultura fascista
« alla luce della vecchia equivalenza tra
fascismo e incultura » (p. 30), nel liqui­
dare la monotona e roboante fraseologia
della pubblicistica fascista come vana reto­
rica, impedendo in tal modo un più at­
tento studio dei contenuti di quella cul­
tura — intesa da I. nel senso più ampio:
non solo e non tanto in senso «verticale»,
come alta cultura, ma anche e particolar­
mente in senso « orizzontale », come va­
lori diffusi, riti, modelli semantici — e le
sue forme di organizzazione. È invece pro­
prio quest’ultimo l’ambito di ricerca entro
cui si muovono i saggi di I., che mettendo
a frutto una lunga consuetudine con un
vasto materiale pubblicistico e ufficiale del
periodo fascista, suggerisce, in forma di
ipotesi attendibile, la tesi secondo cui piut­
tosto che in una originale cultura, lo spe­
cifico fascista risieda proprio nella « orga­
nizzazione e dilatazione offerta come una
cassa di risonanza largamente ricettiva e
polivalente... di tutta una serie di elabo­
99
razioni, principi, miti vecchi e nuovi più
o meno radicati nella storia d’Italia, idonei
a creare l’effetto alone dello stato auto­
ritario di massa... » (p. 64). Attraverso un
uso nuovo e spregiudicato dei mass-media
e dei meccanismi di manipolazione delle
coscienze, il regime reazionario di massa
« riusa » una fitta rete di Accademie e
Istituti preesistenti, entro i quali una figura
di intellettuale funzionario « dotato di ca­
risma, ligio al potere costituito e disposto
sempre, in politica, a parlare il linguaggio
dei tempi... » (p. 10), pone al servizio dello
stato le sue specifiche competenze, all’in­
segna di una politica culturale venata di
aspirazioni pedagogiche che vuole conci­
liare verità e propaganda, informazione e
formazione. In tal modo la « cultura della
gente » viene ad essere considerata più dal
punto di vista delle emittenti di messaggi
e valori che da quello del destinatario, più
come ricognizione dell’organizzazione della
cultura che dei comportamenti di massa.
L’A. offre una lunga serie di indicazioni
sugli intellettuali che, a seconda della collocazione e del grado di partecipazione,
vengono catalogati ora come intellettuali
funzionari ora come intellettuali militanti,
facendo largo uso di categorie di prove­
nienza sociologica con una insistenza sulla
problematica relativa al rapporto intellet­
tuali-potere che se può aiutare a definire
la collocazione delle fasce intermedie e pe­
riferiche di intellettuali e operatori cultu­
rali, conserva, accentuandoli, quegli ele­
menti di schematismo insiti nell’approccio
sociologico a questo tipo di tematica, ripro­
ponendo in definitiva uno studio sui ruoli
che prescinde spesso largamente dai con­
tenuti della produzione culturale e scienti­
fica del periodo fascista. Non che I. non
si ponga il problema dello studio dei con­
tenuti, tutt’altro. È egli stesso, in sede di
Introduzione, ad auspicare « l’identificazio­
ne, disciplina per disciplina, degli uomini
di cultura riconoscibili insieme come indi­
vidui e militanti » per « verificare l’ipotesi
che il fascismo non rappresenti solo una
forma più cruda e prolungata di gestione
dell’esistente, ma si esprime anche con
contenuti e forme specifiche sul terreno
della cultura » (p. 22). Solo che questo si
configura come un suggerimento fra altri,
non incorporato nel vivo delle ricerche
svolte e lasciato piuttosto ai margini. Per
muoversi in tale direzione sarebbe stato
infatti necessario prendere in maggiore
considerazione la produzione e dislocazione
100
Rassegna bibliografica
di quell’alta cultura che, per scelta dell’A., e gradi e via dicendo. Si potrebbero ag­
rimane fuori dal quadro dipinto. Sono in­ giungere infinite altre osservazioni relative
vece i contenuti degli atti ufficiali delle alla parte dedicata alle Università ed Ac­
Accademie e delle Università, del linguag­ cademie, per lo studio delle quali l’ap­
gio giornalistico, in una parola, dell’apolo­ proccio di I. non ci pare il più fecondo
getica e della propaganda a interessare I., — e qui siamo nel campo dell’alta cul­
che con troppo ampia e discutibile cate­ tura — e sembra maggiormente soffrire di
goria li definisce parte di una « cultura quello schematismo cui accennavamo so­
orizzontale ». È in questo settore che sono pra. Certo, la scelta della documentazione
offerti gli spunti e le esemplificazioni più va giudicata nel suo insieme e appare con­
interessanti, soprattutto sul versante del­ grua alle scelte metodologiche dell’A., che
l’analisi del linguaggio, della scomposizione si è proposto di darci spaccati di vita vis­
di articoli di testate e giornalisti di pre­ suta nel periodo fascista con una attenzione
stigio e con i richiami alle « ascendenze se­ per « i comportamenti culturali » meno
ufficiali e professionali « fino al limite del­
mantiche », ai miti, ai riti.
È essenzialmente di questo tipo il mate­ l’infimo » (Intellettuali militanti..., p. 4).
riale documentario — preceduto da un’am­ Ma proprio in ragione di tale scelta la
pia introduzione — di cui si compone il documentazione reperibile diventa talmente
secondo dei due volumi, quasi un’appen­ vasta e variegata che per conseguire risul­
dice documentaria al primo, che presenta tati apprezzabili e non infondati sarebbe
testi di discorsi pubblici, esemplificazioni necessario utilizzare strumenti, applicazioni
delle caratteristiche del culto del «Duce», e sistematicità che mancano nel volume e
Annuari scolastici, acquisti per le biblio­ che non è possibile ottenere dall’impegno
teche scolastiche, discorsi inaugurali e ce­ di un solo studioso. È per questo che una
rimonie di Accademie e Università, che raccolta di documenti quale ci viene pre­
sentata, guidata da questo tipo di riferi­
riflettono quell’accezione di cultura in sen­ menti interpretativi, oltre a lasciare un
so lato adottata dall’A. Questo materiale ampio spazio all’arbitrio e alla casualità,
dovrebbe offrire esempi significativi dei rischia — e non sempre I. riesce ad evi­
contenuti che il regime intendeva trasmet­ tarlo — di trasformarsi in una impressio­
tere per la formazione dell’« Italiano nuo­ nistica galleria di cimeli e curiosità buona
vo». Un progetto che — secondo l’A. -— per tutti gli usi.
sebbene « inficiato da velleitarismi, contrad­
Angelo Montenegro
dizioni, genericità, reperti tradizionali (...)
non sembra di per sé doverci condurre a
escludere di prendere sul serio la cosa »
(p. 10). E I. la prende sul serio, utilizzando g ia im e pin to r , Doppio diario. 1936-1943,
nozioni mutuate dalla linguistica, dalla so­ Torino, Einaudi, 1978, pp. 235, lire 3.500.
ciologia e perfino dall’antropologia. Ma,
appunto, solo nozioni, mentre il tipo di La pubblicazione del Doppio diario di Giai­
materiale qui presentato, per poter fornire me Pintor a cura di Mirella Serri e con
dei risultati di un qualche significato, che una presentazione di Luigi Pintor è certa­
non siano mere suggestioni, spunti, ipotesi, mente un avvenimento di grande impor­
avrebbe bisogno di ricerche ed elaborazioni tanza per inquadrare meglio la figura e
ben altrimenti sistematiche. Di indubbio l’opera di Giaime Pintor. Già in questi
interesse, ad esempio, i sondaggi sulle po­ ultimi anni comunque, alcuni spunti di
litiche degli acquisti e dei doni delle bi­ Asor Rosa nella sua Storia d’Italia e so­
blioteche scolastiche, ma — domandiamo — prattutto di Luisa Mangoni nell’Intervennon si poteva far parlare un po’ di più sismo della cultura e nella presentazione
quegli inanimati elenchi di volumi posti all’antologia di « Primato » che riprende e
sotto gli occhi del lettore, quasi ad invi­ sviluppa le acute intuizioni di Eugenio
tarlo ad elaborarseli da sé? I criteri con Garin, hanno permesso di procedere oltre
cui sono stati condotti i sondaggi appaiono lo scritto di Valentino Gerratana, premesso
ben lungi dall’aver quella caratteristica di a 11 sangue d’Europa, che, per molto tempo,
rigore che sarebbe necessaria, né sembra è rimasto l’unico tentativo di ricostruire la
che sia stato tenuto nel debito conto il vicenda di Pintor. A questi studi si ag­
criterio di differenziazione tra scuole di giunge ora l’introduzione di Mirella Serri
città e scuole di campagna, scuole del sud che, basandosi sulla nuova documentazione,
e scuole del nord, scuole di diversi ordini tenta di svincolare l’itinerario politico e
Rassegna bibliografica
culturale di Pintor da quello che ella chia­
ma il « mimetismo demagogico » (p. XI)
per esaltare la « forte carica antimitica, in
cui risiede la sua ricchezza e il suo possi­
bile valore di lezione » (p. XIII). Il tenta­
tivo della Serri non ci sembra particolar­
mente riuscito e soprattutto lascia molto a
desiderare dal punto di vista metodologico,
sia perché riduce l’introduzione di Gerratana, che anche se scritta nel 1949 non
ci sembra che scada in un appiattito inter­
vento di politica culturale, a interpretare
gli scritti « alla luce della ragione lukacsiana, come il progressivo percorso di uno
scrittore dagli oscuri abitacoli del decaden­
tismo... al realismo e ad una unità solare
e progressiva » (p. XXXVI), sia perché si­
stematicamente si dimentica di citare i
contributi che sono apparsi dopo quella
introduzione, lasciando credere all’ignaro
lettore che negli anni successivi tutto fosse
rimasto al punto di partenza e che si fosse
cercato di relegare Pintor ad una critica
rozza e settaria. In realtà questo « libro
della vita », come lo ha definito Rossana
Rossanda in una bella recensione, si pre­
sta — a nostro avviso — ad una lettura
intensa ed in alcuni casi amara degli ap­
porti diversi e difficili che vennero con­
vogliandosi nella Resistenza e che trova­
rono anche nella soluzione finale, anche
nell’impegno estremo, una traccia, un se­
gno della loro formazione. Siamo quindi
d’accordo con Fortini e Rossanda nel con­
siderare la parte centrale del diario certa­
mente quella più densa e stimolante, men­
tre abbiamo letto e riletto con una certa
difficoltà le lettere inviate alla famiglia o
i rapidi appunti sui suoi impegni culturali.
« Amico di mezza Italia, collaboratore del
più grande giornale e del più grande edi­
tore, considerato da tutti uno degli uomini
di punta della mia generazione », come
scrive in una nota del diario, Pintor sem­
bra muoversi a suo agio tra quella classe
dirigente a cui da sempre era appartenuto;
e se il suo sarcasmo, il suo disprezzo per
la povertà culturale e politica dell’Italia
del tempo saranno bene riassunti nell’ul­
tima lettera al fratello, ciononostante le
pagine del suo diario ce lo presentano
fermo e deciso nella consapevolezza di po­
ter rappresentare anche nel futuro un punto
di riferimento per la cultura e la vita
civile italiana. E questa consapevolezza gli
è più cosciente quando paragona la pro­
pria vita a quella dei suoi coetanei a
« quelli che ora si divertono nei cortili
101
dell’università mentre io sto in biblioteca »
e che in seguito « avranno poi da servire
a una vita faticosa di cui io sarò il pa­
drone ». Sono certamente espressioni gio­
vanili, a cui se ne possono aggiungere altre,
di chi però già si sentiva investito dalla
sua classe sociale di un ruolo di guida che
poco ha da imparare e che, al contrario,
molto deve essere capace di indirizzare e
dirigere. Non ci meraviglia quindi che nel
diario ricorrano parole come tecnica, senso
del dovere, asprezza con sé stessi, efficienza
e manchino alcuni sentimenti che, proprio
perché ci troviamo davanti ad un diario,
vi dovrebbero essere contenuti. Al con­
trario delle Lettere e taccuini di Regina
Coeli di Mario Alicata dove tutto viene
rimesso in discussione con « atteggiamento
fiero e quarantottesco », dove anche il pro­
prio privato è legato alla maturazione po­
litica, nel Doppio diario le amicizie con
Balbo, Stille, Lombardo Radice vengono
filtrate attraverso la propria formazione
culturale. Ecco perché la guerra finisce per
diventare per Pintor un momento perio­
dizzante, « il primo ostacolo veramente in­
superabile, il primo mare senza porto », il
rifiuto definitivo di quello storicismo che
per tanti versi non gli era mai appartenuto.
Nella sua vita personale in cui ogni fatto
viene riportato alla sua volontà seguendo
« la linea del successo », la guerra sposta
continuamente la linea su cui attestarsi
obbligandolo ad una verifica pratica delle
proprie convinzioni. La sua generazione si
trova così al momento giusto ad essere
chiamata a misurarsi con un compito sto­
rico, il superamento del fascismo, che ave­
va visto in parte fallire gli sforzi del fa­
scismo cospirativo e del fuoriuscitismo.
Pintor ha la consapevolezza che questo
appuntamento non può essere mancato pe­
na il pericolo per sé e per tutta la sua
generazione di ritornare « al punto di par­
tenza», di vedere cancellati «almeno dieci
anni di vita » (p. 127). La rilettura de
« La Voce » assume quindi per Pintor un
significato peculiare, non tanto quello di
riproporre un concetto di impegno mu­
tuandolo dagli intellettuali della prima guer­
ra mondiale, quanto quello di una verifica
« fra la cultura letteraria scolastica e quella
che doveva coincidere con la mia espe­
rienza diretta » (p. 50). La « Dea Ragio­
ne », che dalle pagine di « Primato » con
tanta sicurezza aveva respinto ogni cedi­
mento romantico, viene nuovamente chia­
mata in causa per indicare con lucidità la
102 Rassegna bibliografica
necessità di guardare oltre il fascismo, di
sconfìggere con l’impegno ciò che non era
parentesi. Anche in questo l’antifascismo
di Pintor rimane coerente con la sua vita
ed è ancora oggi per noi un insegnamento.
Gianfranco Tortorelli
nando briamonte , La vita e l’opera di
Eugenio Curiel, Milano, Feltrinelli, 1979,
pp. 188, lire 3000.
La vita e l’opera di Eugenio Curiel sono
state in questi anni spesso al centro del­
l’attenzione di numerosi storici e uomini
politici. L’attenzione è derivata sia dalla
difficoltà nel dire una parola definitiva sulla
sua militanza nel partito comunista e con­
temporaneamente nel centro interno socia­
lista, sia da quella « originalità » di pen­
siero che si sviluppò soprattutto nel lavoro
« legale » all’interno delle organizzazioni fa­
sciste e nella formulazione della « demo­
crazia progressiva». Dopo gli studi di Enzo
Modica e gli scritti di numerosi militanti,
che ricordano soprattutto il coraggio e
l’abnegazione di Curiel, è stata l’introdu­
zione di Amendola agli Scritti, pubblicati
nel 1973, a contrapporsi rigidamente allo
studio di Stefano Merli sul Cis in cui
l’opera di Curiel veniva staccata dalla ela­
borazione dei comunisti e dotata di una
« originalità » spesso alternativa a quella
del centro estero. Continuando dunque una
ricerca che in più occasioni si è sforzata
di ritrovare al di fuori delle posizioni dei
partiti il « primato della classe » e degli
organismi autonomi che essa si dà nella
lotta antipadronale, Merli, rileggendo gli
scritti di Curiel, interpretò la sua figura
come quella di un antifascista che, per
formazione culturale e politica, non si limi­
tava ad applicare la linea dei comunisti nel
lavoro legale, ma al contrario rendeva co­
sciente l’emigrazione di una determinata
situazione interna e perciò, muovendosi su
una posizione unitaria, « la correggesse, la
spingesse in avanti, la interpretasse creati­
vamente ». A questa posizione storiografica
si riattacca il recente lavoro di Nando
Briamonte, La vita e il pensiero di Eugenio
Curiel, che ha il merito di fornirci per la
prima volta una biografia completa del­
l’antifascista triestino. Briamonte ripercorre
con sicurezza, nelle pagine iniziali del vo­
lume, le varie tappe della formazione cul­
turale di Curiel, le sue letture preferite,
gli interessi scientifici, che continueranno
anche negli anni successivi e che faranno
di lui uno dei pochi intellettuali antifascisti
con una formazione non umanistica, le
amicizie rade ma intense. Incise in queste
prime scelte l’interesse per l’antroposofia,
per una vita rigorosa e ascetica che sele­
zionasse anche persone ed affetti. Nasce
in questi anni l’interesse per Gentile e la
scarsa attenzione, ed è anche questo un
tratto importante nella storia degù intel­
lettuali degli anni ’30-’40, per Benedetto
Croce. In Gentile, sottolinea Briamonte
(p. 29), Curiel ritrova due punti fermi
della sua vita personale: una concezione
fortemente etica della vita e della politica
e una stretta compenetrazione tra teoria e
prassi che lo porterà qualche anno dopo,
nel ’34-’35, a vedere in Giustizia e Li­
bertà quell’attivismo pragmatistico e radi­
cale importante per scuotere l’apatia al fa­
scismo.
La delusione che Curiel proverà dopo que­
sta esperienza lo spingerà a trovare nuove
vie di intervento più agganciate alla realtà
italiana. La collaborazione alla rivista di
Rigola « I problemi del lavoro », da cui
Curiel in un saggio del ’39 prenderà le
distanze, lo avvicineranno alle tematiche del
sindacalismo e alle diverse esperienze del
movimento operaio internazionale. Inizierà
da questi anni l’interesse per il ruolo del
sindacato e soprattutto per un lavoro in­
tenso e spregiudicato all’interno delle or­
ganizzazioni giovanili, una realtà che Curiel
contribuirà in modo rilevante a far cono­
scere anche ai dirigenti del partito comu­
nista. Non vi è dubbio a questo proposito,
come giustamente mette in luce Briamonte,
che in Curiel spesso si riscontrasse una
conoscenza più approfondita della realtà
italiana e soprattutto giovanile di quanto
invece prospettassero gli interventi dei mi­
litanti più anziani. La risposta di Gennari,
ad esempio, è illuminante nel rilevare certo
una coerenza encomiabile, ma allo stesso
tempo appare un po’ astratta e lontana
dalle reali possibilità di lavoro createsi al­
l’interno delle organizzazioni giovanili. At­
traverso la collaborazione a « Il Bo », Cu­
riel, nei limiti consentiti dalla censura fa­
scista, cercò sempre di forzare la fraseo­
logia antifascista « fino a spingerla in un
contesto del tutto diverso ed antagonistico
a quello del regime » (p. 59) mettendo allo
stesso tempo in guardia gli universitari che
lavoravano nel campo sindacale, ed è un
tema trattato con lucidità nell’articolo Ope­
rai e universitari del 1937, a non accostarsi
Rassegna bibliografica
alla realtà del mondo operaio con « gli
schemi che si apprendono a scuola o sui
libri». Ci sembra che Curiel in questi anni
si misuri con il grande compito che i partiti
antifascisti di sinistra si trovarono di fron­
te: spostare masse rilevani di intelletttuali e di operai dalla generica opposizio­
ne al terreno dello scontro frontale con il
regime.
L’unità intorno alla classe operaia avrebbe
permesso, sottolineava Curiel a più riprese,
di sviluppare anche quella dissidenza che
da tempo fermentava in alcuni ambienti
cattolici. Il volume di Briamonte permette
di gettare ulteriore luce su questi punti
ricercando attraverso la lettura dei suoi
scritti, di scavare nel concetto di « demo­
crazia progressiva » che, soprattutto du­
rante la Resistenza, sarà un tema posto di
frequente da Curiel al centro del suoi in­
terventi. In non pochi casi tuttavia ci
sembra che l’autore del volume operi for­
zature non sempre pertinenti. Avrebbe gio­
vato, a questo proposito, tenere maggior­
mente presenti i contributi recenti di Garin
e Spriano che, pur accettando alcuni risul­
tati della ricerca del Merli, ne hanno sot­
tolineato anche i limiti. Il Curiel di Bria­
monte, al contrario, risulta completamente
staccato dalle posizioni dei partiti antifa­
scisti, portatore di una linea organica e
alternativa incentrata tutta sulla riscoperta
delle potenzialità di lotta della classe ope­
raia. Non è un caso quindi che Briamonte
veda già negli articoli pubblicati su « Il Bo »
il tentativo di Curiel di scoprire nei sin­
dacati anticipazioni dei nuovi organismi di
democrazia diretta che si affermeranno, in
alcuni casi, durante la Resistenza (p. 74)
e negli scritti del 1937-39 uno sforzo di
definire una « teoria della rivoluzione »
(p. 72). Forse a stemperare queste affer­
mazioni avrebbe certamente giovato con­
frontare l’elaborazione di Curiel con quella
di altri giovani antifascisti; manca, a que­
sto riguardo, qualsiasi riferimento alle re­
centi pubblicazioni di Pintor, Alicata e
soprattutto di Eugenio Colorai, i cui scritti
non risultano neanche citati nelle note;
così come un’attenzione più puntuale agli
studi di storia del fascismo avrebbe per­
messo all’autore di abbandonare un’impo­
stazione troppo polemica e di inserire la
figura di Curiel in un quadro più vasto
della storia degli intellettuali negli anni
trenta e quaranta.
Gianfranco Tortorelli
103
Carlo e nello r o ssel li , Epistolario fami­
liare. Carlo, Nello, Rosselli e la madre
(1914-1937), Introduzione di Leo Valiani,
Milano, SugarCo, 1979, pp. 590, lire 15.000.
Nel giorno del suo compleanno, il 15 gen­
naio 1925, Carlo Rosselli finisce una lettera
alla madre con questo post scriptum: « Pen­
so con orrore alla pubblicazione del nostro
epistolario. Il mio posto nella storia è in
pericolo ».
Giudizio più errato è difficile conoscere;
evidentemente, infatti, i posteri non sono
stati dello stesso parere; le quattrocento
lettere di questo Epistolario familiare, in­
vece di porre in pericolo la fama di Carlo
Rosselli, ne confermano l’altezza morale,
non solo, ma accanto a lui fanno rilucere
l’alta dignità della famiglia che lo circonda.
Il lettore si trova di fronte ad un raro
quadro familiare, che ha il suo centro nella
figura di Amelia Rosselli, la madre, dalla
quale irradiano le virtù più nobili che si
sono poi riflesse nella vita dei tre figli fino
alla morte.
L’arco di tempo va dal 1914 al 1937, dal­
l’inizio della prima guerra mondiale fino
all’anno in cui Nello e Carlo, il 9 giugno
1937, furono massacrati dai sicari fascisti
nella foresta di Bagnoles de l’Orne.
La corrispondenza si conduce in forma al­
terna attraverso ventitré anni che segnano
la morte del figlio maggiore Aldo sul fronte
alpino, fino al sacrificio dei suoi fratelli.
Nel mezzo, accanto alla madre, nascono e
fioriscono le famiglie di Carlo e di Nello,
che fanno degna corona intorno alla can­
dida e forte figura di Amelia Rosselli, che
sta come l’inesauribile e limpida fonte della
forza e del coraggio, che non cedono mai.
Chi legge tutte le quattrocento lettere si
trova di fronte alla parte forse più dram­
matica della storia d’Italia nella prima metà
del secolo XX, dalla prima guerra mondiale
alle soglie della seconda; l'avvento del fa­
scismo, il delitto Matteotti, l’affermazione
del regime, le persecuzioni e le cospirazioni,
il Tribunale Speciale e i suoi processi.
I Rosselli li troviamo presto sulla scena,
sia che si tratti del processo di Savona
nel 1926 per la fuga di Filippo Turati, sia
che si tratti di un’altra fuga, quella dal
confino di Lipari, sia che si giunga alla
fondazione di Giustizia e Libertà nell’ago­
sto 1929 a Parigi, dopo la fuga da Lipari.
Carceri e confino saranno le note costanti
di questo epistolario, che avrà per attore
un intero complesso familiare legato per
104 Rassegna bibliografica
la vita e per la morte. Sullo sfondo della
scena si muovono figure che nobilitano la
cultura, alla quale i due fratelli sarebbero
stati interamente dedicati in tempi tran­
quilli; Carlo studioso di problemi di eco­
nomia e di politica; Nello di problemi sto­
rici, materie tutte delle quali lasciarono
testimonianze valide anche per gli studiosi
di oggi.
Nel turbine della loro esistenza in essi
tutto fu vivo, gli affetti familiari proiettati
in un mondo di rettitudine, di dignità e
di fedeltà alla tradizione. Da Londra, il
15 settembre 1924, pochi mesi dopo il de­
litto Matteotti, Carlo scriveva alla madre:
« Puoi immaginare l’impressione che mi
hanno fatto le notizie dall’Italia. Non si
può assolutamente andare avanti così... Ep­
pure bisogna tener duro anche a costo di
dover continuare a logorarsi per tutta la
vita. Almeno per me è un imperativo mo­
rale».
La tristezza della situazione politica ita­
liana li affligge; Nello nel novembre 1926,
dopo le leggi eccezionali scrive alla madre:
« Sarà un periodo doloroso quello dell’op­
pressione legale perché ci sentiremo in po­
chi, isolati, almeno in apparenza, dal resto
della nazione ».
Più tardi la madre osservava: « Lady Macbeth diceva che tutta l’acqua del mare e
della terra non sarebbe bastata a lavare le
sue mani macchiate: e io dico che a to­
gliermi l’amaro dal cuore non basterebbe
tutto lo zucchero che si raccoglie nel mon­
do... Non a Ustica sola c’è il confino! Ci
sono dei <confini > morali altrettanto dolo­
rosi, anche se si ha tutta l’Italia a propria
disposizione ».
Dal carcere giudiziario di Como Carlo ave­
va scritto nel maggio 1927: « Quando si
accetta di iniziare una tacita transazione
ci si pone su di un terribile piano incli­
nato; non ci si ferma più; cade ogni limite
e tutto è lecito... Sento, ti ripeto, per istinto
che l’esempio potrà servire solo se sarà
puro perfetto, incontaminato, solo se ser­
virà a dimostrare che c’è stato qualcuno
che ha saputo seguire, malgrado tutto, una
linea di moralità, di intransigenza asso­
luta ».
Questa sarà la legge e questa legge viril­
mente seguita porterà alla morte. Le vi­
cende della vita di Carlo, in obbedienza a
questa legge, trascineranno con sé anche
quelle di Nello che pur spesso tollera, ad
esempio, di mantenere rapporti di indul­
gente cordialità con uomini come G. Volpe
che fu noto ed autorevole seguace del re­
gime e che era stato suo maestro negli studi
storici, a proposito del quale, tuttavia, scri­
ve a Carlo: « Scriverò a Volpe. Voglio che
si capisca in base a quali presupposti mo­
rali inderogabili un uomo come me, che
non appartiene a partiti politici, non ha
responsabilità del passato né formule né
appetiti per l’avvenire, tiene a mantenere
in momenti come questi una linea di as­
soluta dignità e fermezza » (Ustica - gen­
naio 1928).
Purtroppo, leggendo queste lettere, a chi
non conosce o per esperienza o per studi
il succedersi dei fatti che segnarono la
nostra storia in quegli anni, dal delitto Mat­
teotti alla morte dei Rosselli, è facile in­
contrare a tratti lacune che difficilmente
può colmare, come, ad esempio, quella
serie di vicende importantissime che si
riferiscono agli arresti ed al processo degli
intellettuali di Giustizia e Libertà, che ebbe
momenti drammatici dall’ottobre 1930 al
maggio 1931 e che in questo epistolario
sono resi con una frammentarietà inespli­
cabile che ne sminuisce la tragicità e scon­
certa colui che è bene informato delle
vicende.
Un’altra lacuna che rende un po’ confusa
a volte la lettura di queste quattrocento
lettere è la mancanza di un indice dei
nomi, che in una pubblicazione di tal ge­
nere sarebbe estremamente necessario, quan­
to una serie di note destinate a coilegare,
sia pur brevemente, la successione dei fatti,
poiché sarebbe desiderabile che quest’opera
fosse letta da molti, soprattutto dai gio­
vani, che ignorano troppo spesso l’eroismo
e il sacrificio dei maggiori.
A compensare largamente queste lacune
può certo bastare l’ampia introduzione di
Leo Valiani, che getta una luce storica­
mente valida sulle figure di Carlo e Nello
Rosselli e sulle loro tragiche vicende.
Bianca Ceva
ba uer , Breviario della democra­
zia, Milano, Pan, 1978, pp. 216, lire 3.000.
riccardo
A breve distanza di tempo dall’apparizione
(presso lo stesso editore e nella stessa « col­
lana di divulgazione ») del volume II dram­
ma dei giovani, in cui ha ordinato articoli
di giornale e capitoli inediti dedicati al­
l’analisi di problemi etico-politici del mon­
do d’oggi, Riccardo Bauer pubblica questo
Breviario che, anche se non è dichiarato
Rassegna bibliografica
esplicitamente, è rivolto prima di tutti ai
giovani.
Se si ricordano precedenti, importanti, rac­
colte di suoi scritti, come Alla ricerca della
libertà, in cui venivano dibattute dal punto
di vista teorico e sulla base di riflessioni
iniziate in carcere e al confino molte delle
questioni legate alla introduzione delle isti­
tuzioni democratiche nell’Italia post fasci­
sta, e Kermesse italica, in cui le medesime
questioni erano considerate, di riflesso, nel
comportamento « asociale » dell’italiano me­
dio, diseducato da vent’anni di dittatura
e dai successivi di cattivo uso della demo­
crazia, si può constatare come Bauer ora
continui il suo discorso di pedagogia civile
in termini di più pacata meditazione, di
ammonimento quasi confidenziale, intento
più a persuadere che a polemizzare.
Il libro si presenta sostanzialmente come
un manuale di educazione civica, anche se
non ha nulla di scolastico, di sistematico:
gli argomenti (la nascita della democrazia
moderna, le condizioni per il costituirsi di
una democrazia efficiente, i diritti dell’uomo
e del cittadino, il formarsi della democrazia
italiana attraverso la dialettica fra i mag­
giori partiti, la libertà del socialismo) sono
toccati in tono discorsivo, senza enuncia­
zioni apodittiche, ma ripercorrendo l’itine­
rario personale che ha consentito all’autore
di chiarirsi le idee, di verificarne la validità,
di porle a confronto con la realtà. Vi è
al fondo del discorso di Bauer una radicata
fiducia nella forza della ragione, nella pos­
sibilità di modificare e migliorare il mondo
servendosi di strumenti socialmente utili
quali quelli del « ripensamento concettua­
le » degli elementi della democrazia, del
confronto tra il loro atteggiarsi concreto
nella situazione italiana e il modello cui
dovrebbero essere adeguati, del chiarimento
delle prospettive di sviluppo da proporsi.
Questa fiducia, che traspare da tutto il
libro, volutamente privo di riferimenti dot­
trinali, di « ogni apparato erudito », della
forma stessa del comune manuale di studio
e informazione, è più evidente nell’ultimo
capitolo. In esso, sotto forma di « chiose »,
sono infatti raccolte pagine di più diretta
effusione dell’autore nel giudizio sulla storia
contemporanea italiana, sui mali della no­
stra democrazia, le sue insufficienze, le de­
bolezze del carattere italiano, il peso di
una eredità storica negativa, ma anche,
più ottimisticamente, sulla possibilità e~il
dovere di affermare quella « gradualità ri­
formatrice » che potrà determinare un
105
« avanzamento economico-sociale » solo se
vi corrisponderà una adeguata « matura­
zione culturale ». La lezione di Bauer,
espressa nei termini intenzionalmente di­
messi di queste pagine da cui è lontana
ogni tentazione di magniloquenza, è tratta
dall’esperienza di tutta la sua vita, ed è
una lezione di pazienza, di chiarezza di
idee, di assiduità nel lavoro, di fastidio per
le soluzioni improvvisate, di fermezza nei
principi di libertà e nella loro vigilante
difesa.
Giuseppe Armani
arturo colombo , Riccardo Bauer e le ra­
dici ideologiche dell’antifascismo democra­
tico, Sala Bolognese, Forni, 1979, pp. 66 +
158 non numerate continuativamente, lire
7.800.
Una delle figure più straordinarie dell’an­
tifascismo italiano è sicuramente Riccardo
Bauer, giunto ormai alla soglia dei suoi
ottantacinque anni, e sul quale (a parte
alcuni articoli — dello stesso Colombo ve
n’è uno, significativo, pubblicato nel 1975
in « Nuova Antologia » — e gli spunti che
lo riguardano compresi nei lavori dedicati
alle vicende di cui è stato protagonista o
partecipe) fino ad ora mancava uno studio
esauriente.
Questo libro di Colombo adempie ottima­
mente allo scopo di dare un profilo sin­
tetico dell’attività di Bauer, rendendone
esplicite le motivazioni ideologiche e colle­
gandole a quelle dell’antifascismo che, con
l’autore, per delinearne per esclusione i
contorni da un punto di vista formale, si
può bene definire democratico (nelle sue
articolazioni gielliste e poi azioniste). A
tale proposito Colombo si giova di un
prezioso inedito di Bauer (un fascicolo di
Memorie autobiografiche di 220 pagine che
si vorrebbe presto vedere pubblicato con
una completa bibliografia degli scritti di
lui, tuttora non catalogati e dispersi in
pubblicazioni non sempre conosciute, e in
parte segnalate nel volume), il quale con­
sente di seguirne la presenza in momenti
decisivi della nostra storia recente, dalla
prima guerra mondiale alla liberazione.
Animatore del gruppo milanese degli amici
di «Rivoluzione Liberale», influenzato di­
rettamente dal pensiero di Gobetti e come
Gobetti attento alle ragioni dell’operaismo
torinese e ai problemi del rinnovamento
106 Rassegna bibliografica
dei partiti tradizionali, Bauer fu infatti, fin
dal ’22, fra coloro che più lucidamente
videro nell’opposizione intransigente, nella
completa dedizione personale alla lotta an­
tifascista, un impegno necessario per sal­
vaguardare ciò che ancora si poteva difen­
dere in termini di libertà politica, e, in
seguito, per prepararne il recupero.
L’esperienza del «Caffè», di cui, insieme
a Parri, fu il vero promotore, è analizzata
da Colombo come uno dei capitoli salienti
di questo programma, che accompagnò il
pìccolo gruppo dei suoi redattori (tolte al­
cune defezioni) dall’antifascismo legale o
paralegale alla cospirazione. Un primo cen­
simento delle carte conservate nell’archivio
di Bauer, fatto nelle note che accompa­
gnano il saggio, permette di rilevare come,
fin dall’apparire del periodico, fosse ricca
la rete dei corrispondenti (a parte Dorso,
che collaborò al giornale, vi si trovano i
nomi di Ruffini, Murri, Zuccarini, Spellanzon) e come « Il Caffè » apparisse al­
l’opinione antifascista una delle ultime
trincee non clandestine da cui combattere.
Decretata la definitiva chiusura del foglio,
nell’estate del ’25, Bauer non ebbe esita­
zioni a continuare l’attività politica nella
illegalità: fu tra gli organizzatori della
fuga di Turati, subì le prime assegnazioni
al confino dove ebbe incontri decisivi (con
Rosselli a Ustica, con Lussu a Lipari), di
ritorno a Milano nell’aprile del ’28 co­
minciò poco dopo a costituire l’organiz­
zazione interna di Giustizia e libertà, di
cui fu il capo effettivo, insieme a Ernesto
Rossi.
Tra il ’25 e il ’30 (quando, come Rossi,
fu arrestato per delazione di Carlo Del
Re, per essere poi condannato a venti anni
di reclusione dal Tribunale speciale) Bauer
fu in primissimo piano nell’attività cospi­
rativa, e il libro di Colombo ne documenta
gli aspetti in modo puntuale, e per alcuni
aspetti pressoché inedito: è il caso della
rivista « La lotta politica », progettata con
Nello Rosselli, e di cui nella primavera
del ’29 apparve il primo ed unico numero,
come dei quattro opuscoli clandestini di
«Nuova Libertà», stampati in Francia nel
’29 e diffusi in Italia con la falsa indica­
zione tipografica di Roma. In questi opu­
scoli veniva definito il programma ultimo
del movimento di GL, fino alla proclama­
zione di una repubblica democratica il cui
ordinamento sarebbe stato stabilito da una
costituente popolare, ma si dettavano an­
che criteri pratici di comportamento, at­
tuabili da chiunque per una resistenza pas­
siva al fascismo, accanto ad informazioni
per la propaganda cui il gruppo Bauer-Rossi
si dedicava in modo intensissimo. La loro
lettura, ora consentita dal libro di Co­
lombo, può essere compiuta utilmente tanto
per conoscere la storia generale del movi­
mento giellista prima del ’30, che per inte­
grare le notizie, non sempre fino ad ora
bene ordinate, che si hanno sui suoi espo­
nenti maggiori (si tratta di 11 primo do­
vere: conquistare la Nuova Libertà, in cui
Salvemini ricapitola le vicende dell’affer­
mazione del fascismo, distingue le posi­
zioni di GL da quelle comuniste, invita
per l’immediato ad astenersi dalla parteci­
pazione al plebiscito; di Stato fascista e
stato liberale, dovuto alla collaborazione di
Bauer e Rossi, testo di grande importanza
per i giudizi sul fascismo, considerato non
altro che una somma dei « difetti che i
più intelligenti e lungimiranti nostri uomini
politici, dall’unità in poi, hanno ad uno
ad uno analizzati », e la rivendicazione dei
valori dell’Italia risorgimentale; di Bernard
Show e il fascismo di Salvemini e de La
Conciliazione di Bauer, entrambi già in
precedenza ripubblicati).
Per quanto riguarda più strettamente Bauer,
l’opuscolo su Stato fascista e stato liberale
è da accostare ad un altro del ’25, apparso
sotto il nome di Demetrio e scritto in col­
laborazione con Parri (Casi d’Italia, ripro­
posto in appendice al libro di Colombo
unitamente a La politica estera di Musso­
lini di Sforza), per ricostruire un profilo
la cui dimensione morale è già tutta nella
lettera al presidente del Tribunale speciale
del ’31, pubblicata nel ’48 in un fascicolo
del « Ponte » col titolo Diritti e doveri di
un uomo libero. Mentre per gli anni pre­
cedenti e di poco successivi all’arresto que­
sti testi di Bauer sono ora disponibili, per
il periodo della carcerazione e del confino
sono ben pochi i documenti pubblicati di
cui si possa tener conto per seguirne il
pensiero. Una raccolta delle sue lettere
familiari potrebbe in proposito essere di
notevole interesse, integrando le lettere del
suo sodale Ernesto Rossi già pubblicata in
Elogio della galera e quelle dello stesso
Rossi scritte da Ventatene e di imminente
pubblicazione presso Feltrinelli, in non po­
che delle quali ricorrono il nome e la
presenza di Bauer. Sarebbe da ricercare in
tali scritti la « radice » dell’attività svolta
da Bauer dopo la liberazione di Roma, nel
periodo della Resistenza e del primo post
Rassegna bibliografica
fascismo, di cui il libro di Colombo indica
uno degli aspetti più rilevanti nella condu­
zione, fra il ’44 e il ’46, della rivista azio­
nista « Realtà politica ».
Giuseppe Armani
sandeo setta , Croce il liberalismo e l’Italia
postfascista, Roma, Bonacci, 1979, pp. 274,
lire 8000.
Setta ricostruisce, in maniera circostanziata
e con una periodizzazione attenta, l’itine­
rario politico dell’ultimo Croce, i rapporti
con la Resistenza e le nuove forze poli­
tiche. Assumono particolare rilievo le vi­
vaci e già note polemiche con il Partito
d’azione, l’inasprirsi del giudizio su socia­
lismo e comuniSmo, il contrastato legame
col rinato partito liberale, dall’appoggio
iniziale alla presidenza onoraria fino al di­
stacco nel periodo delle accentuazioni rea­
zionarie impresse al partito da Lucifero, il
rapporto (o l’assenza di rapporti) con l’Uo­
mo qualunque, già ricostruito da Setta nel
suo libro precedente.
Sul piano critico, i suggerimenti interpre­
tativi più importanti ci sembrano quelli
relativi al mutamento di giudizio e di at­
teggiamento di Croce su alcune questioni
di grande rilievo, come la questione catto­
lica e i temi, connessi a questa, della laicità
dello Stato e del rapporto con la DC, e
la documentazione di una breve fase di
teorizzazione di un liberalismo aperto, pro­
gressivo e non dogmatico prima dell’inasprirsi delle vicende politiche, nazionali e
internazionali, che si connetteva a prece­
denti spunti formulati dal Croce durante
il fascismo, come nella polemica con Ei­
naudi.
Il discorso è accentrato sulle scelte poli­
tiche di Croce, documentate in maniera
diffusa e a volte sovrabbondante; una con­
nessione più stretta con la produzione meno
direttamente politica avrebbe forse consen­
tito in alcuni casi di motivare in maniera
più convincente l’inquadramento critico. Ad
esempio, i toni dell’ultimo Croce sulla « fine
della civiltà », la tematica, che destò scal­
pore, sull’« Anticristo che è in noi», pos­
sono e debbono esser viste in diretto rap­
porto con le vicende politiche del tempo
e con un atteggiamento che non fu proprio
del solo Croce; ma la categoria della « scle­
rosi anticomunista » non spiega la pecu­
liarità di un atteggiamento e di una dispo­
sizione critica che, come ha ricordato recen­
temente Galasso, aveva contrassegnato già
107
nel corso degli anni trenta una riconside­
razione di tutta la tematica connessa al­
l’irrazionalismo contemporaneo, resa più
assorta e sollecita da una riflessione che in
maniera originale e personale si collegava
a quella propria di parte della cultura euro­
pea. Mancano cenni alle belle lezioni del­
l’ultimissimo Croce su Storiografia e iden­
tità morale, che costituiscono, da un certo
punto di vista, un tentativo di sviluppo di
quella tematica e un parziale tentativo di
soluzione. Le interpretazioni di Setta sulla
involuzione politica dell’ultimo Croce, già
anticipate in articoli, hanno suscitato qual­
che polemica fra i crociani di più stretta
osservanza, come Alfredo Parente: si veda
la polemica intercorsa a suo tempo sull’an­
nata 1973 della « Rivista di studi crociani ».
Con gusto del paradosso, ha notato G. Sab­
b a tic i su «L’Espresso » del 27 marzo 1979
che il vero problema consisterebbe, sem­
mai, nello spiegare gli spunti di riformismo
avanzato presenti nel Croce dell’immediato
dopoguerra. Ritenendo fondamentalmente
giusta la ricostruzione dei fatti condotta
dall’autore, pensiamo però che essi vadano
inquadrati e motivati sulla base di criteri
non puramente politicistici, ma di storia
culturale, come in fondo Croce merita.
Gianpasquale Santomassimo
Comunicazioni di massa
GIAN PIERO bru netta , Storia del cinema
italiano 1895-1945, Roma, Editori Riuniti,
1979, pp. 624, lire 25.000.
Nel momento in cui la « scuola freudiana »
chiude i battenti, nel momento in cui la
semiotica pare arrancare affaticata insieme
a certo patrimonio della cultura francese
anni sessanta, torna di moda la Storia.
Una storia che si autointerroga, che si ar­
rovella sui suoi limiti e sui suoi nuovi bi­
sogni, ma che riprende sostanzialmente fiato
dopo l’attacco convergente che veniva dalle
altre discipline, più « à la page » ma altret­
tanto rigorose; si sono fatte sentire in ri­
tardo quelle esigenze di interdisciplinarietà
che venivano soprattutto dalla generazione
più giovane e che significavano interesse
per la psicanalisi, per l’antropologia cultu­
rale, per la sociologia, per la psicologia di
massa, i fenomeni di costume, i problemi
dell’industria culturale, il linguaggio, per
strumenti e aree nuove di indagine. Uno di
questi strumenti è stato certamente, tra la
108 Rassegna bibliografica
fine degli anni sessanta e i settanta, il ci­
nema. Come alla fine degli anni venti si
concedeva dignità di « arte » al cinema,
oggi gli si concede quella di campo da in­
dagare scientificamente, con l’apporto di
una o più discipline tradizionali. Gli sto­
riografi arrivano forse in ritardo in questa
rivalutazione del mezzo-cinema, sia come
strumento di diffusione di una cultura sto­
rica, sia come « fonte » diretta, come do­
cumento storico di primaria importanza.
Non è un caso l’uscita in Italia di una
raccolta di articoli sul cinema firmati da
Marc Ferro, uno degli storici delle « Annales » (M. Ferro, Cinema e storia, Milano,
Feltrinelli, 1980). Viceversa gli studiosi di
cinema riscoprono la storia (è recente
l’uscita della ricerca di Pietro Pintus su
Storia e film, Roma, Bulzoni, 1980), risco­
prono il « contesto » accanto al « testo ».
Queste osservazioni ci vengono in mente
nel leggere il volume di Gian Piero Bru­
netta, uno studioso che è riuscito a con­
ciliare l’amore per il testo (proprio dei
cinefili) e l’interesse per il contesto (più
proprio dello storiografo) e che ha prodotto
numerosi contributi di ricerca sulla storia
e sul dibattito ideale italiani attraverso lo
spaccato-cinema.
Una storia del cinema italiano, infatti (la
prima impresa di largo respiro dopo quella
nota, ma ormai datata, fatta da Carlo
Lizzani) si misura anche con la storia so­
ciale e culturale del nostro paese, ponendo
alla stessa storiografia l’esigenza di nuove
metodologie e zone di ricerca, insieme al­
l’apertura verso fonti altrimenti censurate.
Brunetta ha lavorato, non a caso, a con­
tatto con l’area storiografica padovana e,
sulle posizioni di Mario Isnenghi, si è de­
dicato fra i primi al cinema e alla politica
culturale durante il fascismo: (ricordiamo
Intellettuali, cinema e propaganda tra le
due guerre-, Cinema italiano tra le due
guerre. Fascismo e politica cinematografica-,
Il fascismo nel cinema italiano del venten­
nio in « Cinema Sessanta »). Anche il ci­
nema, infatti, può essere visto come uno
strumento di « organizzazione del consen­
so » (lo hanno fatto i vari Cannistraro,
Panicali e Isnenghi), punta di diamante di
quella politica di uso dei mass media e di
intervento nella società di massa che fu
tipica del regime anni trenta. È una poli­
tica, del resto, quella cinematografica, che
configura le stesse contraddizioni della po­
litica culturale complessiva del fascismo:
la presenza e il ruolo di Umberto Barbaro
(di cui Gian Piero Brunetta, del resto, è
un allievo) sono l’esempio di una trasgres­
sione e di un dissenso all’interno del piano
del regime verso gli intellettuali.
Proprio questo dibattito sugli anni trenta
è una dimostrazione di come altre disci­
pline abbiano « tirato » la storiografia: la
rivisitazione delia società fascista era av­
venuta, in un primo tempo, a parte alcuni
isolati, nobili esempi (su tutti il Garin) da
un punto di vista di storia del costume,
tanto da diventare ben presto una moda
culturale; poi, sull’onda delle polemiche su­
scitate da De Felice, era esploso l’interesse
degli storici per gli anni trenta; un inte­
resse che aveva segnato, però, a un tratto,
il passo; gli studi sul regime dimostravano
una certa stanchezza. Parallelamente, in­
vece, il dibattito sul cinema fascista, pur
partito in ritardo, si sviluppava con am­
piezza nei convegni per gli addetti ai lavori
(Pesaro, Ancona, ecc.) e sulle cronache dei
giornali. Ebbene, ora che l’interesse storio­
grafico per il fascismo si riaccende, si può
dire che da quei contributi settoriali sul
cinema, sulla radio, sul teatro, sulla stam­
pa, sulla società di massa in generale, sono
venute probabilmente nuova linfa e nuove
prospettive (se non altro di svecchiamento)
alla ricerca. Nel caso degli anni trenta,
insomma, c’è stato un « feed-back » tra
storia e cinema e viceversa, un interscambio
tra due zone della cultura non più inconci­
liabili come un tempo.
Il cinema tra le due guerre, dunque, è uno
dei momenti salienti del volume di Bru­
netta, che si ferma, per ora, alla caduta
del fascismo (ma il piano dell’opera giunge
sino ai tempi nostri). L’altro grande capi­
tolo è la storia del cinema muto, un’impresa
diffìcile, data la scarsa reperibilità delle
fonti, che dà l’idea della metodologia di
lavoro del Brunetta: una ricerca di « trac­
ce», di «indizi» che, magari apparente­
mente insignificanti, potrebbero portare nuo­
vi elementi alla conoscenza; un progressivo
avvicinamento alla totalità dell’informazio­
ne, con l’uso di materiali eterogenei e di
contributi disparati. Ricostruire la storia del
cinema muto, in particolare, attraverso le
riviste, i documenti filmici rimasti, le re­
sidue documentazioni finanziarie delle case
produttrici, significa ricostruire anche uno
spaccato di società industriale delle origini,
agli albori del secolo, dove « nazione » e
« lavoro » si congiungevano, magari nell’im­
magine emblematica di Francesca Bertini.
Vito Zagarrio
Rassegna bibliografica
m ino a rgentieri , L ’occhio del regime. In­
formazione e propaganda nel cinema del
fascismo, Firenze, Vallecchi, 1979, pp. 202,
lire 6500.
« Il cinema è l’arma più forte » è la nota
formula coniata dal fascismo (parafrasando
un simile slogan leniniano) e lanciata a
simbolo dell’intervento del regime nella so­
cietà di massa, quale essa si forma tra la
metà degli anni venti e gli anni trenta. Le
comunicazioni di massa, la stampa, la ra­
dio, e soprattutto il cinema, mezzo nuovo,
tutto da sperimentare e da inventare, sono
i nuovi gangli vitali di un tessuto sociale
che va evolvendosi, sulla scia dei modelli
occidentali più evoluti, gli Stati Uniti so­
pra tutti. Su questa società in trasforma­
zione, si innesta poi l’altro grande modello,
quello sovietico, col fascino delle sue istan­
ze « collettiviste ». Con lo sguardo a questi
due illustri modelli, il regime fonda quel
settore della sua macchina persuasiva che
fa perno sul mezzo-immagine. Un’« arma »,
come si è ormai cominciato a studiare,
pericolosa e a doppio taglio, tanto da poter
essere rivoltata, dalla generazione più gio­
vane, contro lo stesso creatore, contro il
« padre ».
Il merito del libro di Argentieri è di aver
calcato l’indagine nel momento di incuba­
zione di questa politica, e nel cuore del
meccanismo principale creato dal fascismo
per produrre i suoi miti e il suo « imma­
ginario », l’Istituto LUCE.
Nato alla metà degli anni venti e cresciuto
soprattutto con l’introduzione del sonoro,
all’inizio dei trenta, gestito da alcuni tipici
rappresentanti di quella classe di tecnocrati
che si andò formando in quegli anni all’in­
terno degli apparati dello Stato, il Luce è
il luogo dove si pianifica e si mette in pra­
tica la propaganda. Simbolo delle ambizioni
totalitarie e persino delle suggestioni lingui­
stiche del regime (Luce è una sigla che sta
per « L’Unione Cinematografica Educati­
va », l’Istituto è posto alla dipendenza del
capo del governo e di quell’ufficio Stampa
da cui verranno, con la mediazione di Cia­
no, il sottosegretariato per la stampa e la
propaganda e il Minculpop.
La sua storia è intrecciata con quella dello
stesso fascismo, dal suo primo approccio
con gli strumenti di una politica culturale
all’aggressione totalizzante e capillare dei
veicoli dell’informazione e del consenso.
Laboratorio teorico e tecnico della psico­
logia di massa, riflette le varie « anime »
109
del regime: quella tecnologica che ha nel
futurismo le sue origini, quella rurale e
strapaesana, che si fonda sul mito della
terra, della famiglia, della nazione, quella
frivola e piccolo-borghese che subisce il
fascino dei «grandi magazzini», della so­
cietà dei consumi, dei divi hollywoodiani,
e naturalmente, quella più greve e retorica,
impiantata sui trionfi del duce. Quest’ul­
timo assetto è quello più noto, quello che
ci ha tramandato le immagini dell’imperialismo fascista, di quelle che Argentieri chia­
ma, parafrasando Mack Smith, le « guerre
del Luce ». Sono le cronache dell’impero,
le celebrazioni dei fati coloniali, la spetta­
colarizzazione della piazza e della « star »
Mussolini che hanno dato fama ai cine­
giornali. Ma accanto a questa angolazione,
c’è l’obiettivo rivolto, con una propaganda
più sottile, alla vita quotidiana del paese
fascista, ai suoi riti, alle sue feste, alla sua
religione; e ci sono le immagini del mondo
esterno, che fanno assaporare climi diversi.
Il Luce, insomma, non documenta una po­
litica e una società compatte; fa trapelare,
anzi, i sintomi delle sue lacerazioni. « Il
Luce dispiace » titola Argentieri un suo
paragrafo dedicato alle diverse accoglienze
dei prodotti di propaganda. E infatti attac­
cano un Longanesi (annoiato dalle banalità
propinate) un Freddi (che teorizza ben altro
cinema), un Chiarini (sostenitore della pura
arte); sono scontenti per motivi diversi i
giovani del « fascismo di sinistra », che anzi
vorrebbero vedere scomparire le scorie più
frivole, le cronache mondane. Il Luce do­
cumenta, insomma, i limiti dell’intervento
del regime, la sua impossibilità di creare
un consenso compatto. Non è un caso che
uno dei pochi tentativi di sintesi di queste
varie anime del Luce e del fascismo fal­
lisca: si tratta del film Camicia nera di
Gioacchino Forzano, poi manager dell’in­
dustria cinematografica e creatore degli
stabilimenti di Terrenia. In questo colossal
del ’33 si mescolano il documentario e la
fiction, il trionfalismo retorico e il populi­
smo paternalistico, la cronaca diretta dei
discorsi del duce e gli esperimenti di cinema
d’avanguardia, l’informazione e Io spetta­
colo. L’esperimento fallì e il regime si
orientò verso altre forme e stili atti ad
ottenere un controllo sociale. Oggi, però,
rivedendo un film come questo, si possono
scoprire, al di là del messaggio ideologico,
certe suggestioni formali. Come si possono
scoprire, al di là della retorica del Luce,
dei professionisti del documentario e dei
110 Rassegna bibliografica
cineasti di qualità (Argentieri cita ad esem­
pio Corrado D’Errico, inventore tra l’altro
del «film rivista», una versione più godi­
bile e spettacolare dei cinegiornali).
Questo libro, insomma, è uno dei contri­
buti più seri, in una letteratura ormai am­
pia e non sempre «scientifica», sul cinema
durante il fascismo; e uno stimolo, insieme,
a riprendere con un’ottica nuova gli studi
sul regime.
Vito Zagarrio
VIRGILIO SAVONA, MICHELE STRANIERO, Canti
dell’Italia fascista, Milano, Garzanti, 1979,
pp. 473, lire 4500.
La canzone fascista nasce nel ’19 e finisce
dieci giorni prima della caduta di Mussolini,
il 15 luglio 1943 quando il «Canzoniere
della Radio » interrompe la pubblicazione
dei « Canti ed Inni della Patria in armi ».
Canti dell’Italia fascista, il libro recen­
temente pubblicato da Garzanti, è il risul­
tato dell’accurata ricerca compiuta da Vir­
gilio Savona e da Michele Straniero, uno
dei più attenti studiosi della canzone popo­
lare. L’esaltazione del Duce, il mito della
violenza, il nazionalismo ottuso, l’eroismo
d’accatto, l’imperialismo straccione, il mo­
ralismo piccolo-borghese col culto della
mamma e della sposa a sanatoria delle minaccie distribuite a mezzo mondo, insom­
ma i motivi attraverso i quali il fascismo
si proponeva di conquistare un consenso di
massa ci vengono restituiti da questa allu­
cinante raccolta.
All’inizio la canzone fascista prende a pre­
stito il repertorio socialista o anarchico,
spesso limitandosi a cambiarne soltanto i
versi; assieme a Nitti, Misiano, Giolitti,
Sturzo, uno degli obiettivi dei picchiatori
neri è quel Nicola Bombacci che più tardi,
cambiata bandiera, sarà fucilato a Dongo
assieme ai gerarchi fascisti.
La rivoluzione e la marcia su Roma ven­
gono cantate sui motivi dell’arditismo di
guerra: i versi « Giovinezza giovinezza primavera di bellezza » facevano parte di
un inno che gli Arditi cantavano nel set­
tembre del ’17. E gli Arditi a loro volta
l’avevano estrapolata da un canto goliardico
scritto nel 1909 da Nino Oxilia. Il delicato
autore di « Addio giovinezza » non avrebbe
certo immaginato che i suoi versi avreb­
bero accompagnato per un quarto di secolo
la storia del fascismo. La melodia del vec­
chio canto goliardico era stata composta
da Giuseppe Blanc che infine gli dette la
sua veste definitiva di Inno trionfale del
Partito nazionale fascista, con la collabora­
zione di un altro attivissimo cantore di
regime, Salvator Gotta.
Dagli anni di « Manganel - tu che spac­
chi - il social cervel » e di « Pugnai fra i
denti - le bombe a mano - macello uma­
no - macello umano » al fascismo-regime,
con la sua aria di rispettabilità borghese,
il recupero di una Roma imperiale co­
struita in cartapesta, più tardi le guerre
coloniali con le sue motivazioni filantropico-civilizzatrici. Al re viene riservato un
angolino, in citazioni globali assieme al
Duce e alla Patria; soltanto più tardi, nel
clima glorioso della conquista dell’Impero
e della seconda guerra mondiale, il re viene
gratificato di qualche verso tutto per lui:
« Re Vittorio Nume di gloria - ti salutiamo
Imperatori», e «Tricolor vince ognor! Per il Re vince ognor! ».
La battaglia del grano — « Evviva agri­
coltori! Tripudia la terra d’Italia - c’è un
sol Duce Mussolini! » scrive Giuseppina
Zei — ispira un Inno del grano a E.A. Ma­
rio, il poeta della leggenda del Piave che
lavora parecchio anche per il fascismo, da
Noi tireremo diritto a Me ne frego: ma
l’autorizzazione a riprodurre le sue canzoni
è stata negata agli autori del libro, come
è stata negata l’autorizzazione a riprodurre
l’Inno per questa guerra di un autore in
realtà meno legato al ventennio nero, Ugo
Betti. Ma non manca il Pietro Mascagni
del Canto del lavoro per il quale, oltre
all’autore di Cavalleria rusticana, scendono
in campo il più celebrato dei sindacalisti
del fascio, Edmondo Rossoni, e il poeta
napoletano Libero Bovio. E un altro fa­
moso poeta napoletano, Raffaele Viviani,
reca il suo piccolo contribuito: « Appare
l’Idolo - fore ’o balcone! - Tutte s’o guar­
dano - cu religione ».
La guerra d’Etiopia trova il suo inno in
Faccetta nera di Ruccione, un inno che
non piace del tutto alle più alte gerarchie
per l’eccessiva familiarità nei confronti del­
le indigene; piace di più Etiopia, nella
quale composizione l’instancabile Blanc, in
coppia questa volta con Bravetta, travasa
i motivi coi quali il fascismo giustifica l’ag­
gressione, « La nostra gente - or non emigra
più - per soffrir! - Il fecondo lavor - dei
coloni - tutta l’Etiopia - farà fiorir».
Si approssima la minaccia di un conflitto
mondiale, e Mussolini, col suo intervento
alla conferenza di Monaco del ’38, tocca
Rassegna bibliografica
il punto più alto del consenso, quale « sal­
vatore della pace »: su copione prepara­
togli da Hitler. Agli autori di Canti del­
l’Italia fascista è sfuggita una canzonetta
che all’epoca fa subito presa e viene ese­
guita con partecipazione sincera: « Se il
mondo vuol la pace - dovrà sentir la voce di un popolo che dice - Duce Duce Duce! ».
Le canzoni della guerra, dopo il chiassoso
e jettatorio Vincere, sono una stanca ripe­
tizione di minaccie terribili quanto vuote,
di celebrazione di sconfitte dall’Amba Alagi
a Giarabub, di promesse di un ritorno su
territori occupati dal nemico: « Africa no­
stra - Noi - Ritornerem - Ritornerem Ritorneremo a te! ».
Si ride in faccia a Monna Morte ed al
Destino, su motivo di Zorro e Ruccione,
ma in quasi tutte le canzoni c’è un solda­
tino che pensa alla morte — « Se cadessi
per la mia Bandiera - la tua preghiera su
nel cielo mi giungerà » —, e persino una
fidanzata che non è sicura di sopravvivere
al conflitto, « Un dì ritornerai - e allor
mi sposerai - se morta non sarò». Il mo­
tivo della mamma ritorna quasi sempre,
più spesso in una versione dolorosa, « Vai
vai col tuo destin - la tua mammina ti
stringerà sul cuor ».
Tra il dicembre del ’42 e il gennaio del ’43
centomila soldati italiani scompaiono nella
ritirata di Russia. « Bruno bersaglier di
Ucraina - che in licenza vai pel tuo valor salutami passando una bambina - in quella
stazioncina che romba nel mio cuor», sug­
gerisce il maestro Cherubini, in una delle
ultime canzoni del tempo di guerra.
Sergio Valentini
Resistenza
CAMILLA CEDERNA, MARTINA LOMBARDI, MA­
RM A som are , Milano in guerra, Milano,
Feltrinelli, 1979, pp. 271, lire 10.000.
Preceduto da una breve introduzione di
Camilla Cederna, il volume si sorregge su
una ricca documentazione iconografica trat­
ta da archivi pubblici e privati, su un ampio
e intelligente collage di immagini, docu­
menti, articoli della stampa ufficiale e clan­
destina.
L’introduzione della Cederna, che ricostrui­
sce sul filo della memoria e sulla scorta di
un avvincente epistolario familiare, la vita
111
della città in quegli anni, più che come
un saggio si presenta come una intelligente
ricostruzione di un lessico familiare e am­
bientale, di uno stile di vita e di un modo
di vivere la tragedia della guerra tutto per­
sonale e pervaso di valori laici e borghesi
che impongono il loro ordine al caos e alla
tragedia e quasi prefigurano i criteri della
ricostruzione.
Su questa esile e personalissima trama si
innesta la cronaca della città, costruita se­
condo uno schema abbastanza originale nel
tentativo di ricostruire tutti gli aspetti po­
litici, economici, sociologici (alimentazione,
lavoro, trasporti, divertimenti, propaganda,
i repubblichini, i tedeschi, la resistenza).
Argomenti tutti ricchi di interesse, ma di
diverso peso e valore, tutti appiattiti in una
cronaca che si vuole la più ricca ed eva­
siva, cronaca che affastella affiches pubbli­
citarie, locandine teatrali, volantini, articoli
del « Corriere della sera » ed epistolari, e
in cui il compito di dare corpo e rilievo
storiografico è affidato alle didascalie attente
ed informate (anche se non raramente in
contrasto con il testo della Cederna, come
nel caso dei morti di Gorla).
Restano quindi molte incertezze sul taglio
e sulla selezione dei singoli temi: una do­
cumentazione più attenta sulla situazione
abitativa, sull’entità delle distruzioni e la
loro localizzazione, un’indicazione meno ge­
nerica sulla situazione e sulla produzione
industriale, sul pendolarismo operaio, sa­
rebbe stata possibile e più utile sulla scorta
della produzione bibliografica ormai molto
ricca, che non la vasta e a volte generica
iconografia. L’assenza di precise indicazioni
sulle fonti accentua il carattere occasiona­
le di questa e di molte opere analoghe.
Inutile dire a questo punto che la parte
dedicata alla resistenza (pp. 246-271) rap­
presenta un corollario necessario ma non
sufficiente, per documentare la vita politica,
la militanza, le iniziative, ampie e a livello
di massa, di « quell’altra Milano » che nella
clandestinità conduceva la lotta di libera­
zione e pagava nelle fabbriche e nelle car­
ceri il prezzo più alto.
Nanda Torcellan
Pier nello m ar telli , La Resistenza nell’alta
Maremma, Pisa, Giardini ed., 1978, pp.
XX+252, con 2 carte geog. e 16 tav. f.t.,
lire 8.000.
L’interesse ed il valore della lotta di libe­
razione nella fascia sud-occidentale della
112 Rassegna bibliografica
Toscana sono stati ripetutamente sottoli­
neati, anche da chi scrive, non solo al fine
di una più approfondita conoscenza della
storia nazionale di quegli anni, ma anche
perché, a nostro modo di vedere, è possi­
bile seguirvi, in ogni fase e con particolare
facilità, l’evolversi dell’intreccio politico­
militare della Resistenza dall’iniziale guer­
riglia, in larga parte spontanea, ad un mo­
vimento politicamente maturo e militar­
mente organizzato, anche se tutt’altro che
privo di contrasti interni. Infatti in questa
zona dal composito assetto socio-economico
e dalle particolari tradizioni politiche e cul­
turali — l’uno e le altre in gran parte
ancora da studiare sia separatamente, che
nelle reciproche interazioni — le forze più
moderate e conservatrici del fronte anti­
nazifascista riuscirono a svolgere una larga
opera di contenimento delle spinte innova­
trici emergenti dal movimento resistenziale;
operazione che ebbe il suo fulcro in pro­
vincia di Siena e le sue principali artico­
lazioni nell’Aretino da un lato e nel Gros­
setano dall’altro.
Alla scarna bibliografia sulla Resistenza
nella Toscana sud occidentale si aggiunge
oggi il contributo del Martelli, centrato sulla
figura del maggiore Mario Chirici, uno dei
comandanti partigiani che operarono nella
zona a cavallo fra le provincie di Livorno
e di Grosseto. L’argomento, di per sé assai
circoscritto, ha un interesse di particolare
rilievo per le oscillazioni fra il collegamento
coi CIn e la dipendenza dal comando ba­
dogliano del Raggruppamento Monte Arma­
ta che contraddistinse la condotta del Chi­
rici e che s’inquadra nello scontro fra le
componenti politiche conservatrici e quelle
progressiste, cui accennavamo più sopra.
Conseguenza immediata di questo dissidio,
che aveva ben precisi riflessi sull’andamento
dell’attività militare, fu la frantumazione
delle forze che, se unite, avrebbero potuto
creare ai nazifascisti dei problemi assai più
gravi di quelli che in effetti vennero a co­
stituire. Detto questo, risulta evidente l’im­
portanza che riveste non solo la ricostru­
zione delle operazioni militari effettuate dai
partigiani, ma anche, e soprattutto, una
puntuale analisi delle vicende politiche che
stavano alla base dell’attività militare o che
da questa erano innescate. In questa pro­
spettiva la figura del Chirici potrebbe avere
un valore quasi emblematico, qualora ve­
nissero evidenziate le motivazioni della sua
condotta e le relative conseguenze sul piano
operativo, fossero precisati i caratteri, la
composizione e l’attività dei centri politici
che su di lui influirono e i canali attraverso
i quali le loro sollecitazioni gli pervennero.
Da questo punto di vista il lavoro del Mar­
telli —- essenzialmente fondato sulle carte
dell’archivio Chirici, reperite dopo una lun­
ga e paziente quanto lodevole ricerca —risulta assai carente, essendo prevalente­
mente dedicato alla ricostruzione dell’atti­
vità militare svolta dai reparti comandati
dal Chirici. Né è valso ad allargare il di­
scorso ai contrasti politici, di cui il Chirici
fu, oltre che soggetto, anche oggetto, la
pubblicazione, risalente al 1965, della « Ri­
soluzione votata dai delegati e militari della
III Brigata d’Assalto Garibaldi, riuniti a
S. Vincenzo il 2 dicembre 1945» nel vo­
lume La provincia di Grosseto alla macchia,
che il Martelli avrebbe dovuto, a nostro
modo di vedere, prendere in considerazione
e che, invece, non risulta ricordata nel
volume.
Certo l’aver voluto restringere la base do­
cumentaria della ricerca alle carte Chirici,
trascurando il materiale archivistico esisten­
te presso l’Istituto Storico della Resistenza
in Toscana, l’Archivio Centrale dello Stato
e l’Istituto Nazionale per la Storia del Mo­
vimento di Liberazione in Italia, nel timore,
forse, che, allargando troppo il discorso, la
figura del Chirici non spiccasse a dovere,
non ha giovato al lavoro del Martelli al
pari della ristrettezza della base bibliogra­
fica, in cui è inspiegabile la mancanza di
pubblicazioni essenziali, quali, tanto per
citarne un paio, la già ricordata Provincia
di Grosseto alla macchia ed il volume a
cura del De Michelis, Comando Raggrup­
pamento bande Italia centrale: settembre
1943-luglio 1944, Roma 1945. Il risultato è
un lavoro che, pur avvertendo alcuni dei
problemi sopra ricordati, non approfondisca
in maniera omogenea l’analisi dei vari aspet­
ti e delle diverse componenti dell’argomento
prescelto e finisce con lo stemperare e rele­
gare in secondo piano le caratteristiche
socio-economiche, politiche e culturali della
zona considerata (talvolta in modo ecces­
sivo: si veda, ad esempio, lo spazio dedi­
cato alla cospirazione antifascista piombinese, senz’altro la più viva e vigorosa della
zona) al pari delle vicende politiche che
agitarono il fronte resistenziale per privi­
legiare la figura del Chirici, che risulta,
così, in gran parte staccata dall’ambiente
in cui egli si trovò a operare.
Malgrado queste osservazioni critiche non
va dimenticato che il Martelli ha il merito
Rassegna bibliografica
di aver affrontato per primo uno degli
aspetti più controversi della Resistenza to­
scana, portando un contributo fondato su
una documentazione finora inedita, di cui
l’A. pubblica in appendice — assieme a
utili prospetti riassuntivi e carte d’imme­
diata lettura — una larga scelta di impor­
tanti documenti. È quindi da auspicare che
il Martelli voglia riprendere l’argomento,
integrandolo con la documentazione che va
emergendo, per approfondire ed estendere
la ricerca anche alla luce delle tematiche
che l’elaborazione storiografica va progres­
sivamente individuando e definendo per una
più corretta ricostruzione e comprensione
della lotta di liberazione, in tutti i suoi
non sempre univoci aspetti, e degli eventi
successivi su cui questa in qualche modo
influì.
Giovanni Verni
f ed er ig i , Versilia Linea Gotica,
Roma, edizioni Versilia Oggi, 1979, pp. 335,
lire 10.000.
liborio g uccio n e , Il Gruppo Valanga e la
Resistenza in Garfagnana, a cura dell’Am­
ministrazione Provinciale di Lucca, Lucca,
ed. M. Pacini Fazzi, 1979, pp. 319, sip.
fabrizio
La storia della Resistenza in provincia di
Lucca coincide in gran parte con quella
della linea Gotica, ultima difesa che i te­
deschi apprestarono nel settembre 1944 do­
po la caduta di Firenze e sulla quale resi­
stettero accanitamente fino allo sfondamen­
to alleato della primavera 1945. La pro­
vincia di Lucca si trovò divisa in due: al
di qua della linea il territorio liberato, al
di là lo schieramento tedesco, in mezzo una
ristretta « zona di nessuno » che per tutto
l’inverno ’44-’45 vide i continui attacchi
alleati esaurirsi contro la tenace difesa delle
truppe naziste.
Partendo dalla foce del Cinquale, a poca
distanza dall’abitato di Forte dei Marmi,
la linea seguiva il corso del torrente Ver­
silia, risalendo verso Seravezza, raggiun­
gendo le Alpi Apuane e scendendo nella
valle del Serchio (Barga), da dove prose­
guiva per la provincia di Modena. I tede­
schi vi si attestarono al termine della san­
guinosa ritirata da Firenze, culminata nelle
stragi di S. Anna di Stazzema del 12 agosto
1944 (570 vittime) e S. Terenzo (53 morti)
e in numerosi altri eccidi (Valpromaro, Sas­
saia di Montramito, Nocchi, Compignano,
Certosa di Farneta ecc.). Mentre si svilup­
113
pava un’intensa attività partigiana, che con­
tribuì tra l’altro alla liberazione di Lucca,
Viareggio e Bagni di Lucca (5, 16 e 27 set­
tembre ’44), i tedeschi poterono ritirarsi
senza eccessive difficoltà sulle difese già
predisposte della « Gotica », mentre stava­
no entrando in linea i reparti di colore
della 92“ Divisione americana « Buffalo ».
Da questo momento iniziò una lunga fase
di stagnazione, caratterizzata dagli innume­
revoli quanto sterili attacchi americani lun­
go tutto il fronte, di cui Federigi fornisce
una cronaca esatta e circostanziata. Una
prima offensiva in direzione di Massa fallì
in ottobre, un’altra (combinata con la Di­
visione partigiana « Lunense ») in Garfa­
gnana si concluse senza risultati alla fine
di novembre; a fine dicembre i tedeschi
riuscirono addirittura a sfondare il fronte
del Serchio, del resto prontamente ricacciati
dalla 8“ Divisione indiana al termine di
sanguinosi combattimenti. Il fallimento più
clamoroso fu comunque quello dell’offen­
siva sul Cinquale del febbraio 1945, respinta
con gravi perdite americane. Come afferma
Federigi, alla base di questi continui insuc­
cessi stavano gravi carenze tattiche della
92“ Divisione: dispersione operativa, scarsa
efficienza delle truppe di colore anche sul
piano della combattività individuale, errori
grossolani nella scelta delle direttrici di at­
tacco ecc. D’altre parte simili errori tattici
si inserivano in un quadro strategico do­
minato da una scelta sostanzialmente immobilista dei comandi alleati (all’interno
della quale si spiega anche il proclama del
gen. Alexander ai partigiani). In complesso
la dettagliata ricostruzione di Federigi con­
ferma il giudizio dello Shepperd sulla si­
tuazione del settore costiero della V Ar­
mata USA nell’inverno ’44-’45: « Gli al­
leati non avevano mai cercato di penetrare
profondamente nelle montagne, acconten­
tandosi di difendere le pendici meridionali,
a una distanza sufficiente a coprire il porto
di Livorno » (La campagna d’Italia, Gar­
zanti, Milano 1975, p. 413). Per l’offensiva
finale i reparti della « Buffalo » vennero
riorganizzati, con la massiccia immissione
di truppe di origine giapponese, che per
unanime giudizio fornirono prove migliori
di quelle negre utilizzate fino ad allora.
La ricostruzione di Federigi è molto attenta
agli avvenimenti militari (nonché alle con­
seguenze della guerra sulle popolazioni ci­
vili), seguiti con precisione estrema. II pre­
gio del libro è però anche il suo limite, in
quanto poche volte si esce dal cronachismo
114 Rassegna bibliografica
(eccellente in sé) per delineare una sintesi
o spunti interpretativi di più ampio respiro.
Anche l’attività delle formazioni partigiane
viene seguita quasi esclusivamente nei suoi
aspetti militari, con pochi cenni all'orientamento ideologico, al dibattito politico che
certamente si svolgeva al loro interno e al
contesto generale (politico-militare) della
guerra partigiana.
Limiti a cui non si sottrae nemmeno il
volume di Guccione, che ricostruisce le vi­
cende della Resistenza in Garfagnana, con
particolare attenzione all’attività del gruppo
autonomo « Valanga », costituito dal gio­
vane studente universitario Leandro Puccetti all’Alpe di S. Antonio nel febbraio
1944. La sua attività — dopo la morte in
combattimento di Puccetti alla fine di ago­
sto — si svolse in stretto collegamento con
le formazioni autonome di Manrico Ducceschi (« Pippo ») che coprivano l’XI Zona
Patrioti (dalle Apuane alla Garfagnana all’Appennino pistoiese) e con la stessa Di­
visione Garibaldi « Lunense » guidata dal
maggiore inglese Antony Oldham, di cui
era commissario politico Roberto Battaglia
(che raccontò le vicende della guerra in
questa zona nel celebre Un uomo, un par­
tigiano del 1945, ried. 1965). Anche in
questo caso l’attenta ricostruzione dei fatti
non riesce a superare un tono eccessiva­
mente cronachistico.
In ogni modo i due volumi si presentano
come utili contributi allo studio della guerra
di liberazione in una zona particolarmente
importante nel quadro complessivo della
campagna d’Italia e alla quale finora non
erano stati dedicati studi critici di grande
rilievo (ma come dimenticare, su un altro
piano, quel capolavoro della narrativa resi­
stenziale che è 11 clandestino di Mario Tobino, le cui vicende si svolgono proprio sul
fronte versiliese?). Da segnalare in appen­
dice al volume di Guccione il diario di don
Paimiro Pinagli parroco di Filicaia (a cui
attinge largamente anche Federigi), che
segue giorno per giorno le vicende della
guerra in Val di Serchio dal 30 aprile 1944
al 22 aprile 1945.
Francesco Bogliari
La provincia di Forti nella resistenza e
nella guerra di liberazione. Immagini e do­
cumenti, Forlì, Istituto storico della Resi­
stenza, 1979, pp. 182, sip.
La funzione degli Istituti storici della resi­
stenza, di affiancare alle ricerche scientifi­
che, pensate prevalentemente per gli addetti
ai lavori, opere di « divulgazione », nel sen­
so più serio del termine, è troppo spesso
dimenticata o trascurata e sempre più sem­
bra prevalere la tendenza a trasformare gli
Istituti in organismi parauniversitari che
svolgano quelle ricerche che gli Atenei non
vogliono o non sono più in grado di svol­
gere. In tal modo viene però a cancellarsi
quello stretto rapporto fra cultura e politica
che era alla base delle ipotesi di Ferruccio
Parri quando diede vita alla « catena » de­
gli Istituti per la storia della resistenza.
Questo volume edito dall’Istituto di Forlì e
curato da Claudio Albonetti, Vladimiro Flamigni e Orazio Marchi sembra invece ri­
portare ad ottimo livello la vecchia ipotesi
di lavoro, presentando una fotostoria che,
affiancando immagini alla riproduzione dei
più significativi documenti relativi al For­
livese (con qualche confusione, come spesso
accade, con l’intera Romagna...), costituisce
contemporaneamente una messa a punto
scientifica della storia resistenziale locale ed
uno strumento didattico di estrema validità
ed utilità. Ciò che la fotostoria fa perdere
(né può essere altrimenti) di sintesi storico­
politica organica, lo fa riguadagnare larga­
mente nella presa di contatto diretto con
l’immagine e con lo scritto, e quindi in ter­
mini di storia sociale.
Luciano Casali
Consiglio regionale della Liguria, La donna
nella Resistenza in Liguria, a cura di G.
Benelli, B. Montale, G. Petti Balbi, N. Simonelli, D. Veneruso, Firenze, La Nuova
Italia, 1979, pp. 236, lire 12.000.
Il fine principale degli autori sembra essere
stato quello di mettere in risalto l’impor­
tanza delle donne all’interno della lotta di
liberazione. Questa preoccupazione, però, li
ha portati a diversi «errori»: a genera­
lizzare fenomeni nella realtà ben più circoscritti (leggendo il libro sembrerebbe che
tutte le contadine avessero un partigiano
nascosto in casa); oppure a dare per scon­
tate situazioni che sarebbero invece da di­
mostrare (ad esempio che le donne ebbero
un ruolo decisivo nell’isolamento dei fa­
scisti); a spiegare alcune situazioni sulla
base di luoghi comuni o di presunte qualità,
che di storico o di scientifico hanno ben
poco (ad esempio il fatto che le donnestaffette riuscissero a superare abbastanza
facilmente i posti di blocco non viene mo­
tivato in base al fatto che, essendo il loro
Rassegna bibliografica
compito, avessero elaborato delle « tatti­
che », oppure che, essendo donne, proba­
bilmente, nel pensiero dei fascisti, erano
potenzialmente meno pericolose degli uomi­
ni; ma solo perché « essendo donne, occul­
tavano con astuzia l’atteggiamento ribelle »).
Manca invece totalmente la volontà di su­
perare una specie di tentativo di « riabili­
tazione » del ruolo che le donne hanno
avuto nella Resistenza, tanto che si arriva
ad attribuire loro una funzione che, nella
realtà, non hanno svolto; a scapito di una
analisi sulle cause per cui le donne non
ebbero, di fatto, un ruolo di primaria im­
portanza nella Resistenza, fine che la ri­
cerca, almeno nei suoi presupposti, si era
invece prefissato. La motivazione, tra l’al­
tro generica e superficiale, che emerge, nel
tentativo di spiegarsi la mancanza di un
discorso politico più specifico dei soggetti
femminili, è nella tradizionale diffidenza e
riservatezza delle contadine liguri.
Positivo è il tentativo di presentare, per
ogni sezione del volume, un panorama sto­
rico-economico della situazione, analisi che,
però, avrebbero dovuto avere una utilizza­
zione maggiormente finalizzata alla ricerca
specifica, più di quanto non sia stato fatto.
Simonetta Pillon
angelo Francesco babini , Giovecca. Anche
qui è nata la Resistenza, Giovecca, Comi­
tato antifascista, 1980, pp. 537, lire 15.000.
Vent’anni or sono lo stesso A. diede alle
stampe 1323 pagine che, attraverso una
visione della storia e della preistoria uni­
versali aventi come centro di irradiazione
la piccola località di Conselice nella bassa
ravennate, ricostruiva tutti gli avvenimenti
dell’orbe terracqueo a partire da Adamo
fino alla Resistenza. Il volume andò, giusta­
mente, ignorato. Ora lo stesso Babini pro­
pone una nuova storia universale con al
centro una località ancor più piccola, Gio­
vecca di Lugo, ma in compenso ridimen­
siona l’arco cronologico che parte « sol­
tanto » dal 24 gennaio 1437, per giungere
egualmente alla Resistenza. Anche questo
volume, nonostante le fatiche dell’A., sa­
rebbe da far sparire velocemente nell’an­
golo più buio degli orrori, se non fosse per
il fatto che in esso sono inserite (senza
alcun riferimento al testo, se non casual­
mente) alcune centinaia delle più belle fo­
tografie scattate in Romagna fra gli ultimi
anni dell’800 e il 1945, la maggior parte
115
delle quali assolutamente inedite. Il lavoro
dei campi, le abitazioni, gli attrezzi, le feste
e le manifestazioni religiose e politiche ap­
paiono da immagini chissà dove recuperate
(quasi mai ne è indicata la fonte!). Le bel­
lissime foto della lavorazione della canapa
(pp. 198-202), delle lavandaie al fiume (pp.
171-175, 188), dell’« operaio fochista alla
fornace di Campotto » (p. 177), le mondine
(pp. 61, 157-160), la mietitura (pp. 89-93),
gli emigrati (p. 104), gli scarriolanti (pp.
126-141) rappresentano da sole un quadro
di storia sociale di inimmaginabile valore.
E non abbiamo ricordato che poche delle
« serie » che compaiono nel libro. Peccato
che, a fianco di tante magnifiche fonti, l’A.
abbia sentito la necessità di scrivere tante
pagine...
Luciano Casali
Movimenti femminili
franca pier o n i bortolotti , Femminismo e
partiti politici in Italia. 1919-1926, Roma,
Editori Riuniti, 1979, pp. 416, lire 4.800.
Una miriade di figure e figurine della sinora
sconosciuta storia del femminismo italiano
ed internazionale giunge finalmente alla
chiarezza delle coordinate storiche dalle pa­
gine dell’ultimo lavoro di Franca Pieroni
Bortolotti: « Femminismo e partiti politici
in Italia. 1919-1926», Roma, Ed. Riuniti,
1978.
L’Autrice con la competenza propria della
studiosa e l’aggressività d’obbligo della fem­
minista, senza mai polemizzare direttamente
e inutilmente, continua in questo libro l’ope­
ra iniziata da tempo, tesa a togliere dal­
l’occultamento e dal surgelamento a cui la
società fascista e postfascista l’aveva con­
dannata, la storia della « causa della don­
na », come si diceva un tempo, mostrando
non solo come negli anni succitati tale
« causa » fosse al centro della vita nazio­
nale e internazionale, non solo la varietà
delle persone che ad essa si dedicarono, ma
soprattutto come la mancata tenuta dei
partiti su questo fondamentale principio di
vita democratica fosse l’inizio del frana­
mento del socialismo e l’avvio tortuoso,
anche se in parte mimetizzato, dei processi
di fascistizzazione e d’involuzione degli anni
Venti e Trenta. « È un fatto a cui gli sto­
rici non fanno caso, ma è pure un fatto,
che il femminismo, come il socialismo, è
116 Rassegna bibliografica
uscito dalla prima guerra mondiale col se­
gno di una profonda, intima sconfìtta: sono
movimenti che hanno subito una violenza
da parte dei governi che hanno dichiarato
la guerra. Il fine della Seconda Internazio­
nale, come ha scritto il Cole, non era, nel­
l’immediato il socialismo; ma era, sempre,
la difesa della pace. Qualche cosa del ge­
nere si può dire del femminismo: di fronte
alla dichiarazione di guerra, il femminismo
ufficiale ha sempre contrattato la sconfìtta,
e chiesto il suffragio come risarcimento »
(P- 37).
Il principio fourieristico della posizione so­
ciale della donna come misura della civiltà
d’un popolo, visto alla luce delle vicende
degli anni roventi del primo dopoguerra,
pur nella sua inscindibilità, presenta qui
connotati diversi e concretissimi e impone
più vaste analisi di quelle svolte sinora
tendenti a confinare in un ghetto mentale
la questione femminile o, per lo meno, a
ridurla ad appendice del discorso socio-po­
litico. E se, per la destra, sancente il prin­
cipio della divisione della società in classi,
il mantenere ancora in vita la classe donna
non implicava un rabberciamento di prin­
cipi, un’allarmante stasi alle sue implacabili
marce verso il progresso, per la sinistra il
problema diventava essenziale, funesto il
negarlo in se stesso, come in fondo si fece
alla terza conferenza della Terza Interna­
zionale, i cui limiti e le cui motivazioni
storiche non sfuggono ovviamente all’Autri­
ce. La spaccatura tra femminismo ufficiale
e femminismo operante — si pensi in pro­
posito alle decise lotte delle donne per la
pace negli anni 1916-17 e alla loro testi­
monianza pratica di femminismo oltre alla
loro scarsa utilizzazione politica — altro
non furono in fondo che il preannunzio
della spaccatura tra vertice e base, almeno
quella dei centri più proletarizzati del pae­
se, che si vide poi macroscopicamente nel
più studiato e sofferto momento dell’occu­
pazione delle fabbriche. Sbagliarono i par­
titi politici che non videro come l’argo­
mento del suffragio avrebbe dovuto essere
inteso: non come « prezzo dell’anima», ma
come contraddizione del sistema, appiglio
per una più vasta opera di solidarietà che
fosse argine e lievito nella lotta contro
l’evitabile ascesa del fascismo: « Soltanto
una vigorosa sottolineatura dei valori de­
mocratici, ovunque reperibili, tanto nelle
zone avanzate del pensiero borghese e delle
<repubbliche borghesi > quanto nelle impli­
cazioni giuridiche e morali della rivoluzione
sovietica, nelle energie straordinarie che la
prospettiva egualitaria aveva liberato nella
società sovietica, soltanto un coraggioso ri­
fiuto della tradizione, della divisione dei
ruoli sociali tra i sessi avrebbero potuto
consentire ai comunisti dei due sessi di
quegli anni di contestare e distruggere cri­
ticamente fino in fondo la morale regres­
sista del fascismo » (p. 300).
Ma il maschismo partitico, e in generale
l’incapacità di teorizzare e propagandare il
nuovo, di sfruttare le contraddizioni, elu­
dendo il presente, aveva determinato il di­
scredito, il marchio di battaglia borghese ai
problemi della specifica oppressione fem­
minile. Invece di lanciarsi a studiare eco­
nomicamente le dimensioni del doppio la­
voro femminile o all’ottimale strategia d’at­
tacco di tali masse, davanti alla legge Acer­
bo per il « voto alle signore » — momento
dell’abile manovra mussoliniana per to­
gliere a tutti il diritto elettorale in un im­
mediato futuro — i partiti di massa si
misero di lena a rigettare con repellenza
il termine stesso di femminismo: « Da quel
momento, all’interno della democrazia ita­
liana e del corrispondente movimento ope­
raio, il termine <femminismo > sarà asso­
ciato, nell’inconscio, a posizioni antidemo­
cratiche e antisocialiste, e come tale sarà
inconsciamente respinto. Questo è stato il
risultato di una di quelle operazioni pro­
pagandistiche — in questo caso generata
dall’anticomunismo — di basso conio che
con tanta frequenza uomini e donne com­
piono se credono davvero che il <politique
d’abord> legittimi l’imbroglio; l’unico fine
che viene in tal modo raggiunto è la dif­
fusione di equivoci verbali che ritardano e
intralciano lo sviluppo in senso progressista
di qualsiasi società nazionale » (p. 244).
Il rigetto del termine è certo fenomeno
che va ancora approfondito, per la giusta
acquisizione di coscienza illuministica o
freudiana che sia, ma non ci pare che esso
sia dovuto al trauma collettivo della classe
operaia di fronte alla legge Acerbo; il pro­
cesso purtroppo era già rigogliosamente in
atto negli anni della guerra e dell’imme­
diato dopoguerra, come certificano tante
pagine de « Il Grido del Popolo », de « L’Or­
dine Nuovo » e di tutta la stampa di sini­
stra di quegli anni. E ancor oggi ne sen­
tiamo i postumi: la repulsione della pa­
rola, e quindi del concetto, rende spesso
difficile la convinta mobilitazione di masse
e di apparati, con lo scotto di avere le
organizzazioni della classe operaia impegna­
Rassegna bibliografica
te a combattere non come parte dirigente
o d’avanguardia ma spesso nella pur im­
portante qualità di triari le battaglie dei
diritti civili interessanti in modo precipuo
le donne.
Altro merito indiscusso del libro sono le
varie digressioni, non estranee ma tendenti
a chiarire i rapporti esistenti tra il com­
plesso movimento femminista italiano e il
suffragismo inglese e americano, oltre che
quello russo e tedesco. Si fanno così cono­
scere al nostro pubblico i nomi di Gunley
Finn, di Silvia Pankhurst, di Elizabeth
Stanton, di Lucy Stone, di Chapman Catt,
oltre a quelli già noti di Alessandra Kollontaj, e d’Inesse Armand, nonché di tante
dimenticate compagne italiane, ad esempio
— tanto per citarne qualcuna — di Teresa
Recchia, di Maria Gioia, di Abigaille Zanetta. Non si capisce invece l’aggressività
della Bortolotti verso una figura di tutto
rispetto del femminismo italiano come Ma­
ria Giudice, principale protagonista del
grande sciopero dei tessili valsesiani nel
1914, direttrice nel 1916 de « Il Grido del
Popolo » torinese e, per un certo periodo
dello stesso anno, segretaria della Camera
del Lavoro di Torino, in prima fila tra i
combattenti dei moti d’agosto del 1917 in
quella stessa città. Il proudhonianesimo di
cui è accusata è ancora tutto da dimo­
strare e certo non compare né nella sua
azione, sempre coraggiosa e generosa, né
nei suoi scritti, spiacevoli se mai per limiti
di stile.
Giustamente valorizzate, pur nelle diverse
dimensioni, ci paiono invece le figure di
Camilla Ravera e di Teresa Noce, mentre
Rita Montagnana attende ancora il biografo
che ne chiarisca il profilo di dirigente di
valore nazionale già in periodo pretogliattiano e sappia interpretare il suo ultimo
dignitoso silenzio rompendo quello molto
meno giustificato degli storiografi.
Oltre alla variegata gamma del femminismo
socialista vengono puntualmente definiti gli
slanci e i limiti del femminismo cattolico
come i grossi equivoci di quello nazionalfascista, del tutto suggestionato dalla de­
magogia sansepolcrista. E continui spiragli
di conoscenza si aprono sui nodi della po­
litica sovietica e italiana che, come nel
caso della dissertazione sul perché della pre­
senza del divorzio nella Carta del Carnaro,
non possono che sorprenderci piacevolmen­
te. L’unica pagina che non ci pare s’intoni
perfettamente con il resto dell’opera, né
per sincronia né per criticità, è l’elogio del
117
machiavellismo di Togliatti proprio oggi
che numerosi memoriali e saggi storici ne
mostrano i pesanti e non sempre inevitabili
costi durante il periodo staliniano, tragico
per troppi aspetti.
Ma l’opera della Bortolotti è anche avvin­
cente per l’energia e l’amore da appassio­
nata archeologa che pone nello strappare
rovi e sterpaglie dall’antico sentiero, ripor­
tandone alla luce tratti, pregi e difetti, co­
me per la composta sincerità con cui, nelle
sue conclusioni, in obbedienza al canone
femminista del personale-politico, ci spiega
la sua via intellettuale al femminismo e
alla sua storia. Certo fatalmente s’incon­
trano qua e là piccoli errori su aspetti pe­
riferici della questione, ma incomparabile
è la ricchezza di spunti e di stimoli per
nuovi studi che possono giungere da questa
lettura. Senso politico vigilante, sincera co­
scienza femminista, abilità nell’uso e nei
riferimenti degli strumenti scientifici svol­
gono, sullo sterminato materiale raccolto,
una funzione ordinatrice e per certi aspetti
fondatrice della mai scritta, prima d’ora,
storia del femminismo italiano considerato
in uno dei suoi più intensi periodi.
Rachele Farina
and jil l norris , One Hand
Tied Behind Us. The Rise of thè Women’s
Suffrage Movement, London, Virago, 1978,
pp. 304.
j il l liddington
Un libro che contiene elementi di storia
locale e storia nazionale, storia orale e
storia delle donne attira inevitabilmente l’at­
tenzione data l’attuale congiuntura storio­
grafica; in questo caso l’impegno del lettore
è ampiamente ripagato. In realtà si tratta
di uno studio di storia politica del movi­
mento di base a favore del voto femminile
in alcune zone del Lancashire attorno al
1900, specificamente nelle zone dei cotoni­
fici dove la manodopera era in larga mag­
gioranza femminile. L’attenzione maggiore
è rivolta ai cosiddetti «suffragisti radicali»,
i gruppi con una forte base operaia che
combinavano con l’obiettivo del voto una
serie di richieste politiche e sociali intese
a cambiare drasticamente le condizioni e i
rapporti di lavoro nelle fabbriche locali, e
a rivendicare uno status nuovo per la don­
na come riconoscimento del suo ruolo nel­
l’economia nazionale.
Oltre alle famose Pankhurst (che qui ven­
gono smitizzate in modo drastico) esisteva
nel Lancashire e nel Cheshire una fitta rete
118 Rassegna bibliografica
di comitati di lotta e di associazioni di base
costruita da donne che in un modo o l’altro
riuscivano a trovare l’energia e il tempo
per discutere e per organizzarsi nonostante
la mole di impegni di lavoro e di famiglia
di cui erano oberati. Ovviamente erano
donne eccezionali, e ove possibile vengono
nominate una per una e viene ricostruita
la loro biografia.
I complessi rapporti con i partiti del mo­
vimento laburista e i trade unions costitui­
scono la parte centrale della narrazione,
fino al punto in cui le suffragiste radicali
formano la propria organizzazione nazio­
nale, il National Union of Women’s Suffrage
Societies nel 1897. Fra corporativismo e
massimalismo (o il voto adulto totale o
niente) i trade unions in particolare costi­
tuivano spesso un’opposizione formidabile
quanto l’establishment e il padronato, e
senza l’appoggio costante di Keir Hardie,
neanche l’Independent Labour Party avreb­
be dato il contributo significativo che spesso
invece diede.
La « trama » del libro parte da urta descri­
zione chiara e efficace della situazione della
donna-operaia nel contesto sociale locale,
e della struttura dell’industria cotoniera in
particolare. Segue poi il racconto degli alti
e bassi del movimento suffragista man ma­
no che esso passa, con molte difficoltà, dalla
base locale al piano nazionale con la for­
mazione del National Union già menzio­
nato. Con la scissione fra l’Ilp e le suffra­
gette delle Pankhurst, e la distanza sempre
maggiore fra quest’ultime e le suffragiste
radicali dopo il 1905-06, il movimento co­
minciava ad affievolirsi, diviso com’era sul
problema della violenza, sugli obiettivi e
sui rapporti con il nascente Labour Party
(che adottò il suffragio delle donne come
obiettivo solo nel 1911). L’inizio della Gran­
de Guerra sembrò dare il colpo di grazia,
in realtà offrì alle donne inglesi opportunità
senza precedenti di rompere i rapporti tra­
dizionali e di aprire la strada alla vittoria
elettorale e ad un certo progresso sociale;
le autrici dimostrano come si sviluppò que­
sta nuova situazione.
Sia la Liddington che la Norris lavorano
ora come insegnanti nel campo dell’educa­
zione adulta, e si vede che e soprattutto a
questo tipo di platea che il libro è indi­
rizzato. Il linguaggio è chiarissimo e diretto;
la storia viene dalle labbra delle protagoniste; il quadro di riferimento è strettamente il loro (specificamente quello delle
suffragiste radicali). Un tale metodo rischia
tuttavia di restringere il panorama storico,
di indurre la concettualizzazione ai livelli
minimi essenziali e di presentare i problemi
grossi, come per esempio quello del rap­
porto fra donne operaie e donne del ceto
medio (quest’ultime dominanti a livello na­
zionale) semplicemente come sono vissuti
allora, cioè pragmáticamente. Ma l’aver ri­
costruito quasi da zero (con l’uso di fonti
locali e di fonti nazionali di tutti i tipi)
la storia di questo momento eccezionale di
mobilitazione delle donne in un modo rigo­
rosamente scientifico e allo stesso tempo
attraente e comprensibile da chiunque, rap­
presenta una conquista sempre rara.
David Ellwood
aleksandra kollontaj , Vivere la rivolu­
zione, a cura di Alix Holt, Milano, Gar­
zanti, 1979, pp. 267, lire 5.500.
Il 9 marzo 1952, a ottant’anni, moriva a
Mosca, in solitudine, Aleksandra Kollontaj,
senza che i maggiori quotidiani russi ricor­
dassero il contributo che la Kollontaj aveva
dato alla rivoluzione, senza che la stampa
borghese europea ricordasse l’abile e bril­
lante ambasciatrice sovietica.
Rivalutata negli anni Settanta dai movi­
menti di liberazione della donna come teo­
rica del femminismo comunista degli anni
Venti, solo in questi anni sono riapparsi
in lingua italiana molti dei suoi scritti, com­
presa l’edizione integrale della sua autobio­
grafia. In «Vivere la Rivoluzione», oggi
edito da Garzanti, tornano all’attenzione
del nostro pubblico alcuni saggi scritti dalla
Kollontaj negli anni che vanno dal 1909
al 1948, pazientemente ricuperati da Alix
Holt, curatrice del libro.
Il discorso sulla Kollontaj, dato il numero
ormai notevole di sue pubblicazioni in ita­
liano, richiederebbe tuttavia più che la mo­
desta segnalazione dei suoi scritti, un ampio
lavoro di puntualizzazione dei principali
cardini del suo pensiero, così come degli
inquietanti interrogativi delle sue vicende
umane e storiche. Un convegno su questa
figura, riemersa con forza dall'oblio cui
pareva condannata, potrebbe inoltre aiutar­
ci a stabilire l’odierno livello di conoscenze
storiche del femminismo in Urss, chiarendo
possibilmente quanto le teorie della libera­
zione sessuale e dell’abolizione della fami­
glia tradizionale, sostenute dalla Kollontaj
negli anni 1917-21, si configurassero come
realizzato socialismo o come marcusiana
utopia.
Rachele Farina
Rassegna bibliografica
m irella a llo isio , Marta AJÒ, La donna nel
Socialismo Italiano, prefazione di Riccardo
Lombardi, Cosenza, Lerici, 1978, pp. 172,
lire 3.500.
Che direbbero Anna Maria Mozzoni, Anna
Kuliscioff, Abigaille Zanetta se potessero
leggere quest’amara storia della donna nel
socialismo italiano? Il volumetto storico
scritto da Mirella Alloisio e Marta Ajò,
presentato dall’editore Lerici, percorrendo
velocemente — dal 1892 al 1978 — la
questione femminile nell’ambito del partito
socialista, propone varie tesi: la non tra­
smissibilità ai compagni della « causa della
donna » — anche ad un compagno della
levatura di Riccardo Lombardi — l’assur­
dità di credere, come le succitate protoso­
cialiste credettero, che il socialismo possa,
di per sé, senza analisi, dibattiti, gioco di
forze, risolvere anche la questione femmi­
nile; l’impossibilità che nell’ambito di un
partito il solo credo democratico permetta
una funzione attiva e dirigente, e non pu­
ramente rappresentativa, delle compagne
impegnate nella liberazione di sé e del­
l’organizzazione stessa dagli ormai insop­
portabili e sterili corporativismi e paterna­
lismi maschili.
« Dal ’45 ad oggi la presenza femminile a
posti di responsabilità ha piuttosto subito
un calo che un’ascesa: una sola donna
deputata, nessuna nella direzione, 15 don­
ne soltanto nel Comitato Centrale su 227
membri; nessuna responsabile, a livello na­
zionale, di sezioni di lavoro, nessuna segre­
taria di Federazione, nessun sindaco. Non
ti sembra una contraddizione con quanto
il partito sostiene a proposito dell’inseri­
mento della donna nella società? ».
A questa domanda rivolta a Riccardo Lom­
bardi nelle prime pagine del libro, leggiamo
una risposta tranquilla e senza Yindignatio
che in genere caratterizza lo stile di quest’illustre compagno: la colpa è delle don­
ne che non sono state abbastanza aggressive
nell’ambito dell’apparato. Ci chiediamo se
si risponderebbe con lo stesso semplicismo
a proposito della questione operaia, negra,
coloniale, e in genere di un qualunque mo­
vimento di rivendicazione politica. Certo
non è che anche in questa ovvietà non vi
sia un pizzico di vero, ma come sempre
nelle questioni storiche l’analisi è più com­
plessa e le argomentazioni dei politici do­
vrebbero dare luce e non genericizzazioni
rozze e approssimate.
Altra affermazione a pag. IV di Lombardi:
119
« La funzione di un partito politico infatti,
non è quella di essere sempre in anticipo,
anche organizzativo, rispetto alla coscienza
delle masse. Ed il Partito socialista, così
come tutti gli altri partiti, non soltanto non
si è trovato nella condizione di anticipare
— né lo potevamo — ma devo riconoscere
che si è trovato in ritardo quando questa
coscienza si è risvegliata con l’impetuoso
movimento femminista ». Molto ci sarebbe
da dire su tale affermazione, in senso ge­
nerale e specifico, ma è certo che nessun
partito in Italia come il Psi può vantare,
e quindi sprecare, una così lunga tradizione
d’impegno femminile e femminista. È dif­
ficile capire come lo stesso partito che negli
anni 1916-’17 aveva posto due donne nelle
segreterie della Camera del Lavoro più im­
portanti d’Italia (Torino e Milano), che
aveva una donna alla segreteria della Federterra, che affidava ad una donna la
«Critica sociale», che mandava una donna
a rappresentarlo a Zimmerwald, etc. etc.,
e in un periodo in cui il mondo borghese
negava il voto alle donne, oggi offra alle
sue iscritte una così difficile militanza e
non abbia assicurato neppure un seggio nel
parlamento europeo ad una compagna.
La storia delle donne socialiste, che segue
la prefazione-intervista a Riccardo Lom­
bardi, non fa altro che portare alla luce
questa lunga ed assurda incomprensione fra
donne socialiste e potere partitico, senza
patetici patriottismi di schieramento e senza
vittimismi, con la precisione concettuale
dell’autentica denuncia. È quindi un li­
bretto di meditazione, di proficuo stimolo
al ricupero del tempo e delle forze perdute,
necessarie anche alla vitalità e al rinnova­
mento salutare di un partito insopportabil­
mente addormentato su questo tema. Ma
leggeranno i compagni un tale volumetto
scritto da donne sulla « causa delle donne »?
Rachele Farina
Libri ricevuti
aa.w ., Il nuovo servizio sanitario nazionale
(Legge 833-78): evoluzione storica ordina­
mento, organizzazione, partecipazione popo­
lare, Milano, Regione Lombardia, 1980,
pp. 159, sip. [Quaderni di documentazione
regionale. Ns.]
., Dal ’68 a oggi. Come siamo come
eravamo, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 433,
lire 12.000.
aa. w
120 Rassegna bibliografica
Contiene saggi di Gambino, II quadro inter­
nazionale, Galli, La politica italiana, Col­
letti, Le ideologie, Di Mauro, La cultura,
Ruffolo, L'economia, Federici, Il costume,
Ravaioli, Le donne, Borgna, I giovani.
aa. vv . ,
Questioni di storia agricola lombar­
da nei secoli XVIII-XIX, Milano, Vita e
pensiero, 1979, pp. 343, lire 30.000.
MARIA VITTORIA BALLESTRERO, Dalla tutela
alla parità. La legislazione italiana sul la­
voro delle donne, Bologna, Il Mulino, 1980,
pp. 292, lire 5.000. [Universale Papersbacks.
99]
(a cura di Wolfgang benz ) Miscellanea.
Festschrift fiir Helmut Krausnick zum 75.
Geburstag, Stuttgart, DVA, 1980, pp. 222.
franco de f e l ic e , L ’età giolittiana, Torino,
Loescher, 1980, pp. 318, lire 5.800.
Manlio del bosco , Il « Mondo » e i radicali,
prefazione di Rosario Romeo, Roma, ERI,
1980, pp. 280, lire 6.800.
Il volume, pubblicato nel trentesimo anni­
versario della pubblicazione del giornale,
raccoglie una serie di saggi e di articoli
significativi.
del negro , Esercito, stato, società,
Firenze, Cappelli, 1980, pp. 269, lire 6.000.
Analisi dei meccanismi e dell’istituzione mi­
litare italiana dal ’700 alla prima guerra
mondiale. Contiene tra l’altro uno studio
particolareggiato della leva militare in Italia
dal 1860 alla grande guerra.
pierò
d i Dom enico , Saggio su « Socie­
tà». Marxismo e politica culturale sul do­
poguerra e negli anni ’50, Napoli, Guida,
1980, pp. 172, lire 3.500.
ornella b ia n ch i , Sviluppo industriale e lotte
operaie in Puglia. Gli anni del centro sini­
stra (1963-1969), Roma, Bulzoni, 1980, pp.
273, lire 8.500.
Giovanni
Da don Milani a Orbilius.
Breve storia di un « riflusso » nel dibattito
sulla scuola italiana, Bari, De Donato, pp.
167, lire 3.500.
David
Giorgio
b in i ,
bogliari , Il movimento contadi­
no dall’Unità al fascismo, Torino, Loescher,
1980, pp. 346, lire 6.000. [Documenti della
storia. 28]
Francesco
Storia della Resistenza a
Modena. I. Il rifiuto del fascismo, Modena,
Anpi, 1980, pp. 390, lire 6.000.
LUCIANO CASALI,
Macchine scuola in­
dustria. Dal mestiere alla professionalità
operaia, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 263,
lire 10.000. isabella zanni rosiello , L ’ar­
chivio della scuola professionale di arti e
mestieri Aldini Valeriani, Bologna, Comu­
ne, 1980, pp. 157, sip.
co m u n e di
Bologna,
Questi due volumi sono frutto di una ri­
cerca organizzata dal Comune di Bologna
sull’Istituto professionale Aldini Valeriani.
La ricerca condotta da una equipe coordi­
nata da Carlo Poni si è realizzata in una
mostra, Macchine scuola industria di cui
questo volume costituisce il ricchissimo ca­
talogo. Isabella Zanni Rosiello ha riordina­
to, nel quadro della stessa iniziativa, l’ar­
chivio dell’Isttituto Aldini Valeriani.
brezzi , I partiti democratici cri­
stiani d’Europa, Milano, Teti, 1980, pp. 301,
lire 4.000.
f ie l d h o u s e , Politica ed economia del
colonialismo (1870-1945), Bari, Laterza,
1980, pp. 124, lire 4.500.
Giovenale giaccardi, Le formazioni « R »
nella lotta di liberazione, Cuneo, L’Arciere,
1980, pp. XXXII-480, lire 10.000.
Clientelismo e sistema po­
litico. Il caso dell’Italia, Milano, Angeli,
1980, pp. 199, lire 6.000. [Istituto di scienze
politiche « Gioie Solari » dell’Università di
Torino]
l u ig i graziano ,
La comune di Vienna e
l’antifascismo italiano, prefazione di Simona
Colarizi, Cosenza, Lerici, 1980, pp. 172,
lire 4.000.
Analizza il dibattito aperto fra gli antifa­
scisti italiani in seguito alla repressione di
Dolfuss della comune socialista di Vienna.
ariane landuyt ,
GIOVANNI la zza r i , I littoriali della cultura e
dell’arte. Intellettuali e potere durante il
fascismo, Napoli, Liguori, 1980, pp. 175,
lire 3.500.
NIKLAS LUHMANN, CLAUS OFFE, JOACHIM
HIRSCH, GUSTAVO GOZZI, GIULIANO BUSELLI,
Ch r ist ia n m arazzi , Le trasformazioni dello
stato. Tendenze nel dibattito in Germania
e in USA, a cura di Gustavo Gozzi, Fi­
renze, La Nuova Italia, 1980, pp. 211, li­
re 5.000. [Quaderni di aut-aut, n. 9]
camillo
anna maria martellone ), La
« questione » dell’immigrazione negli Stati
(a c u ra di
Rassegna bibliografica
Uniti, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 334,
lire 12.000.
Antologia sul problema dell’immigrazione.
Il volume comprende saggi di Qualey,
Schlesinger, Hansen, Handlin, T.L. Smith,
Vecoli, Blegen, Gossett, Corwin, Gleason,
Hourwich, Murray e Higham.
I. MATTOZZI, L. BONEMAZZI, E. PERILLO, P.
Brunello , s. lanaro , Una via alla storia.
Rinnovamento didattico e raccolta delle
fonti orali, Venezia, Arsenale Cooperativa,
1980, pp. 181, lire 6.000.
m a z z e i , Il capitalismo giapponese.
Gli stadi di sviluppo, Napoli, Liguori, 1980,
pp. 276, lire 8.500. [Collana di storia mo­
derna e contemporanea]
121
Provincia di Milano, Catalogo dei periodici,
Milano, pp. 178, sip.
Catalogo generale dei periodici esistenti
presso la Biblioteca centrale della Provincia
di Milano, e presso gli enti dipendenti o
confluiti nella amministrazione provinciale.
romano , I Caprotti. L ’avventura
economica e umana di una dinastia indu­
striale della Brianza, Milano, Franco An­
geli, 1980, pp. 309, lire 12.000.
ROBERTO
rondolino , Storia del cinema, To­
rino, Utet, 1980, pp. 691, lire 25.000.
g ian n i
franco
MASSIMO
MAZZETTI,
FRANCESCO PERFETTI,
Storia dell’Italia contemporanea, voi. Ili,
Napoli, ESI, 1980, pp. 523, sip.
Collana di storia d’Italia dall’Unità ai no­
stri giorni, Terzo volume dell’opera diretta
da Renzo De Felice. In questo tomo Mas­
simo Mazzetti ha trattato la parte relativa
alla prima guerra mondiale (pp. 166) mentre
Francesco Perfetti ha trattato l’Italia fra
le due guerre (pp. 170-447).
(a cura di Claudio m il a n in i ), Neorealismo,
poetiche e polemiche, Milano, Il Saggiatore,
1980, pp. 249, lire 6.000.
Antologia di saggi tratti dalle più impor­
tanti riviste del periodo. Contiene scritti
di Alvaro, Brancati, Gadda, Moravia, Pa­
vese, Pasolini ecc.
Una cultura del privato.
Morfologia e significato della stampa devo­
zionale italiana, Torino, Claudiana, 1980,
pp. 245, lire 7.300.
ARNALDO
n e s t i,
•all nuovo spettatore», a. I, n. 1, aprile
1980, lire 1.500.
Periodico dell’Archivio nazionale cinemato­
grafico diretto da Gianni Rondolino e Pao­
lo Gobetti.
sabbatucci , La stampa italiana
del combattentismo 1918-1925, Bologna
Cappelli, 1980, pp. 287, lire 7.000.
Giovanni
franco sbarberi , I comunisti italiani e lo
stato. 1929-1945, Milano, Feltrinelli, 1980,
pp. 260, lire 8.000.
salvatore s e c h i , La pelle di zigrino. Storia
e politica del Pei, Bologna, Cappelli, 1980,
pp. 324, lire 6.000.
Raccolta di vari saggi sulla storia e la po­
litica comunista dalle origini ai nostri giorni.
serra , Una cultura dell'autorità.
La Francia di Vichy, Roma-Bari, Laterza,
1980, pp. 257, lire 13.000.
Storia della cultura francese degli anni
trenta e della sua influenza sulla politica
della repubblica di Vichy.
Ma u r iz io
Socialisti riformisti, Introduzione a cura di
Carlo cartiglia , Milano, Feltrinelli, 1980,
pp. 351, lire 10.000.
Fascismo antifascismo Reristenza in una città operaia. 1. Piombino
dalla guerra al crollo del fascismo. 19181943, Firenze, Clusf, 1980, pp. 238, sip.
ivan to gnarini ,
gianni toniolo , L ’economia dell’Italia fa­
scista, Bari, Laterza, 1980, pp. 353, lire
11. 000 .
ALESSANDRO ORLANDINI, GIORGIO VENTURINI,
Padrone arrivedello a battitura. Lotte mez­
zadrili nel Senese nel secondo dopoguerra.
Prefazione di Giovanni Mottura, Milano,
Feltrinelli, 1980, pp. 222, lire 4.000.
v o l pi , La democrazia autoritaria.
Forma di governo laburista e V Repubblica
francese, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 229,
lire 10.000.
m auro