Effetti dell`olio supplementato con vitamine D3, K1, B6 in diverse
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Effetti dell`olio supplementato con vitamine D3, K1, B6 in diverse
Università Politecnica delle Marche FACOLTÀ DI AGRARIA Scuola di Dottorato di Ricerca Curriculum “Alimenti e Salute” (XI ciclo) Effetti dell’olio supplementato con vitamine D3, K1, B6 in diverse categorie di soggetti Dottoranda Tutor: Dott.ssa Arianna Vignini Prof. Natale Giuseppe Frega A.A. 2010-2012 1. INTRODUZIONE 2 1.1 Il tessuto osseo 1.1.1 La struttura (Faglia G, 2002) Il tessuto osseo fa parte, assieme alla cartilagine, dei tessuti connettivi specializzati per la funzione di sostegno. L’appartenenza del tessuto osseo ai tessuti connettivi è giustificata sia per la sua origine dal mesenchima, il tessuto embrionale che funge da matrice per tutti i tessuti connettivi, sia per la sua costituzione, essendo formato da cellule e da sostanza intercellulare composta da fibre di collagene e sostanza fondamentale mista. La peculiarità del tessuto osseo è quella di essere mineralizzato: infatti la sostanza intercellulare è per la maggior parte impregnata di cristalli minerali, in prevalenza fosfato di calcio. La presenza di minerali, come pure la abbondanza e la particolare distribuzione delle componenti organiche della sostanza intercellulare, conferiscono a questo tessuto spiccate proprietà meccaniche di durezza e di resistenza alla pressione, alla trazione e alla torsione. In virtù di queste proprietà, il tessuto osseo costituisce un materiale ideale per la formazione delle ossa dello scheletro, che costituiscono nel loro insieme l’impalcatura di sostegno dell’organismo. Inoltre, dato il notevole contenuto in sali di calcio, il tessuto osseo rappresenta il principale deposito di ione calcio per le necessità metaboliche dell’intero organismo. La deposizione del calcio nell’osso e la sua mobilizzazione, finemente controllate da meccanismi endocrini, contribuiscono in modo sostanziale alla regolazione dei livelli plasmatici di questo ione. Da un punto di vista macroscopico, si distinguono due varietà di osso: osso spugnoso (Fig.1) osso compatto (Fig.2) L’osso spugnoso si trova principalmente a livello delle ossa brevi, delle ossa piatte e delle epifisi delle ossa lunghe: deve il suo nome alla particolare conformazione “a spugna”, con travate ossee, dette trabecole, variamente orientate e intersecate tra loro e delimitanti cavità, dette cavità midollari, che in vivo sono ripiene di midollo osseo ematopoietico. L’osso compatto forma la porzione più superficiale delle ossa brevi, delle ossa piatte e delle ossa lunghe e costituisce la diafisi di queste ultime (Fig.3) (Faglia G, 2002). 3 Fig.1 Osso Spugnoso Fig.2 Osso Compatto Fig.3 Schema descrittivo delle componenti ossee. 4 1.1.2 Le cellule (Faglia G, 2002) Le cellule proprie del tessuto osseo sono morfologicamente distinguibili in 4 varietà: le cellule osteoprogenitrici (dette anche preosteoblasti), gli osteoblasti, gli osteociti e gli osteoclasti. Di queste, le cellule osteoprogenitrici, gli osteoblasti e osteociti sono in realtà fasi funzionali consecutive dello stesso tipo cellulare, a sua volta derivato dalla differenziazione in senso osteogenico della cellula mesenchimale pluripotente dei tessuti connettivi; sono pertanto considerabili come cellule autoctone dell’osso. Gli osteoclasti, per contro, derivano da precursori immigrati nel tessuto osseo dal sangue, i cosiddetti preosteoclasti, i quali a loro volta si differenziano da cellule staminali del midollo osseo ematopoietico. A) Le cellule osteoprogenitrici, o preosteoblasti, hanno forma di fuso o ovale e si collocano nello strato più interno del periostio apposto all’osso, il cosiddetto strato osteogenico di Ollier, riccamente vascolarizzato. Sono altresì localizzate a livello del tessuto connettivo lasso che riveste le cavità interne dell’osso, il cosiddetto endostio, in vicinanza dei capillari sanguigni. Esse sono dotate di capacità proliferativa, che si manifesta in modo particolare durante l’accrescimento corporeo ma che può esplicarsi anche durante la vita adulta. Esse sono in grado di produrre e secernere le bone morphogenetic proteins (BMP), fattori di crescita e di differenziamento autocrini. Quando acquistano capacità differenziativa le cellule osteoprogenitrici si trasformano in osteoblasti. B) Gli osteoblasti sono le cellule primariamente responsabili della sintesi della sostanza intercellulare dell’osso e della sua mineralizzazione. Esse hanno forma globosa o poliedrica e tendono a giustapporsi le une alle altre a formare delle lamine epitelioidi a ridosso delle superfici ossee in via di formazione. Istochimicamente, queste cellule si caratterizzano per la positività alla reazione per la fosfatasi alcalina. Gli osteoblasti sono uniti tra loro e con gli osteociti vicini tramite giunzioni serrate (o gap junctions), grazie alle quali le cellule si scambiano molecole segnale per la coordinazione dell’attività metabolica e di deposizione della matrice ossea. L’osteoblasto è la sede di sintesi delle molecole organiche della sostanza intercellulare dell’osso, le quali vengono successivamente esocitate ed assemblate all’esterno della cellula. L’osteoblasto presiede anche alla mineralizzazione della sostanza intercellulare, secondo modalità non del tutto chiarite. 5 La produzione della matrice ossea e la sua mineralizzazione avvengono secondo un orientamento ben preciso: inizialmente l’osteoblasto depone osso dal lato rivolto verso la superficie ossea preesistente; successivamente ne depone da ogni lato tutto attorno a sé, di modo che ciascuna cellula si allontana progressivamente dalle circostanti a causa dell’interposizione di sostanza intercellulare. A questo punto l’osteoblasto rallenta sostanzialmente la sua attività metabolica e si trasforma in un osteocita, mentre nuovi osteoblasti si differenziano via via dalle cellule osteoprogenitrici. Quando il processo di formazione di nuovo tessuto osseo si è esaurito, gli osteoblasti che rimangono a ridosso della superficie ossea cessano la loro attività, riducono i loro organuli e si trasformano in una membrana di cellule appiattite, le cosiddette cellule di rivestimento dell’osso (bone lining cells), a cui si attribuisce un ruolo nel mediare gli scambi tra vasi sanguigni e osteociti. Gli osteoblasti producono e secernono fattori solubili, il più studiato dei quali è il fattore di crescita trasformante (trasforming growth factor)-ß (TGF-ß) che è un potente stimolatore degli osteoblasti stessi. Esso fa parte della stessa famiglia a cui appartengono le BMP; agendo in maniera paracrina ed autocrina, è capace di modulare la proliferazione delle cellule osteoprogenitrici, di promuovere il loro differenziamento in osteoblasti e di incrementare il metabolismo e le sintesi macromolecolari degli osteoblasti maturi. Oltre al TGF-ß, gli osteoblasti producono gli insulin-like growth factors (IGF), molecole proteiche strettamente apparentate tra loro con una spiccata azione di stimolo sulla crescita e sul metabolismo osteoblastico. Gli osteoblasti sono coinvolti nei processi di rimaneggiamento dell’osso (Fig.4). Infatti, queste cellule sono in grado di innescare il riassorbimento della matrice ossea sia indirettamente, in quanto producono fattori solubili che attivano gli osteoclasti, le cellule preposte al riassorbimento osseo, sia direttamente, in quanto secernono enzimi proteolitici capaci di scindere i componenti della matrice organica dell’osso. Tra questi enzimi vi è la collagenasi, che viene secreta sotto forma di procollagenasi inattiva. La sua attivazione avviene nell’ambiente extracellulare ad opera di un’altra proteasi, l’attivatore tissutale del plasminogeno (tPA), anch’esso prodotto dagli stessi osteoblasti. Il tPA attiva una proteasi ad ampio spettro, la plasmina, presente nel plasma sanguigno come precursore inattivo, detto plasminogeno. La plasmina opera il clivaggio proteolitico della procollagenasi 6 trasformandola nella collagenasi attiva. La collagenasi osteoblastica agirebbe rimuovendo lo strato di tessuto osteoide non mineralizzato che riveste la superficie dell’osso, consentendo così agli osteoclasti di aderire alla matrice mineralizzata e dissolverla. Fig.4 A sinistra, micrografia elettronica a trasmissione di un osteoblasto (in alto) e di un osteocita neoformato, racchiuso da ogni lato da matrice ossea mineralizzata e in connessione con l’osteoblasto mediante prolungamenti citoplasmatici. A destra, micrografia elettronica a scansione di un osteocita dal cui citoplasma si dipartono numerosi prolungamenti, perlopiù diretti verso gli osteoblasti sovrastanti (Da: G. Marotti, Ital J Anat Embryol 101: 25, 1996) C) Gli osteociti sono le cellule tipiche dell’osso maturo, responsabili del suo mantenimento ed anche capaci di avviarne il rimaneggiamento. Sono cellule terminali, con una autonomia di vita, finemente regolata da meccanismi endocrini. L’osteocita è una cellula stellata, con un corpo cellulare a forma di lente biconvessa e numerosi prolungamenti citoplasmatici. Il corpo dell’osteocita rimane racchiuso in una nicchia scavata nella sostanza intercellulare ossea, detta lacuna ossea, la cui forma ricalca quella della cellula, mentre i prolungamenti sono accolti all’interno di sottili canali scavati nel tessuto osseo e definiti canalicoli ossei. Alle loro estremità, i prolungamenti di un osteocita sono connessi con quelli degli osteociti circostanti mediante giunzioni serrate (Fig.5) attraverso le quali vengono scambiati metaboliti e molecole segnale disciolti nel citoplasma. Tra la membrana plasmatica del corpo cellulare e dei prolungamenti e la matrice mineralizzata si trova uno spazio sottile occupato da tessuto osteoide che non mineralizza. Attraverso il tessuto osteoide delle lacune e dei canalicoli ossei, che sono ampiamente comunicanti, l’acqua e le sostanze disciolte (gas respiratori e metaboliti) riescono a raggiungere tutti gli osteociti, anche quelli 7 più distanti dai vasi sanguigni. Per molto tempo si è ritenuto che la morte degli osteociti fosse alla base del cosiddetto minirimaneggiamento che avviene a livello di singoli osteociti e che nel suo insieme era ritenuto essere coinvolto nel mantenimento dei livelli circolanti di ione calcio (calcemia). Secondo tale ipotesi si sarebbero infatti liberati nella lacuna acidi organici derivati dal metabolismo cellulare (es. acido lattico) ed enzimi lisosomiali: i primi avrebbero disciolto i cristalli di apatite ed i secondi avrebbero scisso le macromolecole organiche della sostanza intercellulare, operando la cosiddetta osteolisi osteocitica. Si riteneva altresì che l’osteolisi osteocitica fosse promossa dal paratormone (PTH), l’ormone ipercalcemizzante prodotto dalle paratiroidi, il quale interagendo con recettori posti sulla membrana degli osteociti avrebbe determinato una abbreviazione del loro ciclo vitale. In epoca recente, tuttavia, il ruolo dell’osteolisi osteocitica è stato ridimensionato: la mobilizzazione di ioni calcio dalla matrice ossea stimolata dal paratormone è ritenuta dipendere principalmente dall’azione combinata di osteoblasti ed osteoclasti. Vi sono dati a favore dell’ipotesi che, nelle zone di riassorbimento della matrice ossea da parte degli osteoclasti, gli osteociti non muoiano affatto ma vadano ad arricchire il patrimonio di cellule di rivestimento dell’osso, anche se non è chiaro se esse siano ancora capaci di trasformarsi nuovamente in osteoblasti attivi. Fig.5 Micrografia elettronica di un osteocita all’interno di una lacuna ossea. Nel citoplasma sono presenti mitocondri, lisosomi ed alcune cisterne di reticolo endoplasmico granulare. È evidente un prolungamento citoplasmatico che si addentra in un canalicolo osseo. Tra la membrana plasmatica dell’osteocita e la matrice mineralizzata, elettrondensa, si interpone un sottile strato di tessuto osteoide. D) Gli osteoclasti sono le cellule preposte al riassorbimento osseo. Come già accennato, essi non sono cellule autoctone del tessuto osseo, in quanto non appartengono alla linea che deriva dalle cellule osteoprogenitrici. I precursori degli osteoclasti, detti preosteoclasti, 8 originano nel midollo osseo ematopoietico e sono apparentati con la linea differenziativa di una categoria di globuli bianchi, i monociti. I preosteoclasti vengono trasportati dal torrente circolatorio fino alle sedi in cui debbono avvenire processi di riassorbimento osseo; qui giunti, essi migrano nel tessuto osseo e si fondono insieme originando gli osteoclasti attivi, elementi sinciziali capaci di dissolvere la componente minerale e di digerire enzimaticamente le componenti organiche del tessuto osseo. Gli osteoclasti maturi sono cellule giganti (100-200 μm), plurinucleate in quanto originate dalla fusione dei singoli precursori mononucleati: in un singolo osteoclasto possono infatti essere presenti fino a 50 nuclei, con cromatina lassa e nucleolo ben evidente. Il citoplasma è acidofilo. L’osteoclasto attivato è aderente alla matrice mineralizzata in via di riassorbimento ed è solitamente accolto in una cavità, detta lacuna di Howship, che si forma a seguito dell’azione erosiva della cellula sull’osso. Sul versante della cellula che si appone all’osso è visibile il cosiddetto orletto increspato, che appare come un ispessimento della superficie cellulare con una sottile striatura disposta perpendicolarmente alla superficie stessa. Con metodi istochimici, a livello dell’orletto increspato si può rivelare la presenza dell’enzima anidrasi carbonica e di pompe a protoni. Ai margini dell’orletto increspato vi è una porzione di citoplasma di aspetto astrutturato, detta zona chiara (Figg.6-7). Al microscopio elettronico, la zona dell’orletto increspato si rivela composta da un gran numero di sottili lamine citoplasmatiche, diverse tra loro per calibro e lunghezza, che ampliano grandemente l’estensione del plasmalemma. La zona chiara appare invece a superficie liscia ed è occupata da abbondanti strutture citoscheletriche, in particolare microfilamenti contrattili: immaginandola nelle tre dimensioni, la zona chiara costituisce una sorta di cercine periferico all’orletto increspato tramite la quale l’osteoclasto aderisce strettamente alla superficie dell’osso da riassorbire, delimitando l’ambiente extracellulare compreso tra la superficie dell’osso e l’orletto increspato, la cosiddetta zona sigillata; qui le sostanze liberate dall’osteoclasto possono agire sulla matrice ossea senza diffondersi all’intorno. 9 Fig.6 Ricostruzione tridimensionale di un osteoclasto in cui sono evidenti l’orletto increspato che aggetta nella lacuna di Howship, la zona delle vescicole chiare, la zona dei lisosomi e la zona dei nuclei, contenente anche mitocondri, apparati di Golgi multipli ed elementi di reticolo endoplasmico granulare. La zona chiara, ricca di filamenti contrattili, forma un cercine adeso alla matrice ossea tutto attorno all’orletto increspato. Il riassorbimento della matrice ossea inizia con la dissoluzione della componente minerale dovuta all’acidificazione del microambiente della zona sigillata. A questo livello l’anidrasi carbonica, sita sul versante ialoplasmatico del plasmalemma dell’orletto increspato, genera acido carbonico a partire da CO2 e H2O; le pompe di membrana localizzate sul plasmalemma dell’orletto increspato trasportano attivamente protoni, derivati dalla dissociazione dell’acido carbonico e di altri acidi organici di origine metabolica (es. acido citrico, acido lattico) nell’ambiente extracellulare. L’abbassamento del pH che ne consegue porta alla dissoluzione dei cristalli di apatite. Nel contempo l’osteoclasto esocita il contenuto degli enzimi lisosomiali all’esterno: a basso pH le idrolasi lisosomiali si attivano e digeriscono i componenti organici della matrice ossea. Inoltre, l’osteoclasto libera l’attivatore tissutale del plasminogeno, il quale a sua volta attiva la plasmina e, per suo tramite, la collagenasi latente prodotta dagli osteoblasti. Questo ultimo enzima contribuisce con la sua azione litica alla digestione della sostanza intercellulare organica dell’osso. La funzione osteoclastica è finemente regolata da fattori ormonali e locali. In particolare, gli osteoclasti sono le uniche cellule dell’osso che possiedono i recettori per l’ormone calcitonina, prodotto dalle cellule parafollicolari (o cellule C) della tiroide, con azione antagonista al paratormone. La calcitonina è un inibitore del riassorbimento dell’osso, 10 essendo capace di indurre il distacco degli osteoclasti dall’osso, la scomparsa dell’orletto increspato e la riduzione del metabolismo cellulare. Il recettore per la calcitonina è già espresso dai precursori circolanti degli osteoclasti, e la sua evidenziazione può essere un valido metodo per la identificazione di queste cellule. Per contro, gli osteoclasti non esprimono il recettore per il paratormone, che non ha alcun effetto diretto su di essi. L’azione osteolitica del paratormone sembra esplicarsi per il tramite degli osteoblasti: questi, sotto stimolo dell’ormone, libererebbero fattori solubili detti OAF (osteoclast activating factors), che agirebbero sugli osteoclasti attivandoli e promuovendo così il riassorbimento osseo. La natura chimica degli OAF non è nota: probabilmente alcuni di questi fanno parte della categoria delle BMP (ad es. la BMP-2 è un potente stimolatore del differenziamento osteoclastico in vitro). Questa ipotesi sembra avvalorata dai risultati di esperimenti condotti in vitro, che hanno dimostrato come fattori di stimolo del riassorbimento osseo, come il paratormone, la vitamina D ed alcune citochine, siano incapaci di stimolare gli osteoclasti a riassorbire l’osso, a meno che questi non siano mantenuti in coltura insieme con osteoblasti. Fig.7 Micrografia elettronica a scansione di un osteoclasto all’interno di una lacuna di Howship i cui margini sono indicati dalle frecce. (Da: L. Formigli et al. J Oral Pathol Med 24: 216, 1995) 11 Idrossiapatite 95% SOSTANZA MINERALE ( 70%) Altri: Mg,Na,K,F,Cl 30% 70% COMPOSIZIONE OSSEA Collagene 95% Fibrille ossee: Proteine 98% non collageni 5% SOSTANZA ORGANICA (30%) Cellule ossee 2% La composizione ossea 1.1.3 Sostanza intercellulare La sostanza intercellulare del tessuto osseo (Fig.8) è formata da una componente organica e da una componente minerale. La componente organica si compone di: A) Fibre connettivali Le fibre connettivali sono rappresentate per la quasi totalità da fibre collagene, composte da collagene di tipo I (Fig.9). Parte di queste fibre si organizza in fasci,le fibre perforanti di Sharpey, che ancorano il periostio al tessuto osseo corticale. 12 Le fibre elastiche sono virtualmente assenti nel tessuto osseo, ad eccezione di una piccola quota di queste nelle fibre perforanti di Sharpey. Le fibre reticolari sono localizzate a livello della membrana basale che circonda i vasi sanguigni intraossei, ma non sono presenti nella sostanza intercellulare vera e propria dell’osso. Fig.8 Sostanza intercellulare Fig.9 Nell’osso maturo la matrice intercellulare è composta sostanzialmente da fibre, inizialmente sono soprattutto fibre collagene, poi subiscono un processo di mineralizzazione. In qualche area è possibile dimostrare la penetrazione delle fibre connettivali nella sostanza ossea. Vedi freccia. OSSO SPUGNOSO. Ingrandimento 400 X B) Sostanza fondamentale anista La sostanza fondamentale anista è composta da: - Proteoglicani, composti da glicosaminoglicani acidi, solitamente solforati, uniti assieme da brevi catene proteiche. Quelli meglio conosciuti sono: x Proteoglicano di tipo I (PG-I), si riscontra sia nella sostanza intercellulare mineralizzata che in quella non mineralizzata adiacente alle cellule ossee e ai loro prolungamenti, il cosiddetto tessuto osteoide ; 13 x Proteoglicano di tipo II (PG-II), che tende ad associarsi alle microfibrille collagene come a decorarle. Lo si ritrova nella sostanza intercellulare mineralizzata ma non nel tessuto osteoide, per cui si ipotizza che abbia un ruolo nell’orientare la deposizione dei cristalli minerali lungo le microfibrille collagene. - Glicoproteine, di solito fosforilate o solfatate, includono molecole diverse alcune delle quali sono ritenute giocare un ruolo fondamentale nel controllo dei processi di mineralizzazione. Tra queste si annoverano: x Osteonectina, la glicoproteina più abbondante. È dotata di alta affinità per il calcio, sia come ione libero che associato in complessi di tipo cristallino. Si ritiene che essa agisca come elemento di nucleazione dei cristalli minerali, in quanto ritenuta capace di concentrare il calcio nelle sue adiacenze creando così le condizioni per avviare la precipitazione del fosfato di calcio. x Fosfatasi alcalina, un enzima capace di idrolizzare gruppi fosfato legati a substrati organici (quali ad es. il piridossal-5-fosfato) attivo in ambiente alcalino (pH 8-10). Alcuni studiosi ritengono che essa potrebbe giocare un ruolo nei processi di mineralizzazione, mettendo a disposizione gli ioni fosfato per la formazione dei cristalli minerali. Secondo altri, sarebbe invece coinvolta nella sintesi della matrice organica dell’osso. x Fibronectina, una molecola di adesione localizzata prevalentemente nella matrice pericellulare e caratterizzata da una porzione capace di legarsi al collagene. Si ritiene che la fibronectina sia coinvolta nei processi di migrazione, adesione alla matrice e organizzazione delle cellule dell’osso. - Sialoproteine, o BSP (dall’acronimo inglese bone sialo-proteins, sialoproteine dell’osso), glicoproteine peculiari contenenti residui glicidici di acido sialico. Queste proteine posseggono una sequenza aminoacidica particolare Arg-Gly-Asp (sequenza RGD) che in esperimenti in vitro è stata vista mediare l’adesione al substrato di svariati tipi cellulari, incluse le cellule dell’osso. Si ritiene pertanto che le sialoproteine ossee abbiano la funzione fisiologica di consentire l’adesione delle cellule alla matrice ossea. Se ne conoscono più tipi: x Osteopontina (o BSP-I) x BSP-II x Glicoproteina acida dell’osso 14 -Proteine contenenti l’acido DŽ-carbossiglutammico (GLA), un aminoacido particolare derivato dall’acido glutammico con un ulteriore gruppo carbossilico legato al carbonio in posizione DŽ. Il GLA incluso nella proteina possiede, nella porzione del residuo, due gruppi carbossilici liberi e ravvicinati che a pH fisiologico sono ionizzati e carichi negativamente, e pertanto capaci di agire come una sorta di chelanti per i cationi bivalenti quali lo ione calcio. Le proteine dell’osso contenenti il GLA sono di due tipi: x Osteocalcina, o proteina GLA dell’osso, una piccola proteina contenente 3-5 residui di GLA. Essa viene prodotta dagli osteoblasti sotto il controllo dell'1,25(OH)2D3, passa in circolo e viene escreta per filtrazione renale. È considerata un marker specifico del metabolismo osseo. Valori elevati di osteocalcina si riscontrano in genere nelle condizioni in cui vi sia un rimodellamento osseo ed un aumento dei livelli di 1,25(OH)2D3. Vi sono, invece, valori diminuiti quando sussiste un difetto di mineralizzazione, una diminuita attività ossea e bassi livelli di 1,25(OH)2D3. È stato ipotizzato che essa possa giocare un ruolo di inibizione della mineralizzazione in quanto ritenuta capace di legarsi allo ione calcio e di renderlo indisponibile per la combinazione con lo ione fosfato, inibendo così l’accrescimento dimensionale dei cristalli minerali. Questa ipotesi è avvalorata dalla constatazione che l’osteocalcina abbonda nel tessuto osseo maturo ed è invece scarsa nel tessuto osseo in via di formazione, nonché dal reperto che questa proteina inibisce la crescita di cristalli di fosfato di calcio in vitro. x Proteina GLA della matrice, di peso molecolare maggiore della osteocalcina, è presente sia nell’osso maturo che in quello in via di formazione, nonché nella cartilagine destinata a essere sostituita da tessuto osseo, come la cartilagine di accrescimento. Il suo ruolo biologico non è chiarito. C) Componente minerale La componente minerale è rappresentata da cristalli di sali di calcio, prevalentemente fosfato di calcio a cui si aggiungono quantità minori di carbonato di calcio e tracce di altri sali (fluoruro di calcio, fosfato di magnesio). Il fosfato di calcio è presente sotto forma di cristalli di apatite, la cui cella elementare ha la forma di un prisma esagonale appiattito e formula chimica Ca5(PO4)32+; le due cariche positive sono di norma neutralizzate dal legame con due ioni ossidrile (OH-), formando così la idrossiapatite, ma si possono 15 ritrovare anche altri anioni (ione carbonato nella carbonatoapatite; ione fluoruro nella fluoroapatite). Il cristallo si origina dall’impilamento delle singole celle elementari ed ha la forma di un ago lungo e sottile, spesso circa 2 nm e lungo 20-40 nm. 1.1.4 Regolazione della formazione dell’osso Da quanto detto precedentemente, emerge come vi sia una stretta correlazione funzionale tra osteoblasti e osteoclasti. L’induzione del riassorbimento osseo da parte degli osteoclasti richiede infatti la presenza degli osteoblasti, i quali liberano gli OAF (osteoclast activating factors). Gli osteoblasti sono anche coinvolti nel differenziamento dei preosteoclasti in osteoclasti maturi, con la produzione di fattori solubili, come il GM-CSF (granulocyte macrophage colony stimulating factor). È stato detto, infatti, che gli osteoclasti sono cellule di origine emopoietica. Si differenziano dai precursori nella linea monocitomacrofagica in risposta all’espressione coordinata di molecole regolatorie linea-specifiche, incluse c-fos, M-CSF RANK (recettore attivatore di NFkB), OPG (osteoprogeterina), il ligando di RANK (receptor activator of nuclear factor-kb), dove RANK è un recettore appartenente alla famiglia dei recettori del TNFĮ/TNFĮ, espresso dai prosteoclasti, e il suo ligando è espresso dalle cellule stromali del midollo osseo. La risposta a questa interazione tra le due molecole induce la differenziazione del prosteoclasto in osteoclasto. Questo meccanismo interattivo viene invece bloccato dalla presenza dell’OPG che agisce come molecola recettoriale competitrice per il legando di RANK, inibendo la formazione dell’osteoclasto. Gli osteoblasti invece si differenziano dalle cellule stromali del midollo osseo in risposta all’attivazione del fattore di trascrizione specifico Cbfa1. 16 Interazione funzionale tra le cellule ossee Le cellule endoteliali sono anch’esse coinvolte nella funzione delle cellule proprie dell’osso. È stato infatti dimostrato in esperimenti in coltura in vitro che le cellule endoteliali ossee producono fattori solubili, quali gli IGF, che promuovono la crescita delle cellule osteoprogenitrici e il loro differenziamento in osteoblasti. Le cellule endoteliali rilasciano inoltre fattori chemiotattici per i precursori circolanti degli osteoclasti, tra cui gli stessi IGF, ed esprimono molecole di adesione che consentono ai precursori osteoclastici di arrestarsi e di migrare nel tessuto osseo ove sia richiesta la loro presenza. Vari tipi di leucociti e di cellule da essi derivate, tra cui i macrofagi e i linfociti T, producono fattori capaci di influenzare le cellule dell’osso. Tra questi si annoverano: l’interleuchina 1 (IL-1) e la interleuchina 6 (IL-6), che attivano gli osteoclasti, probabilmente non in via diretta ma tramite gli osteoblasti; l’interleuchina 3 (IL-3), che promuove la differenziazione dei preosteoclasti in osteoclasti maturi; il tumor necrosis factor (TNF) e le prostaglandine (PG), anche essi ritenuti essere induttori del riassorbimento osseo. È stato dimostrato che nella matrice ossea mineralizzata rimangono incarcerati numerosi fattori di crescita prodotti dalle cellule ossee o di provenienza plasmatica, tra cui il TGF-ß e gli IGF osteoblastici, il platelet-derived growth factor (PDGF), l’epidermal growth factor (EGF), il fibroblast growth factor (FGF), etc. Questi fattori si liberano quando gli osteoclasti riassorbono la matrice ossea ed agiscono sulle cellule dell’osso, promuovendo attività 17 biologiche diverse, quali ad esempio proliferazione e differenziamento degli osteoblasti ed angiogenesi. Durante il ciclo del rimodellamento, quindi, le cellule vecchie e danneggiate sono rimosse dagli osteoclasti tramite la secrezione di acidi ed enzimi proteolitici sulla superficie ossea. Successivamente gli osteoclasti migrano dall’area sottoposta all’assorbimento e vanno in apoptosi. Sono poi rimpiazzati dagli osteoblasti che depongono nuova matrice ossea in forma osteoide. Durante la formazione dell’osso, parte degli osteoblasti assume matrice ossea e si differenzia in osteociti che abbiamo già detto essere collegati tra loro tramite lunghi processi citoplasmatici che corrono attraverso i canali della matrice ossea. Tutti i fattori locali che sono stati appena trattati, tra cui fattori di crescita, citochine, prostaglandine, influenzano anche l’espressione di RANK, del suo ligando e dell’OPG, molecole che insieme formano un sistema paracrino che gioca un ruolo essenziale nella regolazione ossea,in particolare osteoclastica,in differenziazione e funzione. Ciclo del rimodellamento osseo 18 1.1.5 Metabolismo del tessuto osseo Il tessuto osseo è un tessuto dinamico che si rimodella costantemente durante tutto l’arco della vita. Inoltre, come ricordato, esso costituisce una riserva per il calcio, il magnesio, il fosforo, il sodio e altri ioni necessari alle funzioni omeostatiche dell’organismo. Svariati fattori, prevalentemente di natura endocrina e metabolica, sono in grado di influenzarne la formazione dell’osso. Il paratormone (PTH), prodotto dalle cellule principali delle ghiandole paratiroidi, è secreto in risposta a bassi livelli di calcemia (v.n. 8,8-10,4 mg/dl). Il PTH agisce su tre organi bersaglio: x a livello osseo promuove la mobilizzazione del calcio dallo scheletro con vari meccanismi: stimola gli osteoclasti ed aumenta il loro numero; stimola gli osteociti a secernere enzimi proteolitici, che provocano il riassorbimento della matrice proteica; probabilmente inibisce gli osteoblasti; x a livello renale diminuisce il riassorbimento del fosforo da parte del tubulo prossimale, riducendo così la fosforemia; aumenta inoltre il riassorbimento di calcio a livello del tubulo distale; x a livello intestinale svolge un’azione indiretta in quanto stimola l'idrossilazione renale della 25(OH)D3: si ottiene così la 1,25 (OH)2D3, il metabolita più attivo della vitamina D, che agendo a livello intestinale aumenta l'assorbimento di calcio e fosforo. In definitiva la sua azione determina: - ipercalcemia e ipercalciuria - iperfosforemia e iperfosfaturia. La calcitonina, prodotta dalle cellule C, o parafollicolari, della tiroide, è secreta in risposta ad alti livelli di calcemia. Essa agisce a due livelli: x a livello osseo: inibisce il riassorbimento periosteocitario, diminuisce il numero e l'attività degli osteoclasti, previene l'osteolisi indotta dal PTH; x a livello renale: determina un aumento della clearance renale del calcio e del fosforo. determinando: - ipocalcemia e ipocalciuria. 19 L’ormone della crescita (growth hormone, o GH), prodotto dall’ipofisi, agisce sul fegato inducendovi la produzione di fattori di crescita detti somatomedine, i quali stimolano la crescita ed il metabolismo dei condrociti della cartilagine proliferante, promuovendo così l’accrescimento dimensionale delle ossa. Difetti congeniti di produzione di ormone della crescita provocano il cosiddetto nanismo ipofisario, mentre l’eccesso di produzione di questo ormone durante lo sviluppo porta alla condizione opposta, nota come gigantismo. L’ormone della crescita agisce anche promuovendo il riassorbimento di calcio a livello renale, contribuendo pertanto all’omeostasi plasmatica di questo ione. Gli ormoni tiroidei (tri- e tetraiodiotironina, T3 e T4), prodotti dalle cellule follicolari della tiroide, sono capaci di promuovere il metabolismo cellulare e pertanto giocano un ruolo importante per stimolare la deposizione e la maturazione dell’osso. Anomalie di produzione di ormoni tiroidei durante lo sviluppo portano a malformazioni ossee di vario grado, fino al cosiddetto nanismo tiroideo. Gli ormoni sessuali (estrogeni, testosterone) hanno un’azione positiva sulla differenziazione e sulla attività funzionale degli osteoblasti, promuovendo il turn-over osseo. Gli estrogeni in particolare sembrano essere coinvolti nei processi di deposizione ossea; tra l’altro, essi controllano l’espressione renale dell’enzima cha attiva la vitamina D e sarebbero in grado di promuovere la morte cellulare programmata degli osteoclasti, come emerge da esperimenti in vitro. Pertanto influenzano l’omeostasi calcica agendo a diversi livelli: 1- Sull’osso, sia riducendo la sensibilità degli osteoclasti al PTH e dunque minimizzando l’attivazione dei processi catabolici a livello delle singole unità di rimodellamento,sia esaltando la produzione delle fibrille collagene mediata dagli osteoblasti 2- Sulla tiroide, rendendo le cellule C più sensibili alla ipercalcemia e stimolando la produzione di Calcitonina. 3- A livello intestinale, promuovendo un migliore assorbimento calcico mediato dal PTH. In situazione di carenza di estrogeni, quindi, è evidente che si assiste ad un aumentato assorbimento osseo, con aumento dei livelli di Calcio circolante, riduzione della secrezione di PTH, riduzione della produzione di 1,25(OH)2D e conseguente riduzione dell’assorbimento intestinale di Ca2+. Questi reperti potrebbero contribuire a spiegare la ragione per cui dopo la menopausa, venendo meno l’azione di stimolo sugli osteoblasti e di 20 freno sugli osteoclasti, si ha una progressiva riduzione della massa ossea con l’eventuale affermazione di un quadro clinico di osteoporosi. La vitamina D è una vitamina liposolubile che viene in parte assunta con la dieta (vitamina D2, o ergocalciferolo) ed in parte sintetizzata endogenamente a partire da un precursore steroideo, il 7-deidrocolesterolo. Per vitamina D si intende un gruppo di composti di natura steroidea che a tutti gli effetti possono essere inquadrati come ormoni. Le principali vitamine D sono: x la vitamina D2, o ergocalciferolo, che deriva dall'ergosterolo, composto di origine vegetale; x la vitamina D3, o colecalciferolo, che deriva dal 7-deidrocolesterolo (7DHC), composto di origine animale. La vitamina D2 si ottiene per irradiazione dell'ergosterolo e va incontro alle stesse modificazioni metaboliche della vitamina D3. I fabbisogni quotidiani di vitamina D sono di 400-800 unità nell'infanzia e di 100 unità nella vita adulta. In un recente studio è stato evidenziato come i livelli di 25(OH)D3 e 1,25(OH)2D3 non diminuiscono con l'età in entrambi i sessi e non subiscono variazioni stagionali. L'apporto alimentare è scarso, l'assorbimento intestinale avviene a livello digiuno-ileale, dove la vitamina D viene incorporata da piccole micelle di grasso e di sali biliari. Per essere attiva la vitamina D3 deve essere idrossilata: x prima a livello epatico, con formazione del 25 idrossi-colecalciferolo, 25(OH)D3, ad opera dell'enzima mitocondriale epatico 25-alfa-idrossilasi: x quindi a livello renale con formazione del 1,25 di-idrossi-colecalciferolo, 1,25(OH)2D3, ad opera dell'enzima mitocondriale renale 1-alfa-idrossilasi: questo enzima è sensibile all'ipocalcemia, all'ipofosfatasemia e ad un aumento della concentrazione del PTH. La vitamina D3 agisce a tre livelli: x a livello osseo determina un aumento della percentuale di matrice ossea calcificata; x a livello intestinale aumenta l'assorbimento di calcio e fosforo; x a livello renale diminuisce l'escrezione di calcio e fosfati. 21 Processo di formazione della vitamina D attiva La vitamina C è una vitamina idrosolubile che agisce come importante coenzima per la sintesi del collagene. Essa è un cofattore per gli osteoblasti impegnati nella biosintesi del collagene della matrice ossea. Deficit gravi di vitamina C, come avviene nello scorbuto, portano a produzione insufficiente di collagene con conseguente ritardo nella crescita e difficoltà nella riparazione delle fratture. La vitamina A è una vitamina liposolubile capace di agire sugli osteoblasti riducendone la proliferazione ed incrementando l’espressione dei recettori per la vitamina D. Essa agisce pertanto come fattore differenziante per gli osteoblasti. La carenza di questa vitamina provoca ritardo nella crescita delle ossa. Per contro, un suo eccesso causa la precoce chiusura delle epifisi con arresto prematuro della crescita. L’ossigeno molecolare sembra giocare un ruolo importante per la formazione dell’osso non solo in quanto indispensabile per la fosforilazione ossidativa, ma anche come fattore di stimolo sulle cellule ossee. È degno di nota che, in ogni tipo di ossificazione, la differenziazione delle cellule mesenchimali in cellule osteoprogenitrici e poi in osteoblasti 22 avviene in stretta concomitanza con la genesi di nuovi vasi sanguigni, che possono assicurare una elevata pressione parziale di ossigeno nelle sedi dove avviene la formazione di osso. Questo può spiegare l’effetto benefico sull’osteogenesi prodotto dalla ossigenoterapia iperbarica, che vede tra le sue indicazioni d’uso i ritardi di consolidamento delle fratture e l’osteoporosi. Il monossido di azoto (NO) è un radicale gassoso prodotto da molte cellule, incluse le cellule endoteliali. Recentemente, è stato dimostrato che esso è capace di indurre la differenziazione degli osteoblasti. È pertanto verosimile che il ruolo dell’endotelio vasale nei processi di osteogenesi possa essere almeno in parte mediato tramite la liberazione di monossido di azoto (Faglia G, 2002). 23 Produzione Ormone paratiroideo (PTH), peptide 1,25(OH)2D3 (Vitamina D), steroide Calcitonina, peptide Origine Cellule principali delle ghiandole paratiroidi Tubulo prossimale renale Cellule parafollicolari della ghiandola tiroide Fattori stimolanti Ipocalcemia Aumento di PTH Ipocalcemia Ipofosfatemia Ipercalcemia Fattori inibenti Ipercalcemia Aumento di Vitamina D Diminuzione di PTH Ipercalcemia Iperfosfatemia Ipocalcemia Intestino Nessun effetto diretto Azione indiretta: stimola l'idrossilazione renale della Vitamina D Stimola notevolmente l'assorbimento di Calcio e Fosforo ? Rene Stimola la 25 alfaidrossilasi Aumenta il riassorbimento del Calcio filtrato Aumenta l'escrezione urinaria di Fosforo ? ? Osso Stimola il riassorbimento osteoclastico Stimola il reclutamento dei preosteoclasti Stimola notevolmente il riassorbimento osteoclastico Inibisce il riassorbimento osteoclastico (?) azione fisiologica normale nell’uomo (?) Ipercalcemia Ipofosfatemia Ipercalcemia Iperfosfatemia Ipocalcemia (transitoria) Organi bersaglio Effetto totale Concentrazioni di Calcio e Fosfati nel siero e nel liquido extracellulare Azioni degli ormoni mineraloattivi 24 1.2 L’osteoporosi L’osteoporosi è una condizione caratterizzata da riduzione della massa ossea e alterazione della sua micro-architettura, tali da comportare un aumento della fragilità ossea e della suscettibilità alle fratture. La massa ossea presenta variazioni fisiologiche in rapporto all’età e al sesso; possiamo per comodità espositiva e didattica considerare alcune fasi: - una fase di incremento, che segue a grandi linee l'andamento della crescita staturale (anche se ha una durata maggiore): caratterizza le prime due decadi di vita; ha il momento di massima ascesa durante l'adolescenza; è analoga nei due sessi, anche se a partire dalla pubertà c'è una differenziazione progressiva. - un periodo di consolidamento, caratterizzato da una continua, lenta ascesa fino ai 25-40 anni di età, durante il quale si raggiunge il cosiddetto "picco di massa ossea", cioè la massima quantità d'osso relativa a ciascun individuo: la differenza tra i due sessi è a questo punto evidente,essendo il valore raggiunto nel sesso maschile maggiore di circa il 30%. - da questo momento in poi la massa ossea si riduce ed inizia la fase di decremento, che prosegue per tutta la vita. Qui le differenze in base al sesso sono ancora più marcate; nelle donne, infatti, la diminuzione: è più precoce e coincide con la menopausa, allorché viene meno l’increzione estrogenica sembra assumere un andamento spezzato, secondo un modello lineare (prima della menopausa)/esponenziale inverso (dopo la menopausa) (figura 10). Per i suddetti motivi (“picco” più basso, perdita post-menopausale accelerata, maggiore durata della vita media) l’osteoporosi interessa prevalentemente il sesso femminile. 25 Fig.10: Curva di discesa dei valori di contenuto minerale osseo a livello appendicolare in femmine (a) e maschi (b) in rapporto all'età cronologica: valori dei singoli soggetti e valore medio. (c) Curva di perdita del contenuto minerale osseo dell'avambraccio in 162 donne sane sia in pre- che in post-menopausa. Dopo i 50 anni il grafico è in relazione all'età aggiustata per la menopausa. 1.2.1 Epidemiologia È la più comune malattia metabolica dell’osso: in base a studi condotti negli USA su ampie casistiche, ne sono affetti il 25% delle donne e il 18-20% degli uomini al di sopra dei 70 anni. In Italia secondo l’ESOPO (Epidemiological Study On the Prevalence of Osteoporosis), vasto studio epidemiologico condotto nel 2001 su 16000 soggetti in 83 centri specialistici sparsi su tutto il territorio, il 23% delle donne di oltre 40 anni e il 14% degli uomini con più di 60 anni è affetto da osteoporosi. Le indicazioni che emergono sono abbastanza lontane da quelle fornite dalla fotografia scattata dall’ultima indagine ISTAT, secondo cui si dichiara ammalato di questa patologia solo il 4,7% della popolazione totale e il 17,5% delle persone con oltre sessantacinque anni. Questa discrepanza si spiega con il 26 fatto che la malattia è molto spesso asintomatica, ma certo sottolinea anche l’importanza di una diagnosi puntuale. L’osteoporosi, insieme ad altre patologie croniche osteo-articolari, è stata messa al primo posto nelle priorità sanitarie dell’OMS per la decade 2000-2010. 1.2.2 Fisiopatologia La perdita di tessuto osseo è un fenomeno fisiologico connesso con l’invecchiamento; come ricordato, a partire dai 40 anni la massa ossea inizia a ridursi e si calcola che tale riduzione possa raggiungere il 50% a livello dei corpi vertebrali e il 25-30% a livello delle ossa lunghe in un’età compresa tra i 60 e 70 anni. Questo fenomeno avviene in misura maggiore nelle donne dopo la menopausa: la riduzione della densità minerale ossea a carico delle vertebre inizia 1-2 anni prima della completa cessazione del ciclo mestruale. Il 30% della massa ossea trabecolare viene persa nei primi 15-20 anni dopo la menopausa. La maggiore riduzione della densità minerale ossea avviene nei primi 5 anni, intorno al 2%; dal quinto anno la perdita è dell’1% annuo. I soggetti con una riduzione maggiore del 3% per anno hanno forte rischio di sviluppare osteoporosi, e sono circa il 25% delle donne in post-menopausa (Figg.11-12) Quello della massa ossea globale è un valore importante: infatti nei soggetti con una massa adeguata i fenomeni osteoporotici saranno meno gravi che in quelli con una massa ossea scarsa. Si è visto così che in soggetti di razza nera la massa ossea raggiunge valori superiori piuttosto che in soggetti di razza bianca o gialla, nei maschi piuttosto che nelle femmine, e appare deficitaria nei soggetti ipogonadici e malnutriti. Alcuni studi ipotizzano che questi deficit siano in relazione ai livelli di calcitonina, in quanto i livelli circolanti di tale ormone sono più bassi nella donna che nell’uomo, la risposta degli stimoli secretivi decresce in entrambi i sessi con l’età e appare particolarmente deficitaria nei soggetti con osteoporosi. Altri autori ritengono più rilevante il ruolo degli estrogeni. Questi, dopo la cessazione della funzione gonadica, si riducono di livello nel sangue. Poiché gli estrogeni sono in grado di inibire i processi di riassorbimento osseo agendo sugli osteoclasti sia per azione diretta sui recettori cellulari specifici, sia per azione mediata stimolando la secrezione di calcitonina e inibendo la produzione di alcune citochine, la carenza di estrogeni determina un aumento dell’attività osteoclastica e quindi del turnover osseo. Ne deriva un incremento del flusso di 27 calcio dal comparto scheletrico ai liquidi extracellulari, che determina un’inibizione del PTH e a cascata dell’attivazione renale della vitamina D e quindi dell’assorbimento intestinale di calcio, mentre l’escrezione renale di calcio aumenta. Il risultato finale è quindi uno spostamento dell’equilibrio del bilancio calcico che diviene negativo, con progressivo depauperamento del patrimonio scheletrico. Tra gli altri fattori concausali nella patogenesi dell’osteoporosi appare rilevante l’immobilizzazione, e quindi una vita sedentaria, e una dieta eccessivamente acida. Una dieta eccessivamente ricca di proteine, infatti, potrebbe condurre ad una demineralizzazione ossea nel tentativo di tamponare tale carico acido. La patogenesi dell’ osteoporosi è pertanto multifattoriale e include l’intervento di fattori ormonali, nutrizionali, fisici, genetici, costituzionali. Alcuni fattori possono essere considerati determinanti in senso patogenetico, mentre altri possono essere considerati fattori di rischio della malattia, e quindi occasionali e non strettamente legati alla sua patogenesi. Fig.11 Osso normale Fig.12 Osso osteoporotico 1.2.3 Eziologia L’osteoporosi si divide in primitiva, che comprende una forma post-menopausale (tipo I), una forma senile (tipo II) e una forma idiopatica (giovanile e dell’ adulto) e secondaria, che riconosce molteplici cause L’80% dei pazienti è portatore della forma senile o postmenopausale; il restante 20% è interessato da forme secondarie. a) Forme primitive Osteoporosi tipo I 28 L'osteoporosi di tipo I colpisce caratteristicamente donne nella postmenopausa in un'età compresa tra 50 e 65 anni ed ha come elemento distintivo un'importante perdita di osso trabecolare, con un risparmio relativo dell'osso corticale. I disturbi più comuni sono i crolli vertebrali e le fratture dell'avambraccio. È presente un quadro di ipoparatiroidismo, forse compensatorio dell'aumentato riassorbimento osseo. Osteoporosi tipo II L'osteoporosi di tipo II colpisce una notevole percentuale di soggetti di età superiore a 75 anni di entrambi i sessi. Nell’individuo anziano il riassorbimento osseo è aumentato, mentre la deposizione sembra mantenersi costante. Si ha perdita sia di osso trabecolare che corticale e sono quindi frequenti le fratture del collo del femore, dell'omero prossimale, della tibia e della pelvi. I livelli di paratormone sono, in genere, leggermente più elevati che di norma. Osteoporosi idiopatica L’osteoporosi del giovane adulto sembra invece essere caratterizzata da un deficit relativo dell’ attività neoformativa osteoblastica, la cui causa resta a tutt’oggi ignota. b) Forme secondarie. Le forme secondarie di osteoporosi sono le meno frequenti. L’eccesso di corticosteroidi sia di origine esogena sia endogena induce osteoporosi, attraverso il duplice meccanismo di ridotta formazione e aumento del riassorbimento dell’osso. I glicocorticoidi infatti potenziano l’azione del paratormone e dell’1,25(OH)2D3, a livello osseo deprimono la sintesi del collagene e infine riducono l’assorbimento intestinale del calcio con un meccanismo indipendente della vitamina D. L’insufficienza gonadica, quando è presente fin dall’infanzia, provoca un minore sviluppo dello scheletro e conseguentemente una minore massa ossea; le probabilità che con l’età si raggiunga un grado significativo di osteoporosi sono rilevanti. Ci sono anche alcune malattie ereditarie del connettivo che si accompagnano a tale forma morbosa. Tra queste, la sindrome di Marfan, l’omocisteinuria e l’osteogenesis imperfecta, forma particolare di osteoporosi geneticamente determinata di cui esistono varianti dominanti e recessive. 29 Altre condizioni patologiche che possono associarsi alla riduzione di massa ossea sono epatopatie croniche, cirrosi epatica, sindrome di malassorbimento, gastroresezione, tireotossicosi e sindrome di Cushing. Infine, ricordiamo alcuni trattamenti farmacologici prolungati: terapie con L-T4, corticosteroidi, agenti anticonvulsivanti. Questi fattori possono contribuire a determinare un quadro osteoporotico in qualsiasi momento della vita del paziente. 1.2.4 Quadro clinico È importante ricordare che l’osteoporosi viene definita “malattia” quando si verificano fratture spontanee per traumi anche lievi o quando la massa ossea, valutata con metodica mineralometrica, risulta inferiore ad un valore soglia. In base alle indicazioni formulate dall’OMS una riduzione densitometrica, misurata con tecnica DXA (Double X-ray Absorptiometry = Assorbimetria a doppio raggio X), di almeno 2,5 deviazioni standard rispetto al risultato medio di giovani adulti sani (T-score < -2,5 = valore soglia convenzionalmente definito come per diagnosticare la presenza di osteoporosi) è suggestiva di insorgenza della patologia e si associa ad un significativo aumento del rischio di frattura nelle donne in post-menopausa (Fig. 10). Le fratture dovute ad osteoporosi (femore, vertebre ecc.) si associano a compromissione dello stato di salute, scadimento della qualità di vita e diminuzione dell’attesa di vita. Benché l’osteoporosi sia una malattia ossea sistemica, le sue manifestazioni cliniche sono più rilevanti a livello della colonna vertebrale e della pelvi. Talora interessa il polso, l’anca, l’omero e la tibia. Il primo sintomo soggettivo è il dolore, dovuto alle fratture che si verificano per piccoli traumi o anche senza trauma apparente, generalmente alla schiena con irradiazione segmentaria nel territorio di distribuzione della radice nervosa interessata. Tale dolore è di solito causato da collasso di un corpo vertebrale soprattutto a livello dorsale basso lombare, e può essere trasmesso anteriormente a fascia. È caratteristicamente acuto e la sua comparsa può essere generalmente collegata anamnesticamente ad uno sforzo brusco o ad un trauma; può simulare un dolore toracico di origine cardiaca o pleurica in caso di fratture dorsali, mentre quelle lombari possono provocare per alcuni giorni un quadro di ileo paralitico. È un dolore esacerbato dai movimenti e dalla manovra di Valsalva. Quando 30 diversi corpi vertebrali vengono interessati da fratture, il rachide subisce una tipica deformazione in cifosi dorsale a grande arco, mentre lo spazio a disposizione dei visceri si riduce a seguito della riduzione di altezza dei corpi vertebrali del tratto lombare, determinando una spinta verso l’alto sul diaframma, disturbando così l’efficienza della meccanica respiratoria. In alcuni casi le ultime coste vengono a raggiungere e toccare la cresta iliaca, aggiungendo un’ulteriore causa di dolore scheletrico. La semeiotica clinica della frattura vertebrale in fase acuta è caratterizzata soprattutto dalla vivace dolorabilità alla percussione dell’apofisi spinosa della vertebra interessata e talora anche di quelle contigue, segno che ne permette la diagnosi differenziale rispetto alle rachialgie di altra origine. 1.2.5 Esami diagnostici e diagnosi differenziale L’esame radiologico, pur essendo una tecnica di esame fondamentale per lo studio dell’apparato scheletrico, dotato di naturale radio-opacità legata alla presenza di un’alta concentrazione di sali minerali ad elevato numero atomico, non consente di diagnosticare precocemente le malattie ossee di tipo metabolico. La valutazione della massa ossea con la densitometria ha permesso invece di migliorare sensibilmente la diagnostica di queste. Attualmente sono disponibili apparecchi a raggi X (Densitometria a raggi X a doppia energia-DXA). Le sedi di esame sono gli spondili lombari L1-L4, il collo femorale (sedi queste ad elevata componente trabecolare) e l’intero scheletro. Il risultato della misurazione è espresso in g/cm2, come densità minerale ossea (BMD) o in g/cm come contenuto minerale calcico (BMC). Il valore della misurazione viene quindi confrontato, con una curva di normalità, composta da una popolazione sana in età giovanile (T score = unità di misura rappresentata dalla differenza, espressa in deviazione standard, tra valore osservato di BMD e valore medio di BMD dei giovani adulti) e viene così calcolato automaticamente dal computer, il numero di deviazioni standard (DS) del soggetto in esame, rispetto alla media della popolazione di riferimento. Il T score si riduce con la riduzione della massa ossea. Pertanto, si parla appunto di osteoporosi se questo valore è inferiore a -2,5DS. I soggetti normali hanno un T score uguale o superiore a -1 (Fig.13). La massa ossea si misura con un test, la mineralometria ossea computerizzata (MOC), che si esegue alla colonna lombare o al femore e verifica se l'osso è normale, se 31 c'è osteopenia (inizio di demineralizzazione ossea) o osteoporosi conclamata (demineralizzazione ossea avanzata). Quando fare la MOC? Nelle donne post-menopausa, se ci sono fattori di rischio come: fratture per piccoli traumi; menopausa precoce; osteoporosi nei genitori; dieta povera di calcio. Anche la tomografia computerizzata può dare informazioni sulla densità ossea vertebrale, anche se i dati ottenuti possono essere talvolta sottostimati per la possibile interferenza del tessuto adiposo midollare. La metodica ha tuttavia costi elevati ed espone il paziente a livelli elevati di radiazioni. La scintigrafia ossea viene eseguita usando generalmente come marcatore il metilendifosfonato marcato con 99Tc. La misurazione della captazione del tracciante dopo 24 ore consente di ottenere utili informazioni sull’esistenza di aree di accelerato turnover osseo, riconoscibili per una iperfissazione del tracciante. Viene utilizzata per casi di osteoporosi a turnover elevato. L’esame istologico dell’osso si basa sull’agobiopsia a livello della cresta iliaca. Questa indagine riveste importanza soprattutto nella diagnosi differenziale con l’osteomalacia, affezione caratterizzata da inadeguata mineralizzazione della matrice organica dello scheletro adulto, simile clinicamente all’osteoporosi ma caratterizzata però da ipofosforemia, ridotti livelli di vitamina D ed aumento della fosfatasi alcalina. Si ricorre all’agobiopsia anche per la diagnosi differenziale con neoplasie a localizzazione ossea, soprattutto il mieloma multiplo, leucemie e linfomi nonché le metastasi da carcinoma. In molti casi di mieloma tuttavia la diagnosi differenziale è facilitata dai reperti sierologici (ipersedimetria, anemia, alterazioni dell’elettroforesi, proteinuria di Bence-Jones). Tra gli esami biochimici i livelli di calcemia, fosforemia e fosfatasi alcalina sono generalmente nel range di normalità. Un aumento temporaneo di fosfatasi alcalina può evidenziarsi in concomitanza a una frattura. L’OH-Pr urinaria, indice poco specifico del riassorbimento osseo, può essere lievemente aumentata, specie se il turnover osseo è molto aumentato. I livelli di osteocalcina, marker dell’attività osteoblastica, come quelli dei diversi marker specifici del riassorbimento osseo, sono generalmente ai limiti superiori della norma, risultando talvolta aumentati nelle forme a turnover estremamente elevato. Si ricorre agli esami biochimici anche per fare diagnosi differenziale con il morbo di Paget, 32 una patologia cronica dello scheletro adulto che si presenta sempre in modo focale, caratterizzata dall’aumento del riassorbimento osteoclastico a cui fa seguito una reazione riparativa ossea o fibrosa, disordinata e riccamente vascolarizzata. In questa patologia abbiamo alti livelli di fosfatasi alcalina. PRINCIPALI FATTORI DI RISCHIO PER L'OSTEOPOROSI Genetici o costituzionali (non modificabili) Sesso (femminile) Età Familiarità Razza (bianca o asiatica) Menarca tardivo e/o menopausa precoce Stile di vita e aspetti nutrizionali (modificabili) Nulliparità Basso apporto alimentare di calcio Fumo Carenza di vitamina D Abuso di sostanze alcoliche e caffeina Basso peso corporeo Ridotta attività fisica (sedentarietà) Immobilizzazione prolungata Farmaci (corticosteroidi, anticonvulsivanti) 33 Giovanile Idiopatica dell'età adulta Osteoporosi primitive Post-gravidica Post-menopausale Senile Osteoporosi secondarie sistemiche Malattie endocrine Cushing, ipertiroidismo, iperparatiroidismo etc. Malattie gastrointestinali Malassorbimenti, gastrectomia, epatopatie etc. Malattie ematologiche mieloma multiplo, leucemie, etc. Malattie del tessuto connettivo osteogenesi imperfetta, Sindrome di Marfan etc Malattie reumatiche artrite reumatoide, altre malattie del collageno Da farmaci Corticosteroidi, antiepilettici, eparina etc Da ridotto stimolo meccanico Post-traumatiche Osteoporosi secondarie distrettuali Da disuso Algo-neuro-distrofie Classificazione delle osteoporosi 34 Postmenopausale (Tipo I) Senile (Tipo II) Da 55 a 75 anni > 70 anni (F); > 80 anni (M) 6/1 2/1 Attività osteoclastica aumentata, maggior riassorbimento Attività osteoblastica diminuita, diminuita deposizione Principalmente trabecolare Corticale e trabecolare Rapida, di breve durata Lenta, di lunga durata Fattori epidemiologici Età Rapporto in base al sesso (F/M) Fisiologia o metabolismo dell'osso Patogenesi del disaccoppiamento Perdita ossea totale Velocità della perdita ossea > 2 deviazioni standard sotto la inferiore alla norma (riferita all'età ed norma al sesso) Densità ossea Segni clinici Vertebre (schiacciamento), polso, anca (intracapsulare) Vertebre (cunei multipli), parti prossimali dell'omero e della tibia, anca (extracapsulare) Perdita dei denti Cifosi dorsale Calcemia Normale Normale Fosforemia Normale Normale Normale (aumentata in presenza di fratture) Normale (aumentata in presenza di fratture) Aumentata Normale Diminuita Aumentata Secondariamente diminuita per la diminuzione di paratormone Primitivamente diminuita per la diminuita risposta enzimatica Diminuito Diminuito Sedi di frattura Altri segni Dati di laboratorio Fosfatasi alcalina Calciuria Attività del paratormone Conversione renale della Vit. D: da 25(OH)D3 a 1,25 (OH)2D3 Assorbimento gastrointestinale di calcio Caratteristiche dei due tipi principali di osteoporosi primitive 35 Fig. 13 Criteri OMS per la diagnosi di osteoporosi 1.2.6 Approccio terapeutico Le forme secondarie di osteoporosi rispondono al controllo della malattia di base. In tutti gli altri casi la prevenzione è molto importante: il rischio di osteoporosi può essere ridotto aumentando il valore massimo di massa ossea in età giovanile o riducendo le perdite ossee successive. Quindi è bene incoraggiare l’esercizio fisico,che è in grado di migliorare il tenore calcico osseo. Evitare le abitudini che facilitano il processo osteoporotico, come il fumo e l’abuso di alcool, nonché prestare attenzione nell’assunzione di farmaci che inducono perdite di calcio. Si dovrebbe mantenere un adeguato apporto di calcio: la dose raccomandata è di 1200-1500 mg al giorno negli adolescenti e 800 mg negli adulti. Negli anziani e nei soggetti con malassorbimento di calcio può essere utile associare la vitamina D (800 U al dì). Nelle forme acute occorre il riposo a letto, evitando però un’immobilizzazione prolungata e tenere al caldo la zona interessata, nonché l’uso di analgesici a dosi adeguate. Nella fase di riabilitazione possono essere vantaggiosi la fisioterapia e l’uso di un corsetto rigido. La terapia di fondo dell’osteoporosi primitiva si basa sull’uso di farmaci di diverse famiglie, ma ancora non è del tutto standardizzata. 1.2.7 Farmaci che inibiscono il riassorbimento osseo a) ESTROGENI. Agiscono direttamente sull’osso attraverso recettori ad alta affinità. Se la terapia è iniziata poco dopo la menopausa, è in grado di ridurre in modo significativo la perdita ossea accelerata che si verifica in tale fase della vita delle donne: si stima che 36 possa ridurre del 50% l’incidenza di fratture correlate all’osteoporosi. Se la terapia con estrogeni è iniziata quando la patologia è già in atto,è ancora efficace seppur in minor misura. Gli antiestrogeni (TAMOXIFENE) hanno effetto antiestrogeno sulla mammella, ma effetti estrogenaci a livello osseo e sui lipidi plasmatici. b) CALCITONINA. Ormone peptidico a singola catena a 31 aminoacidi, inibisce il riassorbimento osseo legandosi ad un recettore specifico sugli osteoclasti ed inibendone l’attività. Ha proprietà analgesiche e pochi effetti collaterali. È in grado di incrementare la massa ossea vertebrale in donne con osteoporosi postmenopausa soprattutto quando è presente un turn-over osseo elevato; sembra tuttavia meno efficacie degli estrogeni nel ridurre la perdita di osso corticale. c) BIFOSFONATI. Sono analoghi del pirofosfato con una potente azione inibente sul riassorbimento osseo. I bifosfonati vengono assorbiti su cristalli di idrossiapatite nelle ossa, rallentando così sia la velocità di crescita sia il dissolvimento, e riducendo il maggior tasso di ricambio osseo associato. Hanno un ruolo importante nella profilassi e nel trattamento dell’osteoporosi, anche di quella indotta da corticosteroidi; l’acido alendronico e risedronico (come sale sodico) sono considerati i farmaci di scelta per queste condizioni mentre l’acido etidronico (come sale disodico) può essere impiegato se i primi non sono adatti o non sono tollerati. I bifosfonati sono impiegati anche nella terapia della malattia di Paget e dell’ipercalcemia neoplastica. L’agente di questa famiglia più studiato è l’acido etidronico (come sale disodico) Bisogna però considerare che il dosaggio di questo farmaco che inibisce il riassorbimento, può alterare anche la mineralizzazione ossea la mineralizzazione se viene somministrato in modo continuato o ad alte dosi (per esempio nel trattamento della malattia di Paget). Si preferisce, quindi, somministrarlo in modo intermittente per due settimane ogni tre mesi, arricchendo la dieta con dei supplementi di calcio nei periodi intervallari (Rugarli C, 2005). 1.2.8 Vitamine D, B6, K e metabolismo osseo Numerosi sono i fattori sia di tipo endocrino che nutrizionale interessati allo sviluppo e al mantenimento dello stato di efficienza del tessuto osseo. Tra i primi il paratormone e la calcitonina, che essendo responsabili della omeostasi del calcio e del fosforo, modulano i processi nei quali questi due elementi sono coinvolti. 37 Tra i secondi, oltre al calcio, fosforo e magnesio che entrano nella costituzione della componente minerale dell’osso e lo zinco e il manganese interessati alla stabilizzazione e quindi al mantenimento del grado di mineralizzazione del tessuto, sono da ricordare le proteine che forniscono gli aminoacidi per la formazione della componente organica ed alcune vitamine che, in qualità di cofattori, intervengono nei processi di questi nutrienti. Una posizione di primaria importanza è occupata dalla vitamina D3 le cui funzioni sono note da tempo. Questa vitamina nella sua forma attiva, la diidrossi vitamina D3 (1,25(OH)2 colecalciferolo) agisce come un tipico ormone steroideo; infatti una volta fissata al suo specifico recettore presente nelle cellule bersaglio, penetra nel nucleo e va a stimolare la sintesi del mRNA che codifica la proteina indicata con il termine “Calcium Binding Protein” (CaBP) (Kumar R, 1986). Questa proteina è la diretta responsabile degli effetti biologici che la vitamina D esplica sul metabolismo del calcio e secondariamente del fosforo nei suoi tre organi bersaglio: a livello dell’intestino agendo da “carrier” favorisce il trasporto del calcio attraverso la membrana e quindi il suo assorbimento; a livello del rene è implicata nel riassorbimento del fosforo e del calcio; a livello dell’osso é responsabile del bilanciamento dei processi di formazione e di riassorbimento del tessuto e quindi del mantenimento della sua integrità quali e quantitativa; agendo sugli osteoblasti ne provoca infatti il loro differenziamento promuovendo il processo di mineralizzazione mentre agendo sugli osteoclasti provoca il riassorbimento del tessuto (Reichel H et al, 1989). L’importanza della vitamina D nel metabolismo minerale dell’osso è dimostrata dalle gravi conseguenze che si hanno a carico di questo tessuto non solo nell’organismo in accrescimento (rachitismo) ma anche nell’adulto (osteomalacia) in seguito all’insufficiente apporto od utilizzo di essa. Un’altra vitamina che secondo le più recenti ricerche ha un ruolo importante nel metabolismo del tessuto osseo è la vitamina K1 (Vermeer C et al, 1995; Suttie JW, 1988; Olson JA, 1994). È nota da tempo la funzione antiemorragica di questa vitamina; la sua carenza provoca infatti un allungamento del tempo di coagulazione del sangue, dovuta a un’alterata sintesi di alcune proteine implicate nel processo: la protrombina, i fattori VII, IX, X, C e S. È invece un’acquisizione più recente il meccanismo attraverso il quale la vitamina agisce a livello osseo; il suo derivato idrochinonico costituisce il cofattore di un enzima miscrosomiale, la DŽ-glutammico carbossilasi, che catalizza la conversione post38 trascrizionale di alcuni residui di acido glutammico presenti nelle proteine su indicate in DŽcarbossiglutammico (GLA) (Furie B et al, 1999). Le GLA-proteine presenti nel tessuto osseo sono la GLA-proteina dell’osso (BGA), detta anche osteocalcina e la GLA-proteina della matrice (MGA). Poiché i residui GLA sono degli agenti chelanti il calcio molto efficienti si ritiene che queste proteine abbiano una funzione regolatrice nel processo di mineralizzazione dell’osso e di conseguenza anche la vitamina K1, responsabile della formazione dei GLA residui, possa essere coinvolta in questo importante processo (Price PA, 1988). Il grado di carbossilazione dell’osteocalcina circolante viene oggi considerato un test molto più attendibile per valutare lo stato vitaminico K1 di un individuo rispetto a quello basato sulla determinazione del tempo di coagulazione e/o del livello di protrombina. L’intervento della vitamina K1 nel metabolismo dell’osso non si limita alla carbossilazione di queste proteine; essa sembra interessata anche all’omeostasi del calcio intervenendo sulla sua eliminazione urinaria; inoltre inibisce la produzione di potenti agenti riassorbenti l’osso quali la prostaglandina E2 e l’interleukina 6. L’ipotesi di un intervento della vitamina K1 nel processo di ossificazione e quindi la sua azione protettiva nella genesi dell’osteoporosi è supportata da numerosi studi sia di tipo epidemiologico (Tsukamoto Y, 2004) che hanno evidenziato una maggiore incidenza di fratture in individui con bassi livelli sierici di vitamina K1 e un più elevato rischio di fratture negli individui con alti livelli sierici di osteocalcina non carbossilata, sia da studi clinici che hanno dimostrato gli effetti positivi della somministrazione di vitamina K sul grado di carbossilazione dell’osteocalcina e sulla densità ossea (Binkley NC et al, 1995). Per ottenere questi risultati sono necessarie quantità di vitamina K1 superiori a quelle per mantenere un normale tempo di coagulazione del sangue; è probabile che gli enzimi responsabili della carbossilazione delle proteine extraepatiche come la osteocalcina, abbiano verso il cofattore K un’affinità minore rispetto a quella della carbossilasi che interviene nell’attivazione post-trascrizionale dei fattori della coagulazione; da qui la necessità di averne a disposizione una quantità superiore. Infine anche la vitamina B6 è implicata nel normale sviluppo e mantenimento del tessuto osseo in quanto, come piridossal-5fosfato, interviene nella formazione della componente proteica di tale tessuto. Recenti ricerche hanno infatti evidenziato l’interessamento della 39 vitamina B6 nel metabolismo del tessuto osseo e chiarito il meccanismo o almeno uno dei meccanismi attraverso i quali la vitamina è in grado di svolgere una azione protettiva nei riguardi delle fratture ossee da osteoporosi. Già da tempo studi epidemiologici e clinici avevano dimostrato che alti livelli ematici di omocisteina, che si forma attraverso un processo di demetilazione dell’aminoacido metionina, dovevano considerarsi un importante fattore di rischio delle malattie cardiovascolari (Refsum H et al, 1998). Più recentemente è stato osservato che l’iperomocisteinemia può rappresentare un fattore di rischio delle patologie a carico del tessuto osseo e in particolare delle fratture di origine osteoporotica (Van Meurs JB et al, 2004). Un suo derivato, l’omocisteina tiolattone, provoca infatti una inibizione irreversibile della lisilossidasi, enzima chiave della formazione della struttura del collagene e di proteine fibrose in generale. Il blocco di questa attività enzimatica (Raisz LG, 2004) impedisce la modificazione posttrascrizionale a carico della lisina presente nelle catene polipeptidiche precursori della molecola del collagene e di conseguenza la formazione dei legami crociati intercatena indispensabili per la formazione della struttura conformazionale della proteina (Lubec B et al, 1996). La vitamina B6 somministrata unitamente alla vitamina B12 e all’acido folico essendo in grado di mantenere livelli normali di omocisteina nel sangue, può svolgere un’azione preventiva e/o protettiva nei confronti delle alterazioni a carico del tessuto scheletrico e quindi delle conseguenze che queste alterazioni possono provocare (McKinley MC et al, 2001). 1.3 I radicali liberi Numerosi lavori nella letteratura biomedica che suggeriscono un ruolo dello stress ossidativo in diverse patologie umane e nei processi d’invecchiamento. In molti stati patologici lo stress ossidativo non è la causa principale della malattia ma un fenomeno secondario, tuttavia non per questo meno importante. Ad esempio il danno ossidativo dei lipidi nella parete dei vasi sanguigni sembra dare un significativo contributo allo sviluppo dell’arteriosclerosi. Il danno provocato dall’ossidazione del DNA può contribuire allo sviluppo delle neoplasie e all'invecchiamento. Un’eccessiva produzione di radicali liberi probabilmente contribuisce in modo significativo al danno tessutale nell'artrite reumatoide e nelle patologie infiammatorie dell'intestino, quali il morbo di Crohn e la colite ulcerativa. Sussiste una crescente evidenza che danni ossidativi si verifichino in malattie neurodegenerative, quali il morbo di Parkinson, e nei traumi cerebrali. Le cellule possono 40 tollerare uno stress ossidativo blando, che spesso è superato grazie all’esistenza di efficenti sistemi di difesa antiossidante. Uno stress severo invece può produrre notevoli sconvolgimenti interdipendenti del metabolismo cellulare (scissioni delle eliche del DNA, aumento del calcio intracellulare, danno di trasportatori ionici di membrana e/o d’altre specifiche proteine, perossidazione di lipidi) e portare a trasformazioni della cellula o alla morte cellulare. Vi sono prove evidenti che diverse patologie, in cui è implicato lo stress ossidativo (ad es. malattie cardiovascolari e tumore), possono essere prevenute o ritardate in qualche misura modificando le abitudini alimentari, ad es. aumentando il consumo di frutta, cereali e vegetali. Ciò ha portato a formulare ipotesi interessanti sull’importanza di alcune sostanze con potere antiossidante presenti in particolari alimenti. Queste sostanze sembrano contrastare gli effetti cumulativi del danno ossidativo nell'intero corso della vita umana. Inoltre ciò spiegherebbe alcuni degli effetti benefici degli alimenti sopra citati. 1.3.1 Specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto Un insieme di molecole classificate genericamente come "specie reattive dell’ossigeno" (ROS) e "specie reattive dell’azoto" (RNS), sono continuamente generate nel corpo umano. Tali specie svolgono un ruolo fondamentale nei processi ossidativi e recenti acquisizioni hanno messo in evidenza anche il loro intervento nella regolazione di diverse funzioni fisiologiche. Le ROS, che sono state individuate da lungo tempo, comprendono non soltanto specie radicaliche, ma anche derivati dell'ossigeno non radicalici. La produzione di molte di queste specie è una conseguenza inevitabile della presenza di molecole "autossidabili" in un corpo che richiede ossigeno. Per esempio il radicale superossido (O2.-) ed il perossido di idrogeno (H2O2) possono derivare dall'ossidazione diretta di numerose biomolecole da parte dell'ossigeno. Molti composti del carbonio sono altamente suscettibili di andare incontro a fenomeni di autossidazione, in particolare i lipidi di membrana, ma anche proteine, carboidrati ed acidi nucleici. Un'altra importante sorgente di radicali dell'ossigeno è rappresentata dalle radiazioni provenienti dall'ambiente, sia naturali (radon, raggi UV, raggi cosmici ecc.) che provenienti da sorgenti artificiali. In aggiunta a questa generazione inevitabile, la produzione di alcune di queste sostanze avviene deliberatamente in vivo. Ad esempio i fagociti (neutrofili, monociti, macrofagi, eosinofili), responsabili delle risposte immunitarie dell’organismo, generano O2.-, H2O2 e (nel caso dei neutrofili) acido ipocloroso come meccanismi per eliminare gli organismi 41 estranei. Per ragioni simili possono essere generate anche RNS. Alcune RNS, come il radicale NO, sono anche utili ma tossiche se presenti in eccesso. Altre, quali il radicale del biossido di azoto (NO2.) ed il perossinitrito (ONOO-) sono probabilmente sempre dannose. Infine anche l'esposizione ad agenti tossici o inquinanti (ad es. tetracloruro di carbonio e prodotti di combustione del tabacco) può contribuire alla presenza di ROS e RNS nell'organismo. A) Radicale superossido (O2.) Può essere generato da reazioni di "autossidazione" (es. catecolamine, tetraidrofolati e flavine ridotte), per interazione dell'ossigeno respiratorio con gli elettroni che talvolta sfuggono alla catena respiratoria (in particolare nel passaggio ossidoriduttivo tra coenzima Q e citocromi) e per produzione diretta in alcune reazioni enzimatiche specifiche. Il radicale superossido ha un ruolo fondamentale nella risposta immunitaria e/o infiammatoria, è prodotto, infatti, deliberatamente dai fagociti (neutrofili, monociti, macrofagi, eosinofili) e li aiuta a inattivare virus e batteri. Sembra che venga prodotto in vivo anche da cellule diverse dai fagociti, compresi linfociti e fibroblasti. Si ritiene che il superossido prodotto da tali cellule sia anche coinvolto nelle trasmissioni intracellulari e nella regolazione della crescita. Può essere molto reattivo nel mezzo organico (membrana citoplasmatica), ma non nel mezzo acquoso e reagisce rapidamente con poche molecole. Il radicale superossido non è quindi tossico di per sé se non su alcune molecole di minor importanza. Per quanto riguarda la capacità di permeare le diverse membrane cellulari, questo radicale sembrerebbe in grado di diffondere all'interno degli eritrociti, passando attraverso il canale anionico di membrana, per essere successivamente metabolizzato. L’esistenza di bersagli sensibili all'O2.- nelle cellule umane rimane da stabilire, sebbene sembra essere in grado di inattivare il complesso NADH deidrogenasi della catena di trasporto elettronico mitocondriale. Un’eccezione alla scarsa reattività del radicale superossido è la sua rapida combinazione con il radicale NO per formare perossinitrito. B) Perossido di idrogeno (H2O2) Il perossido di idrogeno, specie non radicalica, viene generata in vivo a partire dal radicale superossido tramite una reazione non enzimatica oppure catalizzata dalla superossido dismutasi, oppure prodotto direttamente per opera di numerose ossidasi. Anch'esso è scarsamente reattivo come il precedente, ma ad elevate concentrazioni può attaccare 42 certe cellule bersaglio. In condizioni normali è rapidamente neutralizzato dall'azione delle catalasi e delle glutatione perossidasi. Il perossido di idrogeno è in grado di attraversare velocemente le membrane cellulari e di diffondere in altri distretti cellulari e tessutali, propagando così i processi degenerativi di perossidazione. Sono stati ipotizzati alcuni ruoli metabolici, esempi sono il suo utilizzo durante la biosintesi dell'ormone tiroideo e la regolazione dell'espressione genica tramite la sua influenza sul fattore citoplasmatico di trascrizione NF-KB. C) Radicale idrossile (OH-) Il radicale idrossile può formarsi, con meccanismi diversi, a partire da O2.- e H2O2 per opera di radiazioni elettromagnetiche a bassa lunghezza d'onda (es. raggi gamma) e radiazioni UV. È uno dei radicali liberi più reattivi e tossici, è in grado, infatti, di reagire e danneggiare tutte le macromolecole cellulari (proteine, carboidrati, DNA e lipidi), alterandone struttura e funzionalità e dando origine a nuovi radicali che possono propagare all'infinito i danni dei processi perossidativi cellulari. Una volta formato danneggia qualsiasi cosa si trovi nelle vicinanze e non migra quindi a distanze significative entro la cellula. D) L’Ossido Nitrico (NO) Il radicale NO è sintetizzato dalle cellule endoteliali vascolari, dai fagociti, da alcune cellule cerebrali e da molti altri tipi di cellule. Ha molte funzioni utili, è infatti un agente vasodilatatore e probabilmente un importante neurotrasmettitore, ma in eccesso è tossico: si ritiene che una sua produzione eccessiva rappresenti un importante meccanismo di danno tessutale in condizioni quali infiammazioni croniche, ictus e shock settico. È forse anche coinvolto nel killing di parassiti da parte dei macrofagi che possiedono la NO-sintasi inducibile da varie citochine e INF- . In generale è scarsamente reattivo con molecole non radicaliche, ma reagisce rapidamente con il superossido e diversi altri radicali. Un eccesso di NO è citotossico sia direttamente sia indirettamente in seguito alla formazione di ONOOE) Perossinitrito (ONOO-) È prodotto dalla reazione tra NO e O2.- e può causare un danno biologico diretto ossidando i gruppi –SH di proteine, enzimi, ecc. Inoltre a pH fisiologico può decomporsi producendo numerosi prodotti dannosi tra cui il radicale del biossido di azoto (NO2.), potente iniziatore 43 di perossidazione lipidica nelle membrane biologiche, il radicale idrossile e lo ione nitronio (NO2+), un agente attivo nella nitrazione di anelli aromatici. Il perossinitrito, formato a livello dell’endotelio vascolare, può aggravare l’arteriosclerosi esaurendo gli antiossidanti e causando la perossidazione delle LDL. Inoltre la nitrazione di aminoacidi aromatici ad opera del perossinitrito può interferire con la trasduzione del segnale cellulare. Anche il bilancio tra RNS e ROS è importante per determinare il danno tessutale. L’ossido nitrico oltre a reagire molto rapidamente con il radicale superossido per generare perossinitrito, reagisce anche con perossiradicali lipofilici per generare alchilperossinitrati (ROONO). Tali prodotti appaiono molto più stabili del perossinitrito. Se gli alchilperossidi possono essere metabolizzati senza rilascio di radicali liberi tossici allora la loro formazione è potenzialmente benefica perché fa sì che il radicale NO inibisca la perossidazione lipidica. Il rapporto tra NO e ROS è quindi molto importante: un rapporto NO/O2.- di 1:1 genera ONOO- e induce la perossidazione lipidica, mentre un eccesso di NO può inibirla funzionando da "scavenger" dei radicali perossidici. Oltre alle normali reazioni biochimiche di ossidazione cellulare, contribuiscono alla formazione dei radicali liberi: · alcune disfunzioni e stati patologici come le malattie cardiovascolari, l'artrite reumatoide, gli stati infiammatori in genere, i traumi al sistema nervoso, ecc.; · l’ischemia dei tessuti e conseguente riduzione dell’apporto di sangue; · le diete troppo ricche di proteine e di grassi animali saturi; · gli alimenti non tollerati; · la presenza di un eccesso di ferro che, nella prima fase della trasformazione, fa liberare dal perossido di idrogeno il radicale ossidrile, che è in grado di attivare reazioni chimiche ulteriormente dannose; · l’azione dei gas inquinanti e delle sostanze tossiche in genere (monossidi di carbonio e piombo prodotti dalla combustione dei motori; cadmio, piombo e mercurio prodotti dall’attività industriale; idrocarburi derivati dalle lavorazioni chimiche, ecc.); · il fumo di sigaretta, che è una vera e propria miniera di sostanze chimiche; · l’eccesso di alcool; · le radiazioni ionizzanti e quelle solari (ozono in eccesso e raggi UVA e UVB). Le radiazioni solari inducono sulla pelle processi di fotoossidazione che degradano gli acidi grassi polinsaturi delle membrane cellulari e conseguente formazione di radicali liberi; 44 · i farmaci; · l’attività fisica intensa, sia di resistenza organica che di forza muscolare, causa un incremento notevole delle reazioni che utilizzano l’ossigeno (aumento della respirazione polmonare e dell’attività dei mitocondri delle cellule muscolari, ecc.) e conseguente surplus di formazione di perossido di idrogeno. Anche le reazioni biochimiche legate all’accumulo e rimozione dell’acido lattico dai muscoli affaticati, contribuiscono ad innalzare la soglia dei radicali liberi. Secondo alcuni studiosi, la lisi della membrana cellulare da parte dei radicali liberi (perossili), è una delle cause del dolore muscolare. Lo stesso avviene per i globuli rossi, contribuendo a determinare o accentuare l’anemia negli atleti. L’atleta allenato è comunque in grado di fronteggiare la presenza di radicali liberi in maniera nettamente più efficace del sedentario o di chi pratica attività fisica saltuariamente. Quando respiriamo, introduciamo ossigeno. Il 95% circa di questo ossigeno viene utilizzato dalla cellule per produrre energia; mentre la parte rimanente dà origine ai radicali liberi. Questo è un processo fisiologico, normale, e l’organismo di una persona sana è attrezzato per fare fronte alla presenza di questi radicali liberi difendendosi con un proprio sistema anti-radicali, che si chiama sistema antiossidante. Questo sistema antiossidante comprende meccanismi enzimatici e meccanismi nonenzimatici. Tra i primi vi è la superossidodismutasi, la catalasi e il glutatione ridotto. Tra le sostanze non enzimatiche ricordiamo la Vitamina E, la Vitamina C, i carotenoidi, i polifenoli, le antocianine, ecc. Pertanto, alla formazione di radicali liberi il nostro organismo risponde mediante il suo sistema antiossidante. Se però il quantitativo di radicali liberi prodotto è superiore a quello fisiologico, il nostro sistema antiossidante non è più in grado di neutralizzare questo eccesso, per cui i radicali liberi aggrediscono le cellule, provocando danni più o meno gravi (stress ossidativo). L’azione distruttiva dei radicali liberi è indirizzata soprattutto sulle cellule, in particolare sui lipidi che ne formano le membrane (lipoperossidazione), sui carboidrati e sui fosfati, sulle proteine (enzimi, recettori, carriers) e sugli acidi nucleici (specialmente sul DNA) dove alterano le informazioni genetiche. 45 L’azione continua dei radicali liberi si evidenzia soprattutto nel precoce invecchiamento delle cellule e nell’insorgere di varie patologie gravi come il cancro, malattie dell’apparato cardiovascolare, diabete, sclerosi multipla, artrite reumatoide, enfisema polmonare, cataratta, morbo di Parkinson e Alzheimer, dermatiti, ecc. 1.4 Danno ossidativo ROS e RNS sono in grado di interagire e danneggiare tutte le macrostrutture che compongono i diversi distretti delle nostre cellule. Il danno ossidativo A) Acidi nucleici (DNA e RNA) Sia le loro basi azotate che le loro componenti saccaridiche si sono dimostrate sensibili all'attacco di queste sostanze. Diverse ROS e RNS sono in grado di causare alterazioni strutturali del DNA, attivare o inibire alcune vie di trasduzione del segnale, bloccare la comunicazione tra cellule, modulare la crescita cellulare, la differenziazione e la morte per apoptosi o necrosi, danneggiare proteine, quali enzimi di riparazione del DNA e DNA polimerasi, diminuendo probabilmente la fedeltà della replicazione. La chimica del danno del DNA, da parte di numerose ROS e RNS, è stata ben caratterizzata in vitro. Il radicale 46 nitrossido ed i prodotti da esso derivati possono causare nitrosazione e deaminazione di amino gruppi nelle basi del DNA determinando mutazioni puntiformi. Mentre il superossido ed il perossido di idrogeno non reagiscono con le basi del DNA, il radicale OH. genera una molteplicità di prodotti a partire da tutte e quattro le basi azotate e attacca anche il desossiribosio. In contrasto l’O2.- sembra attaccare selettivamente la guanina. Danni ossidativi del DNA sembrano verificarsi continuamente in vivo a bassi livelli; i prodotti dell'ossidazione delle basi puriniche e pirimidiniche sono caratteristici dell'attacco da parte del radicale OH., suggerendo che la sua formazione si verifica in vivo dentro il nucleo, poiché tale radicale reagisce solo al suo sito di formazione. B) Proteoglicani Si tratta di molecole di peso molecolare elevato, che rientrano nella composizione strutturale del parenchima tissutale. L’attacco radicalico promuove una rapida frammentazione e depolimerizzazione di questi composti danneggiando irreversibilmente la loro organizzazione strutturale e funzionale. C) Lipidi Gli acidi grassi polinsaturi dei fosfolipidi di membrana e del doppio strato lipidico dei mitocondri sono i più suscettibili nel subire un danno ossidativo. L'iniziazione di una sequenza di perossidazione in una membrana deriva dall'attacco di una qualsiasi specie con reattività sufficiente a staccare un atomo di idrogeno da un gruppo metilenico. La presenza di un doppio legame nell'acido grasso facilita la rimozione dell'idrogeno. Diverse specie chimiche sono in grado di agire come iniziatori della perossidazione lipidica, quali l'ossigeno singoletto, il perossido di idrogeno ed i radicali superossido. Un'estesa perossidazione lipidica nelle membrane biologiche causa perdita di fluidità, cadute nel potenziale di membrana, aumentata permeabilità agli ioni idrogeno e ad altri ioni e eventuali rotture che portano al rilascio del contenuto della cellula o degli organelli. Il gruppo perossidico, formatosi per ossidazione degli acidi grassi, è molto più idrofilico di quello originario e tende a portarsi nella regione superficiale del doppio strato lipidico, ripiegando ad U la catena acilica dell'acido grasso. La conseguenza principale di questa nuova configurazione è l’aumento dell'ingombro sterico del fosfolipide con conseguente alterazione strutturale e funzionale della membrana nonchè facilitazione dell'azione della fosfolipasi A2 con ulteriore aggravio del danno cellulare. Anche alcuni prodotti terminali 47 della frammentazione dei perossidi sono citotossici; in particolare aldeidi, quali malonaldeide (MDA) e 4-idrossinonenale possono causare danni alle proteine e al DNA. D) Proteine Le reazioni chimiche risultanti dall'attacco di ROS e RNS alle proteine sono complesse. L'attacco dei radicali liberi può generare perossidi delle proteine, che possono decomporsi in modo complesso. È stato evidenziato il danneggiamento di particolari aminoacidi in base alla formazione di specifici derivati (ad esempio L-diidrossifenilalanina, 8-ossiistidina ecc.). Diversi ROS possono attaccare gli aminoacidi nelle proteine (in particolare istidina, arginina, lisina e prolina) producendo funzioni carboniliche. Il danno ossidativo alle proteine può essere di particolare importanza in vivo, sia di per sé (alterazione di recettori, enzimi, proteine di trasporto ecc. e possibile formazione di nuovi antigeni che provocano risposte immunitarie), sia perché può contribuire al danneggiamento secondario di altre biomolecole (inattivazione di enzimi di riparazione del DNA e perdita di fedeltà delle polimerasi del DNA nella replicazione). Tra le proteine enzimatiche quelle che risentono per prime dell'attacco dei radicali liberi e si denaturano sono la fosfofruttochinasi della via glicolitica ed il complesso 1 della catena respiratoria. L’inattivazione di questi due enzimi può risultare di grave danno per il metabolismo energetico cellulare. A livello tissutale il danno ossidativo si esprime quindi attraverso una diminuita efficienza delle cellule a produrre energia, in particolare ATP. Come conseguenza bisogna dunque aspettarsi una riduzione delle biosintesi ex novo di proteine e glicoproteine, acidi nucleici, fosfo- e glicolipidi. La diminuita sintesi di questi composti provoca una minore efficienza dei processi riparativi, con conseguente progressiva alterazione strutturale della membrana, che si manifesta con una sempre più accentuata diminuzione della fluidità. L'irrigidimento delle membrane biologiche è causato anche dalla formazione di legami crociati proteinaMDA-proteina, proteina-MDA-fosfolipide o fosfolipide-MDA-fosfolipide. La diminuita fluidità del doppio strato lipidico è causa di ulteriori danni metabolici alle cellule. Le proteine di membrana perdono infatti parte della loro possibilità di movimento con conseguente minore capacità di assolvere il loro ruolo funzionale e biologico. Si pensi ad esempio alle proteine enzimatiche, alle proteine recettoriali, ai canali ionici proteici, alle proteine di trasporto transmembrana ecc. In particolare queste alterazioni strutturali comportano un aumento sia del Ca2+ sia del K+ all'interno delle cellule. 48 Come conseguenza risultano attivati tutti gli enzimi endocellulari Ca2+-dipendenti, tra cui le fosfolipasi (A2, A1, C e D) e la digliceride lipasi. L’attivazione di questi enzimi promuove un aumento del catabolismo delle componenti lipidiche delle membrane e la massiccia liberazione di acidi grassi, in particolare PUFA (polinsaturi), con conseguente maggiore probabilità di andare incontro a processi perossidativi. Risultano inoltre attivate le endonucleasi e le proteasi Ca2+-sensibili, e ciò comporta un’accentuazione dei processi catabolici a carico rispettivamente degli acidi nucleici e delle proteine cellulari. L'aumento di K+ endocellulare provoca invece inibizione di alcuni enzimi endocellulari sensibili alle variazioni della forza ionica K+-dipendente, tra cui le sintetasi degli acidi nucleici e le protein-sintetasi ribosomali. Il quadro che in definitiva risulta è quello di un'attività sinergica di questi due ioni nel modulare in senso negativo le capacità delle cellule a rinnovare le proprie strutture enzimatiche: il Ca2+ contribuisce a promuovere il catabolismo ed il K+ interviene invece a rallentare le sintesi ex-novo. Tale processo porta in tempi più o meno lunghi ad una perdita sempre maggiore di efficienza e ad un invecchiamento sempre più precoce del tessuto danneggiato. Oltre che a livello cellulare e tissutale, i fenomeni ossidativi giocano un ruolo importante anche a livello dei liquidi circolanti. Le lipoproteine ematiche sono suscettibili di processi di ossidazione. È stato dimostrato, che la perossidazione dei lipidi e delle apolipoproteine è la causa principale delle modificazioni conformazionali sia delle LDL che delle HDL e che queste lipoproteine ossidate (ox-LDL e ox-HDL) concorrono alla formazione delle lesioni arteriosclerotiche. Le ox-LDL sono fagocitate dai macrofagi attraverso recettori scavenger non autoregolabili, al contrario dei recettori normali per le LDL non ossidate; la quantità di lipoproteine fagocitabili non viene quindi più regolata dalla concentrazione locale di colesterolo e ciò può portare, in breve tempo, alla trasformazione del macrofago in cellula schiumosa. Le ox-HDL svolgono un ruolo sinergico nei processi di degenerazione, perdono infatti la normale capacità di rimuovere i lipidi, in particolare il colesterolo, dalle cellule schiumose che pertanto possono andare più velocemente incontro alle trasformazioni degenerative, che portano alla formazione della placca ateromasica. Inoltre sia le ox-LDL sia le ox-HDL contengono lipoperossidi altamente tossici, che possono essere rilasciati provocando uno stato di irritazione tra le cellule della parete arteriosa, causando una serie di effetti collaterali. Le lipoproteine ossidate possono anche innescare una reazione infiammatoria di 49 tipo immunitario, stimolare le cellule endoteliali a rilasciare sostanze biologicamente attive, modificare l'omeostasi dei prostanoidi e favorire l'aggregabilità piastrinica. 1.5 Meccanismi di difesa Gli organismi aerobi hanno sviluppato difese antiossidanti per proteggersi dagli effetti tossici dei livelli correnti di ossigeno atmosferico (circa 21%), pertanto subiscono effetti dannosi se esposti a concentrazioni superiori. Nel tentativo di proteggersi contro il danno ossidativo tali organismi, compresi gli esseri umani, utilizzano una serie di sistemi di difesa antiossidanti, dislocati in modo strategico, nei vari distretti cellulari. All'interno della cellula sono localizzati gli specifici enzimi, che interagiscono con le specie reattive dell'ossigeno: la superossido dismutasi, presente nel citosol e nei mitocondri, la catalasi localizzata nei perossisomi e la glutatione perossidasi. La maggior parte della stabilità e protezione delle membrane deriva dall'azione degli antiossidanti di membrana rappresentati prevalentemente dall'D-tocoferolo, dal E-carotene e dal coenzima Q (Figg. 14, 15). Fig.14 Struttura chimica di Į-tocoferolo e DŽ-tocoferolo 50 Fig.15 Struttura chimica di ǃ-carotene e coenzima Q La protezione antiossidante extracellulare si è evoluta principalmente per mantenere il ferro e il rame in forme non reattive o scarsamente reattive; esempi ne sono la transferrina e la lattoferrina. Nel plasma sono inoltre presenti proteine, quali le aptoglobine e l'emopessina, che legano rispettivamente l'emoglobina e il ferro dell'eme e diminuiscono la loro abilità ad accelerare la perossidazione lipidica. Altri importanti antiossidanti plasmatici sono: vitamina E (miscela di D-tocoferolo racemico), acido urico, bilirubina, acido ascorbico e l’acido lipoico in virtù dei suoi gruppi tiolici (Fig.16). Fig.16 Struttura chimica di acido urico, acido ascorbico, acido lipoico e acido diidrolipoico 51 I meccanismi di difesa operano a diversi livelli, prevenendo la formazione di radicali, intercettandoli una volta formati, riparando il danno ossidativo una volta prodotto, aumentando l'eliminazione di molecole danneggiate, non riparando molecole eccessivamente danneggiate per minimizzare le mutazioni. La prima linea di difesa contro i ROS è ovviamente la protezione contro la loro formazione, cioè la prevenzione. In questo ambito, la chelazione degli ioni metallici, in particolare ferro e rame, è un importante meccanismo di difesa per prevenire o comunque rallentare l'iniziazione delle reazioni radicaliche a catena. Le proteine leganti metalli presenti nel plasma, quali ferritina, transferrina ed altre, sono quindi di importanza fondamentale in questa strategia, che rappresenta il mezzo principale per controllare la perossidazione lipidica e la frammentazione del DNA. Tra i meccanismi di prevenzione bisogna inoltre ricordare la presenza, in alcune cellule, di sistemi di protezione contro le radiazioni incidenti (es. melanina per le radiazioni UV) e la struttura di alcuni enzimi che pur generando specie radicaliche sono costruiti in modo da evitarne il rilascio. La seconda linea di difesa è l'intercettazione, questo è il campo di azione degli antiossidanti in senso stretto. Il meccanismo di base consiste nell'intercettare, una volta formate, le specie in grado di provocare danni, bloccando la loro attività. Per i composti radicalici, la disattivazione consiste nella formazione di prodotti finali non radicalici. Un secondo obiettivo è trasferire la funzione radicalica lontano dai siti bersaglio più sensibili, verso compartimenti nei quali un’alterazione ossidativa potrebbe essere meno dannosa. In generale ciò significa trasferire le sostanze ossidanti dalle fasi idrofobiche alle fasi acquose (ad es. dalla membrana al citosol o dalle lipoproteine alla fase acquosa del plasma). Gli antiossidanti più efficienti combinano entrambe le proprietà: dapprima reagiscono con i radicali liberi e poi sono capaci di interagire con composti solubili in acqua per rigenerarsi. Un prerequisito, per un’efficiente intercettazione, risiede nel tempo di vita dei radicali, ad es. il radicale idrossile, a vita estremamente breve, non può essere intercettato con efficienza ragionevole. Alcuni antiossidanti vengono sintetizzati direttamente dal nostro organismo, si tratta di sostanze di natura enzimatica e di specie a basso peso molecolare, esempi sono: superossido dismutasi, catalasi, glutatione perossidasi, antiossidanti tiolici specifici, urati, glutatione e ubichinolo (coenzima Q ridotto). Altri vengono assunti con la dieta, come ad esempio tocoferoli, carotenoidi e ascorbato. Infine alcuni composti, anziché presentare 52 un'azione antiossidante diretta, agiscono regolando le difese antiossidanti endogene e/o inibendo la generazione di ROS e RNS. Dato che i processi di prevenzione e di intercettazione non sono completamente efficaci, la protezione dagli effetti degli ossidanti si ha anche mediante riparazione del danno, una volta che si è verificato. I sistemi di riparazione possono essere sia diretti che indiretti. La riparazione diretta è stata dimostrata per poche classi di molecole ossidate, come nel caso della rottura di ponti disolfuro ad opera della disolfuro reduttasi o della rigenerazione della metionina ad opera della metionina solfossido reduttasi. Nel caso della riparazione indiretta, si ha dapprima il riconoscimento e la rimozione o degradazione della molecola danneggiata e successivamente la sua sostituzione. Ci sono sistemi di enzimi multipli coinvolti nella riparazione del DNA, lipidi e proteine. La riparazione del danno sul DNA, causato da ROS e RNS, è particolarmente importante, poiché l'attacco costante da parte di queste specie al genoma nel corso dell'intera vita umana, può contribuire allo sviluppo di tumori spontanei correlati all'età e anche ai processi di invecchiamento. L’ACIDO Alfa LIPOICO (ALA) ha due funzioni principali: coenzima del metabolismo cellulare e antiossidante. Come coenzima del metabolismo cellulare: ha un ruolo centrale nel funzionamento delle deidrogenasi che sono preposte alla decarbossilazione ossidativa dei chetoacidi; nel ciclo di Krebs interviene nella conversione del glucosio e acidi grassi favorendo la trasformazione dell'acido piruvico in acetiCoA; è una componente mobile della membrana interna mitocondriale posta lungo la catena di trasporto degli elettroni per la sintesi di ATP. Come antiossidante, rappresenta uno scavenger di radicali liberi nel corso del danno ossidativo; ha rilevante capacità di rigenerare altri antiossidanti come la Vitamina C, la Vitamina E, il coenzima Q e il glutatione; incrementa la disponibilità di quello che è considerato il più potente antiossidante intracellulare: il glutatione. Esperimenti compiuti su topi sottoposti ad esercizio esaustivo hanno dimostrato che una dieta arricchita con 150 mg/kg/die di acido lipoico: - impedisce la diminuzione dell'attività della glutatione-transferasi indotta dall'esercizio fisico 53 - protegge il muscolo dal danno ossidativo contrasta la perossidazione lipidica delle membrane. 1.6 La pianta dell’olivo e il suo frutto 1.6.1 L’olivo tra mito e storia L’olivo è considerato l’albero-tipo del clima mediterraneo al punto che i limiti settentrionali e occidentali della coltura sono stati scelti dai fitografi per definire la "regione mediterranea". Ma le origini di quest’albero sono molto più remote. Tracce fossili dell’olivo spontaneo, nella zona mediterranea, portano la data di milioni di anni fa, prima cioè della comparsa dell’uomo. Nell’Antico Testamento è proprio un ramoscello d’olivo, portato nel becco di una colomba, ad annunciare a Noè la fine del diluvio. Nella mitologia greca la leggenda più nota a riguardo, è la sfida tra Atena e Poseidone per il possesso della città di Atene. Poseidone fa sbucare dalla foresta un meraviglioso cavallo, mentre Atena fa nascere dalle viscere della terra un nuovo albero: l’olivo. Zeus giudica vincitrice la dea sua figlia, sostenendo che il cavallo è per la guerra mentre l’olivo è per la pace. Impossibile non menzionare infine, i sacri olivi di Olimpia, con i cui serti si incoronavano i vincitori delle Olimpiadi. In epoca storica gli Egizi consideravano l’olio d’oliva un dono degli dei, gli Ebrei lo adoperavano per "ungere" il loro Re. Pare che in Italia la cultura dell’olivo sia stata introdotta dai Greci che, come già accennato, lo consideravano un dono della dea Atena. L’olivo veniva usato per cosmesi, medicina e illuminazione, ma il suo posto d’onore era già in cucina, in ricette che si avvicinavano molto a quelle della nostra attuale "Dieta Mediterranea". Lo testimoniano i leggendari trattati di Apicus, uno dei primi gastronomi della storia. 1.6.2 Cenni di botanica È una pianta che appartiene al genere Olea (famiglia Oleaceae) ed è coltivato principalmente per l’estrazione di olio alimentare che si ricava dai suoi frutti ed in minor misura per la produzioni di olive da tavola che, opportunamente trattate, vengono consumate direttamente. Il genere olea ha origine nella regione compresa tra l’acrocoro armeno, il Pamir ed il Turkestan, da dove si è diffuso nell’area del Mediterraneo. 54 Delle varie specie di Olea quella che più ci interessa è l’Olea europea. Si tratta di una pianta sempre verde, molto lenta nell’accrescimento e nell’entrata in fase di produzione, ma in compenso di notevole longevità; talvolta vive anche per alcuni secoli e infatti vi sono piante di olivo alle quali si attribuiscono 2000 e più anni di vita. L'Olea europaea appartenente alla sottospecie sativa di cui sono state selezionate nel corso dei secoli una serie di varietà coltivate (cultivar), che sono poi divenute caratteristiche delle delle diverse zone di produzione del bacino del Mediterraneo. Il numero delle varietà coltivate è notevole, circa 500. I frutti (drupe) sono di forma ovoidale e peso variabile compreso tra 2 e 12 g. La drupa è costituita, dall’esterno verso l’interno, dall’epicarpo, dal mesocarpo o polpa, e dall’endocarpo o nocciolo. Le olive maturano tra novembre e febbraio e il momento in cui devono essere colte varia secondo la posizione dell'oliveto, la sua esposizione e in rapporto ai fattori meteorologici e climatici che hanno influenzato l'annata. Un olivo, in coltivazione tradizionale, può produrre dai 20 ai 30 kg di drupe per anno. L'oliva è costituita da acqua per circa il 35-40% e da olio per circa il 1535%. Ci sono poi le materie solide (cellulosa, zuccheri, proteine) presenti per circa il 2540%. L'olio è localizzato prevalentemente nella polpa (96% circa) e, in piccola parte, nel nocciolo (4% circa). Nei due casi è inoltre differente la composizione in acidi grassi, con un rapporto insaturi/polinsaturi maggiore nella polpa. Il fattore che viene maggiormente ricercato per la selezione delle cultivar, adatte alla produzione dell’olio di oliva, è rappresentato dalla resa di estrazione, che deve essere elevata ed è normalmente compresa tra 14% e 30%. 1.6.3 La nuova classificazione dell’olio d’oliva L’olio di oliva è il prodotto ottenuto mediante il processo tecnologico di trasformazione delle olive. Le operazioni eseguite sono: la raccolta, il trasporto, la conservazione, la politura e il lavaggio, la frangitura, la gramolatura e la separazione dell’olio dalla pasta oleosa. Con il termine “olio di oliva” si definiscono in maniera generica tutti gli oli derivanti dalla lavorazione delle olive; in realtà esso racchiude una gamma di prodotti diversi per qualità e caratteristiche. A seguito dell'emanazione del Reg. CEE 2568/91, relativo alle caratteristiche degli oli d'oliva e degli oli di sansa di oliva nonchè ai metodi ad essi attinenti, l'olio d'oliva viene 55 classificato con riferimento alle sue caratteristiche chimico-fisiche ed organolettiche (panel test). Con successivo Reg. CEE 356/92 sono state fissate le denominazioni e definizioni degli oli d'oliva e degli oli di sansa d'oliva, in vigore sino al 31 ottobre 2003. Con il Reg. Ce 1531/2001 del Consiglio del 23 luglio 2001 sono state fissate le descrizioni e definizioni degli oli d'oliva e degli oli di sansa di oliva, in vigore dal 1° novembre 2003, che si riportano qui di seguito: OLI D'OLIVA VERGINI: Ottenuti dalla sola spremitura delle olive. Oli ottenuti dal frutto dell'olivo soltanto mediante processi meccanici o altri processi fisici, in condizioni che non causano alterazioni dell'olio, e che non hanno subito alcun trattamento diverso dal lavaggio, decantazione, centrifugazione e dalla filtrazione, esclusi gli oli ottenuti mediante solvente o con coadiuvanti ad azione chimica o biochimica o con processi di riesterificazione e qualsiasi miscela con oli di altra natura. Detti oli di oliva sono oggetto della classificazione e denominazioni che seguono: Acidità Tipologia libera Olio extra vergine di oliva, la cui acidità libera, espressa in acido oleico è al massimo di 0,8 g per 100 g e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per questa max 0,8% categoria; Olio di oliva vergine, la cui acidità libera, espressa in acido oleico è al massimo di 2 g per 100 g e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per questa categoria; Olio d'oliva vergine lampante, la cui acidità libera, espressa in acido oleico è superiore a 2 g per 100 g e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per questa categoria. max 2,0% oltre 2,0% OLIO DI OLIVA RAFFINATO: Olio di oliva ottenuto dalla raffinazione di olio di oliva vergine con un tenore di acidità libera, espresso in acido oleico, non superiore a 0,3 g per 100 g e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per questa categoria; OLIO DI SANSA DI OLIVA GREGGIO: Olio ottenuto dalla sansa d'oliva mediante trattamento con solventi o mediante processi fisici, oppure olio corrispondente all'olio d'oliva lampante, e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per questa categoria; 56 OLIO DI OLIVA: Olio ottenuto dal taglio di olio d'oliva vergine diverso dall'olio lampante e olio d'oliva raffinato, con un tenore di acidità libera, espresso in acido oleico, non superiore a 1 g per 100 g e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per questa categoria; OLIO DI SANSA DI OLIVA RAFFINATO: Olio ottenuto dalla raffinazione di olio di sansa di oliva greggio, con un tenore di acidità libera, espresso in acido oleico, non superiore a 0,3 g per 100 g e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per questa categoria; OLIO DI SANSA DI OLIVA: Olio ottenuto dal taglio di olio di sansa di oliva raffinato e di olio di oliva vergine diverso dall'olio lampante, con un tenore di acidità libera, espresso in acido oleico, non superiore a 1 g per 100 g e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per questa categoria. I valori previsti dalla normativa, Reg. CEE 2568/91, per la classificazione della categoria commerciale di un olio d'oliva sono indicati nell'allegano I del regolamento. Qui sono indicate le caratteristiche chimico-organolettiche degli oli d'oliva. 57 ALLEGATO I DEL REG. 2568/91/CEE - MODIFICATO DA ULTIMO REG. 1989/03/CE Acidi saturi Categoria Acidità % Valore dei perossidi in posizione Cere mg/kg mcq/O2/kg 2 del K232 K270 trigliceride DeltaK Valutazione Mediana del difetto (Md) % Valutazione Mediana del fruttato (Mf) 1. Olio di oliva vergine M M 2,50 0,22 M M 2,60 0,25 M 1,5 - - M 350 M 1,8 - M 15 M 350 M 1,8 - - - m 350 M 2,2 - M 0,3 M 5 m 350 M 2,2 - M 1,0 M 15 m 350 M 2,2 - M 0,8 M 20 M 250 M 1,5 M 2,0 M 20 M 250 M 1,5 M 2,0 - M 300 M 0,3 M 5 M 1,0 M 0,01 Md=0 Mf>0 M 0,01 Md <= 2,5 Mf>0 - Md>2,5 - M 0,16 - - M 0,15 - - - - - M 0,20 - - M 0,18 - - extra 2. Olio di oliva vergine 3. Olio di oliva vergine lampante 4. Olio di oliva raffinato 5. Olio di oliva M 1,10 M 0,90 6. Olio di sansa di oliva - greggio 7. Olio di sansa di oliva M 2,00 raffinato 8 Olio di sansa d'oliva 58 M 1,70 Il ciclo dell’olio Il ciclo dell’olio 1.6.4 Composizione chimica dell’olio di oliva L’olio d’oliva si presenta allo stato fisico liquido a temperatura ambiente (20 °C), ed è costituito da un punto di vista chimico per il 98-99% da una miscela di lipidi detta frazione “saponificabile” e per il rimanente 1-2% da un insieme di composti, i cosiddetti componenti minori, che rappresentano la frazione “non saponificabile”. La maggior parte dei lipidi è sottoforma di trigliceridi, formati dall’unione di glicerolo (un alcool a tre atomi di carbonio) con acidi grassi. Dal tipo e dalla configurazione di questi dipendono molte delle caratteristiche degli alimenti tra cui il sapore, la consistenza e la 59 digeribilità. Gli acidi grassi di varia lunghezza sono distinti in saturi e insaturi in funzione della presenza o meno di doppi legami nella loro catena. L’olio extravergine d’oliva è caratterizzato da una netta prevalenza (73.63 g/100 g di parte edibile) di acido oleico, un acido grasso monoinsaturo; una minore percentuale (rispettivamente 13.67 g e 2.23 g/100 g di parte edibile) di acido palmitico e acido stearico, acidi grassi saturi; ed una discreta percentuale (rispettivamente 7.85 g e 0.99 g/100 g di parte edibile) di acido linoleico e acido linolenico, due acidi grassi polinsaturi. Questi due ultimi acidi grassi vengono definiti essenziali poiché non possono essere sintetizzati dall’organismo e debbono necessariamente essere introdotti con la dieta. L’acido linoleico e l’acido linolenico hanno un importante significato biologico, sono precursori di fattori protettivi quali le prostaglandine nonchè di altri eicosanoidi (sostanze ormono-simili) biologicamente importanti per le funzioni che svolgono: influenzano l’aggregazione piastrinica, la vasodilatazione e costrizione delle arterie coronariche e la pressione del sangue. L’equilibrata composizione in acidi grassi e la presenza di sostanze antiossidanti consentono all’olio extravergine d’oliva di mantenere una buona stabilità. Le sostanze antiossidanti fanno parte dell’elevato numero dei componenti minori. Oltre ad essere responsabili della stabilità del sapore, dell’aroma e quindi della palatabilità dell’olio, esse svolgono azioni favorevoli nei confronti delle numerose patologie come verrà discusso di seguito. È da sottolineare l’azione sinergica che si stabilisce tra questi componenti. Questo fa ipotizzare che la loro azione complessiva manifesti un effetto maggiore rispetto a quello che esercita ciascun componente preso singolarmente. Questi componenti minori sono rappresentati da: COMPOSTI DEL CARBONIO: che si formano come prodotti collaterali durante la sintesi degli acidi grassi. È presente in maggior quantità lo squalene (400-450 mg/100g); e in quantità minore il E-carotene. Quest’ultimo è dotato di azione vitaminica A e antiossidante. Circa l’80% dello squalene assunto con l’alimentazione viene assorbito, aumentando così la sintesi del colesterolo. Ciò non comporta un aumento della colesteromia in quanto viene incrementata la sua eliminazione attraverso le feci. Infine numerosi studi condotti in Spagna, Grecia ed Italia attribuiscono allo squalene un’azione preventiva nei confronti del tumore al seno ed al pancreas. 60 CERE: normalmente presenti in minima quantità, raggiungono valori alti negli oli di sansa per i quali sono un fattore di riconoscimento. ALCOLI: gli alcoli alifatici sono presenti in piccolissime quantità; in maggior quantità (500 mg/l) sono presenti gli alcoli triterpenici, segno della presenza di olio di sansa decerato. Alcoli terpenici possono essere presenti sia liberi che esterificati con acidi grassi. Di particolare interesse è il cicloartenolo la cui azione favorisce l’eliminazione di colesterolo in seguito ad un aumento della secrezione degli acidi biliari. STEROLI: sono composti simili al colesterolo e sono sintetizzati in natura a partire dallo squalene. Sono presenti in notevole quantità: da 110 a 265 mg/100 g di olio. Oltre il 9497% degli steroli è rappresentato da sitosterolo, valori più bassi indicano la presenza di oli di semi. Altri steroli peculiari dell’olio sono campesterolo e stigmasterolo. Studi sperimentali ed epidemiologici hanno dimostrato che una dieta ricca di fitosteroli offre una buona protezione verso tumori al colon–seno e prostata e riducono l’assorbimento intestinale del colesterolo; inoltre riducono i valori di LDL-colesterolo senza alterare quelli di HDL-colesterolo, diventando anche fattore protettivo verso le malattie cardiovascolari. Numerose sono le ipotesi per quanto riguarda il meccanismo d’azione di queste molecole verso la profilerazione delle cellule tumorali. In particolare l’azione del sitosterolo sulle cellule neoplastiche si manifesta mediante un aumento dell’apoptosi, cioè della morte programmata della cellula. Infine recentemente è stata evidenziata una funzione di stimolo da parte del sitosterolo sulle funzioni del sistema immunitario, in particolare sulla proliferazione dei linfociti anche se ancora non è noto il meccanismo d’azione. PIGMENTI COLORATI: sono carotenoidi e clorofilla. La quantità dei carotenoidi è influenzata da fattori biologici e tecnologici ma mediamente varia da qualche mg a 100 mg/100g di olio. Sono circa 80 i composti ma in particolare sono presenti il E-carotene e la provitamina A. La presenza di clorofilla è variabile e dipende dal grado di maturazione e dal sistema di estrazione. La clorofilla svolge un ruolo di eccitamento sul metabolismo, di stimolo i crescita cellulare e sulla produzione del sangue e di accelerazione dei processi di cicatrizzazione. VITAMINE LIPOSOLUBILI: Sono presenti la protovitamina A (ǃ-carotene); vitamina F (acido linoleico + acido linolenico); vitamina E (Į-tocoferolo con azione antiossidante 61 esaltato dalla azione dei fosfolipidi, la sua presenza è di circa 150-200 mg/100 g); vitamina C come ascorbil palmitato ed infine vitamina D. POLIFENOLI: circa il 2-3% della polpa di olive sane e non danneggiate è rappresentato da sostanza fenoliche sotto forma di glucosidi e di esteri, importanti per la conservazione dell’olio avendo azione antiossidante. I fenoli sono contenuti nell’olio extravergine d’oliva di prima spremitura, il contenuto è di 500 mg/l, tale valore è mediamente più alto rispetto agli oli d’oliva raffinati. L’olio ed in particolare quello vergine contiene oltre all’ Įtocoferolo, una serie di acidi fenolici e di fenoli in gran quantità: idroxitirosolo, tirosolo, acido siringico, acido vanillico, acido caffeico e l’acido cumarico. L’insieme di tali sostanze determina una esaltazione della stabilità contro l’ossidazione cui si aggiunge l’attività complessante sui metalli di alcuni degli acidi fenolici presenti e ciò spiega perché l’olio extravergine d’oliva sia una delle sostanze grasse che meglio resiste all’ossidazione sia alla temperatura ambiente che nella cottura. Una importante caratteristica dei polifenoli è quella di essere biodisponibili, premessa indispensabile perché possano svolgere attività biologiche nell’organismo. Per biodisponibilità si intende la percentuale del contenuto totale assorbita e successivamente utilizzata per le sue specifiche funzioni. I polifenoli svolgono numerosi ruoli protettivi. ALTRI ELEMENTI: L’olio extravergine contiene l’oleocantale (Decarbossimetil-ligstroside aglicone), che identifichiamo nel palato con la sensazione di piccante: svolge una funzione chiave come antiossidante e contrasta i radicali liberi (normali prodotti del metabolismo cellulare che se presenti in eccesso portano ad un precoce invecchiamento delle cellule ed all’insorgere di varie patologie). Sono inoltre presenti: aldeidi, terpeni, esteri, chetoni, ecc. che influenzano la nota aromatica dell’olio e quindi sono coinvolti nella sua valutazione edonistica. 1.6.5 Caratteristiche dell’olio d’oliva Caratteristiche tecnico-qualitative dell’olio Le caratteristiche organolettiche di un olio riguardano il colore, l'olfatto o odore, il gusto ed il gusto/olfatto. A differenza di molti altri alimenti, le caratteristiche suddette sono positivamente legate ai composti naturalmente preesistenti nel frutto, mentre sono negativamente condizionate da alcuni costituenti, la cui genesi ed il cui accumulo sono 62 conseguenti ai processi di alterazione dell'olio (inacidimento ed ossidazione) quando ancora è presente nel frutto. Colore - Responsabili di questa caratteristica sono i pigmenti liposolubili: clorofille (+xantofille) e caroteni. Le prime conferiscono la tonalità giallo-verde, mentre i secondi la tonalità compresa tra il giallo-rosso (lunghezza d'onda dominante). Poiché con il procedere della maturazione si assiste ad una perdita di pigmenti liposolubili (clorofille e caroteni) verdi a vantaggio di pigmenti idrosolubili (antociani) rossi, ne consegue che gli oli più verdi sono quelli provenienti da olive non ancora completamente nere, tipiche della varietà e delle zone marginali. Olfatto - Come è intuibile, i composti responsabili di questa caratteristica sono tutti volatili. I principali sono: alcoli alifatici, triterpenici e diterpenici, esteri, naturalmente presenti nel frutto, ed aldeidi, chetoni ed alcoli a 6 atomi di carbonio, saturi ed insaturi, di neo-derivazione, cioè che si formano al momento della rottura del frutto (molitura). Anche in questo caso la maturazione incide notevolmente, modificando i rapporti tra questi costituenti, sicché gli olii possono apparire più o meno pungenti, «fruttati» o dolci, o addirittura con caratteristiche di mosto parzialmente fermentato. Gusto - Responsabili di questa caratteristica, oltre i composti già menzionati sono gli acidi grassi costitutivi ed i polifenoli di recente acquisizione scientifica. Tanto maggiore è la concentrazione in polifenoli di un olio vergine, tanto migliori, entro certi limiti, sono le sue caratteristiche organolettiche e stabilità di queste nel tempo; viceversa, tanto minore è il loro contenuto, tanto più elevato è il grado di alterazione e quindi di scadimento qualitativo generale attuale e futuro del medesimo. Gusto/olfatto - È da considerarsi la caratteristica più complessa e completa coinvolgendo contemporaneamente sia l'olfatto sia il gusto. Poiché questa è l'ultima operazione, e come tale esamina la persistenza della sensazione ricevuta, viene a condizionare sostanzialmente il giudizio finale. Essa, come è intuibile, coinvolge sia i composti volatili sia i non volatili. Una dimostrazione di questa affermazione è fornita con i dati analitici sensoriali e strumentali riportati nelle tabelle e dalle quali si evidenzia in particolare che esiste una concentrazione ottimale in polifenoli totali situata tra 200 e 336 mg/kg, determinate ai fini dell'accettabilità del prodotto e prioritaria rispetto al contenuto in costituenti volatili (Montedoro G, 1985). 63 2. SCOPO DELLA TESI 64 Numerosi sono gli studi epidemiologici che depongono per un ruolo protettivo esercitato dall’olio extravergine d’oliva. Il modello Mediterraneo offre un valido strumento, come ampiamente dimostrato in letteratura. L’olio d’oliva è uno degli elementi centrali della dieta mediterranea e dei suoi vantaggi (Alarcon de la Lastra C, 2001), grazie alle proprietà antiossidanti, (Masella R et al, 2004; Fito M et al, 2000) antiinfiammatorie (McMahone B et al, 2004; Simopoulos AP, 2002), di fluidificazione delle membrane biologiche, antiaggreganti e quindi antiaterosclerotiche (Covas MI et al, 2006). È stato anche dimostrato che gli acidi grassi monoinsaturi, come l’acido oleico, vengono assorbiti e utilizzati per la sintesi delle membrane biologiche a cui conferiscono una maggiore fluidità. Inoltre questi acidi grassi diminuiscono il rischio della perossidazione lipidica delle lipoproteine circolanti (LDL e HDL), diminuendo in ultima analisi la possibilità di formazione delle placche aterosclerotiche (Helal O et al, 2012). Un ruolo protettivo contro l’aterosclerosi è svolto anche dagli antiossidanti che svolgono un’azione diretta contro i radicali liberi, che si formano nell’organismo e che se presenti in eccesso possono essere responsabili dell’invecchiamento cellulare e di numerose patologie (aterosclerosi, alcuni tipi di tumori, diabete, ipertensione, artrite reumatoide e patologie infiammatorie) (Ozkanlar S et al, 2012). Il periodo della menopausa è una fase di notevole complessità della vita della donna e rilevante è la connessione tra fisiologia e fisiopatologia, tra benessere e malattia. La donna ha di fronte a sé diverse problematiche relative alla propria salute, urgenti ed immediate, legate alla sintomatologia tipica, ma anche di tipo preventivo, apparentemente non impellenti e quindi procrastinabili. Le strategie diagnostiche e terapeutiche sono ormai validate, ma di maggiore impatto sono le forme di prevenzione che è necessario attuare nei confronti di patologie cardiovascolari, oncologiche e di osteopenia ed osteoporosi. Come nelle altre fasi della vita la nutrizione occupa un ruolo di primo piano nell’attuazione di queste misure. L’osteopenia e l’osteoporosi rappresentano una problematica di primo piano nel quadro menopausale e quindi anche tutti i possibili interventi per rallentarne la progressione e ridurre il rischio di evento fratturativo. Raggiungere un adeguato apporto di calcio, aumentandone l’introito, ma anche favorendone l’assorbimento o influenzando il turn-over del tessuto osseo (Weaver CM et al, 2002) è possibile con il tradizionale ausilio di alimenti 65 naturalmente ricchi in calcio vitamine D, E, C, K, B6, fitoestrogeni (Lanham-New SA, 2006), ma recenti ricerche hanno dimostrato la proficua possibilità di utilizzare i cosiddetti “new foods” per contribuire alla salute dello scheletro e non solo (Bacciottini L et al, 2004). Nonostante la nostra società sia caratterizzata dal benessere, si assistono ancora fenomeni di malnutrizione negli adulti, ma soprattutto nei bambini. La malnutrizione acuta (SAM) nasce come conseguenza di un periodo di improvvisa mancanza di cibo ed è associata con la perdita di grasso corporeo e del muscolo scheletrico. Coloro che sono colpiti sono già denutriti e spesso sono suscettibili alla malattia. I neonati e i bambini sono i più vulnerabili in quanto richiedono un’alimentazione supplementare per la crescita e lo sviluppo, hanno riserve di energia relativamente limitata e devono dipendere dagli altri. La sotto alimentazione può avere conseguenze drastiche e di ampio respiro per lo sviluppo del bambino e la sopravvivenza nel breve e nel lungo termine. Durante l'infanzia, i problemi alimentari sono piuttosto comuni, e facilmente rilevabili dai pediatri. In alcuni casi si hanno difficoltà alimentari transitorie, che rappresentano l'espressione di un disturbo minore che scompare rapidamente. Altri problemi comuni possono includere delle preferenze alimentari restrittive, come nei bambini chiamati "i palati più esigenti", o che sono in ritardo nel nutrirsi autonomamente. I problemi più gravi compaiono quando l'insufficiente alimentazione si accompagna a problemi di mancata crescita. Per la maggior parte dei bambini, la scarsa crescita è il punto di arrivo di un processo cronico che coinvolge fattori biologici (medico e/o nutrizionale) e psicologico (sociale e/o ambientale). Tutti i bambini con scarsa crescita, tuttavia, hanno una grave malattia organica, che è la malnutrizione, e mostrano, come conseguenza, una mancanza di micronutrienti (ad esempio ferro, zinco, vitamine del gruppo B, oligo-minerali, acidi grassi polinsaturi e vitamine) e una patologia del metabolismo scheletrico. Nei mammiferi, le ossa vengono rimodellate costantemente attraverso un duplice processo di riassorbimento osseo mediato dagli osteoclasti e di successiva produzione della matrice ossea mediata dagli osteoblasti. Questo processo è fondamentale per il normale sviluppo e mantenimento dello scheletro. Ogni anomalia in questo duplice processo può causare cambiamenti della forma dello scheletro e della massa scheletrica. La misurazione degli 66 elementi tipici della demolizione della matrice ossea serve a fornire dati analitici relativi alla velocità del metabolismo osseo. Pertanto sulla base delle attuali conoscenze e degli studi epidemiologici, le Società scientifiche propongono delle linee guida dove si raccomanda l’uso di olio extravergine d’oliva. L’olio vitaminizzato (VitVOO) è un olio extravergine di oliva arricchito con vitamina D3 (1,25-diidrossi-cholecalciferolo), K1 (fillochinone) e B6 (pyridossal 5' fosfato). In termini tecnici, si tratta di un processo di “fortificazione” attraverso il quale nutrienti non energetici (sali minerali e/o vitamine) vengono aggiunti ad un alimento o ad un prodotto con l’intento di aumentarne il contenuto. La vitamina K1 (fillochinone) e il gruppo delle vitamine K2 (menachinone) agiscono come cofattore nella carbossilazione post-trascrizionale delle proteine Gla: in questo processo, i residui di glutammato sono convertiti in DŽ-carbossiglutammato (Gla). La vitamina K e le proteine Gla sono note per il loro importante ruolo nella coagulazione del sangue; inoltre risultano coinvolte nei processi del metabolismo osseo (Vermeer C et al, 2004). L’osteocalcina (Gla), sintetizzata dagli osteoblasti (Price PA et al, 1976), costituisce approssimativamente il 20% delle proteine non collageniche presenti nel tessuto osseo (Hauschka PV et al, 1975; Wallin R et al, 2002). I residui di Gla hanno una grande affinità per il calcio, con il quale formano complessi essenziali per la funzionalità di tutte le proteine Gla finora conosciute. Per avere una sufficiente quantità di osteocalcina carbossilata (cOC), gli osteoblasti hanno bisogno di sufficiente concentrazione di vitamina K, la cui biodisponibilità deriva essenzialmente dalla dieta (Koshihara Y et al, 1997) Pertanto, un intake inappropriato porterà alla produzione di osteocalcina sottocarbossilata (ucOC). La concentrazione sierica di vitamina K varia in relazione con l’apporto dietetico e non rappresenta un marker affidabile dello stato vitaminico tissutale. Nella popolazione adulta sana, l’osteocalcina viene carbossilata in quantità variabile, e ciò suggerisce che l’intake di vitamina K è insufficiente per la carbossilazione completa dell’osteocalcina (Binkley NC et al, 2000). Si è visto da studi recenti che aumentando l’intake di vitamina K aumentano significativamente i livelli di osteocalcina carbossilata (Binkley NC et al, 2002). I metodi di analisi sono stati sviluppati per distinguere tra le frazioni cOC e ucOC (Gundberg CM et al, 1998; Knapen MH et al, 1996). Il rapporto tra ucOC e cOC (UCR) 67 come quello dei livelli della ucOC circolante vengono utilizzati come indicatori dello stato di vitamina K e del metabolismo osseo (Vermeer C et al, 2004; Sokoll LJ et al, 1996; Sokoll LJ et al, 1997); i livelli di UCR sono probabilmente il marker più appropriato (Vermeer C et al, 2004). I benefici della vitamina K sul metabolismo osseo e la prevenzione delle fratture ossee sono molto ben descritte nella popolazione adulta (Cockayne S et al, 2006; Szulc P et al, 1994). La vitamina D insieme alle vitamine E ed A, ha dimostrato di essere un antiossidante. In uno studio recente, mentre si studiavano gli effetti antiossidanti della vitamina D nelle cellule della prostata, è stato scoperto che la forma attiva della vitamina D, 1 alfa, 25diidrossivitamina D3, potrebbe proteggere le linee cellulari umane epiteliali non maligne di prostata, dalla morte cellulare indotta dallo stress ossidativo. Anche per la vitamina K è stato trovato un ruolo antiossidante nei riguardi dei lipidi. Infine, la vitamina B6 che è ben nota nella sua forma biochimicamente attiva, il piridossal-5'-fosfato, è un cofattore di numerosi enzimi metabolici. Questa vitamina è anche implicata in numerose funzioni del corpo umano (ad esempio modula la funzione ormonale o può anche agire come un antiossidante). Durante il I ANNO di Dottorato lo scopo del nostro studio è stato quello di misurare la frazione ucOC e il rapporto UCR in donne adulte sane prima (T0) e dopo (T2) 3 mesi di supplementazione orale di 20 ml/die di VitVOO come precedentemente verificato in uno studio preliminare su 15 donne per 3 settimane (Vignini A et al, 2008). Considerando inoltre le proprietà nutraceutiche dell’olio d’oliva, legate all’apporto di acidi grassi essenziali ed acido oleico e composti antiossidanti (Battino M et al, 2004; Caramia G et al, 1998; Caramia G et al, 1999a; Caramia G et al, 1999b), sulle stesse pazienti è stato analizzato il ruolo che l’assunzione sistematica di olio extravergine supplementato potesse svolgere sulla difesa contro il danno ossidativo, dovuto alla formazione di radicali liberi plasmatici e sull’eventuale effetto di fluidificazione delle membrane biologiche, nel caso particolare piastriniche. Durante il II ANNO di Dottorato lo scopo del nostro studio è stato quello di verificare in donne in menopausa, prima (T0) e dopo (T1) 1 anno di supplementazione orale di 20 ml/die di olio VitVOO e di un olio extravergine non vitaminizzato usato come placebo (PlaVOO), l’eventuale beneficio di tale assunzione sulla densità minerale ossea misurata 68 con la MOC, attraverso l’azione svolta dalle componenti vitaminiche di arricchimento; in particolare abbiamo valutato l’attività della vitamina K, misurando la frazione sottocarbossilata di osteocalcina e l’UCR. Durante il III ANNO di Dottorato lo scopo del nostro studio è stato, nella I PARTE, quello di verificare se 1 anno di supplementazione orale sia con 20 ml/die di VitVOO o 20 ml/die di PlaVOO, sia in grado di controbattere gli effetti negativi dello stress ossidativo in soggetti sani in post-menopausa randomizzati in doppio cieco, andando a misurare i lipoperossidi lipidici (TBARs), gli idroperossidi lipidici, i dieni coniugati, e la capacità totale antiossidante (TAC). Nella II PARTE abbiamo valutato il riassorbimento osseo attraverso l’escrezione urinaria di NTx in bambini di età compresa tra 18-24 mesi con una diagnosi di inappetenza prima e dopo l'integrazione con VitVOO e olio extravergine non supplementato usato come placebo (PlaVOO). Infatti, la scoperta della presenza nell’urina di N-telopeptidi a catena crociata di collagene di tipo I (NTx) ha reso disponibile un marker biochimico specifico del riassorbimento osseo umano che può essere analizzato attraverso test immunologici. 69 3. MATERIALI E METODI 70 3.1 Reclutamento dei soggetti in studio I ANNO Lo studio ha previsto il reclutamento di 60 donne di età compresa tra 25 e i 45 anni. Criteri di esclusione: età > 45 anni; BMI >30, assunzione di fumo ed alcool, patologie e terapie farmacologiche in atto in grado di interferire con l’omeostasi calcica, la deposizione di calcio all’interno della matrice ossea e con il metabolismo della vitamina D. Le caratteristiche dei soggetti studiati sono riassunte nella Tabella 1. Variabili (unità di misura) Soggetti reclutati (n = 60) Età (anni) 32.5 ± 7.5 Indice di massa corporea (BMI) (kg m-2) 24.5 ± 2.5 Glicemia a digiuno (mg/dl) 90 r 10 Colesterolo totale (mg/dl) 160 r 20 Colesterolo HDL (mg/dl) 55.1 r 5.3 Trigliceridi (mg/dl) 93.3 r 30.1 Tabella 1: Caratteristiche dei soggetti coinvolti nello studio Dopo avere firmato il consenso informato i soggetti reclutati hanno iniziato un regime dietetico che forniva 1400 Kcal giornaliere a cui sono stati aggiunti giornalmente 20 ml (pari a due cucchiai da tavola) di olio d’oliva extravergine PlaVOO per i primi 3 mesi e 20 ml di olio d’oliva extravergine VitVOO, arricchito con le vitamine D3 (1,25-diidrossi- colecalciferolo), K1 (2-metil-3-fitil-1,4-naftochinone), B6 (piridossal-5-fosfato), per i successivi 3 mesi. Sono stati quindi considerati i seguenti tempi: T0: prima del trattamento nutrizionale, i soggetti sono stati sottoposti ad un primo prelievo di sangue periferico; 71 T1: 3 mesi, in cui è stato effettuato un secondo prelievo di sangue periferico; T2: 3 mesi, in cui è stato effettuato un terzo prelievo di sangue periferico. Il prelievo è stato sempre eseguito a digiuno dalla mezzanotte precedente. Dal campione di sangue intero si è provveduto alla separazione del plasma. II ANNO E III ANNO (I PARTE) Lo studio ha previsto il reclutamento di 60 donne di età compresa tra 49 e i 61 anni, in menopausa. Criteri di esclusione: BMI >30, assunzione di fumo ed alcool, patologie e terapie farmacologiche in atto in grado di interferire con l’omeostasi calcica, la deposizione di calcio all’interno della matrice ossea e con il metabolismo della vitamina D. Le caratteristiche dei soggetti studiati sono riassunte nella Tabella 2. T0 Età (anni) T1 VitVOO PlaVOO VitVOO PlaVOO (n=30) (n=30) (n=30) (n=30) 55.6±2.6 54.6±3.7 Ͳ Ͳ 25.9±3.1 25.2±2.7 24.2±3.8 25.0±3.1 82.5±9.0 83.5±9.0 83.3±8.7 81.2±9.3 Indice di massa corporea (BMI) -2 (kg m ) Glicemia a digiuno (mg/dl) Colesterolo totale (mg/dl) Colesterolo HDL (mg/dl) Trigliceridi (mg/dl) 219.6±34.3 218.3±33.5 204.3±27.5 205.6±24.7 58.6±14.1 65.7±13.6a 57.6±15.3 125.2±46.9 127.2±44.3 119.4±48.7 115.2±45.4 ColesteroloLDL(mg/dl) 133.1±33.7 132.4±32.4 127.6±31.5 128.5±31.5 Tabella 2: Caratteristiche dei soggetti coinvolti nello studio 72 64.4±12.5a Lo studio è stato progettato per 1 anno, monocentrico, randomizzato con placebo in cui tutti i giorni i soggetti reclutati assumevano 20 ml/die di VitVOO contenente vitamina K1 (0,70 mg/100 ml), vitamina D3 (50 Njg/100 ml) e vitamina B6 (6,0 mg/100 ml) rispetto al placebo (20 ml/giorno della PlaVOO) confezionati in contenitori anonimi. La formulazione dell'olio è stata preparata dalla Fattoria Petrini (Monte San Vito, Ancona, Italia). Sono stati quindi considerati i seguenti tempi: T0: prima del trattamento nutrizionale, i soggetti sono stati sottoposti ad un primo prelievo di sangue periferico e la MOC; T1: 1 anno, in cui è stato effettuato un secondo prelievo di sangue periferico e la MOC; Dal campione di sangue intero si è provveduto alla separazione del plasma. III ANNO (II PARTE) Questa parte dello studio ha preso in considerazione 50 bambini inappetenti (età 18-24 mesi, 25 M, 25 F) e 50 bambini sani (età 18-24 mesi, 25 M, 25 F). I soggetti selezionati sono stati randomizzati e divisi in 4 gruppi: C-VitVOO, VitVOO, C-PlaVOO e PlaVOO; i primi 2 sono stati supplementati per 3 settimane con VitVOO mentre gli altri 2 sono stati supplementati con PlaVOO sempre per 3 settimane. I campioni di urina, prelevati al tempo T0 (reclutamento) e al tempo T1 (dopo 3 settimane di supplementazione), sono stati utilizzati per valutare i livelli di NTx al tempo T0 e T1 in tutti i soggetti analizzati. 3.2 Isolamento del plasma I campioni di sangue sono stati raccolti in vacutainer contenenti come anticoagulante l’ACD (36 ml acido citrico, 5 mM KCl, 90 mM NaCl, 5 mM glucosio, 10 mM EDTA pH 6.8). Il plasma è stato ottenuto mediante centrifugazione a 200 x g per 10 minuti per ottenere il plasma ricco in piastrine (PRP) a 4 °C e conservato a -80 °C finchè non è stato usato. Il plasma è stato diviso in 2 aliquote; una parte, prima e dopo supplementazione, è stata utilizzata per la determinazione dei livelli di cOC e ucOC, degli idroperossidi lipidici, dei lipoperossidi, dei dieni coniugati e della capacità totale antiossidante. Un’altra parte è stata utilizzata per l’isolamento delle piastrine sulle quali è stata testata la fluidità di membrana con le sonde fluorescenti TMA-DPH e DPH. 3.3 Isolamento piastrine 73 Le piastrine sono state isolate dai campioni di sangue attraverso centrifugazioni differenziali secondo il metodo di Rao modificato (Rao GHR, 1988). Il plasma ricco in piastrine (PRP) è stato sottoposto ad una centrifugazione di 2000 x g per 20 minuti per isolare le piastrine. Le piastrine sono state quindi sottoposte a lavaggi in tampone antiaggregante, per rimuovere qualsiasi residuo di eritrociti e di proteine plasmatiche. Il pellet piastrinico è stato sottoposto a due lavaggi in tampone fosfato PBS (contenente NaCl 135 mM, KCl 5 mM, EDTA 10 mM, Na2PO4 8 mM, NaH2PO4 H2O 2mM, pH 7.2) e le piastrine sono state immediatamente usate per gli esperimenti. La concentrazione proteica delle membrane piastriniche è stata determinata con il metodo di Bradford (Bradford M, 1976). 3.4 Determinazione dell’osteocalcina sottocarbossilata e carbossilata La frazione di osteocalcina carbossilata e sottocarbossilata (Takara Shuzo Co Ltd., Shiga, Japan) è stata utilizzata come indicatore dello status della vitamina K ed è stata dosata tramite un saggio ELISA. 3.5 Idroperossidi lipidici La determinazione degli idroperossidi lipidici nel plasma è stata eseguita mediante ossidazione con ioni ferro in presenza di Xilenol orange (FOX) come descritto da Jiang ZY et al. (Jiang ZY et al, 1992). Dopo incubazione a 37 °C con il FOX, i campioni sono centrifugati a 4500 rpm per 20 min. L'assorbanza del sovranatante è valutata a 560 nm e i livelli di idroperossidi sono calcolati con unità di misura Pmolare usando il coefficiente di estinzione molare (4,3 × 104 M-1cm-1). 3.6 Lipoperossidi In questa metodica vengono determinate le sostanze reattive all’acido tiobarbiturico (TBARS); aliquote di plasma sono incubate con 1 ml di acido tricloroacetico 20% (TCA) e 1 ml di acido tio-barbiturico 1% (TBA). Dopo incubazione a 100 °C per 30 min e centrifugazione a 2000 rpm per 10 min, viene valutata l’assorbanza del sopranatante a 535 nm. I livelli dei TBARS sono espressi in nmoli/mL o nmol/mg utilizzando come standard la malondialdeide (MDA). 3.7 Misura dei dieni coniugati I livelli dei dieni coniugati viene valutata monitorando l’assorbanza a 234 nm nei campioni biologici. 74 3.8 Determinazione contenuto proteico Il metodo di Bradford è stato utilizzato per la determinazione delle proteine nelle membrane piastriniche e nel plasma. Si tratta di una determinazione colorimetrica basata sulla variazione del colore in risposta alla variazione di concentrazione proteica. Sono stati utilizzati 10 Pl di campione, 790 Pl di acqua e 200 Pl di reattivo di Bradford composto da acido fosforico, metanolo e come colorante il Coomassie Brilliant Blue. Dopo 10 minuti di attesa al buio è stata letta l’assorbanza allo spettrofotometro utilizzando una lunghezza d’onda di 595 nm. Come bianco sono stati utilizzati 800 Pl di acqua e 200 Pl di reattivo di Bradford (Bradford M, 1976). La concentrazione delle proteine è stata ricavata estrapolando i valori di Densità Ottica (D.O.) dalla curva standard ottenuta con concentrazioni scalari di BSA (sieroalbumina bovina). 3.9 Determinazione della fluidità della membrana piastrinica con le sonde DPH e TMA-DPH Le membrane piastriniche vengono sospese in tampone fosfato 0.03 M a pH 7.8 (1900 ml) ed incubate con 3Pl della sonda TMA-DPH e DPH rispettivamente per 5 minuti e 45 minuti a temperatura ambiente. Le intensità di fluorescenza delle componenti verticali ed orizzontali della luce emessa sono state misurate con uno spettrofotometro Perkin-Elmer MPF66 (O d’eccitazione = 365 nm, O d’emissione = 430 nm). L’anisotropia di fluorescenza statica del TMA-DPH e del DPH, in condizioni d’equilibrio, viene calcolata usando la seguente formula: r I vv G I vh I vv 2 I vh dove G è un fattore strumentale che corregge il valore r per un diverso rilevamento della luce polarizzata verticale (Ivv) ed orizzontale (Ivh ). L’anisotropia di fluorescenza è inversamente correlata alla fluidità della membrana che circonda le sonde fluorescenti (Molotkovsky JG et al, 1982; Sheridan NP et al, 1988; Newmark HL, 1999) (Fig.17). 75 1,6-difenil-1,3,5-esatriene DPH (CH=CH)3 (CH=CH)3 N+(CH3)3 1-[4-(trimetilamino)fenil]-6-fenil-1,3,5-esatriene TMA-DPH Fig.17 Azione delle sonde DPH e TMA-DPH 3.10 Mineralometria ossea computerizzata (MOC) La MOC a livello della falange prossimale del secondo, terzo, quarto e quinto dito della mano destra è stata misurata con un densitometro DBM ustrasound BP01 Igea spa (Carpi, Modena, Italia). Le scansioni sono state eseguite al mattino da un tecnico esperto ed i valori medi della MOC, raccolti in quattro dita, sono stati calcolati. I risultati sono stati espressi in valore assoluto (g/cm2, contenuto minerale osseo rispetto alla superficie proiettata) e trasformato in T-score (numero di deviazioni standard sopra o sotto la media), rispetto a valori normali standard che derivano da una popolazione femminile italiana. I valori di cut-off sono stati presi in base ai criteri dell'Organizzazione Mondiale della Sanità per la diagnosi di osteoporosi secondo i seguenti criteri: normale con una MOC non più di 1 deviazione standard (SD) al di sotto dei valori di un giovane normale (T score 1), osteopenia con una MOC tra 1 e 2,5 DS al di sotto dei valori di un giovane normale 76 (T score <-1 e> -2,5), osteoporosi con una MOC al di sotto di 2.5 DS dei valori di un giovane normale (T score -2,5). In conformità con le specifiche dello strumento fornite dal produttore, il coefficiente di variazione stimata è stato di circa 0,7%. 3.11 Determinazione dell’NTx su urine Il test determina in maniera quantitativa l’escrezione urinaria di NTx, che è un indicatore di riassorbimento osseo umano. Alti livelli di NTx nelle urine indicano riassorbimento osseo. La riduzione di massa ossea avviene quando i livelli di riassorbimento osseo sono superiori a quelle di formazione di tessuto osseo. Il test per valutare i livelli di NTx urinario è di immunoassorbimento enzimatico (ELISA). L’NTx nel campione compete con l’NTx in fase solida per i siti di legame di un anticorpo monoclonale marcato con perossidasi. La quantità di anticorpo legato alla fase solida è quindi inversamente proporzionale alla quantità di NTx nel campione. I risultati sono corretti secondo la quantità di creatinina urinaria ed espressa in equivalenti di collagene osseo in nanomoli per litro (nM BCE) per millimole di creatinina per litro (creatinina mM). 3.12 Analisi statistica I risultati sono espressi come media r deviazione standard (SD). Le valutazioni statistiche sono state svolte mediante analisi della varianza ad una via. Per ridurre la probabilità che differenze significative risultassero casuali è stato applicato, ai dati, il test di Bonferroni dopo l’analisi della varianza. Sono state considerate significative differenze con p < 0,05. 77 4. RISULTATI 78 I ANNO Tutte le pazienti hanno completato lo studio mantenendo il loro peso corporeo, senza alcun tipo di problema da parte loro per il regime dietetico proposto dalla nutrizionista, esente da alimenti contenenti vitamina K. L’osteocalcina sottocarbossilata (ucOC) presente nel plasma risultava minore al tempo T2 rispetto T0 e T1 come pure il rapporto UCR (Tabella 3). I dati erano significativi (p<0.05) all’indagine statistica. T0 T1 T2 ucOC (ng/mL) 2.15 ± 1.85 2.42 ± 1.81 0.97 ± 0.46* UCR (ucOC/cOC) 0.42 0.59 0.15* Tabella 3: Valori della produzione di ucOC e UCR nei soggetti studiati. I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.05 Perciò dopo assunzione di olio extravergine di oliva VitVOO è stata osservata una diminuzione di circa il 40% della ucOC, altamente indicativa di un benefico effetto sul metabolismo calcico dell’osso. Altrettanto interessanti sono stati i risultati ottenuti dallo studio sullo stress ossidativo e sulla fluidità di membrana utilizzando rispettivamente il plasma e le piastrine dei soggetti studiati. Dopo assunzione di olio VitVOO, è stata osservata una diminuzione della produzione di radicali liberi, maggiore rispetto a quella osservata solo con olio extravergine non supplementato. Infatti i TBARs risultano significativamente diminuiti al tempo T2 rispetto al T0 (Figura 18), così come gli idroperossidi lipidici (Figura 19) e i dieni coniugati (Figura 20). 79 50,000 * 45,000 40,000 T nmol/mL 35,000 T 30,000 25,000 T 20,000 15,000 10,000 5,000 0,000 T0 T1 T2 Figura 18: Lipoperossidi (TBARs) ai tempi T0, T1 e T2 nel plasma dei soggetti presi in esame. I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.001 10,000 nmol/mgprot 9,000 8,000 * 7,000 6,000 5,000 4,000 3,000 2,000 1,000 0,000 T0 T1 T2 Figura 19: Idroperossidi ai tempi T0, T1 e T2 nel plasma dei soggetti presi in esame. I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.05 Numeriarbitratidiassorbanza 4,500 4,000 3,500 3,000 2,500 2,000 1,500 1,000 0,500 0,000 * T0 T1 T2 Figura 20: Dieni coniugati ai tempi T0, T1 e T2 nel plasma dei soggetti presi in esame. I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.001 80 È stato inoltre dimostrata una fluidificazione delle membrane piastriniche, indicativa di una minore aggregabilità. La fluidità testata con la sonda fluorescente TMA-DPH (localizzata sulla superficie della membrana) risultava aumentata dopo supplementazione con VitVOO (Figura 21); lo stesso andamento è stato evidenziato per la fluidità misurata con la sonda fluorescente DPH (localizzata nella porzione più idrofoba) (Figura 22). I dati risultavano significativi all’indagine statistica (p<0.005). 0,201 Anisotropia(r) 0,2 0,199 0,198 0,197 0,196 * 0,195 0,194 0,193 0,192 0,191 0,19 T0 T1 T2 Figura 21: fluidità di membrana delle piastrine dei soggetti presi in esame, con la sonda fluorescente TMA-DPH ai tempi T0, T1 e T2. I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.005 Anisotropia(r) 0.25 0.2 0.15 * 0.1 0.05 0 T0 T1 T2 Figura 22: fluidità di membrana delle piastrine dei soggetti presi in esame, con la sonda fluorescente DPH ai tempi T0, T1 e T2. I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.005 81 II ANNO Tutte le pazienti hanno completato lo studio mantenendo il loro peso corporeo, senza alcuna difficoltà, per il regime dietetico esente da alimenti contenenti vitamina K. Dopo 1 anno di supplementazione l’osteocalcina sottocarbossilata (ucOC) risultava diminuita nel gruppo di donne che avevano assunto l’olio VitVOO rispetto alle donne che avevano assunto il PlaVOO (Figura 23), come pure il valore di UCR (Figura 24). I dati erano significativi (p<0.05) all’indagine statistica. ucOC (ng/mL) 3,50 Pazienti VitVOO Pazienti PlaVOO * supplementati con supplementati con 3,00 2,50 2,00 1,50 1,00 0,50 0,00 T0T1 Figura 23.: Valori della produzione di ucOC nel plasma dei soggetti presi in esame. I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.05 2 * Pazienti VitVOO Pazienti PlaVOO supplementati con supplementati con UCR (%) 1,5 1 0,5 0 T0T1 Figura 24: Valori dell’UCR nel plasma dei soggetti presi in esame. I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.05 82 Perciò dopo assunzione di olio extravergine di oliva VitVOO, è stata osservata una diminuzione della osteocalcina sottocarbossilata, altamente indicativa di un benefico effetto sul metabolismo calcico dell’osso. Questi dati vengono confermati dalla indagine MOC effettuata sulle pazienti al tempo T1, con diminuzione del valore di T score a valori meno negativi (Fig 25). T0T1 0 BMD (u Tscore) Pazienti VitVOO Pazienti PlaVOO supplementati con supplementati con -0,5 -1 -1,5 -2 -2,5 * -3 Figura 25: Valori della MOC (BMD) dei soggetti presi in esame. I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.01 III ANNO – I parte Tutti i marker di stress ossidativo (i TBARs, gli idroperossidi lipidici e i dieni coniugati) valutati nel plasma dei soggetti presi in considerazione hanno mostrato una riduzione significativa dopo l'integrazione con VitVOO, mentre non vi erano differenze significative tra i due gruppi al T0. In particolare, i livelli plasmatici di TBARS risultavano diminuiti significativamente, dopo 1 anno di supplementazione, nei soggetti che assumevano VitVOO rispetto a coloro che assumevano PlaVOO e quelli a T0 (p <0.05) (Figura 26). 83 Pazienti VitVOO Pazienti PlaVOO 60,00 TBARs (nmol/mL) 50,00 supplementati con supplementati con 40,00 30,00 20,00 * 10,00 0,00 T0 T1 Figura 26: Lipoperossidi (TBARs) ai tempi T0 e T1 nel plasma dei soggetti presi in esame. I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.05 I livelli plasmatici degli idroperossidi lipidici non hanno mostrato differenze statisticamente significative in entrambi i gruppi a T0, mentre è stata trovata una diminuzione significativa, dopo 1 anno di supplementazione, nei soggetti che assumevano VitVOO rispetto a quelli che prendevano il PlaVOO (p <0,01) (Figura 27). Pazienti VitVOO Pazienti PlaVOO Lipid Hydroperoxide (nmol/mg prot) 12,00 supplementati con supplementati con 10,00 8,00 6,00 4,00 * 2,00 0,00 T0 T1 Figura 27: Idroperossidi ai tempi T0 e T1 nel plasma dei soggetti presi in esame. I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.01 I livelli plasmatici dei dieni coniugati hanno mostrato la stessa tendenza: non vi erano differenze significative nei due gruppi al T0 e una diminuzione significativa, dopo 1 anno di 84 supplementazione, nei soggetti che prendevano VitVOO rispetto a coloro che prendevano PlaVOO (p <0.01) (Figura 28). Pazienti VitVOO Pazienti PlaVOO Conjugated Dienes AAU ( O= 232 nm) 6,00 5,00 supplementati con supplementati con 4,00 3,00 * 2,00 1,00 0,00 T0 T1 Figura 28: dieni coniugati ai tempi T0 e T1 nel plasma dei soggetti presi in esame. I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.01 In accordo con i risultati precedentemente menzionati, i valori plasmatici di TAC non hanno evidenziato differenze significative a T0 (p=NS) mentre un aumento significativo del gruppo VitVOO rispetto al gruppo PlaVOO a T1 (p <0.01) (Figura 29). nmol/P L Trolox Equivalents 4,800 * Pazienti VitVOO Pazienti PlaVOO supplementati con supplementati con 4,600 4,400 4,200 4,000 3,800 3,600 T0 T1 Figura 29: capacità totale antiossidante ai tempi T0 e T1 nel plasma dei soggetti presi in esame. I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.01 85 III ANNO – II parte I nostri risultati hanno mostrato una diminuzione del 25% nella escrezione NTx nei gruppi supplementati con VitVOO rispetto ai gruppi trattati con PlaVOO. L’integrazione per tre settimane con VitVOO è in grado di ridurre in modo significativo (p <0,05) i livelli urinari di NTx nei bambini (Figura 30). Meno NTx nelle urine significa un migliore assorbimento del calcio nelle ossa. Questo dato conferma ulteriormente i dati in nostro possesso in donne in età fertile e in menopausa supplementati con VitVOO. Figura 30: NTx ai tempi T0 e T1 nel plasma dei soggetti presi in esame. I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.05 86 5. DISCUSSIONE E CONCLUSIONI 87 ‘Arricchire’ un alimento significa renderlo più nutriente, senza modificarne il contenuto energetico. Pertanto la fortificazione è un processo tecnologico attraverso cui nutrienti non energetici (sali minerali e/o vitamine) vengono aggiunti agli alimenti tradizionali. Tale intervento può risultare di fondamentale importanza per aumentare l’apporto di specifici nutrienti nella popolazione, quando siano state dimostrate condizioni di carenza nutrizionale. Lo stile di vita nei Paesi industrializzati ha determinato un radicale cambiamento delle abitudini alimentari: pasti irregolari, snack iperlipidici, dolci ad elevato contenuto di zuccheri semplici, soft drink, elevato consumo di alcool. Diversi studi hanno rilevato carenze borderline e/o clinicamente evidenti di alcuni nutrienti (vitamine e sali minerali) e non nutrienti (fibra) in particolari gruppi di popolazione: bambini, adolescenti, anziani e donne in età fertile e in menopausa. L’arricchimento dovrebbe apportare un ragionevole vantaggio senza determinare uno sbilanciamento della dieta e senza far credere al consumatore che la sola assunzione di determinati alimenti possa essere sufficiente ad assicurare una dieta adeguata sotto il profilo nutrizionale. Secondo l’ADA (American Dietetic Association) infatti la soluzione migliore rimane comunque la promozione di un’adeguata educazione alimentare affinché l’assunzione di nutrienti soddisfi i livelli raccomandati per la popolazione (Bloch A et al, 1997; Childs N, 1994; Hasler CM et al, 1996; Del Toma E, 2003). L’attenzione per l’alimentazione è in costante crescita da quando è emerso in maniera evidente il legame fra le più frequenti malattie della società del “benessere”, quali obesità, aterosclerosi, ipertensione, diabete, l’invecchiamento precoce, malattie degenerative ed osteoporosi, e le abitudini alimentari in continua affermazione nei paesi industrializzati. In questo quadro, l’olio di oliva, da sempre considerato a metà strada tra alimento e medicinale, assume un ruolo di primo piano. L’uso alimentare che ne viene fatto nei paesi mediterranei ha spinto numerosi studiosi ad indagarne i costituenti e gli aspetti nutrizionali e a valutarne, su basi scientifiche, le reali utilità per lo stato di benessere dell’uomo. L’olio extravergine di oliva ha una composizione chimica che si avvicina molto al latte materno: l’unico alimento veramente completo in grado di nutrire in modo esclusivo un essere umano, senza l’integrazione di altri alimenti. 88 Questo lo rendo il “carburante” ideale ed il più naturale per il nostro organismo: sia come energetico (9 Kcal/g), che per la funzione regolatrice nei confronti del colesterolo, del sistema immunitario e del metabolismo nel suo complesso. I componenti dei lipidi dell’organismo umano sono costituiti per il 65-87% da acido oleico, per il 17-21% da acido palmitico, e per il 5-6,5% da acido stearico. Tutto ciò potrebbe spiegare, in qualche modo, da un lato la facile digeribilità ed assimilazione e dall’altro alcuni dei non pochi effetti benefici dell’olio d’oliva. Oltre ai lipidi ora riportati, l’olio d’oliva extravergine contiene oltre 200 componenti diversi, i così detti “costituenti minori” appartenenti a varie classi, quali steroli, squalene, fenoli, polifenoli, tocoferoli, alcoli alifatici e triterpenici, clorofilla, vitamine A, D, E, K ecc. Tali componenti, anche se presenti in quantità minime, influiscono in maniera determinante sulle qualità organolettiche (colore, odore, sapore, acidità), sugli aspetti merceologici, sulla possibilità di conservazione dell’olio stesso ma sono anche costituenti indispensabili alle normali attività metaboliche e allo stato di benessere dell’organismo umano. Per le sue proprietà salutari, il consumo di olio extravergine d’oliva viene dunque raccomandato fin dall’infanzia. Numerosi lavori hanno evidenziato infatti che l’acido oleico ha un importante ruolo nell’accrescimento, nella mineralizzazione e nello sviluppo del tessuto osseo (Martin-Bautista E et al, 2010). Inoltre, come già accennato, nell’olio il rapporto linoleico/linolenico è simile a quello osservato nel latte materno. L’apporto di questi acidi grassi è importante durante la gravidanza e fin dai primi giorni di vita per l’effetto positivo nello sviluppo del tessuto nervoso sia del feto che del neonato. L’olio extravergine d’oliva esercita numerosi effetti benefici anche sull’apparato digerente sia in condizioni normali che in alcune patologie. L’olio extravergine oltre ad avere una elevata digeribilità viene impiegato anche nella dietoterapia in pazienti affetti da calcolosi biliare, gastriti e da ulcere gastro-duodenali (Grimble RF, 2005). Numerosi studi epidemiologici hanno dimostrato anche un ruolo importante nella prevenzione dell’aterosclerosi e delle patologie cardiovascolari (Urpi-Sarda M et al, 2012), grazie all’azione sia degli acidi grassi, che riducono il rischio della perossidazione lipidica delle lipoproteine circolanti, che delle proprietà antiossidanti dei componenti minori. 89 L’olio extravergine d’oliva svolge un effetto benefico anche contro l’insorgenza di alcuni tipi di tumore, in particolare tumore al seno, prostata, al colon e al pancreas (Casaburi I et al, 2013). Tra i fattori protettivi che esercitano un effetto antitumorale, sono inclusi i fenoli e altri composti. Infatti studi condotti in vitro hanno dimostrato che i fenoli, lo squalene e il ƨsitosterolo esercitano un effetto chemioprotettivo sulle cellule tumorali (Newmark HL et al, 1999). L’utilizzo dell’olio extravergine è raccomandato anche nell’alimentazione dell’anziano e nella prevenzione delle patologie associate all’invecchiamento. Infatti alcuni studi hanno dimostrato che il consumo abituale di olio extravergine d’oliva esercita un ruolo contro il declino cognitivo connesso all’invecchiamento (Capurso A, 2001). Il ruolo protettivo è stato attribuito all’equilibrato contenuto in acidi grassi essenziali e monoinsaturi ed inoltre all’elevato apporto di antiossidanti, tocoferoli e polifenoli (Bonanome A et al, 1992). Gli acidi grassi monoisaturi infatti sono coinvolti nel mantenimento dell’integrità strutturale delle membrane neuronali (Capurso A et al, 2001; Solfrizzi V et al, 1999). Inoltre l’equilibrato apporto di acidi grassi polinsaturi è importante per il loro ruolo regolatore della fluidità delle membrane cellulari neuronali, delle membrane sinaptiche. Infine studi recenti suggeriscono un ruolo benefico dell’olio extravergine d’oliva nelle malattie infiammatorie e autoimmuni come l’artrite reumatoide, poiché studi condotti in vitro hanno dimostrato che i fenoli contenuti nell’olio extravergine d’oliva, regolano la produzione e il rilascio di sostanze che influenzano il sistema immunitario (Alarcón de la Lastra C et al, 2001) e l’aggregazione piastrinica. Inoltre sembra che le popolazioni del bacino mediterraneo, che consumano abitualmente olio di oliva, siano più protette dal rischio di trombosi rispetto a quelle che invece consumano grassi saturi di origine animale. Partendo dai dati a disposizione che confermano l’alta incidenza del deficit di vitamina D nello sviluppo di osteoporosi e fratture osteoporotiche nei Paesi del Sud europeo, l’utilizzo per 3 mesi di 20 mL/die di olio VitVOO, un olio arricchito con vitamine D3, K1, B6 (importanti nell’omeostasi del calcio e per la salute dell’osso) ha fornito la possibilità di verificare gli effetti biochimici e clinici che queste sostanze potevano avere proprio sull’assimilazione del calcio in donne adulte sane di età compresa tra 25 e 45 anni. I 90 risultati emersi nel primo anno sono estremamente significativi, in quanto la supplementazione con vitamina K1 ha determinato una diminuzione significativa dei livelli di osteocalcina sottocarbossilata, migliorando la densità ossea e aumentando la resistenza alle fratture ossee: un dato altamente indicativo del benefico effetto di questo prodotto non solo sul metabolismo calcico dell’osso, ma anche nell’ambito della più generale prevenzione dell’osteoporosi. I dati a disposizione ci incoraggiano ad un approfondimento sul ruolo preventivo dell’olio vitaminizzato nell’ambito delle condizioni di depauperamento della massa ossea, anche nei soggetti di sesso maschile come in altre fasce di età. A corollario del presente studio è stato osservato come l’assunzione di olio VitVOO potesse indurre modificazioni sia nella formazione di radicali liberi plasmatici che nella fluidità delle membrane piastriniche. È stata riscontrata una diminuzione della produzione di radicali liberi, maggiore rispetto a quella osservata solo con extravergine non supplementato, PlaVOO. È stata inoltre dimostrata una fluidificazione delle membrane piastriniche, indicativa di una migliore funzionalità di queste cellule strettamente correlata alla prevenzione di attacchi trombotici. Questi dati suggeriscono che l’uso di VitVOO costituisce un efficace supplemento anche nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. A livello piastrinico ciò potrebbe comportare un’alterazione dello stato funzionale ed una maggiore aggregabilità (Watala C et al, 1998; Jokl R et al, 1997) e adesività, potenzialmente responsabili, nel lungo termine, di complicanze a carico del microcircolo tissutale e della macrocircolazione (Vercicel E et al, 2004; Ferroni P et al, 2004). È inoltre appurato nel mondo occidentale un intake alimentare superiore in acidi grassi omega 6 rispetto agli omega 3 (il rapporto effettivo omega 3/omega 6 va da 1:10 a 1:25, mentre è raccomandata una relazione di 4:1), che favorisce uno stato pro-allergico e proinfiammatorio (Caramia G, 2008). Stato pro-flogistico, iperaggragabiltà piastrinica, stress ossidativo possono favorire processi degenerativi, (Testa R et al, 2006) soprattutto di tipo aterosclerotico. Di recente, Lee e colleghi hanno dimostrato su modelli animali come l’osteocalcina sia in grado di migliorare la tolleranza glucidica e partecipi alla regolazione del metabolismo 91 energetico (Lee NK et al, 2007). Sono in corso studi per verificare gli effetti del VitVOO in questo gruppo di soggetti. Accanto a queste conoscenze “consolidate” sulle proprietà salutari dell’olio extravergine di oliva si pone l’intuizione e quindi l’interesse, e in questo senso il “fatto nuovo”, verso la possibilità di sfruttare la facile assimilazione e digeribilità di questo alimento per renderlo il veicolo ideale per trasportare altre sostanze benefiche senza modificarne il contenuto energetico. L’idea di potenziare un alimento già di per se stesso ricco nasce dalla considerazione fatta da un gruppo di studiosi che notò come, nell’ambito delle patologie degenerative, la carenza di Calcio e di vitamina D e, più di recente, di vitamina K rappresentassero fattori di rischio in grado di favorire il depauperamento della densità minerale ossea (Ahmadieh H et al, 2011). Considerando, al contempo, la netta prevalenza di soggetti in età avanzata e l’invecchiamento costante della popolazione europea, apparve chiaro che l’ipotesi dell’arricchimento poteva costituire un'adeguata misura preventiva, corroborata da diversi studi a sostegno dell’utilità della fortificazione alimentare. L’osteoporosi, ovvero la progressiva demineralizzazione dello scheletro, oltre ad essere un retaggio tipico della terza e quarta età (osteoporosi primaria, senile), coinvolge il periodo menopausale femminile (osteoporosi primaria, postmenopausale) e può manifestarsi anche precocemente (osteoporosi secondaria) al seguito di svariate condizioni cliniche (ipogonadismo e malattie endocrino-metaboliche, ecc.) ed in particolare per l’uso prolungato di farmaci (corticosteroidi, immunosoppressori) o un iperdosaggio di ormoni tiroidei o per un’immobilità prolungata. Considerato che la popolazione anziana è caratterizzata, in Italia, dalla prevalenza del sesso femminile (dopo i 65 anni il rapporto maschi/femmine, che alla nascita era 1,05, diventa 0,71), è naturale che l’osteoporosi colpisca maggiormente il sesso femminile, anche a prescindere dalle concause ormonali che, nelle donne, favoriscono la demineralizzazione dello scheletro già a partire dal periodo peri-menopausale. Nei Paesi a più alto sviluppo, dove maggiore è la speranza di vita, l’osteoporosi sta diventando un problema di sanità pubblica, a causa della morbilità, della mortalità e dell’alto costo sociale delle fratture e dell’invalidità che spesso ne consegue. 92 In Italia, secondo dati recenti (International Osteoporosis Foundation, 2001), soffrono di osteoporosi circa 5 milioni di persone (il 4,4% delle donne dai 40 ai 49 anni e ben il 41,3% delle donne di età compresa fra i 70 e i 79 anni). Di questi pazienti circa 2 milioni sono considerati ad alto rischio di fratture con punte annue di 78.000 fratture di femore e 100.000 fratture vertebrali. Il costo ospedaliero imputabile alle sole fratture di femore è stato stimato in non meno di 550 milioni di euro. Ulteriori studi scientifici hanno dimostrato che per una donna di 50 anni il rischio, nell’arco della vita, di morire a seguito di una frattura dell’anca è equivalente al rischio di morire per cancro della mammella ed è superiore a quello imputabile al cancro dell’endometrio (Matkovic V et al, 1993). Di fronte ad una patologia ormai in continuo aumento (soprattutto in un Paese ad alta longevità come l’Italia), è doveroso porre l’accento su strategie atte a limitarne o almeno a ritardarne le conseguenze morbose. E ciò è tanto più necessario perché l’osteoporosi è una patologia silenziosa che non si preannuncia con sintomi precoci. Si ritiene che una deficienza cronica di calcio alimentare nella fase di accrescimento corporeo possa in seguito determinare una ridotta densità minerale dell’osso rispetto al picco di massa ossea, raggiunto tra i 20 e i 30 anni (maturità scheletrica). Dopo questo picco, si verifica, qualunque sia il livello di assunzione di calcio, una graduale riduzione della densità minerale dell’osso. La migliore protezione nei riguardi di questa riduzione consiste nell'ottenere un picco di massa ossea il più possibile vicino a quello geneticamente programmato (Tubili C et al, 1995). In età avanzata, l’inevitabile prevalenza dei fenomeni catabolici su quelli anabolici riduce i vantaggi di un più alto apporto di calcio, ma questo resta un fatto necessario per evitare ulteriori compromissioni del rapporto entrate/uscite del calcio e quindi l’aggravamento dell’osteoporosi. Differenti studi mostrano come i reali introiti di calcio nella popolazione siano inferiori rispetto alle raccomandazioni fornite dagli istituti di sorveglianza e ricerca nazionali ed internazionali. In un recente studio italiano (Kalkwarf HJ et al, 2003) sulle abitudini alimentari di un gruppo di soggetti sani di sesso femminile (età compresa fra 18 e 59 anni; 39.6 +/-12.7), l’introito di calcio è risultato inferiore del 30% (656 mg/die nei soggetti più giovani, fra i 18 e i 30 anni, e 752 mg/die in quelli fra i 30 e i 59 anni) rispetto ai Livelli 93 Raccomandati (LARN, 1996), configurandosi in tal modo un gruppo di popolazione a rischio di compromissione del regolare sviluppo e del mantenimento della massa ossea. Complessivamente, l’assunzione di calcio in Italia è inferiore a quella dei Paesi del Nord Europa, verosimilmente per il minor consumo di latte e di alcuni derivati; analoghe differenze si rilevano a favore dell’Italia Settentrionale rispetto a quella Meridionale (LARN, 1996). Recenti studi nutrizionali hanno mostrato come donne con basso introito di latte durante l’infanzia e l’adolescenza abbiano un tenore di massa ossea inferiore in età adulta e maggiore rischio di fratture (Kalkwarf HJ et al, 2003). Molti soggetti non assumono latte e derivati, anche in relazione alla visione negativa dovuta al contenuto in grassi saturi e colesterolo, intolleranze effettive o meno al lattosio, incremento di reali o presunte diatesi allergiche nella popolazione (Bus AEM et al, 2003). Si rivela quindi necessario proporre nuovi alimenti, “new foods” capaci di incrementare l’introito e l’assorbimento del calcio in questi gruppi di popolazione (Bacciottini L et al, 2004). In diversi studi è mostrato come l’assunzione supplementare di calcio e vitamina D prevenga in età postmenopausale la perdita di massa ossea, limitando il turn-over del tessuto osseo e riducendo il rischio fratturativo (Nieves JW, 2003). Infatti, un introito inadeguato di calcio e/o di vitamina D hanno influenza sull’azione degli ormoni regolatori del metabolismo osteo-calcico. La riduzione dell’assorbimento di calcio comporta un deficit di calcio ionizzato, una stimolazione della secrezione di PTH ed uno stato di iperparatiroidismo secondario, responsabile di un accelerato rimodellamento osseo e di una conseguente, perdita di osso ed aumentato rischio di frattura. Questo stato fisiopatologico, conseguente ad un deficit nutrizionale, può essere corretto con una quota suppletiva di vitamina D, spesso in combinazione con il calcio (Nieves JW, 2005). In questi casi è più “semplice”, ma non più corretto, far ricorso alle supplementazioni farmacologiche piuttosto che ad una dieta individualizzata: i risultati sull’efficacia degli integratori di calcio sono, tuttavia, contrastanti in rapporto ai distretti ossei esaminati, all’età dei soggetti studiati ed agli introiti spontanei di calcio alimentare. Nel periodo postmenopausale, a causa degli specifici momenti patogenetici dell’osteoporosi, l’uso di integratori a base di calcio non sembra recare vantaggi, mentre nell’anziano tale pratica 94 può rivelarsi utile, specie quando gli introiti di calcio alimentare sono abitualmente inferiori alle raccomandazioni (Curhan GC et al, 1997; Heaney RP et al, 1994). Fondamentale è far riferimento, per la donna in menopausa, ad alimenti ricchi in vitamina D. Tuttavia è importante sottolineare che per arrivare a livelli dei 10-15 più μg/die raccomandati sarebbe necessario un consumo abbondante di pesce grasso e uova, alimenti che ne hanno un maggiore contenuto. Sarà dunque difficile arrivare ai livelli raccomandati se non mediante fortificazione di alimenti o supplementazione, nei gruppi di popolazione in cui la sintesi endogena non risulta sufficiente a coprire il fabbisogno. In molti studi effettuati in Europa è riportato come la frequenza di basse concentrazioni plasmatiche di 25-idrossi-vitamina D sia molto alta, sia in soggetti ospedalizzati che in salute (Rodriguez-Martinez MA et al, 2002; McKenna MJ, 2005). Un recente studio ha definito lo stato dell’arte circa la fortificazione dei cibi in vitamina D in Canada e Stati Uniti: farine cereali e prodotti correlati, latte e derivati succhi di frutta e bevande, margarine (Calvo MS et al, 2004). Lo stesso lavoro riporta la constatazione della validità della fortificazione in diversi casi (Lau EMC, Lynn H, Chan YH, Woo J. Milk supplementation prevents loss in postmenopausal Chinese women over 3 years. Bone 2002; 32: 536–40; Chee WSS, Suriah AR, Chan SP, Zaitun Y, Chan YM. The effect of milk supplementation on bone mineral density in postmenopausal Chinese women in Malasia. Osteoporos Int 2003; 14: 828–34; Tanner JT, Smith J, Defibaugh P, et al. Survey of vitamin content of fortified milk. J Assoc Off Anal Chem 1988; 71: 607–10). Diversi altri micronutrienti, tra cui altre vitamine sono determinanti per lo svolgimento dei normali processi metabolici dell’osso: vitamine A, K, C e del gruppo B. In particolar modo un basso introito dietetico di vitamina K è stato correlato con un aumentato rischio di fratture dell’anca in donne e uomini (Palacios C, 2006; Weber P, 2001; Booth SL et al, 2003). La vitamina K, cofattore di enzimi operanti nella carbossilazione di proteine come l’osteocalcina, è coinvolta nel metabolismo dell’osso e riduce l’escrezione di calcio urinario (Booth SL, 1997; Vermeer C et al, 1992). Diversi studi mostrano come l’introito di vitamina K ed i livelli sierici siano positivamente correlati con la densità minerale dell’osso (Tamatani M et al, 1998; Szulc P et al, 1993; Hart JP et al, 1985; Booth SL et al, 2003). In pazienti con problemi fratturativi sono stati riscontrati più bassi livelli sierici di vitamina K. Altri 95 studi confermano che un alto apporto alimentare di vitamina K è correlato con minore incidenza di frattura (Hodges SJ et al, 1993; Booth SLF et al, 2000; Stone K et al, 1999; Feskanich D et al, 1999). Di recente notevole risalto è stato attribuito al ruolo della Vitamina B6 a livello osseo, in relazione al ruolo di normalizzante dei livelli di omocisteinemia plasmatica. Il derivato omocisteina tiolattone determina un’inibizione dell’enzima lisil-ossidasi, che svolge un’azione chiave nella formazione della struttura del collagene ed altre proteine fibrose con ruolo strutturale. Il blocco enzimatico irreversibile impedisce le modificazioni posttrascrizionali a carico della lisina, presente sulle catene polipeptidiche dei precursori del collagene e quindi la formazione dei legami crociati, determinanti della struttura ultima della proteina. La somministrazione combinata di vitamina B6, B12 ed acido folico, mantenendo nel range di normalità i livelli sierici di omocisteina, può quindi avere un ruolo determinante nella preservazione della fisiologica omeostasi del tessuto osseo. (Herrmann M et al, 2007a; Herrmann M et al, 2007b) Recenti studi hanno dimostrato un’elevazione dei valori di omocisteinemia in menopausa, legata alla condizione di ipoestrogenismo (Dimitrova KR et al, 2002; Pulvirenti D et al, 2007). Esiste quindi la necessità di adeguati introiti di questi nutrienti, insieme a quelli di calcio e vitamina D (Miggiano GA et al, 2005; Bacciottini L et al, 2004). I risultati del nostro secondo anno di studio mostrano chiaramente come la supplementazione nutrizionale, da parte di donne in menopausa, mediante olio extravergine d’oliva VitVOO, fortificato con vitamine D3, K1 e B6 determina, rispetto ad un regime dietetico libero, e rispetto ad una semplice supplementazione con olio non arricchito, una riduzione della frazione sottocarbossilata dell’osteocalcina ed un aumento della densità minerale ossea, come comprovato dal miglioramento del parametro T-Score, rilevato all’indagine densitometrica, effettuata alla partenza dello studio (tempo T0) ed al termine (tempo T1). Peraltro i risultati a nostra disposizione provano che l’intervento dietetico esercita un ruolo pur sempre determinante nel rallentamento dei processi osteo-riassorbitivi e nella prevenzione di quadri clinici avanzati e funzionalmente limitanti. Il terzo anno di studio ha previsto lo studio delle proprietà antiossidanti del VitVOO nello stesso gruppo di donne in età menopausale. 96 Anche in tal caso sono stati riscontrati dati rilevanti: una riduzione dei radicali liberi e quindi dello stress ossidativo, comprovata dai livelli di idroperossidi lipidici, dieni coniugati e TBARS, risultati inferiori dopo supplementazione ed un aumento della capacità totale antiossidante. Questi risultati, in accordo con la grande quantità di studi in proposito, sono un’ulteriore conferma del ruolo protettivo attribuito all’olio d’oliva, per l’equilibrato contenuto in acidi grassi essenziali e monoinsaturi e l’elevato apporto di composti polifenolici e tocoferoli (Priante G et al, 2002; Manna C et al, 1999; Manna C et al, 1999; Visioli F et al, 2001; Mulinacci N et al, 2001; Moreno JJ, 2003; Upston JM et al, 1999; Masella R et al, 2004). Gli acidi grassi monoinsaturi sono coinvolti nel mantenimento dell’integrità strutturale delle membrane biologiche. L’apporto ottimale di acidi grassi polinsaturi che consegue al consumo di olio d’oliva è importante per il loro ruolo regolatore della fluidità delle membrane cellulari e dell’omeostasi strutturale e funzionale, la mobilità delle molecole proteiche e glicoproteiche in esse presenti e che svolgono funzioni base della fisiologia cellulare e tissutale (recettoriali, di trasduzione del segnale, di canali ionici). La dieta occidentale ricca in acidi grassi saturi e colesterolo determina la perdita di tale flessibilità e quindi una compromissione funzionale. La menopausa è una condizione che sembra accelerare lo sviluppo dell’aterosclerosi e delle malattie cardiovascolari. In donne in menopausa sono stati riscontrati aumento dell’omocisteinemia e dello stress ossidativo in correlazione con aumento dello spessore medio-intimale (Pulvirenti D et al, 2007). Il nostro studio si pone perfettamente in linea con i principi guida generali di prevenzione contro le patologie cardiovascolari ed oncologiche, che si basano sulla raccomandazione di seguire il regime nutrizionale mediterraneo, di cui l’olio d’oliva, per la sua azione protettiva è l’alimento base (Alarcon de la Lastra C et al, 2001; de Lorgeril M et al, 2008). Questo vale maggiormente per soggetti a maggiore rischio e che necessitano di più attenti interventi di profilassi come le donne in età menopausale (Willet WC et al, 1995). Allo stesso tempo i neonati e i bambini sono altrettanto vulnerabili in quanto richiedono un’alimentazione supplementare per la crescita e lo sviluppo, hanno riserve di energia relativamente limitata e devono dipendere dagli altri. La sotto alimentazione può avere conseguenze drastiche e di ampio respiro per lo sviluppo del bambino e la sopravvivenza nel breve e nel lungo termine. Infatti la malnutrizione acuta (SAM) nasce come conseguenza di un periodo di improvvisa mancanza di cibo ed è associata con la perdita di 97 grasso corporeo e del muscolo scheletrico. Molti dei soggetti interessati sono già denutriti e spesso sono suscettibili alla malattia. Durante l'infanzia, i problemi alimentari sono piuttosto comuni, e facilmente rilevabili dai pediatri. In alcuni casi si hanno difficoltà alimentari transitorie, che rappresentano l'espressione di un disturbo minore che scompare rapidamente. Altri problemi comuni possono includere delle preferenze alimentari restrittive, come nei bambini chiamati "i palati più esigenti", o che sono in ritardo nel nutrirsi autonomamente. I problemi più gravi compaiono quando l'insufficiente alimentazione si accompagna a problemi di mancata crescita. Per la maggior parte dei bambini, la scarsa crescita è il punto di arrivo di un processo cronico che coinvolge fattori biologici (medico e/o nutrizionale) e psicologico (sociale e/o ambientale). Tutti i bambini con scarsa crescita, tuttavia, hanno una grave malattia organica, che è la malnutrizione, e mostrano, come conseguenza, una mancanza di micronutrienti (ad esempio ferro, zinco, vitamine del gruppo B, oligo-minerali, acidi grassi polinsaturi e vitamine) e una patologia del metabolismo scheletrico. La crescita e la maturazione scheletrica sono processi dinamici che iniziano in utero e finiscono nella terza decade di vita. È stato dimostrato che un basso apporto di calcio correla ad una bassa massa ossea e quindi ad una maggiore incidenza di fratture e di osteoporosi (Nieves JW, 2003). Alti livelli di NTx nelle urine indicano un aumento di riassorbimento osseo. La riduzione della massa ossea avviene quando i livelli di riassorbimento osseo sono superiori a quelle di formazione di tessuto osseo. Nel presente lavoro dopo supplementazione con VitVOO i livelli di Ntx risultano diminuiti, quindi bassi livelli di NTx urinario potrebbero indicare una crescita della massa ossea con conseguente miglioramento delle condizioni dello scheletro. Questo dato conferma ulteriormente i dati in nostro possesso in donne in età fertile e in menopausa supplementati con VitVOO. In conclusione, questi dati confermano l'ipotesi secondo la quale l'uso di VitVOO può essere un utile trattamento per migliorare la densità ossea e la resistenza alle fratture, anche in età pediatrica, quando siamo di fronte ad uno scarso accrescimento corporeo. 98 6. BIBLIOGRAFIA 99 - Ahmadieh H, Arabi A. Vitamins and bone health: beyond calcium and vitamin D. Nutr Rev. 2011; 69: 584-98 - Alarcon de la Lastra C, Barranco MD, Motilva V, et al. Mediterranean diet and health: biological importance of olive oil. Curr Pharm Des. 2001; 7: 933-50 - Bacciottini L, Brandi ML. Foods and new foods the role of nutrition in skeletal health. J Clin Gastroenterol. 2004; 38: 115–7 - Battino M, Ferreiro MS. Ageing and the Mediterranean diet: review of the role of dietary fats. Public Health Nutr. 2004; 7: 953-8 - Binkley NC, Krueger DC, Engelke JA, et al. Vitamin K supplementation reduces serum concentrations of under-gamma-carboxylated osteocalcin in healthy young and elderly adults. 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RINGRAZIAMENTI 108 Eccomi di nuovo qui dopo 6 anni esatti a scrivere nuovamente i ringraziamenti. La sensazione che si prova è sempre piacevole, perché questo momento segna la fine di un percorso e forse l'inizio di qualcosa di nuovo e stimolante. In queste pagine colgo l'occasione per ringraziare tutte le persone che mi sono state vicine nel raggiungimento di questo ennesimo traguardo e spero vivamente di non dimenticare nessuno. Grazie innanzitutto al Prof. Natale Giuseppe Frega, che si è reso disponibile come tutor di questa tesi e al Dott. Emanuele Boselli che ha sempre saputo rispondere ai miei mille dubbi e quesiti (“paranoie”) derivanti dal fatto che Agraria non fa parte del mio background scientifico. Un grazie alla Prof. Laura Mazzanti che per noi è LA PROF. e basta! Mamma e nonna Biochimica, che ha gioito insieme a me per i successi e pianto per le frustrazioni e “batoste” che in questi quasi 18 anni di permanenza presso il suo/nostro Istituto/Dipartimento abbiamo visto. Ma noi siamo come il giunco, ci pieghiamo ma non ci spezziamo e siamo sempre pronte a ripartire, con più animo e forza di prima. Un grazie alle mie colleghe e amiche Laura e Francesca, alle quali si è aggiunta una nuova Dottoranda Alessia, con le quali oltre al laboratorio condivido momenti di relax, di “spetteguless”, e di tante rumorose risate. Un grazie a Cinzia, la quale anche se ha preso un’altra strada ed ha scelto di diventare ADULTA, è e sarà sempre con me, nei miei pensieri e nel mio cuore. Come non ringraziare tutti gli studenti, tutor, tesisti, specializzandi e dottorandi che si sono avvicendati nel nostro laboratorio, che mi hanno sostenuta, stimolata, incoraggiata, così come tutti i ragazzi/colleghi dell’attuale Diparimento DISCO. Un grazie alla mia storica amica Giulia, nonché madrina di mia figlia: anche se ognuno di noi ha preso la propria strada, so che potrò sempre contare su di te, come ho fatto finora. Ti voglio bene! Grazie ai miei genitori che mi hanno “regalato la vita”, le colonne portanti che mi hanno sostenuta non solo nel mio lungo ed interminabile percorso di studi, ma in ogni circostanza sopportando i miei repentini cambi d’umore. A te mamma, per i tuoi consigli da mamma, e non da sorella maggiore, e il tuo sostegno, per aver esultato con me dei miei successi e avermi consolata dopo le grandi e piccole sconfitte; grazie per esserci sempre stata, nonostante tutti gli impegni da nonna, i pensieri, i problemi. Grazie a te papà, per i consigli 109 pratici di vita vissuta, il tuo essere scorbutico ed un po’ troppo diretto è ormai un tuo modo d’essere, basta saperti prendere, ed io penso di saperlo fare. Grazie a mio fratello Andrea, che come carattere è un po’ troppo simile a papà, a sua moglie Viridiana e ai loro splendidi figli Tommaso e Filippo che mi rendono la ZIA più orgogliosa del mondo. Un “grazie” pieno d’amore a mio marito Luigi per avermi sostenuta in questo percorso anche se non presente fisicamente durante la settimana, ma con il cuore e la mente sì. Ringrazio anche la sua famiglia, Gianna, Franco, Nunzia e Paolo perché mi hanno accolta così come sono con le mie virtù e i miei difetti. Un grazie particolare al fulcro della mia esistenza, mia “fan” numero uno, Ludovica, orgogliosa di avere una “mamma scienziata”. Per ultima ma non meno importante ringrazio me stessa, per essere riuscita ad ottenere questo nuovo traguardo, ricordo che è la tesi n° 5, affrontando le difficoltà incontrate senza mai abbattermi. Grazie a tutti per essermi stati vicini! 110