kalonsicilia - Kalon GLBTE
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bimestrale - anno I - numero due - febbraio/ marzo 2017 TRA MITO E ATTUALITÀ SICILIA KALON Omaggio alla divina Marilyn... da “Umana, troppo umana” (aragno editore 2016) L’INNOCENTE Sei apparsa su uno schermo in bianco e nero in poche stagioni divorata dalla giungla cinematografica Esibisti il corpo nella solare bellezza della tua nuda estate dentro abiti cuciti come seconda pelle di lamé e di raso Innocente creatura ebbra di luce assetata d’amore Adorabile divina Marilyn ci hai lasciati come stella implosa su se stessa in una afosa notte d’agosto Scese il silenzio sulla tragica collina di Hollywood sapevi troppo per lasciarti vivere bramosia e potere di scellerati uomini sepolcri imbiancati Tenero primaverile volto ora icona di diamanti lontana da sozzi vermi Riccardo Di Salvo FRUTTO PARADISIACO Sola nell’ultimo viaggio di scintillanti paillettes vestita nuda ti vedevano i tuoi adoratori negli inferi mediatici precipitata punita per il tuo luciferino splendore da uomini subdoli che amarti non vollero più comodo per loro fu usare il tuo corpo come magnifica preda la tua bocca bruciante spremere frutto paradisiaco sola poi ti lasciarono sola nel frastuono di voci velenose imprigionata nella scatola del successo splendida farfalla assetata di luce. NEMBUTAL Io so che qualcuno, di me, un giorno avra memoria. Saffo Marilyn oh Marilyn – anzi, Norma Jeane che bello darti del tu – come se fossi qui oggi, ora, presenza vivissima in finezza e dignità, con quel sorriso ballerino in barba ai millantatori adoranti il tuo corpo gonfio di ogni infelicità, ogni ebbrezza che cosi bene sapesti (sai) figurare primavera raggiante ma con scarso sole nido in cui gli inetti fremettero remoti al tuo grembo vivissimo e materno. Natura degli innocenti e la non sopravvivenza lo sai, nel festino di chi tace e osserva, non accetta la somma indifferenza ammantata di obbedienza al sistema cancro che ti ha pervaso e poi finito. Chi ti osserva oggi canticchia con te la canzoncina – usignolo di tenera infanzia al peso di un tempo sbagliato, polline dorato – tu tradita al cieco ardore come la Magnani o la Callas Diana Spencer, o la mitica Virginia: al rogo pulzelle per colpe inespiabili, vizio di successo – peccato orrendo! al mondo per gestire un sogno – ma gli uomini non mutano né possono mutare. Eri (sei) della razza di chi non strepita, emarginati illusi d’estasi caine inquietudine d’angelo ilare tra morti viventi chissa come finisti la tua vita, col Nembutal le pastiglie alate del sonno, come Sandro Penna? Chi ti spense quella notte – tesa la mano al telefono – ultima lacrima prima del taglio osceno alle tue ali? T’accorgesti che più buio del buio non può fare? per quel residuo di mondano sfolgorio un’infanzia perenne trasvolò sul lastrico di stelle suicidali. Fabrizio Cavallaro Dolcissima Marilyn ti mancò l’astuzia di ritirarti dallo schermo come la divina Garbo preferisti continuare a credere nel luccichio di falsi amori sola te ne andasti come stella negli albori del mattino Claudio Marchese Photo e Make-up Artists by Angelo Chiacchio Anna Di Salvo Editoriale 2/3 - Dive e divi 4/5 - Arte 6/7 - Cinema 8 Moda e design 9 - Musica 10/11 - Teatro 12 - Eventi culturali 13 - Viaggi 14/15 - Recensioni 16 direttore responsabile Claudio Marchese Lo scrittore Riccardo Di Salvo Fondatore dell'Associazione Culturale Siciliana Kalon e del magazine bimestrale Kalon - Tra mito e attualità Il mare di Trezza S’ infrange in bianche schiume deliranti anime inquiete in equilibrio instabile sbattute da vento salmastro Riccardo Di Salvo, da: “MAREA” poesie del mare edizione Kalon GLBTE Catania dicembre 2014 [email protected] www.riccardodisalvo.it direttore artistico ed editing Riccardo Di Salvo correttore di bozze Riccardo Di Salvo Claudio Marchese impaginazione Lucia Amara stampa Tipografia A&G - CT Hanno collaborato a questo numero Angelo Chiacchio Antonio Agosta Claudio Marchese Davide Bruno Fabio Casadei Turroni Fabrizio Cavallaro Giovanni Bonamonte Mauro Lo Fermo Riccardo Di Salvo pubblicazione bimestrale a cura della Kalon Associazione Culturale Siciliana GLBTE Reg. N. 7582 serie 3 dell’11 giugno 2009 Delibera 1 del 9 ottobre 2016 Editrice Kalon Associazione Culturale Siciliana - GLBTE Kalon Tra mito e attualità è un bimestrale distribuito gratuitamente su territorio nazionale senza scopro di lucro. I collaborati sono volontari o soci dell’Associazione Kalon Kalon Tra mito e attualità non è responsabile per la qualità, la provenienza e la veridicità delle inserzioni. La direzione di Kalon Tra mito e attualità si riserva il diritto di modificare, rifiutare o sospendere un’inserzione a proprio insindacabile giudizio. L’editore non risponde per eventuali ritardi o perdite causate dalla non pubblicazione dell’inserzione. Non è neppure responsabile per eventuali errori di stampa. Gli inserzionisti dovranno rifondere all’editore ogni spesa eventualmente da esso sopportata in seguito a malintesi, dichiarazioni, violazioni di diritti, ecc. a causa dell’annuncio. 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È la liberazione del fondo oscuro che si nasconde in noi, ma non può essere cancellato. Riaffiora negli stati di ebbrezza vitale, quando siamo posseduti da una gioia estrema, che ci fa dimenticare i nostri limiti. Allora ci sentiamo trasportare da una nostra energia sovrumana. Godiamo del nostro piacere, diciamo sì alla vita. Come scrive Nietzsche, tutto ciò che è profondo ama la maschera. Essa è il nostro secondo volto, quello che dice i nostri sogni e non ha paura dei divieti. Proprio la maschera è il linguaggio del Carnevale. La sua risata e la sua smorfia sono un travestimento, fanno emergere l’altra faccia di noi stessi. Ecco perché il Carnevale si collega alla trasgressione. Le sue origini risalgono alla festa religiosa dei Saturnali, in onore di Saturno, dio della seminagione. Questa festa era accompagnata da manifestazioni di licenza sessuale che, per analogia, si estendeva a tutta la sfera della natura. Si pensava che avrebbe stimolato la fecondità del terreno. La carne, dunque, si prende una rivincita dalle censure imposte dalla povertà e dalla morale che pone freni e invita alla rinuncia. Nel Carnevale si sfoga il nostro essere animalesco che prende corpo nella maschera. Travestimento vuol dire trasgredire le regole e accettare che un’altra identità possa convivere con noi. A Carnevale ogni scherzo vale, dice un antico proverbio contadino. È proprio nell’ambito del mondo rurale che questa festa segna i giorni gioiosi in cui ci si abbandona ai due piaceri consentiti a tutti. Il cibo e il sesso. Prima che la Quaresima torni a mortificare la gioia di vivere, i poveri possono godere come i ricchi, senza freni. Di qui la follia del Carnevale in cui tutto è permesso. Con la Rivoluzione industriale questa festa, diventa spettacolo, esibizione di ricchezza per uno sguardo attirato dall’immagine. La festa contadina, dice Pasolini, è religiosa, mentre quella borghese è consumistica. Attraverso il Carnevale possiamo leggere il passaggio dal mondo contadino, che ha segnato per secoli l’Occidente, al mondo globalizzato di oggi. La festa-spettacolo dei moderni veglioni non rinuncia al cibo e al sesso, ma è consumo di massa. L’ipermarket prende il posto della religione. ORGE DIVINE “Migliaia di anni fa - scrivono Riccardo Di Salvo e Claudio Marchese in San Berillo e altre tentazioni, ed. Croce 2010 - la prostituzione era sacra. Gli dei godevano di straordinari attributi sessuali. Per noi è mitologia ma per gli antichi greci il re dell’Olimpo era l’equivalente di un libertino come Casanova, possiamo dire un Casanova prolifico che riempì il cielo e la terra di figli insidiando ninfe, dee e donne.” Le origini della festa trasgressiva per eccellenza sono radi- cate nelle performances che si collocano nel contesto del sacro, prima che la liturgia cristiana separi questo aspetto della religione dal profano. Il mondo borghese dell’economia il cui valore è il profitto. Questi riti, in cui la festa coincideva con l’eccesso sessuale, nel mondo greco - romano erano vere e proprie orge. Orge divine in onore di Dioniso, a base di vino e di eros sfrenato. Quando questo dio diventa Bacco, lo Stato romano interviene e reprime tutto ciò che attenta all’ordine pubblico. L’orgia viene letta come fonte di confusione sociale, perché genera uno stato di trance collettiva. Abolisce i divieti posti tra i sessi e tra le classi. Proprio come recita il copione dell’antico Carnevale. Il riscatto della carne Quando i cristiani escono dalle catacombe e si inseriscono nell’amministrazione pubblica dell’Impero romano, le orge divine subiscono una serie di divieti. Le condanne espresse dai Padri della Chiesa diventano un’ omelia che accompagna la trasformazione del Cristianesimo sul tessuto dei riti del mondo pagano. Ciò che nella trance dionisiaca metteva in contatto con il dio era naturale. Alla base di tutto c’era la forza scatenante del sesso. Liberava le donne e gli schiavi dal loro ruolo subordinato. Era una sovranità conquistata per mezzo della festa liberatoria. Con la presa del potere delle classi subalterne, il Cristianesimo entra di diritto nelle strutture dello Stato. Comincia l’interdizione dei culti dionisiaci. Il dio greco dell’ebbrezza sessuale e alcolica, già condannato dall’Impero romano per i suoi eccessi, si nasconde dietro una maschera che diventa l’opposto di Dio. Possiamo dire che coincide con il suo doppio. È la sua faccia animalesca. La Chiesa lo demonizza e lo chiama Satana. Nello spazio adibito alla liturgia, si inserisce una divinità notturna che interpreta i desideri osceni. Il diavolo è la faccia anale di Dio. Ciò che nell’orgia dionisiaca danzava senza sensi di colpa, nel sabba cristiano diventa una danza macabra. Le streghe adorano il diavolo. Perciò vengono condannate al rogo. Proprio il sabba è l’origine dei riti trasgressivi che dal mondo pagano si sviluppano dentro la cultura folklorica del Basso Medioevo. Bachtin, studioso della civiltà medioevale e rinascimentale, legge in questo contesto l’origine della licenza carnevalesca. Carnevale, la festa che riscatta la carne dalla punizione dei divieti e le restituisce il diritto di godere senza freni. L’eccesso godereccio sia sessuale che gastronomico non è più privilegio dei ricchi ma diventa un diritto, nei giorni consentiti dalla festa, per le classi subalterne. Il Carnevale in Sicilia ha origine nella “danza degli schiavi”. Un rito di ascendenza dionisiaca nel quale i partecipanti esibivano la maschera dello schiavo, ballando per le strade al suono di tamburi e intrattenendo il popolo. Gli eventi istituzionali risalgano intorno al 1600, quando i festeggiamenti carnevaleschi andavano dalla fine della liturgia natalizia alla Quaresima. Ma il terremoto del 1693 modificò questo calendario e i giorni del Carnevale ora si sono ridotti alla settimana che anticipa l’inizio della contrizione quaresimale. Nessun siciliano doc nel giorno del giovedì e martedì grasso rinuncia a un piatto di maccarruni ‘i casa con lo stufato. Un segno di appartenenza a quella cultura folklorica che il mondo industriale non ha cancellato. Le specialità siciliane dello chef Davide al BALLON - Piazza di Pietro Lupo, 2 - Catania Carnevale tra sasizza e maccarruni ‘i casa 3 DIVE E DIVI Anna Magnani: signora del cinema italiano 4 Secondo noi, ma è ormai unanime consenso, Anna Magnani è la più grande attrice del cinema italiano. “Lupa e vestale”, come la definì Fellini a cui l’attrice rivolge un sorriso beffardo nel finale del film “Roma”. Anticonformista come donna, rigorosissima come artista, per tutta la vita tentò e riuscì a difendere il ruolo di primattrice, pur facendo parte dello star – system che spesso confeziona abiti preconfezionati per le dive. Ma Anna Magnani, prima di diventare una diva, fece una lunga gavetta nel teatro d’avanspettacolo dove diede subito prova della sua eccezionale presenza scenica. Proprio nel personaggio della soubrette dell’avanspettacolo, Anna Magnani diede una prima convincente interpretazione nel film di Vittorio De Sica “Teresa Venerdì”. Era il 1941 e il cinema italiano era ancora succube del genere “cinema dei telefoni bianchi”, inventato dal regime fascista. Bastarono pochi anni perché di Riccardo Di Salvo e Claudio Marchese Anna Magnani passasse dal ruolo dell’artista d’avanspettacolo a quello della primattrice. Il suo capolavoro giovanile nel 1945 è “Roma città aperta”, in cui la Magnani inventa il personaggio della popolana tutta cuore e passione, creando sul set cinematografico scene degne della tragedia greca. Memorabile ancora oggi, la scena in cui la Magnani interpreta la parte di Pina, l’ardente popolana che si ribella alla cattura del suo uomo e finisce fucilata dai tedeschi. Questa scena rimane ancora oggi una delle tappe miliari del cinema italiano, perché “Roma città aperta” non è solo un film di denuncia dell’Italia umiliata dalla violenza nazifascista ma è un vero e proprio romanzo storico per immagini. Uno dei vertici del cinema di Rossellini, destinato ad aprire una lunga strada su cui hanno viaggiato tutti i maestri del cinema italiano dopo di lui, dal giovani Visconti a Pasolini e Fellini. Anna Magnani fu spesso letta in modo riduttivo come rappresentante di un divismo all’italiana, complice la sua straordinaria aderenza con i personaggi del mondo popolare. Questo è dovuto alla miopia di molti critici che leggono il film in modo ideologico. In realtà pochissime attrici hanno saputo interpretare personaggi sfaccettati, come dimostra la ricca filmografia che comprende, oltre al personaggio della popolana, tanti altri ruoli. Memorabile non è soltanto la Magnani di “Roma città aperta” ma anche quella del film americano per cui meritò l’Oscar, “La rosa tatuata”, come migliore attrice protagonista. Nel film la Magnani recita in inglese e si doppia in un italiano non romanesco. Il film liberamente ispirato al dramma teatrale “ The rose tattoo” di Tennessee Williams narra la storia di Serafina, una vedova di origini siciliane, custode fedele del simulacro del marito che per lei rappresentava l’idea stessa della virilità, chiusa nel ricordo ossessivo del tatuaggio di una rosa che il coniuge esibiva sul petto. Serafina rifiuta l’approccio a qualsiasi altro pretendente. È come se fosse tutto finito, finché un giorno riscopre la propria femminilità repressa e ritrova il piacere di abbandonarsi a un altro uomo che le ricorda l’immagine dell’indissolubile consorte. La Magnani in questo film rivoluziona lo stile realista che l’ha accompagnata dagli esordi fino al film “Bellissima” di Visconti (1951). La sua recitazione, allontanandosi dagli stereotipi del neorealismo italiano, si approfondisce nello sdoppiamento del personaggio che appare quasi in una dimensione pirandelliana: solare e sensuale da una parte, profonda e tellurica dall’altra, sospesa ai limiti della follia. Possiamo dire che l’ultima affermazione della popolana autentica e ribelle alle ingiustizie è il personaggio di Maddalena, la “mater dolorosa” che affronta la propria personale via crucis, lottando contro il mondo cinico e beffardo dei “cinematografari”. La scena in cui Maddalena esce piangendo disperata da Cinecittà, dopo l’ultimo provino a cui viene sottoposta la figlia, è di una tragicità insuperabile. Ma con questo film si chiude anche il ciclo neorealista del cinema di Visconti e la Magnani recita superbamente il prototipo della madre – coraggio che dieci anni dopo circa sarà cavallo di battaglia della giovane Sophia Loren nella “Ciociara” di De Sica. Nel ruolo dell’eterna madre – coraggio Anna Magnani ritorna nel 1962, con la regia di Pier Paolo Pasolini. La grande attrice cambia di nuovo registro espressivo, dopo aver rifiutato molte allettanti proposte da registi commerciali che lei definì con disprezzo “maialate”. Il soggetto del film è “Mamma Roma”, secondo lungometraggio di Pasolini, inserito dalla critica nel ciclo del “sottoproletariato” con “Accattone” e la “Ricotta”. Anna Magnani sfodera come un pugnale la dolcezza e la violenza di una madre, co- stretta a prostituirsi per sopravvivere che riesce dopo tante umiliazioni a cambiare mestiere e a riscattare il figlio Ettore dalla primitiva condizione di borgataro. Il film, scarsamente commerciale, nel panorama degli anni Sessanta, viene riabilitato dopo la morte dell’autore. In uno scenario metropolitano di periferia, disseminato di resti archeologici e pieno di rimandi alla tradizione pittorica prerinascimentale, il personaggio di Mamma Roma perde le connotazione neorealistiche e si avventura nei territori del simbolo. La Magnani è giunta ai vertici della sua maturità espressiva. Senza aver smarrito il suo robusto spessore popolaresco, nel film di Pasolini appare come una maschera del dolore. Non dimentichiamo comunque che, anche nella pellicola di Pasolini, rimane fedele al proprio mito di donna – lupa e di Madonna del popolo. Un po’ triste il tentativo compiuto da alcune sue colleghe, ultima in ordine di tempo Sabrina Ferilli, di ripetere il personaggio della popolana tutta «cuore e ardore». Non basta la volontà di studiare un modello di recitazione, come sostiene l’attrice romana, né sottoporsi a interventi di migliorie estetiche. Quelle che lei considera le sue maestre, vale a dire Anna Magnani e Sophia Loren, sono dotate di un innato talento per la recitazione che altre non possono avere. Anna Magnani appartiene idealmente alla Sicilia non solo per il personaggio di Serafina, protagonista della “Rosa Tatuata”, ma anche per aver girato un film nell’isola di Vulcano, dell’arcipe- lago delle Eolie. La biografia dell’attrice si intreccia con quella di una diva americana, Ingrid Bergman, che divenne sua rivale in amore. Profondamente offesa per il tradimento di Rossellini, suo maestro e suo uomo, la Magnani si prese una solenne rivincita. Fece in modo che la troupe cinematografica fosse sull’isola vulcanica negli stessi giorni in cui Rossellini e la Bergman giravano a Stromboli il loro primo film. Così la curiosità non si puntò solo sulla nuova coppia del cinema mondiale, ma anche sulla primadonna del cinema italiano. Mai dimenticata. 5 INTERNO DELL’ARTISTA Ph Fabrizio Cavallaro Più chiudo gli occhi, più ti vedo, abituato alla cose visibili di sempre, nel sonno ecco il tuo spettacolo, nel buio s’accende trionfatore il mio sguardo. La tua ombra scaccia via le altre ombre, e diviene luce chiara a chi non vede, tu stesso vincendo il giorno in splendore. Beatitudine alla mia vista saresti, come nel cuore della notte la tua ombra s’incolla alle mie palpebre chiuse. Così, sono oscuri i giorni che non ci sei. Luminose le notti in cui visiti i miei sogni. William Shakespeare (trad. di Fabrizio Cavallaro e Riccardo Di Salvo) Il corpo, eterna ombra dell’anima finita, e auto-simbolo dell’anima, sua immagine, propria sua, eppure non il sé. Samuel Taylor Coleridge 6 model Fabio Cutrona DONNE DI SICILIA D’ALTRI TEMPI DALLA MATITA DI Giovanni nte Bonamo …Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana… …aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria. G. Verga: “Nedda”, 1874 Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna - e pure non era più giovane - era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai - di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell'andare randagio e sospettoso della lupa affamata. G. Verga, da Vita dei campi: “La lupa”, 1880 7 Se scappi ti sposo. Il matrimonio visto a Hollywood CINEMA di Antonio Agosta 8 I film con le scene di matrimoni hanno sempre un discreto successo, Hollywood ne sa qualcosa, il rito nuziale è il sogno nascosto di tutte le donne, e talvolta anche uomini, come il giorno perfetto da scrivere sul diario della propria vita. Il cinema ci ha abituati a ogni genere di cerimonie nuziali, per qualità e tradizioni. C’è quello greco descritto con situazioni ridicole nel film “Il mio grosso grasso matrimonio greco”, con la goffa protagonista rassegnata alle complesse tradizioni della famiglia di origini elleniche; quello italiano con il premio Oscar Sophia Loren nei panni di una prostituta e Marcello Mastroianni incorreggibile donnaiolo napoletano in “Matrimonio all’italiana”; c’è quello in stile inglese in “Quattro matrimoni e un funerali”, con un ironico e romantico Hugh Grant innamorato di Carrie, una donna americana che incontra spesso ai matrimoni altrui. “Il padre della sposa” con un indimenticabile Spencer Tracy, amareggiato per i costosi preparativi delle nozze e l’imminente distacco dalla figlia (nel film la giovane Liz Taylor). E non possiamo dimenticare la deli- ziosa e splendida Julia Roberts, intenta a riprendersi l’ex fidanzato impegnato con la bella e ricca Kimmy, l’attrice Cameron Diaz, nel lungometraggio campione d’incassi “Il matrimonio del mio migliore amico”. Al tema del matrimonio non si sottraggono neanche le fiabe a lieto fine della buonanotte, quelle raccontate alle bambine per proteggerle dalle paure e sostenere le loro emozioni infantili, con il Principe Azzurro in azione a salvare la principessa addormentata nel bosco, rinchiusa nei sotterranei del Castello o in attesa del bacio come ritorno alla vita. Il matrimonio è un atto giuridico che indica l’unione fra due persone, civilmente e davanti al Cristo morto sul crocefisso, per regolare il legame tra persone dello stesso sesso o tra un uomo e una donna attraverso una cerimonia pubblica. Il matrimonio è anche business: a volte sfarzoso da “Mille e una notte”, ecologico all’insegna della sostenibilità ambientale o intellettualmente umoristico alla Woody Allen (il sesso è stata la cosa più divertente che ho fatto senza ridere). Si può anche fuggire al momento del “Sì”. È nota la bellissima scena finale de “Il laureto”, con un giovanissimo Dustin Hoffman che, preso da un raptus di gelosia, sottrae la donna sull’altare promessa a un altro uomo, accompagnato dalle urla isteriche della madre della sposa e dalla struggente colonna sonora: “The Sound of Silence” di Paul Simon. E come dice il prete a fine cerimonia: “Per il potere conferitomi dalla Chiesa vi dichiaro marito e moglie”. Ciak, si gira... SCARPE E CARNEVALE di Angelo Chiacchio MODA Una svolta epocale nella moda della calzatura. Periodo umbertino1889-1900. Le scarpe per lo più sono di morbida pelle di capretto che si adatta al piede come un guanto. Tra il 1881 e il 1882 ricompare la scarpina a punta aguzza sempre con tacco Louis XV, ossia di linea rientrante dietro. Ma nell' ultimo decennio c'e' la tendenza a preferire forme di scarpe più larghe e quindi più pratiche spesso alte a stivaletto , soprattutto per la villeggiatura in campagna o in montagna. Colore dominante il nero, tuttavia il cuoio giallo diventa abbastanza comune per l'estate e ancor più ricercato è il camoscio bianco o grigio. Carnevale, periodo della trasgressione. Anche l’abbigliamento cambia, tende a farsi barocco e sottrae forza d'impatto ai giovani imparruccati . Il loro rapporto con l'antico e' di superficie, allegorico. E' studio della struttura e ricerca del "quid" che crea stile. L'uomo non è angelo nè bestia, ma chi vuol essere l'angelo, fa la bestia e viceversa. Il Carnevale non è precisamente una festa che si offre al popolo, ma una festa che il popolo offre a se stesso (Goethe, “Viaggio in Italia”). Photo e make up by Angelo Chiacchio 9 MUSICA Addio amico mio. Un altro grande artista ci lascia. Quando la luce si fa buio… Quando la musica non segue il ritmo E la voce non emette più note intonate…. arriva la disperazione... Non più folle applaudenti... Tramonto inesorabile e non c’è alba Sul tuo successo che fu… Buon viaggio anima soul. (Alessandro Tozzi) 10 Madonna, la regina indiscussa del bon ton, scrive questo laconico pensiero a poche ore dalla morte di uno dei grandi della musica pop, sottolineando l’“annus horribilis” per il mondo della seconda arte. Il 2016 ci ha portato via quanto di buono era rimasto nella musica di una certa levatura. Chi è cresciuto durante gli anni ‘70 e ‘80, stava ancora facendo fatica a riprendersi dalla morte di David Bowie, Prince, Glenn Frey degli Eagles, Maurice White degli Earth Wind and Fire, due terzi degli Emerson Lake and Palmer, Leonard Cohen. Un’ecatombe, per farla breve. Il 25 dicembre 2016, per uno strano segno del destino, sarebbe stato “l’ultimo natale” di George Michael. Vogliamo con questo articolo celebrare le tappe fondamentali nella carriera di George Michael, i suoi momenti di gloria ma anche di buio e oscurità. George Michael è stato una delle più grandi stelle del panorama musicale degli anni ‘80. Inglese di origini greche, dotato di un bell’aspetto (l’occhio dei fan è stato ampiamente soddisfatto negli anni), con una potente voce soul e una straordinaria capacità per la composizione di melodie orecchiabili, specie quelle che apparten- gono alla prima parte della sua carriera, da giovane talento e fenomeno per teenager sarà in grado di maturare fino a diventare un cantante raffinato e rispettabile, non senza fatica e superando una serie di sfide tanto creative quanto personali. Insieme a Andrew Ridgeley fonda nel 1981 gli Wham! Allora la Gran Bretagna stava attraversando un momento difficile, non si riconosceva più nella passata gloria, schiacciata dalle politiche liberiste della Thatcher e dagli scioperi incessanti. Eppure in quegli anni lo stesso paese non aveva rivali da un punto di vista musicale, si facevano avanti numerose band con un pop molto variopinto, se vogliamo disimpegnato. Dopo un timido inizio, gli Wham si riveleranno i migliori di tutti. Per i diversi generi che affronteranno, per la melodia suadente e sfrontata, per una certa freschezza nei testi e nell’immagine proposta. I due saranno capaci di sfornare uno dopo l’altro una serie di singoli di successo. Club Tropicana pezzo solare, inno delle vacanze estive dei giovani yuppie e di un certo edonismo degli anni Ottanta, Wake me up before you go-go un pezzo boogiewoogie frivolo e danzereccio, e nonostante lo stesso Michael anni dopo avrebbe dichiarato che è diventata la canzone più nota degli Wham perché più stupida di tutte le altre, in classifica funzionò molto bene ed impose il duo all’attenzione del grande pubblico. Seguirono Freedom dal sapore Motown ed Everything She Wants che ebbe il merito di dimostrare quanto la capacità di scrittura dell’artista non fosse un mero colpo di fortuna ma frutto di un vero talento. Michael resterà molto legato a questo pezzo tanto da riproporlo nei suo concerti. E poi Last Christmas. A quanti è riuscito trasformare una canzone pop in un classico natalizio che sarebbe stato cantato anche dalle future generazioni? Finirà per prendere sempre più il controllo artistico del gruppo relegando Andrew a suonare la chitarra e a fare i cori (in questo aiutato da Shirlie Holliman e Pepsi DeMacque le quali, dopo lo scioglimento del gruppo, s’imbarcheranno in una brevissima carriera come “Pepsi and Shirlie”). Spesso incompresi dalla critica di quegli anni che li considera l’ennesimo gruppo di bellocci new wave (in verità avevano poco a che fare con quel genere musicale) etichettandoli mediocri rispetto ai Duran Duran, Spandau Ballet e Culture Club. Spetterà a Careless Whisper far capitolare i detrattori e mettere in chiaro le qualità del gruppo. Si tratta di una meravigliosa ballata conosciuta anche dai giovanissimi, complice una timbrica vocale limpida e avvolgente, un sax ruffiano al punto giusto e un testo intimo legato all’infedeltà, anche se erroneamente ha fatto da colonna sonora a romantiche cene a lume di candela o nel concepimento di numerosi pargoletti. È la prima canzone con cui George Michael inizia a piantare i semi per la sua fortunata carriera (paradossal- Può adesso il 2016 andare affanculo? mente è uno dei pochissimi brani che portano la firma anche di Andrew Ridgeley). La carriera solista di George Michael inizia con un botto. Duetta con la regina del soul Aretha Franklin in I knew You Were Waiting dimostrando di avere la stoffa e l’umiltà di non sfigurare a fianco di una “leggenda”. Il primo album “Faith”, da lui interamente scritto, arrangiato e prodotto gli conferma il successo. L’album fonde sapientemente svariati generi musicali, dance pop funky passando per il rhythm and blues, come se non ci fosse una separazione tra essi e in quegli anni era una meraviglia vederlo col suo giubbotto di pelle, barbetta incolta, ray-ban e jeans attillati, dando di sé un’immagine da macho anche se con scarsa convinzione. Se da un lato “Faith” sarà un successo fenomenale trainato da singoli memorabili (I Want your sex, Faith, Father Figure, One More try, Monkey e Kissing a Fool) che lo consacreranno star internazionale e sex-symbol degli anni ‘80, segna anche il punto di inizio del tratto discendente della sua parabola vivendo una crisi a livello personale e professionale. Non si riconosce nell’immagine creata dalla casa discografica, non pienamente compreso come artista dalla stampa. Costretto a indossare i panni dello sciupafemmine per proteggere la sua carriera, l’artista vivrà una certa confusione sessuale che lo condurrà qualche anno dopo e in modo tutt’altro che sereno alla presa di coscienza della propria omosessualità. Dà alle stampe un nuovo lavoro che sin dal titolo Listen Without Prejudice vol.1 vuole essere una dichiarazione d’intenti ossia presentarsi come un nuovo artista, maturo e libero da compromessi. Il suo è un invito ad ascoltare senza lasciarsi condizionare dall’immagine e dalle scelte musi- cali che in passato altri avevano proposto per lui tant’è che prenderà la decisione di non comparire più né nella copertina dell’album né nei video realizzati. Meno immediato ma più elegante e raffinato del precedente, il nuovo lavoro farà storcere, com’era prevedibile, il naso alla critica. L’album scalò le classifiche ma non ripetendo i numeri di Faith spingerà il cantante a intraprendere una lunga ed estenuante causa legale contro la Sony per non aver promosso a sufficienza le sue nuove scelte. Il tutto finirà con la vittoria della casa discografica ed un George Michael sempre più insoddisfatto e sfiancato da queste vicende. La sua produzione discografica diventerà sempre più sporadica (tra la data di pubblicazione di un album e il successivo passeranno parecchi anni), scegliendo di dedicarsi a vari progetti con finalità benefiche, come la compilation Red Hot and Dance per la raccolta di fondi contro l’AIDS nel quale contribuisce con tre splendidi brani, o di tributo con la pubblicazione dell’Ep Five Live dopo aver preso parte al concerto in onore di Freddie Mercury. Durante il concerto si esibirà in una leggendaria versione di Somebody To love dei Queen regalando uno show di altissimo livello e un’interpretazione magistrale che segna anche il punto in cui la critica, unanime, si accorge di tutta la bravura e la tecnica del cantante. Ma le turbolenze di George Michael non accennano a diminuire. La morte della madre e poi di Anselmo Feleppa, da lui presentato come un caro amico ma si era capito che in realtà si trattava del compagno e al quale dedicherà Jesus To A Child e lo splendido album Older fino ad arrivare al 1998 quando un poliziotto sotto copertura avrebbe irretito Michael in un bagno nel parco di Beverly di Mauro Lo Fermo Hills e poi arrestato per atti osceni. La sua omosessualità diventa di dominio pubblico, per giorni non si parlerà d’altro ma George Michael non è certo disposto a farsi macinare dal sistema e sbaragliando tutti si concede a una lunga intervista televisiva in cui dichiara il suo orientamento, raccontando con estrema onestà il tortuoso percorso che lo ha finalmente portato all’orgogliosa presa di coscienza, non risparmiandosi e dando voce anche alle parti più dolorose e private. Non solo. Decide di narrare questa vicenda con intelligenza e soprattutto con un’ironia disarmante nel video del singolo Outside. Un inno disco funk da anni settanta che diventerà simbolo dell’orgoglio gay (“sono stufo del divano, del letto e anche del tavolo da cucina, facciamolo fuori, all’aperto”). Per i tanti fan che non lo hanno mai abbandonato sarà un dispiacere vedere come negli anni più recenti la stampa si occuperà di lui più per le abitudini sessuali e per l’uso di droghe che per la sua musica il cui spessore non era diminuito affatto (l’album di cover Songs From The Last Century e di inediti Patience contengono delle gemme di indiscutibile bellezza, oneste e a tratti commoventi). Un twitter più di altri a firma dello scrittore inglese Hari Kunzru, pubblicato nel giorno della scomparsa del cantante, riassume perfettamente il trattamento riservatogli negli ultimi anni: “Possiamo abbandonare l’idea che era apertamente gay o che era turbato? Se lo era la colpa è dei tabloid omofobi e pruriginosi”. La sua è la storia di un animo battagliero ma allo stesso tempo tormentato, coraggioso e fragile, schiacciato dalle pressioni di una celebrità troppo invadente. Ma una cosa è certa e sulla quale troppo volte si è inutilmente discusso: il suo immenso talento. 11 Santuzza, Anna e il sogno di Mila T E AT R O Diva per sempre. Da Verga a D’Annunzio 90 anni fa Eleonora Duse tenne l’ultima recita a Pittsburg nel dramma di Marco Praga “La porta chiusa”. L’opera termina con le parole “Sola, sola!”. Il 1924 fu l’ultimo anno della vita di un’attrice entrata nella leggenda grazie al suo impareggiabile talento. I gossip dell’epoca frugarono tra le pieghe della sua vita, ricca di aneddoti mondani e di pettegolezzi crudeli. Primo fra tutti il quadro impietoso che D’Annunzio traccia nelle pagine sublimi del romanzo “Il fuoco” nel quale il poeta la mitizza nel personaggio della divina attrice, complice dei sogni di gloria del superuomo Stelio Effrena. “Ella era là, creatura di carne caduca, soggetta alle tristi leggi del tempo…” (da “Il fuoco” di G. D’Annunzio). Senza dubbio Eleonora Duse fu protagonista del teatro dannunziano. Molti suoi personaggi sono stati costruiti su di lei. Sul suo volto, per nulla conforme ai canoni neoclassici, più vicino al modello del moderno teatro espressionista. I grandi occhi alzati verso l’alto, alla ricerca dell’assoluto, la bocca sensuale e insieme mistica, le mani nervose, mai ferme nella recitazione. La Duse appare ancora oggi così, nei programmi di Rai 5 dedicati al teatro novecentesco. Per pochi spettatori voyeur della TV notturna. Così resta immortalata nelle sue pose che fecero epoca. Dal teatro al cinema muto dove apparve una sola volta nel film “Cenere”. 12 Da eroina verghiana a icona del post-moderno Di umili origini, figlia di attori girovaghi, Eleonora Duse nacque a Vigevano (PV) nel 1858. Un’infanzia faticosa, impensabile per i giovani più fortunati di oggi. Lavorò a soli quattro anni nella parte di Cosetta nei “Miserabili” di Victor Hugo. Tempi duri dove il lavoro minorile non era rifiutato ma, al contrario, socialmente accettato. Tra disagi economico-esistenziali recitò con la madre per lungo tempo, finché rivelò le proprie immense capacità recitative, nella parte di Giulietta all’Arena di Ve- rona, nel 1873. Nel 1881 la Duse sposò il collega Teobaldo Checchi. Nel 1884 diede la prova migliore di sé al Teatro Carignano di Torino. Era il mese di gennaio e gli applausi del pubblico scaldarono il cuore di Giovanni Verga, al suo esordio teatrale con “Cavalleria rusticana” in cui Eleonora Duse interpretava il ruolo di Santuzza. Nella novella omonima di “Vita dei campi” (1880) il personaggio si chiama Santa, figlia del massaro Cola. Una popolana che fa perdere la testa al bersagliere Turiddu Macca, sposato con la bella del paese, la gnà Lola che “La domenica si metteva sul ballatoio, colle mani sul ventre per far vedere tutti i grossi anelli d’oro che le aveva regalati suo marito”. Novella verista basata sul delitto d’onore, diventò dramma, dopo la stroncatura degli stessi amici milanesi di Verga. Boito, Treves, Gualdo. Il primo dei tre, insieme con Camerana e Giacosa, nel maggio del 1884, durante una gita a Superga, videro seduta al tavolo di un ristorante Eleonora Duse, allora nel fulgore dei suoi venticinque anni. Con lei Giovanni Verga e Teobaldo Checchi. Dopo il successo ottenuto in “Cavalleria rusticana”, era già una diva. Le cronache del tempo raccontano, sembra un gossip di fine secolo XIX, che Boito fu colpito dal fascino della giovane attrice. Si appartò in un angolo della sala e scrisse per lei alcuni versi stupefacenti in stile scapigliato milanese. Fu un maggio galeotto in cui esplose un amore fatale tra il poeta bohèmien e la futura interprete del teatro dannunziano. L’incontro tra Eleonora Duse e il poeta Arrigo Boito non è scritto nel solco di una di una storia Riccardo Di Salvo e Claudio Marchese privata. Come sempre, gli amori delle dive sono lancette di un orologio collettivo. Segnano velocemente il tempo che va avanti e costruisce nuovi miti sulle ceneri di un edificio, quello della tradizione, fatto a pezzi dalla forza scatenata delle innovazioni. Sembra un segno del destino questo amour fou che lega la Duse alla poesia. Prima Arrigo Boito, poi Gabriele D’Annunzio. Entrambi la sedussero con il potere della parola. Soprattutto il Vate di Pescara seppe trascinarla nel vortice di una passione ardente che fece delirare entrambi nel corpo e nell’anima. Segnò una svolta innovativa, nel privato e nell’ambito professionale. La Duse vide in D’Annunzio il creatore di un nuovo teatro, dove i personaggi potevano staccarsi dall’obbligo di rappresentare la realtà quotidiana, per inventare un mondo sotterraneo, popolato da visioni scaturite dalla potenza del verso poetico. A sua volta, D’Annunzio trovò nell’attrice il gesto teatrale che inventava la discesa del personaggio negli abissi dell’inconscio, là dove si agitano sogni e desideri, fantasmi e allucinazioni. Il teatro italiano, scatola chiusa del morente Verismo di fine Ottocento, si rinnovava, guardando al moderno teatro europeo, sull’onda di uno “Stil Novo” fatto di oscuri simbolismi e di rarefatte analogie che rimandavano al maestro per eccellenza della poesia moderna: Charles Baudelaire. La divina e il suo poeta Solo per Eleonora, D’Annunzio accettò la sfida al vecchio teatro, ormai in sfacelo. E, soprattutto, quella con il pubblico borghese abituato alla recitazione tardoverista. D’Annunzio scrisse per lei, sua somma interprete, veri e propri poemi drammatici come “Le ville morte”, ma gli interessi della fabbrica teatrale prevalsero sulle ambizioni dell’attrice e del suo pigmalione. In Francia la diva assoluta era Sarah Bernhardt che non aveva rivali in patria. La Duse si offese personalmente con il suo poeta e non gli perdonò mai di aver dato alla collega francese l’opportunità di soffiarle la parte. Ma le cose cambiarono nel 1901. Il 20 marzo il pubblico milanese del Teatro Lirico applaudì la prima interprete italiana della “Ville morte”. La tragedia rivisitava il mito greco, in un’ ottica post-moderna, sulla scia del dionisiaco Nietzsche. Nella parte di Anna, personaggio plasmato proprio sullo stile tragico e visionario del Vate, Eleonora Duse venne acclamata come “la divina”. In italiano l’opera prese il titolo “La città morta”, inaugurando una lunga serie di tragedie in versi, tra cui “La Gioconda” e “La figlia di Iorio”. Quest’ultima segna l’apice del teatro dannunziano. Rivisitazione in chiave onirica dell’Abruzzo contadino e folklorico, ha come protagonista Mila, la grande meretrice redenta dall’amore. La Duse sognava questa parte e voleva recitarla in vari teatri italiani, a Milano, Firenze e Roma. Ma il destino le fu avverso. Quando D’Annunzio concluse l’opera, la diva si ammalò e la parte fu data a Irma Gramatica. La Duse non perdonò mai al poeta la propria sostituzione. Così sono le grandi dive. Il salotto letterario Salotto letterario - presentazione dell'opera di Vincenzo Di Segni "La cena di Audrey" controcorrente per il mercato attuale, ricca di suggestioni estetiche e filosofiche. È intervenuto lo scrittore Riccardo Di Salvo. La scala dell’estasi: dalla carne allo spirito di Riccardo Di Salvo e Claudio Marchese Facciamo colazione con granita e brioches. Leggiamo le prime E-mail del mattino e il quotidiano “La Sicilia”. Sulle pagine della cultura un elenco di eventi. Ci soffermiamo tra spettacoli teatrali e serate letterarie. Un valore aggiunto al piacere del cibo, diverso ma non meno inebriante. Lo scrittore Vincenzo Di Segni presenta il romanzo “La cena di Audrey” alla libreria “Fenice” di Catania. In una sera già vestita d’estate, non ci costa nulla rinunciare allo shopping. Diversamente dagli anni Ottanta, oggi il vero lusso è il tempo libero. Quello che ci permette di isolarci dalla catena di montaggio del lavoro, degli impegni reali o virtuali che ci connettono con la massa. Che bello poter fare del nostro spazio un’isola su cui incontriamo quelli come noi che antepongono l’essere all’apparire! Il filosofo e semiologo Roland Barthes definì l’esperienza della lettura “il piacere del testo”. Leggendo, proviamo lo stesso godimento provato dallo scrittore. Sempre attuale l’invito dannunziano “ricorda di godere sempre”. Ora ce lo rin- nova Vincenzo Di Segni. Romanzo - saggio, “La cena di Audrey” sembra alludere a una serie numerosa di opere letterarie in cui il cibo è protagonista di eventi legati alla sfera del piacere spinto all’eccesso. Dal connubio vino e sesso della lirica greca di Alceo e Saffo all’edonismo enogastronomico del “Satyricon” di Petronio, dai banchetti orgiastici dei libertini del Marchese De Sade alle cene estetizzanti dei dandy dell’Ottocento, è tutto un proliferare di canti alleluiatici in onore del piacere della tavola e dell’alcova. Ognuno degli autori in questione ci ha dato la propria interpretazione dei misteriosi nessi tra cibo ed eros. Quella personale di Vincenzo Di Segni è rigorosamente filosofica, nel suo senso etimologico: amore della sophia cioè della sapienza. La storia narrata nel romanzo ha una trama non lineare. Si dipana come un gomitolo attraverso frequenti flash-back, vere e proprie “illuminazioni” nel senso indicato dai simbolisti. Ed ogni flashback è un tuffo nell’abisso della “memoire involontaire” di ascendenza proustiana, nonché una continua riflessione sulla temporalità dell’essere che ci rimanda ad Heidegger e all’affermazione della gioia di vivere del dionisiaco Nietzsche. E V E N T I C U LT U R A L I CATANIA 13 VIAGGI Il Perù: bellezze e civiltà incontaminate e quote perdifiato Viaggio tanto e attraverso variopinte culture. Scopro paesaggi che nemmeno in sogno ho visto. Alcuni restano sopiti nella mente per un tempo imprecisato, altri emergono preponderanti ogni qualvolta l’anima si inabissa. La riportano su, dando vita a nuove creazioni. Ecco, i viaggi sono una delle fortune dell’uomo. il sole che riappare sempre nelle notti della vita. Riccardo Di Salvo Salvatore tu non sei un turista ma un viaggiatore nato. Da dove è nata questa passione? È nata dal desiderio di conoscere non in modo superficiale questa terrà di vivere in mezzo alla gente lontana da me, di scoprirne l’essenza, di farne tesoro per vivere meglio. So che conosci quasi tutto il mondo. Hai viaggiato in lungo e in largo il pianeta, quale sensazione ti ha fatto provare questo tuo ultimo viaggio? E perché proprio il Perù? In uno dei miei tanti viaggi ho scelto il Perù perché attratto dal sito archeologico del Machu Picchu, il sogno di tutti e ti posso dire che questa Terra mi ha incantato, stupito, fatto perdere nell’immensità delle praterie e nel silenzio delle altissime montagne. Il viaggio mi ha portato in mezzo alle persone dalle diverse etnie, tra i mercati, la storia, dentro le chiese, fatto vivere l’ebbrezza dell’altitudine con quel senso di vuoto che prende allo stomaco e con il respiro corto, per la diminuzione di ossigeno per l’altitudine, che ti fa aprire la bocca per mangiare l’aria e poi questo leggero malessere si placa masticando foglie di coca. 14 Raccontami come si è snodato questo incantevole viaggio ad altitudini che per noi Occidentali sarebbero proibitive? Il viaggio si snoda su quote elevate dai 2200 mt della città di Arequipa, ai 3812 mt di Puno, fino ad arrivare ai 4300 mt e poi scendere ai 3399 mt della città di Cusco. Atterrato a Lima mi ha accolto una bella giornata di sole, mentre per per 9 mesi all’anno la città è avvolta dalla “garrua” un velo di nebbia che sale dall’Oceano Pacifico e avvolge la città distesa su un promontorio. A Lima non può mancare una visita al museo Larco, ospitato in un edificio di epoca coloniale, espone diversi manufatti in oro e argento delle culture dell’antico Perù, ma è particolarmente noto per una vasta collezione di ceramiche che rappresentano scene di atti sessuali. Con un volo da Lima ho raggiunto Arequipa a 2200 mt, la città del Vulcano Ampato, di Juanita e delle prime sensazioni che provoca l’altitudine. La città dominata dal Vulcano El Misti, affascina per i palazzi costruiti con il sillar, una pietra bianca vulcanica. Il monastero di Santa Catalina con le pareti dipinte di rosso è il più grande convento esistente al mondo. All’ingresso una guida mi ha condotto attraverso giardini e chiostri alla visita delle numerose stanze delle monache di clausura. Il Museo Santuario Andino di Riccardo Di Salvo Intervista a Salvatore Messina, instancabile e appassionato viaggiatore che custodisce in una teca la mummia di Juanita ad una temperatura di venti gradi sottozero con la sua storia stupefacente mi ha affascinato e commosso. Perché questa storia ti ha affascinato e commosso? La mummia della ragazza fu scoperta nel 1995 da due archeologi sul monte Ampato parzialmente congelata e perfettamente conservata. La ragazza morta intorno al 1450 all’età di dodici anni fu uccisa con un colpo alla tempia per un sacrificio degli Inca che offrivano agli Apu, divinità delle montagne andine. So che ti ha attratto il volo dei condor ma anche la possibilità di effettuare un possibile relax a queste altitudini? Attraverso la Valle del Colca con cieli azzurri e smaltati e vigogne e lama fino a raggiungere Chivay a 3800 mt e da qui La Cruz del Condor, un punto panoramico del canyon da cui ho ammirato il volo dei condor delle Ande. L’attesa per vedere i primi condor non è stata lunga, volteggiavano sulle teste dei turisti lasciandosi trasportare dalla corrente d’aria verso la valle per ritornare su di noi. L’altitudine si sentiva fisicamente e ho mitigato con un bagno rilassante nelle calde acque termali delle “Caleras”, all’aperto sotto un cielo che volgeva all’imbrunire sferzato da un’aria leggera e frizzante. Abbiamo studiato in geografia il lago Titicaca. So che su delle isole vicine artificiali vicino al lago vive un popolo ospitale, dalle vesti variopinte e si gestisce in autonomia. E’ vero quello che si legge sui libri? Si, è vero ma a viverlo è del tutto diverso. La navigazione sul lago Titicaca a 3812 mt sotto un cielo terso mi ha portato alla scoperta del popolo degli Uros, dai vestiti coloratissimi, che vive su delle isole artificiali costruite con canne di totora, una pianta che cresce nelle acque del lago con la quale gli abitanti costruiscono piccole abitazioni in cui vivono, le scuole e barche dalle forme particolari. Con due ore di navigazione si raggiunge, poi, l’isola di Taquile dove ragazzi offrono ai turisti braccialetti di filo intrecciati dai tanti colori in cambio di pochi soles, ma la cosa più interessante è stata la possibilità di poter effettuare il pranzo nel patio di una vecchia casa con la vista sul lago e cucinato da una famiglia dell’isola, con pesce fritto e una zuppa tipica. So che sei arrivato fino a 4300 mt di altezza. Parlami di questi luoghi in cui l’anima forse ritrova se stessa lontano dal caos e dalla modernità delle metropoli e megalopoli. La traversata in bus da Puno a Cusco fino al passo della Raya a 4300 mt di altezza e la spettacolare chiesa di Andahuaylillas, considerata la Cappella Sistina del Sud America per la ricchezza delle decorazioni. Nella Valle Sacra uno spettacolo unico sono le saline di Maras. Oltre 3000 pozze quadrate che risalgono la collina regalano riflessi abbaglianti per il sale cristallizzato. L’affascinante Cusco a 3399 mt, capitale dell’impero Inca, con le sue molte chiese, il mercato San Pedro e le grandiose rovine Inca di Sacsayhuaman. Il tragitto in treno, sospeso tra il costone della montagna e l’impetuoso fiume Urubamba sottostante, per raggiungere da Ollantaytombo Aguas Calientes e poi in bus, in mezzo alla foresta, un percorso a zigzag per raggiungere sulla sommità della montagna il sito archeologico del Machu Picchu. La città perduta degli Inca con le sue terrazze, scalinate e templi cerimoniali. Sono rimasto per un paio d’ore incantato ad ammirare il luogo tra le nuvole che si rincorrevano in mezzo alle rovine. E la cucina peruviana è stata di tuo gradimento? Sicuramente l’alimento principale dei peruviani è la patata, infatti si coltivano più di 4000 varietà di patate ed anche il peperoncino presente quasi in tutte le pietanze. Il piatto principale rimane il ceviche, a base di pezzetti di pesce, succo di lime, cipolla rossa e peperoncino. Tra le bevande il mate de coca, un infuso, tradizionale nella zona delle Ande, utilizzato soprattutto per contrastare la nausea e il mal di altitudine. Ma la bevanda nazionale rimane il pisco sour, bevanda a base di distillato di vite, limone e bianco d’uovo. Devo dire niente male tanto che ogni sera la mia cena era accompagnata da un bicchiere di pisco sour. Salvatore ti ringrazio del tempo che mi hai concesso. Mi è sembrato di viaggiare con te mentre tu raccontavi, provando la stessa tua emozione, perdendomi anch’io tra cieli, silenzi e popoli straordinari. Cosa dici ai nostri lettori sul “viaggio”? Viaggiate se potete e quando volete. È una crescita dell’anima, di voi stessi e nessuno mai vi potrà rubare le meraviglie preziose che sono rimaste nella vostra mente. Il Perù potrebbe essere senz’altro una vostra meta. Photo di Salvatore Messina 15 ‘Etna! C’est parmi toi visité de Vénus RECENSIONI Sur ta lave posant ses talons ingénus, Quand tonne un somme triste ou s’épuise la flamme.”, St. Mallarmé, L’Après midi d’un faune di Fabio Casadei Turroni 16 Ancora la gaya coppia RiccardoClaudio compie la magia di scrivere a 4 mani un romanzo. Che è, ben inteso, un’impresa ardua! L’alchimia delle penne, sicula di Riccardo e padana di Claudio, segue un percorso, che ha già una propria storia abbastanza lunga, che è sempre più chiaramente sensuale. Le vite artistiche dei due amici si sono unite tanto tempo fa, e si sono abbarbicate l’una all’altra in maniera inestirpabile. E in effetti la lettura del romanzo rivela in maniera clamorosa l’innamoramento reciproco dei due autori. Non è l’amicizia un atto erotico? Ce ne rendiamo conto dai caratteri dei personaggi, e dall’ambientazione del racconto. La coppia RicClaudio s’ama tanto che lo dichiara ai lettori tramite il legame tra Calogero Ursini e Tina Puglisi. Calogero è un amante di D’Annunzio, e cita Nietzsche. Un esteta di grande successo che passa la propria visione di vita raffinata a Tina, da lui introdotta nel luccicante mondo milanese della moda. Tina, dal proprio canto, è nata a Catania, vive di giornalismo, e ottiene successo ad una conferenza palermitana dove tratta appunto di Nietzsche. I due, del resto sono anche amanti! Non è un amore; noi diremmo che sono scopamici. RicClaudio è talmente consapevole ed imbarazzato della propria disinvoltura a spiattellarsi sulla pagina scritta da trovare un modo classico di celarsi e negare l’evidenza: il personaggio di Zorayr, che allontana Tina da Calogero, la fa innamorare, e su cui mi sento d’usare qualche parola di più. Zorayr è un prestante giovanotto pescatore turco assolutamente affascinato dalla donna occidentale, che si fa scorgere sulla spiaggia del proprio paese, di prima mattina. Si fa amare sulla sabbia. Si fa rivedere. Giorno dopo giorno. Un po’ Nausicaa, un po’ Circe, Tina trasforma Zorayr in una figura d’Ulisse. Zorayr la segue in Italia. Si plasma su di lei. Accetta champagne e raffinatezze (marchesiane) che dovrebbero scandalizzarlo. Comprende che il lavoro porta Tina tra le nebbie del Nord; ma vive come Tina (disalvanamente) dei colori abbacinanti e chiari e netti del Mediterraneo. Capisce poco d’Italiano, ma segue il cuore. Tina è gratificata dall’invidia delle proprie feroci amiche/colleghe, che ammirano il suo amante dalla pelle esotica, ambrata. Zorayr è un ingenuo. Si fida. Un Puro Folle che viene premiato colla visione salvifica del Graal. Cioè dai valori dell’Occidente. Siamo in ambito culturale e immaginifico di squillante cristianità. La scelta, che potrebbe parere un sotterfugio da narratore di RicClaudio, di farli sposare secondo il rito cattolico (nientemeno che nella Cappella Palatina di Palermo) esprime forse una sincera speranza di coesione tra Cattolicesimo e Islam. O forse conferma mentre nega un sottaciuto timore d’impossibilità alla coesistenza tra due monoteismi che a prima vista parrebbero molto simili. La conversione del turco vezzoso (taciuta per tanta parte del romanzo) negherebbe quindi l’ideologica superiorità dell’Islam, che si proclama Rivelazione Finale, e fagocita le altre; e anche la tesi nietzschiana del Cristianesimo come religione femminile, adatta ai deboli, a chi subisce e s’inchina. Nel romanzo succede tutto il contrario! La trama è accompagnata dallo sciabordio cullante delle calde onde del mare omerico colore del vino. Non a caso i romanzi che ultimamente trattano degli scontri Islam/Cristianesimo si giocano nel Mediterraneo, e si rifanno alle suggestioni e alle infinite problematiche della cultura classica latina, quando il mare era centro dell’Impero Romano la cui rovina, secondo il Leopardi dello Zibaldone, iniziò con l’estensione della cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’Impero: la perdita dell’identità e dello spirito di patria, illanguidito dall’estensione mostruosa del territorio, avrebbe aperte le frontiere ai barbari. Se Gog e Magog premono alle porte dell’Impero Consumista, il luogo adatto alla lotta è proprio la Sicilia del romanzo di RicClaudio, in cui è l’Europa irreligiosa che sbarca in Oriente. I flussi migratori, lo sappiamo, seguono il percorso inverso. Il modo romanzesco tranquillizzante per sperare nella pace sociale è seguire il cuore, come fa Zorayr. Se Tina è cattolica, lui si fa cattolico. Glielo indica suo padre, che in una visione l’esorta ad accettare la cultura che lo circonda. È quindi la maschia figura paterna, così impositiva nella cultura maomettana, che l’esorta ad inchinarsi alla Donna, e alla sua religione cattolica. Un’inversione culturale paradossale rispetto ad una religione che presuppone la sottomissione muliebre, e che tutti, appena nati, facciano parte dell’Islam, e che infatti non parla di conversioni all’Islam, ma di ritorni al seno d’Allah. Ma Zorayr segue semplicemente il difficile percorso inverso! La sottomissione (Islam significa proprio sottomissione) è totale, invertita; ma verosimile. Etica e religiosa. Facile ma problematica. Insomma: mi pare che il romanzo sia molto più complesso di quanto voglia far apparire. E imponga letture a più livelli. Da un punto di vista stilistico, mai come qui le penne si mescono e si rimescolano e si confondono. Non è più possibile distinguere le quattro mani di RicClaudio. La pastosità della scrittura è frutto maturo d’una scaltrita coesistenza che si fa quasi identità. Non si vedono fratture. Sole e nebbie convivono. Andare oltre sul cammino della convivenza stilistica sarà molto difficile. Da un punto di vista d’amico, che è il mio, dato che la scrittura narrativa è diventata un organismo unico, mi piacerebbe vedere RicClaudio alla prova d’un testo teatrale. Secondo me RicClaudio, poeta e narratore, sarebbe il bicefalo autore ideale per un brillante testo drammatico. Una delle feste più spettacolari al mondo Una città in delirio, tra sacro e profano, per la diva Agata Dall’1 al 5 febbraio la città di Catania onora Agata, la sua Santa, una fanciulla catanese, vissuta tra il III e il V secolo d.C. Martirizzata dal proconsole romano Quinziano che voleva possederla contro la sua volontà di cristiana. Un fiume di fedeli, lento e ondulante, vestiti con un saio di cotone bianco (saccu), tira il cordone agganciato al fercolo (vara in catanese) di Sant’Agata e lo trascina per le vie della città barocca. La cera piove sull’asfalto. Per le vie di Catania, sotto un cielo che sembra un quadro del Tiepolo, il fercolo della santa patrona è al centro di una cerimonia collettiva che si snoda come un nastro colorato davanti alla gente. I devoti, sembrano posseduti dalla frenesia come tifosi del calcio, durante una partita. Agitano in aria i fazzoletti, gridando in coro “ Viva,Viva S. Agata.” La Santuzza, nel suo giro, è preceduta da 12 candelore. Enormi cerei, riccamente decorati, che rappresentano le corporazioni dei mestieri della città di Catania. Connubio di sacro e profano che rievoca un rito arcaico diffusosi tra le civiltà egizia e greca. Erodoto già nel 454-447 a.C. ci dà una dettagliata conoscenza di processioni falloforiche, per rendere omaggio alla terra madre e allontanare l’inverno e il buio. Retaggio che è continuato poi in altre civiltà e nei riti cristiani. A guardare bene, la candelora, ha effettivamente una forma fallica che ricorda i riti pagani. Agata è stata martirizzata, per aver difeso la propria fede ardente durante le persecuzioni contro i Cristiani. Era bella, casta ma i suoi seni avevano provocato i suoi nemici. La vergine era diventata oggetto della loro follia sadica. Vittima del piacere diabolico che si ricava dalla voglia di fare male, di infierire contro il corpo indifeso della propria vittima. Sant’Agata ci ricorda ogni anno questo misterioso rapporto tra santità e crudeltà. Un miscuglio di rose, gioielli e croci. Riccardo Di Salvo - Claudio Marchese San Berillo, il quartiere a "luci rosse" di Catania, diventa romanzo - saggio Disponibile in tutte le librerie d'Italia