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Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana Anno IV - N. 18 - Luglio-Agosto 1998 La sacralizzazione del sacro Secessione e costituzione Il matematico Giuseppe Peano Le Fare della Langobardia Maior La preistoria del mondo alpino e padano 18 La Libera Compagnia Padana Quaderni Padani Casella Postale 55 - Largo Costituente, 4 - 28100 Novara Direttore Responsabile: Alberto E. Cantù Direttore Editoriale: Gilberto Oneto Redazione: Alfredo Croci Corrado Galimberti Flavio Grisolia Elena Percivaldi Andrea Rognoni Gianni Sartori Carlo Stagnaro Alessandro Storti Grafica: Laura Guardinceri Collaboratori Giuseppe Aloè, Camillo Arquati, Fabrizio Bartaletti, Alina Benassi Mestriner, Claudio Beretta, Daniele Bertaggia, Dionisio Diego Bertilorenzi, Diego Binelli, Roberto Biza, Giovanni Bonometti, Romano Bracalini, Nando Branca, Ugo Busso, Giulia Caminada Lattuada, Claudio Caroli, Marcello Caroti, Giorgio Cavitelli, Sergio Cecotti, Massimo Centini, Gualtiero Ciola, Carlo Corti, Michele Corti, Giulio Crespi, PierLuigi Crola, Mauro Dall’Amico Panozzo, Corrado Della Torre, Alessandro D’Osualdo, Marco Dotti, Leonardo Facco, Davide Fiorini, Alberto Fossati, Sergio Franceschi, Carlo Frison, Mario Gatto, Ottone Gerboli, Giacomo Giovannini, Michela Grosso, Joseph Henriet, Thierry Jigourel, Matteo Incerti, Eva Klotz, Alberto Lembo, Pierre Lieta, Gian Luigi Lombardi Cerri, Carlo Lottieri, Pierluigi Lovo, Silvio Lupo, Berardo Maggi, Andrea Mascetti, Pierleone Massaioli, Ambrogio Meini, Ettore Micol, Renzo Miotti, Aldo Moltifiori, Maurizio Montagna, Giorgio Mussa, Andrea Olivelli, Alessia Parma, Giò Batta Perasso, Mariella Pintus, Daniela Piolini, Francesco Predieri, Ausilio Priuli, Igino Rebeschini-Fikinnar, Giuliano Ros, Sergio Salvi, Lamberto Sarto, Massimo Scaglione, Laura Scotti, Silvano Straneo, Candida Terracciano, Mauro Tosco, Nando Uggeri, Fredo Valla, Giorgio Veronesi, Antonio Verna, Alessio Vezzani. Spedizione in abbonamento postale: Art. 2, comma 34, legge 549/95 Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041 Arona NO Registrazione: Tribunale di Verbania: n. 277 Periodico Bimestrale Anno lV - N. 18 - Luglio-Agosto 1998 I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla “Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista. Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana. 1 4 14 16 Noi, Chiesa Padana - Brenno La sacralizzazione del sacro - Note sui simbolismi territoriali degli antichi popoli - Gilberto Oneto Secessione e costituzione - Alessandro Storti Simon Boccanegra - Flavio Grisolia Il pensiero scientifico: un carattere distintivo della cultura padana - Il matematico Giuseppe Peano - Silvano Straneo Le Fare della Langobardia Maior, notarelle appunti e considerazioni - Mario Gatto 31 gennaio: S. Geminiano, il “Padre” dei modenesi - Alina Mestriner Benassi Toponomastica celtica (e venetica) nel Veneto - Renzo Miotti e Giuliano Ros La Padania: quindicimila anni di storia agricolo forestale - Lamberto Sarto Ripartizioni agrarie e bonifiche paleovenete nel territorio padovano - Carlo Frison Riti “altri” in area subalpina - Massimo Centini In Bassano per i Remondini - Giulia Lattuada Caminada La preistoria del mondo alpino e padano - Ausilio Priuli Mayno della Spinetta, brigante alessandrino, imperatore della Fraschea - Mariella Pintus Biblioteca Padana 19 24 28 32 35 38 41 44 51 57 60 Noi, Chiesa Padana N egli ultimi tempi è montata di tono la polemica fra il movimento indipendentista padano e la Chiesa cattolica. Lo scontro si è sviluppato su tre livelli di intensità. Il primo vede i padanisti accusare parte del clero di eccessivo attaccamento alle “cose del mondo”, di troppo amore per ricchezze e finanze. Il secondo livello riguarda l’atteggiamento della Chiesa verso la politica e in particolare l’ingerenza della Gerarchia nei fatti amministrativi e partitici, e la conseguente insofferenza dei cittadini padani per quella che considerano una indebita “invasione di campo”. Ma fino a qui gli accenti si sono mantenuti entro i confini di una accesa ma civile divergenza. È infatti solo al terzo livello che la polemica è scaduta di tono con il rispolverare consunte argomentazioni anticlericali, fatte di operazioni scandalistiche sulle abitudini sessuali e culinarie di taluni prelati, di accuse categoriche che escludono ogni distinzione fra buoni e cattivi (e nelle quali i “preti” sono solo cattivi proprio in quanto tali) e basate su infime argomentazioni da bettola. A tutto questo fa da contraltare un altrettanto scomposto atteggiamento da parte di talune gerarchie ecclesiastiche che accusano un po’ maldestramente i Padani di egoismo e di grettezza, che condannano senza giustificazioni le istanze autonomiste e che prendono aperta posizione in favore degli avversari politici dell’autonomia padana, indipendentemente da chi siano e solo in virtù del loro essere contro la Padania, che viene così demonizzata. È una brutta storia che divide i nostri popoli proprio sulle due cose a loro più care: le istanze di libertà e la fede religiosa. Due cose che non possono essere tenute distinte e rese nemiche, pena la sconfitta di entrambe. È una lite fra fratelli che porta vantaggi solo ai nemici esterni dei popoli padani, delle libertà e del tradizionale rispetto per la religione. È necessario che lo scontro si ricomponga e che il dibattito rientri all’interno di livelli più civili e convenienti per tutti. È vero che la Chiesa (o parte di essa) si occupa di intrighi economici ed è vero che questo interessamento eccessivo è stato una costante anche troppo ricorrente nella sua storia. È altrettanto vero che questo in Padania non è mai stato facilAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 mente digerito e che esso ha - per reazione - dato origine e vitalità a gran parte delle eresie padane che hanno sempre avuto, come costante, il ritorno alla purezza e alla povertà delle origini, e la forte richiesta di moralità e di netta distinzione fra affari del mondo e affari dello spirito. Si ritrova sempre questa presa di posizione: dai Catari ai Dolciniani, fino agli ultimi sussulti pauperistici ottocenteschi. Ma è anche vero che questa inesausta voglia di pulizia morale ha dato origine a molte reazioni anche all’interno del corpo della Chiesa che in Padania è sempre stato molto sensibile a queste tematiche che hanno avuto nell’opera di pulizia di San Carlo uno dei loro momenti di più alta moralità. Sia dentro che fuori la nostra Chiesa si è sempre dato prova di una costante (e molto significativa) avversione per Roma, intesa come centro emanatore di corruzione, come antico soggetto di distruzione delle culture tradizionali (per i non cristiani) e di depravazione della purezza della Chiesa (per i cattolici). C’è una continua e sottile linea di antiromanità che è inutile nasconderlo - ha sempre pervaso la Chiesa padana, da Sant’Ambrogio, alle contrapposizioni con Venezia (e le sue eroiche resistenze agli Interdetti papali), a San Giovanni Bosco e in fondo - anche con Giovanni XXIII e Giovanni Paolo I. Il fasto e l’intrigo non si addicono alla Chiesa padana che è troppo legata alle antiche tradizioni celtiche, sia per diretta discendenza organica (molto è stato detto sulla continuità non solo formale fra druidi e sacerdoti, e sulla profonda influenza della religiosità celtica sul cristianesimo medievale) che attraverso la rievangelizzazione portata (a partire dal VII secolo) dai monaci irlandesi. Quella padana è una Chiesa fatta di stretta comunanza fra sacerdoti e popolo, di civile discussione e accettazione delle idee, di tolleranza: il mondo celtico non ha fatto martiri, i romani sì. La nostra Chiesa è cresciuta con la nostra civiltà, con i nostri Comuni, con le nostre libertà. Non è un caso che i Comuni della Lega avessero al loro fianco il Papa. Non si trattava solo di convenienze politiche e di alleanze militari antiimperiali ma di legami molto profondi: sul CarQuaderni Padani - 1 roccio si diceva messa e le nostre bandiere sono ancora oggi crociate. Un arcivescovo, Uberto da Pirovano è stato l’inventore della Lega Lombarda, un Pontefice ha scomunicato Federico II aiutando i Comuni della seconda Lega. Libertà locali e religione sono andati d’accordo per secoli. Nei terribili ed eroici giorni delle Insorgenze anti-giacobine i preti erano a fianco dei combattenti, dei cosiddetti “Viva Maria” che innalzavano bandiere con la Vergine: anche allora nella lotta dei popoli padani le istanze di autonomia erano difficilmente districabili da quelle di difesa della religione tradizionale. C’è stata la comune lotta contro l’unità massonica e anticlericale d’Italia. Tutti i cosiddetti “padri” (o meglio, “padrini”) della patria sono morti scomunicati e il risorgimento è stato fatto principalmente contro la Chiesa, intesa come entità temporale ma anche come struttura religiosa. Un Papa coraggioso ha condannato la prima guerra mondiale (grande patriottico macello tricolore). È infine stato per tornare vicino al popolo cristiano che la Chiesa ha finito per accettare l’Italia ma ha poi anche accettato troppi compromessi col fascismo, con la greppia democristiana, e oggi con un sordido regime mafio-comunista. Proprio con questa poco cristiana compromissione e con queste poco evangeliche frequentazioni, la gerarchia ecclesiastica si comporta - a proposito di lotta per la libertà - qui diversamente che altrove: in Irlanda, in Lituania, in Slovenia, in Croazia era stata la prima a benedire (e ad aiutare) l’indipendenza di popoli cattolici. Perché ai Padani non riconosce gli stessi diritti? Se alcuni alti prelati troppo filoromani abbandonano il popolo, il clero migliore non deve seguirli: la Chiesa è popolo e parte del popolo e deve stare con il suo popolo. Se si divide il popolo dai suoi sacerdoti si spezza la forza di una comunità. È vero che nel passato la Chiesa ha troppe volte contribuito a devastare antiche culture e a sradicare ogni segno e radice considerata pagana, ma è altrettanto vero che quello che di più antico è rimasto nella nostra cultura è rimasto nella Chiesa: mutato, modificato e sminuito ma ancora presente. Il culto dei Santi, della Vergine, l’attenzione per elementi naturalistici e simbolici e per tanti segni della nostra antica sacralità sono quel che resta delle nostre radici. La Chiesa - piaccia o no è l’unica Tradizione vivente. Non ha perciò senso attaccarsi a ritualità strampalate, inventarsi stravaganti riti druidici o ricercare tardivi contatti con il protestantesimo che ha per certo sempre mostrato grande sensibilità per le libertà indivi2 - Quaderni Padani duali e incoraggiato l’attivismo (culturale e anche economico) dei singoli ma che è anche stato il più feroce nemico di ogni legame con le nostre radici più antiche: il puritanesimo, il fanatismo biblico e l’iconoclastìa hanno cancellato nel mondo riformato gran parte dei segni delle antiche civiltà precristiane spezzando un legame culturale, affettivo e identitario carico di forza e di simboli millenari che, sia pur deformati, sono stati invece conservati dal Cattolicesimo. In questo scomposto scambio di colpi, parte della Chiesa accusa i Padani anche di scarsa propensione alla solidarietà: è un errore e una falsità. Qui c’è il più alto numero di associazioni di volontariato del mondo, qui c’è la più elevata percentuale di donatori di sangue e di organi, qui la Chiesa raccoglie le offerte più cospicue (che impiega altrove...) e qui trova chi è disposto ad “andare in missione”. Ingiustamente accusati di egoismo, i Padani si sentono offesi anche per l’eccesso di attenzione che viene mostrata nei confronti delle esigenze dei foresti, che saranno anche i nostri fratelli meno fortunati ma sono anche i più violenti, i più neghittosi e i più propensi a delinquere. E che sono anche quelli meno propensi alla tolleranza culturale e, soprattutto, religiosa. Fa tristezza vedere sacerdoti (magari agghindati da fattorini o peggio) accudire con ostentata premurosità ai bisogni e ai desideri di clandestini, spacciatori e di prepotenti, e magari trascurare (per una troppo entusiastica e rivoluzionaria interpretazione della parabola del figliol prodigo) la cura dei nostri vecchi e dei nostri malati. Aiutare certi malavitosi significa quasi sempre arrecare ulteriore danno alle loro vittime, soprattutto alle più indifese. E in questa visione molto terzomondista e pelasgica della carità rientra anche la solerte cura delle anime dei mafiosi e dei loro cari, in cui le cronache più recenti vedono premurosamente impegnati tanti sacerdoti. Fa tristezza vedere cardinaloni intendersela con i rappresentanti (in doppiopetto) di un potere mafioso e di un regime corrotto e liberticida, con i discendenti di quei massoni e comunisti che hanno scomunicato, con gli eredi (mai pentiti) degli assassini di sacerdoti, degli aguzzini e degli affamatori del popolo cristiano. Fa tristezza vedere le gerarchie sostenere uno stato ladro e nato da una macchinazione anticlericale. Fa tristezza vederli alleati con i nemici delle nostre libertà e autonomie, non più sul Carroccio in mezzo al popolo ma al servizio del nemico della nostra terra. Fa tristezza e rabbia vedere l’unità d’Italia (e l’otAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 topermille) diventare dogma di Fede. Fa rabbia vedere la Chiesa, che da sempre è stata il più solido baluardo contro l’Islam, passare praticamente di campo e favorire l’invasione (che ha forme pacifiche ma non si sa fino a quando...) dei nipoti di quei saraceni e turchi che per secoli e secoli hanno portato morte, distruzione, schiavitù e fanatismo e che hanno sempre cercato di occupare e di distruggere l’Europa e la sua civiltà, di cui la Chiesa è parte centrale e antica. Da che parte sarebbero stati certi odierni pretoni a Lepanto? Certo, tutto questo ci provoca un più che ammissibile sdegno ma non può giustificare nessun esercizio di becero anticlericalismo. Noi cattolici padani dobbiamo ricordare a noi stessi che la Chiesa siamo noi, al clero che “va per la tangente” che non esiste Chiesa senza popolo, e agli anticlericali “per (scomposta) reazione” che non esistono libertà senza tradizioni storiche, senza identità e senza radici. La croce di San Giorgio è la croce di tutto l’occidente cristiano, che tutti i suoi figli migliori hanno difeso - cattolici, eretici o atei - per quello che essa significa in termini di continuità storica, culturale ed identitaria, e di quel profondo ed eterno legame con la terra che Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 costituisce l’essenza della nostra civiltà. Indipendentemente dalle loro personali convinzioni religiose, tutti i Padani sanno che esiste un legame morale e simbolico fra la tradizione religiosa e l’identità padana: alla testa degli eserciti padani c’è sempre stato uno stendardo con la croce, le rogazioni erano precedute da una insegna del drago. La croce e il drago di Padania si fondono e identificano in San Giorgio, ma anche in San Marco, Ambrogio, Maurizio e nei cento altri simboli di cristianità e padanità, fino alla Madonna nera di Oropa che veglia su questa terra da molto prima che il Cristianesimo vi comparisse, per collegarsi con la forza antica della cultura Garalditana, Veneta, Ligure e Celta. Tornino i Padani sotto le insegne crociate della loro storia millenaria, nate del Cristianesimo celtico e dal Medioevo cristiano. Torni la Chiesa padana a fianco dei suoi popoli. Le nostre libertà e autonomie (come le cattedrali romaniche e gotiche che ne sono il simbolo più efficace) sono state costruite dall’unione della Fede con le libertà. È una unione che rende i nostri popoli invincibili e la Padania libera e indipendente. Brenno Quaderni Padani - 3 La sacralizzazione del sacro Note sui simbolismi territoriali degli antichi popoli di Gilberto Oneto L’ intervento dell’uomo sul territorio era inteso dalle civiltà tradizionali come un’opera di adeguamento all’ordine cosmico in contrapposizione al caos informe e da questa intenzione “morale” traeva ispirazione e giustificazione quasi diventando una continuazione dell’atto primordiale della Creazione di cui voleva riprendere i ritmi e i simboli. Che questo principio abbia da sempre governato la fondazione e la costruzione delle città è cosa universalmente nota e accettata. Assai meno palesi risultano essere le stesse intenzioni applicate al paesaggio, spesso invece inteso quasi come elemento di contrapposizione allo spazio ordinato dei centri urbani. La maggiore notorietà e conoscenza dei riti e dei simboli di fondazione urbana derivano dal fatto che questi siano stati presenti in tutte le civiltà e, in particolare, anche in quella romana cui purtroppo la cultura ufficiale fa da molto tempo esclusivo riferimento. L’atteggiamento romano nei confronti della comprensione e della gestione del territorio era invece improntato alla volontà di conquista e di sottomissione, e alla necessità di modificarne la forma per ragioni di sfruttamento economico e di sottomissione simbolica. Lo strumento abituale con il quale si raggiungevano questi obiettivi era la centuriazione e cioè la sovrapposizione sul paesaggio di un reticolo geometrico di quadrati di circa 700 m di lato che servivano per la equalitaria distribuzione delle terre ai coloni (e quindi per l’insediamento di gente “amica” sulle terre conquistate, dalle quali è stata espulsa la gente “nemica”), per la razionalizzazione della produzione agricola, per il controllo militare del territorio e per la distruzione di tutti gli elementi paesaggistici (i boschi, i luoghi sacri o nemeton, i monumenti megalitici eccetera) su cui si basavano invece gli schemi di sacralizzazione della terra dei popoli vinti. (1) Restavano per evidenti ragioni escluse da questa operazione solo le aree di collina e di montagna dove infatti la penetrazione romana è sempre solo stata molto superficiale e temporanea. (2) Del tutto diverso era l’atteggiamento delle popolazioni più antiche, soprattutto di quelle di ori4 - Quaderni Padani Allineamento di motte circolari nel Wiltshire. (Da Marilyn Bridges. Markings. New York: Aperture, 1986) gine celtica, ma risulta che del tutto analogo fosse anche quello delle altre stirpi e, in particolare e per quel che ci concerne, di Garalditani, Liguri, di Reti e di Veneti. Tutti questi non avevano col territorio un rapporto imperialista di conquista (e di sfruttamento) ma uno stretto legame che travalicava i limiti della convenienza economica o del contatto fisico ma che arrivava a una identificazione simbolica e sacrale molto forte. La terra era la tribù, nella terra si trovavano le origini ancestrali della comunità, la terra ospitava tutti gli elementi di sacralità di cui la tribù faceva parte. La terra era la “Madre Terra” dispensatrice fecon- (1) Per i dettagli della sistematica centuriazione (e distruzione) del paesaggio padano da parte dei Romani si vedano: Pierluigi Tozzi. Storia Padana antica. Milano: Ceschina, 1972, e AA.VV- Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Modena: Edizioni Panini, 1984 (2) È assai sintomatico che gli Stati Uniti, nella loro espansione verso ovest e con lo Homestead Act del 1862, si siano comportati esattamente allo stesso modo stendendo sul paesaggio un reticolo di 16 acri che interessa un buon terzo degli Stati Uniti. Anche qui l’operazione è evidentemente riuscita solo nelle zone pianeggianti dalle quali le tribù pellerossa sono state immediatamente espulse e maggiore resistenza si è avuta solo nelle regioni montuose. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Schema di allineamenti nel South Durham, Inghilterra. (Da Paul Screeton. Quicksilver Heritage. London: Abacus, 1974) da di ogni pulsazione di vita e di ogni ricchezza: ogni elemento e parte della natura era custode di una entità sacra o costituiva una porzione di divinità che andava rispettata. (3) Il paesaggio era cioè (3) “Un carattere che è singolarmente comune a tutte le religioni primitive (nel senso di prime in ordine temporale) è il concetto panteistico di natura ospitante il divino e di natura stessa come manifestazione del sacro. In quel mondo ogni albero, ogni fonte, ogni corso d’acqua, ogni collina costituiva una ierofania o una epifania, o racchiudeva una entità spirituale o aveva un proprio “spirito guardiano” che faceva parte di un sistema interconnesso e insostituibile, di una vasta rete di relazioni attribuibile e riportabile alla presenza del divino. Tali spiriti erano in qualche modo accessibili all’uomo pur godendo di una condizione divina o semi-divina autonoma o dipendente da un Ente superiore e comunque rientranti in un più generale disegno di ordine sacrale della natura. Queste manifestazioni hanno assunto forme e nomi diversi nelle varie culture mantenendo una intrigante unità - anche formale - di fondo: così - ad esempio - i centauri, i fauni, le ninfe eccetera della cultura greco-romana ricordano gli elfi, le fate, gli gnomi eccetera delle tradizioni nord-europee. Nelle culture nordiche - e con singolari analogie in quelle estremo-orientali - ricorre una generalizzata tendenza alla antropomorfizzazione e zoomorfizzazione degli elementi del paesaggio quasi questi fossero “esseri” acquattati su di esso in un sonno dal quale si possono sempre svegliare dando luogo a fenomeni naturali di difficile spiegazione come terremoti o bradisismi. Tutte queste presenze famigliari, rassicuranti o inquietanti di divinità o di manifestazioni del divino implicavano un rispetto che veniva riflesso sull’elemento naturale protetto che finiva così per godere esso stesso di speciale riguardo: prima di abbattere un albero, sventrare una montagna o imbrigliare un torrente, era importante placare lo spirito preposto a quel particolare elemento o parte del paesaggio e dimostrargli l’effettivo stato di necessità che si trovava alla base della decisione di intervento. (...) Oltre al descritto diffuso animismo, l’antica visione sacrale della natura si manifestava anche sotto la variante dell’impersonificazione del mondo intero con un essere vivente quasi sempre identificato con la Terra Madre. Anche in questo caso il paesaggio è ritenuto meritevole di rispetto a causa di sue valenze religiose non più rappresentate da tante presenze autonome o semi-autonome ma per la sua più precisa identificazione con la “pelle” della Terra Madre che arriva anche a livelli di dettaglio iconografico piuttosto interessanti: la superficie terrestre è vista come l’epidermide, la vegetazione sono i peli, le montagne le rugosità e l’acqua è la linfa vitale - il Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 sangue - che scorre e dà la vita. Proprio come la pelle di un essere vivente, il paesaggio può essere ferito - lasciando cicatrici perpetue leggibili - o tatuato con grandi segni. Si collocano in quest’ottica culturale tutte quelle manifestazioni dette geoglifi che non avrebbero altra spiegazione pratica se non proprio quella di essere dei “tatuaggi” a uso del sacro e a dimensione territoriale. Si ricordano le figure collinari inglesi, quelle a movimento di terra nordamericane, i segni di Nazca e - in qualche modo - anche gli allineamenti che qua e là sorgono in area celtica. Questa immagine del paesaggio come pelle della Grande Madre trova particolare successo in talune culture, come quelle pellerossa, dove viene portata alle conseguenze più estreme con il rifiuto - ad esempio - di arare per non ferire o di abbattere alberi per non spogliare. Questo atteggiamento dura fino a oggi sia in manifestazioni religiose di tipo tradizionale che nella riproposizione di immagini che inconsciamente riproducono simboli evidentemente rimasti acquattati nel subconscio collettivo dopo aver perso i loro significati palesi. Anche questa metafora è stata cristianizzata e in qualche modo è pervenuta fino a noi con la non troppo velata identificazione fra Terra Madre e Vergine Maria (soprattutto nelle sue versioni icografiche “nere”) perdendo però le connotazioni più specificatamente legate all’idea di paesaggio-pelle.” Da: Gilberto Oneto, Manuale di pianificazione del paesaggio (Milano: Il Sole 24 Ore-Pirola, 1997), pagg. 22 ÷ 27. Quaderni Padani - 5 contenitore di sacralità ma anche, esso stesso, elemento e soggetto di sacralità. Ogni intervento sul paesaggio doveva tenere conto di queste valenze e diventare parte del sacro, continuazione del sacro e vi si doveva inserire solo nella misurata veste di contributo antropico all’armonia generale. Si trattava di un atteggiamento che era comune (sia pur con diverse sfumature di comportamento) a tutte le civiltà tradizionali e che si è in qualche modo conservato in occidente sotto la coltre di cristianizzazione e in veste di cultura popolare, di memoria folklorica. Molto di questo complesso patrimonio spirituale e culturale stà negli ultimi tempi riaffiorando. Parecchio si comincia a sapere, ad esempio, sulla scienza cinese del Feng-Shui che regolava ogni azione umana di trasformazione o di utilizzo del paesaggio sulla base di precisi rapporti di geomanzia. (4) Qualcosa di analogo comincia qua e là a venire fuori anche fra le pieghe dei paesaggi occidentali sui quali - occorre ricordarlo - molto è successo in termini di interventi e di modificazioni anche profonde da che le ultime civiltà tradizionali hanno avuto modo di lasciarvi incisi i loro segni. (quasi si trattasse di lavagne sulle quali nel frattempo abbiano continuato a stratificarsi interventi e cancellazioni di portata crescente). Come se non bastasse, i nostri paesaggi hanno dovuto subire la sistematica opera di cancellazione di ogni antico segno di sacralizzazione da parte dei Romani (che vi leggevano un pericoloso segno di diversità, di autonomia e di identità contrario al loro obiettivo di sistematica omologazione) e della Chiesa che vi vedeva segni di superstizione da 6 - Quaderni Padani Schema di allineamenti nell’Ostfriesland, Germania. (Da John Michell. Secrets of the Stones. Harmondsworth: Penguin Books, 1977) estirpare o la demoniaca sopravvivenza di antichi culti naturalistici pagani. Perciò solo di rado e a fatica riaffiorano brandelli di strutture organizzative del territorio basate su schemi sacrali, simbolici o astrali la cui identificazione è, oltre a tutto, ulteriormente complicata dal non saper bene cosa cercare. Solo da pochi anni si sono ricostruite alcune delle chiavi di lettura che hanno permesso di fare riaffiorare segni che sono spesso ancora troppo labili e imprecisi per potere vantare certezze. In queste condizioni è inevitabile che a situazioni vere, verosimili o a tracce sicure si mescolino supposizioni, errori o addirittura invenzioni a intorbidire una situazione già difficile. In base alle attuali conoscenze, gli elementi portanti (4) Sarah Rossbach. Feng Shui. The Chinese Art of Placement. New York: Dutton, 1983. Un originale approccio del Feng-Shui nell’interpretazione delle manifestazioni di gestione territoriale in Occidente è stato proposto da: Derham Groves. Feng-Shui and Western Building Ceremonies. Singapore: Graham Brash, 1991. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 su cui erano costruiti gli schemi di sacralizzazione a livello territoriale delle antiche civiltà europee (o, più semplicemente, quelli che riusciamo ancora a cogliere) possono essere raccolti in due tipi: gli orientamenti astrali e gli allineamenti (in inglese leys) o “geogeometrie”. La storia della scoperta di questi segni e della loro ricomparsa nell’immaginario collettivo è affascinante come i segni medesimi. Il primo a cercare di dare coerenza scientifica a un insieme di percezioni è stato l’inglese Alfred Watkins che si è dedicato alla ricerca dei leys dell’Inghilterra meridionale: in anni di ricerche e di sopralluoghi ha scoperto e dimostrato che centinaia di monumenti megali- Schema degli allineamenti imperniati su Stonehenge. (Da Nature, 26 ottobre 1963) tici marcanti luoghi sacri (menhir, cromlech eccetera) sono stati posizionati su delle linee lunghe decine e decine di chilometri che comprendono anche talune emergenze morfologiche (collinette, picchi eccetera) e che si intersecano su elementi particolarmente rilevanti - Stonehenge è uno di questi - con una precisione e una ricorrenza che rende del tutto improbabile la loro casualità. (5) L’identificazione di tale reticolo è stata facilitata dalla particolare configurazione morfologica della regione, dal buono stato di conserAllineamenti bretoni imperniati sul menhir di Er Grah. (Da J. Mi- vazione di quasi tutti i mochell, op.cit.) numenti e dalla permanen(5) Le prime ricerche sono descritte in: Alfred Watkins. The Old Straight Track. London: Abacus, 1977. Le principali referenze sugli allineamenti inglesi si trovano in: Janet e Colin Bord. Mysterious Britain. Frogmore: Paladin, 1974 Rodney Castleden. Stonehenge. Indagine nella Britannia Neolitica. Genova: EGIC, 1995 Francis Hitching. Earth Magic. London: Picador, 1976 John Michell. The View over Atlantis. New York: Ballantine, 1969 Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 John Michell. Secrets of the Stones. Harmondsworth: Penguin Books, 1977 John Michell e Christine Rhone. Twelve-Tribe Nations and the Science of Enchanting the Landscape. London: Thames and Hudson, 1991 Gilberto Oneto. “Territori allineati”, in VilleGiardini, n. 270, maggio 1992 Nigel Pennick. Celtic Sacred Landscapes. London: Thames and Hudson, 1996. Quaderni Padani - 7 za dei luoghi “sacri” nei quali assai spesso la chiesa o la croce stazionale hanno preso il posto e continuato le funzioni del preesistente elemento sacrale pagano. Hanno contribuito anche una migliore conservazione del paesaggio (che ha subìto meno di altri il rullo compressore di chi voleva deliberatamente cancellare ogni segno di sacralità), la disponibilità di una efficiente base cartografica e la presenza volonterosa di decine di ricercatori la cui preparazione culturale (e la cui mentalità) non è condizionata dal rigorismo classicista, positivista e romanocentrico, e che quindi possiedono ancora la freschezza e l’apertura mentale (l’inglese ingenuity) che permette di vedere cose che ad altri erano precluse da preconcetti e da incrostazioni di tabù. (6) L’intero impianto ha una organizzazione complessiva nella quale allineamenti e orientamenti astrali si trovano in stretta correlazione e sono spesso indistinguibili. Infatti non solo edifici e complessi monumentali ma anche interi reticoli di allineamenti sono stati orientati in funzione solare (equinozi o solstizi) o su significativi posizionamenti di altri corpi celesti. Fin da tempi antichissimi (III e IV millennio a.C.) le popolazioni locali hanno costruito architetture sacre organizzate su precisi riferimenti astrologici, con funzione di punti di osservazione e di misurazione, o di grande calendario. I più noti di questi monumenti sono i complessi inglesi di Stonehenge e di Avebury, e quelli irlandesi di Newgrange e della valle del Boyne. (7) Trame di allineamenti del tutto simili per concezione ed estensione sono state ritrovate da (6) In realtà anche i ricercatori inglesi hanno dovuto affrontare pregiudizi e boicottaggi da parte della cultura ufficiale, spesso (anche se molto meno che da noi) ancora legata a schemi classicisti. Questo ha ritardato la diffusione delle scoperte che sono state relegate per lunghi anni nell’editoria minore e quasi underground. Solo negli ultimi tempi queste teorie e questi studi si sono conquistati un posto di rilievo nel mondo scientifico e presso le case editrici più autorevoli. (7) Le precise geometrie di Stonehenge sono state ricostruite solo con l’ausilio dei più moderni elaboratori a dimostrazione dell’elevato grado di precisione e completezza raggiunto dagli antichi astronomi. Il lungo lavoro di interpretazione è stato descritto da: Gerald S. Hawkins. Stonehenge Decoded. New York: Dell Publishing, 1965. Degli orientamenti irlandesi si è, in particolare, occupato: Martin Brennan. The Stars and the Stones. Ancient Art and Astronomy in Ireland. London: Thames and Hudson, 1983 Giova ricordare che analoghi rapporti astrali sono stati riscontrati in numerosi complessi architettonici antichi, dalle piramidi del Nilo fino a monumenti precolombiani o dell’Asia orientale. Non va neppure dimenticato che anche le chiese cristiane erano un tempo sistematicamente “orientate” (con l’abside e l’altare volti a oriente) e che le moschee lo sono tuttora (verso La Mecca). 8 - Quaderni Padani Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Sovrimpressione dei segni zodiacali sul paesaggio di Glastonbury, Inghilterra. (Da Janet e Colin Bord. Mysterious Britain. Frogmore: Paladin, 1974) Teudt in Germania nella regione attorno alla selva di Teutoburgo e da Thom in Bretagna, in un reticolo imperniato attorno al complesso megalitico di Carnac. (8) Uno schema di sacralizzazione analogo per significati e simbolismi ma diverso per concezione fisica è stato scoperto e studiato da Katherine Maltwood a Glastonbury, nell’Inghilterra meridionale: qui il paesaggio sarebbe stato organizzato sulla sovrimpressione dei dodici segni zodiacali, disegnati a scala geografica da strade, corsi d’acqua e confini di appezzamenti. (9) La Padania appartiene allo stesso ampio mondo culturale delle zone di cui si è fatto cenno ed è perciò “normale” che i suoi antichi abitanti abbiano seguito analoghe linee di condotta nel proAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 cesso di sacralizzazione di questo territorio. Certo, qui la somma dei segni lasciati sul paesaggio dalle moltissime civiltà che si sono succedute ha cancellato gran parte delle tracce di allineamenti del genere: quello che resta comincia però a riaffiorare qua e là grazie anche all’impegno di una nuova generazione di ricercatori non più legati agli intorpiditi schemi della “normale” storiografia del paesaggio. In particolare, sono moltissimi gli esempi di strutture architettoniche antiche di cui si scoprono evidenti orientamenti astrali. I casi più noti riguardano i cerchi di pietre della Val Belluna (nella necropoli paleoveneta di Mel, databile dall’VIII al IV secolo a.C.) che sono orientati sulla levata del sole nei giorni di Imbolc e di Samain, i castellieri sudtirolesi di Colle Joben e di San Pietro in Fiè (allineati al solstizio invernale), l’area megalitica aostana di Saint Martin de Corleans (sito della leggendaria Cordelia dei Salassi) orientata sulla levata del sole a Beltane e a Lammas (15 agosto), e numerosi altri castellieri e monumenti tombali nel trevigiano (Montebelluna, Giavera, Volpago e Colbertaldo). (10) (8) Degli allineamenti tedeschi e bretoni hanno scritto: Paul Screeton. Quicksilver Heritage. London: Abacus, 1974, e Wilhelm Teudt. Germanische Heiligtümer, s.l., s.d., 1929 (9) Notizie sul paesaggio costruito sui segni zodiacali sono date, fra gli altri, da: Janet e Colin Bord, Mysterious Britain (Frogmore: Paladin, 1974), pagg. 207 ÷ 213. (10) Giuliano Romano, “Allineamenti astronomici nel paesaggio montano”, in Atti del convegno Le trasformazioni del paesaggio alpino (Belluno: Fondazione Angelini, 1994), pagg. 149 ÷ 159. Si veda anche: Giuliano Romano e A. Paolillo. “Orientamenti astronomici negli insediamenti preistorici del Quartier del Piave (Treviso) nel quadro della loro distribuzione territoriale”, Università di Padova, 1988, pagg. 20 ÷ 31 Quaderni Padani - 9 I pochi villaggi fortificati (“motte”) superstiti sante notare come tutti i casi finora scoperti di dei molti un tempo presenti nel territorio di Ca- orientamenti e di allineamenti padani riguardistelfranco Veneto (Castello di Gòdego, Vallà) sono no aree alpine (dove la romanizzazione è stata orientati sull’allineamento astronomico legato al più superficiale) o il Veneto, che per lo svolgersi solstizio d’inverno. (11) degli eventi storici antichi non è stato colonizCarlo Frison ha scoperto e studiato i puntuali zato con la stessa durezza che è toccata al resto orientamenti astrali di Padova e Treviso e la pre- della Padania. La cancellazione degli schemi e cisa costruzione geometrica attorno ad essi degli elementi di sacralizzazione territoriale è creata nel tracciamento dei loro nuclei più anti- stata perciò sistematica solo nelle aree di pianuchi. (12) Qui l’impianto comincia ad assumere di- ra: il posizionamento di Milano è un residuo domensione territoriale con connotazioni che so- vuto alla persistenza della collocazione dell’abimigliano a quelle dei leys inglesi. Ha sicuramen- tato. te un interesse a dimensione più ampia la coLa sistematica opera di cancellazione non ha struzione paesaggistica di epoca romana del ter- però neppure significato la distruzione dell’idea ritorio compreso fra Verona e Vicenza e imper- stessa di sacralizzazione territoriale che è stata niata radialmente sulla Cima Marana e che è conservata all’interno della cultura occidentale e stata studiata da Giulio in qualche modo riprePizzati. ( 13) Ancora in Schema dell’area megalitica di Saint Martin sa dalla Chiesa medieVeneto, un affascinante de Corleans (Disegno di G. Romano, 1994) vale che era - giova reticolo geometrico sempre ricordarlo (esteso su 168 chilomeprofondamente impretri per 141) che collega gnata di cultura celtica. molte città (fra cui VeSolo in quest’ottica rona, Este, Vicenza, Vepossono essere spiegate nezia, Treviso, Oderzo, le geometrie territoriali Padova e Adria) è stato formate - ad esempio ipotizzato da Giuseppe dalle cattedrali francesi Segato nella sua Carta dedicate a “Nôtre DaCulturale. (14) me” (come ipotizzato Un fitto sistema di alda Charpentier) ( 17), o lineamenti di elementi dagli insediamenti temnaturali e architettonici plari attorno a Pavia (del tutto simile per che sarebbero perfettaconcezione a quelli inmente organizzati su di glesi) è stato descritto uno schema stellare a da Petitti per l’area delcinque punte centrato la Valle d’Aosta e del su Lardirago. (18) Piemonte settentrionaAnaloghe costruzioni le. (15) Di recente è stata ambientali possono esipotizzata una precisa costruzione geometrica sere ritrovate sia pur in dimensioni più conteanche per la collocazione del nucleo antico di nute: Enrico Guidoni ha - ad esempio - risconMilano, basata su un rapporto di traguardazione trato una interessante analogia fra la disposiziocon il Monte Rosa e il Resegone. (16) E’ interes- ne degli elementi architettonici della Piazza dei (11) Giuliano e Marco Palmieri, I regni perduti dei Monti Pallidi (Verona : Cierre Edizioni, 1996), pagg.55 ÷ 56. (12) Carlo Frison, Dal Pilpotis al Doge. La collegialità del governo veneto (Padova: Libreria Padovana Editrice, 1997), pagg. 9 ÷ 21. Lo stesso tema è stato trattato in: Carlo Frison “Tracce di astronomia paleoveneta”, in Padova e il suo territorio, anno XIII, fascicolo 71, gennaio-febbraio 1998 (13) Giulio Pizzati. L’Oro di Marana. Valdagno: S.e., 1985. (14)Giuseppe Segato. Allegato della carta culturale “El nostro Veneto”, Borgoricco (PD), 1994 10 - Quaderni Padani (15) Riccardo Petitti. Sentieri Perduti. Un Sistema Celtico di Allineamenti. Ivrea: Priuli e Verlucca, 1987. (16) Gilberto Oneto. “Milano, centro della Terra di mezzo”, in Quaderni Padani, Anno III, n.9, gennaio-febbraio 1997, pagg.14-21. Ancora sullo schema di fondazione sacrale di Milano, si veda: Giorgio Fumagalli. “L’ellisse di Milano”, in La Padania, 31 maggio 1998. (17) Louis Charpentier, I Misteri della Cattedrale di Chartres (Torino: Arcana, 1972), pagg. 32 e 33. (18) Alberto Arecchi, La Saga del Ticino (Pavia: Fiume Azzurro, s.d.), pagg. 55 ÷ 63. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Schema di allineamenti fra il Piemonte e la Valle d’Aosta. (Da Riccardo Petitti. Sentieri Perduti. Ivrea: Priuli e Verlucca, 1987) Miracoli di Pisa e la costellazione dell’Ariete che andrebbe al di là di una normale casualità. (19) Ancora, studiando la topografia del Sacro Monte di San Vivaldo in Valdelsa, Franco Cardini ne ha evidenziato l’intenzione di riprodurre esattamente la disposizione dei luoghi originari di Tracce di orientamenti astrali nella pianta di Treviso (Da Carlo Frison. Dal Pilpotis al Doge. Padova: Libreria Padovana Editrice, 1997) Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 (19) Enrico Guidoni, Arte e Urbanistica in Toscana 1000-1315 (Roma: Bulzoni, 1970), pagg. 49 ÷ 67. Quaderni Padani - 11 La costellazione della Vergine e le “Nôtre Dame” di Francia. (Da Louis Charpentier. I Misteri della Cattedrale di Chartres. Torino: Arcana, 1972) Gerusalemme attraverso un complesso intervento sul paesaggio. (20) Sempre a proposito di Sacri Monti - che per loro origine e caratteristiche sono il fenomeno recente che più facilmente è assimilabile a certi elementi simbolici antichi - in uno studio su quelli costruiti dai Borromeo, è stato ipotizzata una loro collocazione sul territorio secondo una precisa sequela di allineamenti incentrati sul San Carlone che era il punto di arrivo del Sacro Monte di Arona dedicato al Santo nel suo luogo natale. Il colosso bronzeo sarebbe così il centro attorno a cui ruota tutta una complessa operazione di organizzazione e geometrizzazione sacrale del paesaggio della zona del Lago Maggiore e di cui - occorre dirlo - non vi è altra prova che la precisione dell’allineamento stesso. (21) Non può certo essere un caso che questi allineamenti medievali sono da attribuire a cistercensi e a templari hanno sempre rappresentato forti nicchie di conservazione di culture e di simbolismi precristiani, e che quelli di epoca controriformistica abbiano avuto per ispiratore San Carlo Borromeo che aveva una profonda conoscenza delle culture tradizionali e un forte interesse Il pentacolo degli insediamenti templari attorno a Pavia. (Da Alberto Arecchi. La Saga del Ticino. Pavia: Fiume azzurro) 12 - Quaderni Padani ( 20) Franco Cardini - Guido Vannini. “San Vivaldo in Valdelsa: problemi topografici ed interpretazioni simboliche in una “Gerusalemme” cinquecentesca in Toscana”, in Religiosità e Società in Valdelsa nel Basso Medioevo. Atti del Convegno di S. Vivaldo, settembre 1979. (21) Gilberto Oneto, “Il Monte Sacro. Note sugli Aspetti Simbolici dei Sacri Monti”, in La Città Rituale, (Milano: Franco Angeli, 1982), pagg. 205 ÷ 207. Gilberto Oneto, Il Paesaggio Sacralizzato (Milano: D.V., 1984), pagg. 29 ÷ 36. e ben più imponente opera di organizzazione paesaggistica effettuata su forme geometriche sacrali o astrali di cui si perduta la memoria e della cui esistenza non si ha certezza alcuna. Oggi che l’antico senso identitario dei nostri popoli stà finalmente risorgendo ricompaiono sintomaticamente anche questi segni che costituiscono una antica testimonianza, un forte legame con le nostre lontane radici e un robusto segno della identificazione fra popolo e terra. Questi segni che sembravano cancellati vengono anche a dimostrare che non sono bastate oppressioni di ogni genere ad annientare l’antico legame di questi popoli con la loro cultura e con la terra. Non è un caso che le tracce di sacralizzazione del territorio ricompaiano con il rinvigorirsi della mai sopita voglia di libertà e di identità delle nostre genti. (22) Col rinsaldarsi della eterna unione fra terra e popolo si rafforzano le nostre libertà. Organizzazione del posizionamento dei Sacri Monti Borromaici. (Da AA.VV. La Città Rituale. Milano: Franco Angeli, 1982) nel significato morale e politico dell’opera di sacralizzazione del paesaggio. Altre forme di geometrizzazione minore imperniate su qualche caposaldo architettonico sono riscontrabili con una certa frequenza un po’ ovunque soprattutto nell’area prealpina: strade allineate su campanili o edifici religiosi messi in fila potrebbero essere il rudere di qualche antica Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 (22) Anche un denigratore fazioso ma attento ha di recente osservato la forte connessione fra la riscoperta dei segni di sacralizzazione del paesaggio e le pulsioni libertarie di un popolo: Rumiz fa un parallelo fra la ricerca degli allineamenti padani e lo studio, effettuato nel 1986 da Marko Pogacnik e Dusan Podgornik, su un grande chrismon sovrapposto al paesaggio istriano e imperniato sul colle di Montona. Il fatto che un detrattore astioso delle libertà padane attribuisca a questo parallelo connotazioni negative ci conforta sul valore positivo dell’identificazione fra i segni di sacralizzazione e la rinata aspirazione libertaria e identitaria dei nostri popoli. Paolo Rumiz, La secessione leggera (Roma: Editori Riuniti, 1997), pagg. 132 e 133. Quaderni Padani - 13 Secessione e costituzione di Alessandro Storti R ecentemente è apparso sulle pagine de Il Sole 24 Ore un intervento di Fabrizio Lemme, Professore di diritto penale dell’economia, relativo alle elezioni del Parlamento della Padania. Naturalmente il penalista ravvisava gli estremi per la denuncia dei promotori e degli organizzatori, estendendo però i limiti di intervento della Magistratura fino a ricomprendervi la fattispecie della preparazione del reato (“È da aggiungere che il reato è punibile anche nella forma del tentativo e quindi non solo se la consultazione elettorale venisse effettivamente attuata ma anche se fossero posti in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a realizzarla”). Ciò significherebbe attribuire ai giudici la possibilità di agire anche soltanto in relazione all’allestimento dei gazebo elettorali, a prescindere dall’effettivo concretizzarsi di attività materiali. Non intendiamo qui soffermarci sulle considerazioni giuridiche del professore dell’Università di Siena; al proposito ci sembra infatti sufficiente ricordare una questione. Lo Stato italiano dispone di tutti i mezzi giuridici e fisici per impedirci di fare le elezioni: il sistema tricolore infatti si fonda su una rigida interpretazione “monistica” e centralistica del principio sovranitario; ciò vuol dire che Roma, concepita come fonte unica e suprema della legge e del potere, può inventare, anche ex novo, tutte le strade utili per il boicottaggio della rivoluzione padana. Non illudiamoci di poterci appellare ai giudici o alla Corte costituzionale: in uno Stato profondamente illiberale e tendenzialmente autoritario gli unici veri arbitri possono essere i cittadini, con il loro consenso e la capacità di capire chi ha ragione fra un carabiniere che arresta e un manifestante in camicia verde che viene arrestato. Lasciando quindi da parte l’esame delle vie giuridiche anti-secessioniste invocate da Lemme, pensiamo sia utile soffermarsi sul punto di partenza concettuale da cui si sviluppa tutto l’articolo. Il docente in principio affronta la questione della immodificabilità - anche attraverso l’articolo 138 - di alcuni articoli della Costituzione della Repubblica italiana: “È principio giuridico ormai acquisito che alcune norme recate 14 - Quaderni Padani nelle singole Carte costituzionali non siano modificabili attraverso il procedimento di revisione. Le norme, in particolare, che qualificano l’ordinamento giuridico in senso democratico o totalitario, che proclamano l’inscindibilità dello Stato, costituendo l’essenza della costituzione materiale, non potrebbero essere modificate se non con un procedimento di fatto, che mette origine a un nuovo ordinamento...”. Non si tratta di una posizione nuova e originale, ma del vecchio insegnamento dossettiano che una consistente parte della dottrina ha trasformato in proprio cavallo di battaglia. Basandosi su questa visione della Carta, Lemme afferma che la secessione (ma lo stesso discorso varrebbe per qualsiasi forma di autentico federalismo) non è una richiesta compatibile con l’ordinamento italiano. Meglio ancora, non sarebbe ipotizzabile alcun procedimento di destrutturazione dello Stato o di separazione consensuale: questi potrebbero avvenire solo “di fatto” (lasciamo al lettore ulteriori riflessioni su tale termine, certamente vago e, diremmo noi, anche inquietante). Giudicare la tesi di questo filone del pensiero costituzionalista è un po’ come pretendere di chiedere a un credente la dimostrazione scientiAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 fica dell’esistenza di Dio. Il problema, però, è che in quest’ultimo caso, fortunatamente, le guerre di religione non si fanno (quasi) più. La fede è un fatto ormai personale, almeno in occidente, e l’elemento “irrazionale” di un credo è argomento riservato a teologi e studiosi. Al contrario, la visione di tipo “fideistico” trasportata in ambito costituzionale ha un solo effetto: genera mostri. Come chiamare altrimenti uno Stato e delle istituzioni che non si reggono sulla base di un consenso perpetuato e manifestato liberamente ma su quella di uno “spirito della Carta” inconoscibile, trascendente e immutabile? Tuttavia le nostre preoccupazioni non si limitano all’esistenza di teorie giuridiche simili: in una società sana e civile si tratterebbe di stravaganze proprie di frange minime del fondamentalismo statalista. Il fatto è che, a dispetto di quan- Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 to scrivono i Soloni dell’Ulivo, la nostra non è una società normale. E infatti la tesi della “costituzione materiale” che si colloca su un piano superumano e immutabile è pane quotidiano per studenti universitari, giuristi, funzionari di Stato e politici. È a questo punto che possiamo riprendere quanto detto all’inizio sulle vie giuridiche proposte dal penalista senese per contrastare la nascita di una entità padana. Lemme afferma che quest’ultima potrebbe nascere solo “di fatto”, e non per vie consensuali e, almeno in parte, inserite giuridicamente nell’ordinamento vigente; contemporaneamente il professore scrive che i separatisti possono essere arrestati e incarcerati per aver posto in essere manifestazioni politiche antiunitarie. In questo modo si chiude il cerchio: la pretesa natura sacra e trascendentale dei primi articoli della Costituzione (fra i quali v’è quelli sull’unità e indivisibilità della Repubblica) giustifica una molto più pratica e materiale repressione violenta dei secessionisti. E così, insomma, Lemme non fa altro che dirci: “vi schiacceremo e lo faremo in nome di principi costituzionali che non possono essere cambiati, e che anzi ci impongono di reprimervi”. Non sappiamo quanto tali proseliti possano aver successo nell’ambito politico-burocratico romano. Certo è preoccupante che un giornale prudente e sempre attento alla questione padana quale è Il Sole 24 Ore - peraltro ineccepibile in fatto di diritto - si azzardi a pubblicare interventi così violenti e illiberali. Per quel che ci riguarda possiamo soltanto ricordare al professor Lemme che parlare di repressione vuol dire assumersi tutto il peso e la responsabilità di ciò che si invoca. Ci pensino bene i governanti prima di trasformarsi definitivamente in tiranni. Già 75 anni fa un uomo ci ha provato. Ed è finito a testa in giù. Quaderni Padani - 15 Simon Boccanegra di Flavio Grisolia L e lotte intestine tra i Guelfi e i Ghibellini, che nel corso del XIII e XIV secolo, tormentarono diversi comuni padani, non risparmiarono certo Genova, dove le due fazioni presero il nome di Rampini e Mascarati e si fronteggiarono cruentemente, creando all’inizio del ‘300, un periodo di forte instabilità politica. Nel 1317 i Guelfi, sfruttando l’ostilità tra i Doria e gli Spinola di Lucoli, riuscirono per la prima volta, a nominare due di loro, Carlo Fieschi e Gaspare Grimaldi, capitani del Popolo e a prendere quindi il potere in città. Ne seguirono ben quattordici anni di guerra civile, con l’intervento di forze straniere, che attraversarono e saccheggiarono tutta la Liguria. Genova stessa fu assediata dai Ghibellini, appoggiati dai Visconti di Milano e dal veronese Can Grande della Scala, con gran seguito di Milanesi, Lodigiani, Piacentini, Comaschi, Bergamaschi, Novaresi, eccetera, mentre Roberto d’Angiò re di Napoli, la difendeva dall’interno, insieme ai Guelfi locali e ad altri provenienti da Asti, Alba, Marsiglia, Nizza, Provenza, Firenze, Bologna, solo per citare i contingenti maggiori. Una tragica guerra fratricida tra Padani era in corso, in un inestricabile connubio di idealità, interessi e sete di potere. I rivali di sempre dei Genovesi, nell’Occidente mediterraneo, i Catalano-Aragonesi, pensarono bene nel frattempo, di approfittare della situazione e andarono a insediarsi in Sardegna, creando così i presupposti per la conquista della Corsica e per il loro predominio in quel tratto di mare. La drammaticità della situazione, col rischio di un tracollo totale per la Repubblica, fece sì che, seppur a stento, si raggiungesse una pace di compromesso nel 1331: anche perché un anno prima una flotta catalana, aveva saccheggiato le Riviere liguri, da Monaco a Portovenere, minacciando Savona e la stessa Genova. La guerra che 16 - Quaderni Padani ne seguì, terminerà solo nel 1336, con la rinuncia da parte di Pietro IV d’Aragona a qualsiasi pretesa sulla Corsica, in cambio del mantenimento dei suoi possedimenti in Sardegna. Questo lunghissimo periodo di guerre interne e sui mari, che pure aveva coinvolto le più lontane colonie, aveva terribilmente stremato il popolo e fortemente denneggiato i commerci, decretando di fatto il fallimento dell’intera nobiltà, quale classe dirigente. La goccia che fece traboccare il vaso e compattò il popolo, contro i nobili, fu il mancato pagamento da parte di Aitone Doria, del compenso spettante agli equipaggi delle sue navi, durante Simone Boccanegra la guerra tra Filippo VI di Francia (al cui servizio era il Doria) ed Edoardo III d’Inghilterra, nel 1339. Tornati in patria i marinai, che erano di Savona e delle podesterie di Voltri, Polcevera e Bisagno, sentendosi non tutelati dal Governo e d’accordo probabilmente - come vedremo - coi mercanti di Genova, insorsero a Savona, occupando la città (il 10 settembre); scacciando i nobili e saccheggiandone le abitazioni. Il 23 dello stesso mese, la rivolta scoppia anche a Genova e Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Doge e Procuratore della Repubblica Simone Bocanegra, nipote di Guglielmo, già capitano del Popolo, viene eletto a vita, “Doxe” (in ligure pronunciato “duje”), rettore e governatore del popolo genovese e di tutti i suoi domini. Si stabilì inoltre che mai un nobile potesse ascendere al dogato e che i Guelfi fossero esclusi da ogni carica di governo. Simon Boccanegra era un ricco borghese imparentato con la nobiltà, quindi non un uomo del popolo come potrebbe intendersi oggi; egli infatti rappresentava il ceto mercantile, non certo quello artigianale o produttivo, né tantomeno i Liguri residenti al di fuori dei grandi centri, che, pur essendo maggioranza, subivano in termini commerciali e politici il dominio delle città, là dove questo si era sostituito a quello feudale. Da buon mercante il nuovo “Doxe” (correttamente in italiano: duce), pensò oltre agli interessi di categoria, anche ai propri e a quelli del numeroso parentado, tanto da destare fondati sospetti di nepotismo e per lo sfarzo di cui si attorniava, l’ira e l’odio di una nobiltà che si riteneva ingiustamente trascurata. Congiure e sollevazioni furono la costante che l’aristocrazia gli propinò nei primi anni del suo governo, a cui, per inciso, il Boccanegra rispose per le rime, arrivando a tener saldamente sotto controllo enAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 trambe le Riviere, ad esclusione di Monaco e Ventimiglia, che restarono sotto il controllo dei Grimaldi e di altri fuoriusciti genovesi. Intensa fu la sua attività internazionale, che toccherà il culmine, allorché suo fratello Egidio sconfiggerà i Mori in uno scontro navale in Spagna, permettendo così ai Castigliani e ai Portoghesi, di liberare dall’assedio le città di Algesira e Tarifa, ricevendo in cambio la terra di Palma in feudo e la nomina di ammiraglio di Castiglia. Anche nelle colonie, la ritrovata unità della Repubblica si fece sentire e ciò permise, ad esempio, di respingere con successo il tentativo dei Tartari di conquistare i possedimenti genovesi in Crimea. Alla fine però le macchinazioni dei nobili ebbero la meglio e Simon Boccanegra, temendo per la sua stessa vita, decise il 23 dicembre del 1344, di abdicare e dopo un breve periodo di trasferirsi a Pisa, non ritenendo ormai Genova più sicura per se e la sua famiglia. Ritornerà sulla scena nel 1356, allorquando approfittando dell’insurrezione dei nobili, appoggiati da una parte del popolo, contro la signoria viscontea (alla quale comunque la città si era volontariamente votata) riuscirà ingannando gli stessi Visconti a riprendere il potere, facendosi rieleggere il 15 novembre “Doxe”. Quaderni Padani - 17 Senza perdere le cattive abitudini del precedente dogato, il Boccanegra restò padrone di Genova e domini sino al 13 marzo del 1363, quando, probabilmente avvelenato, morì. Alla notizia della sua prossima morte, gli stessi mercanti si sollevarono, imprigionando i suoi fratelli Bartolomeo, Giovanni e Nicolò e tutti gli altri congiunti. Usciva così definitivamente di scena, il primo “Doxe” di Genova, personaggio controverso e comunque pienamente espressivo della classe emergente e dominante dell’epoca. E qui stà sicuramente l’attualità e la “modernità” di Simone, uomo già lontano dal Medioevo e figura emblematica di una borghesia ricca, potente e proiettata su nuove dimensioni sociali ed etiche. Il predominio dell’interesse privato, seppur nella tipica visione ligure del clan familiare, su quello collettivo, saranno gli elementi caratterizzanti dei gruppi dirigenti che si alterneranno al governo della Repubblica sino al 1528 e che di fatto, ne sanciranno l’irrimediabile crisi morale e militare. Solo la genialità e la lungimiranza del grande Andrea Doria, consentiranno di dare a Genova un regime, che pur certamente non ideale, le permetterà comunque di mantenere quegli equilibri di potere, che la faranno diveni- 18 - Quaderni Padani re una delle pià grandi potenze economiche (se non la più grande) del mondo. Da un punto di vista socio-economico, à possibile affermare che a Genova avvenne la prima rivoluzione borghese della storia, ben 450 prima di quella francese e senza alcun spargimento di sangue. Il fallimento di entrambi gli eventi, pur nella differenza epocale e soprattutto della portata storica, ci deve essere di severo monito, proprio oggi che ci accingiamo a costruire in Padania, una nuova comunità. La difesa dei ceti produttivi, a cui à doveroso aggiungere il piccolo commercio, dovrà essere prioritaria nei confronti del grosso capitale, della grande finanza e di tutte quelle speculazioni parassitarie, nemiche “in primis” dell’identità e della libertà dei popoli e per questo tanto care ai regimi centralisti, totalitari o pseudo democratici che siano. Il prevalere dell’interesse privato, di classe, la sete di potere, la faziosità, lo sfruttamento della città sulle campagne e dei ceti mercantili su quelli produttivi, furono i mali inguaribili che portarono all’irreversibile decadenza di Genova e di cui il Boccanegra fu in un certo senso espressione. Che la coscienza di ciò e l’amore per i nostri popoli ce ne rendano immuni. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Il pensiero scientifico: un carattere distintivo della cultura padana Il matematico Giuseppe Peano di Silvano Straneo L a cultura di un popolo, intendendo con questo termine non solo la grande produzione intellettuale delle università, dei centri di ricerca, delle accademie ma anche il complesso, non codificato nei documenti del sapere ufficiale, degli atteggiamenti mentali e pratici verso la vita e il mondo che quel popolo ha sviluppato, il suo Volksgeist, per usare un termine della filosofia idealistica tedesca, è il prodotto di secoli di vita comune, di paci e di guerre, della conformazione fisica del territorio, delle sue risorse, del clima, delle influenze esterne. Volendo individuarne, se possibile, i caratteri distintivi, se ci si limita a considerare le realizzazioni ottenute in un determinato settore, ad esempio quello scientifico, e a confrontarle con quelle ottenute da altri popoli appartenenti allo stesso bacino culturale, si ricavano solo valori assoluti poco significativi, poiché sfugge quanto di quei risultati sia dovuto a isolate genialità individuali e quanto invece al Volksgeist di quel popolo, all’ambiente culturale generale. Ad esempio, la Russia ha dato i natali a molti illustri uomini di scienza senza che, per questo, la scienza faccia profondamente parte dell’anima russa, come invece accade per la musica. Diversamente in Germania, dove una produzione scientifica e filosofica di primissimo piano si accompagna a un grande interesse pubblico. Gli stessi dettagli dell’organizzazione della vita materiale tedesca bene riflettono questo fatto. Ci si rende allora conto che ciò che occorre è verificare se e quanto i grandi risultati della cultura ufficiale riverberano sulla vita di tutti i giorni, sulla mentalità corrente, le abitudini, abilità artigianali, iniziative industriali e quanto un’atmosfera così creata diventa a sua volta fertile terreno per il sorgere di nuovi ricercatori e nuovi risultati. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Scrive Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana: “L’Europa aveva [nel primo Settecento] Newton e Leibnizio; e a Napoli si stampava De antiquissima Italorum sapientia. Erano due culture, due mondi scientifici che si urtavano. Da una parte era il pensiero creatore, che faceva la storia moderna, dall’altra il pensiero critico che meditava sulla storia passata...”. Nel Piemonte del Cinquecento, era duca Emanuele Filiberto, cui succederà Carlo Emanuele I. Ecco la testimonianza di un osservatore dell’epoca (Bartolomeo Cristini) sull’ambiente di quella corte: “Era [il duca] così interessato alle arti matematiche che aveva invitato dall’estero, per dare prestigio all’Università di Torino, tutti le menti migliori in questa scienza, persuadendole con alti onorari...”. E l’ambasciatore a Torino della Serenissima repubblica veneta, Francesco Morosini: “Poichè la scienza matematica è necessaria alla pratica delle armi, così sua eccellenza il duca si delizia nell’apprenderla ed il suo livello è molto più che medio. Cosciente che si conosce una scienza solo continuando a studiarla, ogni giorno egli ascolta una lezione su Euclide o qualche altro grande matematico...”. Nel Settecento, i maggiori centri dell’Illuminismo italiano sono a Milano, con la “Società dei Pugni”, e a Napoli. Ma mentre Milano assimila il pensiero del Vico, Napoli resta estranea alle esperienze culturali del Nord, e il successivo sviluppo della filosofia italiana manterrà fino a tempi recenti pericolosi pregiudizi contro le ricerche particolari, i problemi concreti dell’economia, l’interesse per la scienza. Sempre nel Settecento, il grande matematico piemontese Joseph Louis Lagrange dà contributi fondamentali in fisica matematica e in analisi, e fonda a Quaderni Padani - 19 Torino la prestigiosa Accademia delle Scienze; nell’Ottocento, il lombardo Carlo Cattaneo si batte sulla rivista Il Politecnico contro la “reazione metafisica” e insiste sulla necessità dei “faticosi studi positivi”, delle feconde scienze che segnano la transizione dalla cultura moderna a quella antica e sono la vera ragione della superiorità della “solerte Europa” sul resto del mondo; fra l’Otto e il Novecento, Giuseppe Peano dà un importantissimo contributo alle ricerche sui fondamenti della matematica e lascia una scuola di prim’ordine; nel Novecento, Francesco G. Tricomi lega il suo nome a un’importante equazione della gasfluidodinamica. Ma ciò che importa qui sottolineare è che le opere di questi grandi non sono state cattedrali nel deserto. Esse sono sorte da un tessuto culturale (che hanno a loro volta contribuito a formare) che ha dato origine in Padania a una fioritura di scuole, centri di ricerca, istituzioni scientifiche la quale si è accompagnata a quello sviluppo tecnico e imprenditoriale in tutti i settori industriali (poi sistematicamente trasferiti altrove dai governi romani) che ha fatto della nostra terra una delle regioni più avanzate d’Europa. Si pensi, ad esempio, che lo stato piemontese fu uno dei primi in Europa a dotarsi di un catasto modernamente inteso o alle sue grandi opere idrogeologiche come il taglio del canale Cavour. Si può allora affermare che, per il carattere intrinseco dei suoi popoli, per gli stretti contatti e l’affinità di lingue e mentalità con l’Europa più avanzata, il pensiero scientifico è un tratto caratteristico della cultura padana, sconosciuto all’Italia propriamente detta, letteraria e avvocatesca. È tempo che la Padania incominci a riappropriarsi dell’eredità dei suoi grandi anche sul fronte della scienza, fronte finora alquanto trascurato dai padanisti stessi e che costituisce invece un sicuro elemento distintivo della sua forma mentis da quella mediterranea che le è stata imposta. Purtroppo, a differenza di altri ambiti più immediatamente accessibili, per comprendere il vero valore di un risultato scientifico senza ridurlo ad una favoletta, è necessario uno sforzo. Nel presentare la figura di Giuseppe Peano, professore di Analisi matematica all’università di Torino, proponiamo preliminarmente al lettore due giudizi sul personaggio dati da Bertrand Russel e Norbert Wiener, a garanzia del fatto che questo sforzo non sarà invano. “Il congresso segnò una svolta importante 20 - Quaderni Padani nella mia vita intellettuale perché fu in quell’occasione che incontrai Peano. Lo conoscevo già di nome e avevo letto alcune delle sue opere, ma non mi ero preso la briga di assimilare i suoi simboli. Durante le discussioni del congresso mi resi conto che era sempre più preciso di tutti gli altri e che in tutte le discussioni risultava invariabilmente il più brillante. Con il passare dei giorni mi convinsi che questo dipendeva dalla sua logica matematica e pertanto mi feci dare da lui tutte le sue opere e non appena il congresso si chiuse mi ritirai a Fernhurst per studiare in tutta tranquillità tutto ciò che lui e i suoi discepoli avevano scritto. Mi resi conto che il suo metodo di notazioni forniva quello strumento di analisi logica che per anni avevo cercato, e che studiando l’opera sua mi stavo impadronendo di una nuova e potente tecnica per il lavoro che da molto tempo desideravo fare”(1). “Due luoghi si imponevano come destinazioni alternative: Cambridge, dove Russell era all’apice del suo fulgore intellettuale, e Torino, famosa per il nome di Peano”(2). Giuseppe Peano nasce il 27 agosto 1858 nella frazione “Tetto Galant” del comune di Spinetta, presso Cuneo. Trasferitosi presto a Torino, nel 1876 ottiene la licenza liceale presso il regio liceo Cavour con un brillante esame che gli vale una borsa di studio e nello stesso anno è iscritto all’Università di Torino, alla quale resterà legato fino alla morte. Si laurea nel 1880. Secondo il registro dell’università, Peano è interrogato in meccanica razionale, geometria superiore, meccanica superiore, fisica matematica e geodesia teorica e proclamato dottore in matematica pura con il voto massimo di 18 su 18. Subito è assistente universitario, prima alla cattedra di Algebra e geometria analitica di Enrico D’Ovidio, poi alla cattedra di Analisi infinitesimale di Angelo Genocchi. All’età di 26 anni cura la pubblicazione del testo Calcolo differenziale e principii di calcolo integrale. L’autore ufficiale appare essere il professor Genocchi, ma sul frontespizio si legge: “Pubblicato con aggiunte del dr. Giuseppe Peano”. Le aggiunte sono davvero importanti e il libro riceve molti elogi (vedrà anche edizioni tedesche e russe). Tra le tante degne di nota: teoremi sull’esistenza e la differenziabilità delle funzioni implicite; l’esempio di una funzione le cui deri- (1) Bertrand Russell, Autobiografia, 1967. (2) Norbert Wiener, Autobiografia, 1953. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 vate parziali seconde non commutano; l’espressione analitica della funzione di Dirichlet; una nuova definizione di integrale definito svincolata dal concetto di limite. Sull’Annuario dell’università, anno 1884, il rettore segnala che il dottor Giuseppe Peano ha conseguito la “privata docenza”, titolo attestante la sua idoneità all’insegnamento universitario. Nello stesso anno pubblica il volume Applicazioni geometriche del calcolo infinitesimale, dove supera una prima difficoltà nella definizione di misura di un insieme introdotta dal tedesco Georg Cantor. Per capire il significato e l’importanza di questo lavoro occorre ricordare qual’è il problema studiato dalla teoria della misura. Il familiare piano geometrico è un insieme costituito da infiniti punti e le figure geometriche elementari piane (quadrati, cerchi eccetera) sono allora particolari sottoinsiemi di punti del piano a ciascuno dei quali è associato un numero positivo o nullo: l’area. Il problema, assai difficile e sottile, affrontato dalla teoria della misura è quello di generalizzare il caso elementare sopra esposto considerando, in luogo di sottoinsiemi “privilegiati” e ben noti quali le figure geometriche, sottoinsiemi affatto generici o addirittura sostituendo all’insieme ‘punti del piano’ un insieme qualsiasi I. Si tratta allora di definire una funzione la quale associ a ciascun elemento di una famiglia la più ampia possibile di sottoinsiemi di un insieme dato I (famiglia dei sottoinsiemi misurabili di I) un numero reale non-negativo (misura del sottoinsieme) in modo tale che risultino soddisfatte condizioni opportune (ad esempio, che la misura di un’unione infinita di sottoinsiemi misurabili disgiunti sia uguale alla somma delle loro infinite misure). Nel caso particolare in cui I sia lo spazio ordinario e il sottoinsieme una figura ordinaria, il valore della misura si ridurrà al valore dell’area in senso elementare. Nella definizione originariamente data da Cantor, poteva accadere che la misura dell’unione di due insiemi disgiunti risultasse minore della somma delle loro misure. Peano supera questa difficoltà quasi contemporaneamente al francese Camille Jordan e il nuovo concetto (non ancora tuttavia definitivo) verrà detto: misura di Peano-Jordan. Va ricordato che la teoria della misura è alla base del moderno calcolo integrale, strumento fondamentale usato dagli ingegneri per la progettazione delle macchine che ci rendono comoda la vita di tutti i giorni. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Nel luglio del 1887 sposa Carola Crosio, figlia del pittore Luigi Crosio. La coppia abita a Torino, dapprima in piazza Castello, poi in Corso Valentino. All’inizio del 1889 pubblica il breve trattato Arithmetices principia, nova methodo exposita che contiene la formulazione dei suoi celebri assiomi per i numeri naturali. Questo lavoro costituisce una pietra miliare nella storia della logica e dei fondamenti della matematica. A differenza della Teoria dei numeri o aritmetica, che studia l’insieme discreto dei naturali 1, 2, 3,..., l’Analisi matematica studia processi infiniti concernenti grandezze continue (non numerabili) e riposa essenzialmente sul concetto di numero reale, da sempre riferito a basi geometrico-intuitive (i punti di una retta). Sui numeri reali, conosciuti fin dai tempi di Pitagora, era stata costruita molta matematica. Ma si era costruito su di un terreno infido. Infatti, nel corso dell’Ottocento i progressi della teoria delle funzioni incominciano a produrre risultati inquietanti contraddicenti concetti e certezze intuitive consolidate da secoli. Scrive Bourbaki: “C’est toute la pathologie des mathématiques qui commençait. Depuis un siècle, nous avons vu tant de monstres de cette espèce que nous sommes un peu blasés, et qu’il faut accumuler les caractères tératologiques les plus biscornus pour arriver encore à nous étonner. Mais l’effet produit sur la plupart des mathématiciens du XIXe siècle allait du dégoùt à la consternation: ‘Comment’, se demande H. Poincaré, ‘l’intuition peut-elle nous tromper à ce point?’”. La matematica è spesso paragonata a un albero che sviluppa sopra il terreno una struttura sempre più ramificata mentre con le radici muove verso il basso alla ricerca di solide fondamenta e la causa di quei fenomeni era essenzialmente dovuta al fatto che le radici dell’albero poggiavano sull’intuizione, la quale aveva clamorosamente mostrato il suo carattere grossolano e incompleto. Si fa dunque urgente l’esigenza di una fondazione rigorosa per le basi dell’Analisi. Ciò avviene ad opera di Karl Weierstrass e Julius Richard Dedekind, i quali riescono a definire i concetti di numero reale e di limite, spina dorsale dell’Analisi, escludendo l’antica guida intuitiva della geometria e ricorrendo a strumenti di natura puramente aritmetica (aritmetizzazione dell’analisi). In questo ordine di idee, Peano compie il successivo passo dell’assiomatizzazione dell’AritmeQuaderni Padani - 21 tica. Se l’Analisi poggia sull’Aritmetica, è importante ridurre l’Aritmetica alla Logica, facendola dipendere da un numero minimo di oggetti logici talmente elementari ed evidenti da garantirla in modo definitivo contro l’insorgere di future contraddizioni dovute all’insinuarsi dell’intuizione là dove proprio non è luogo per essa, ossia là dove interviene in una sua qualche forma il concetto di infinito. Peano riesce dunque a ridurre l’Aritmetica a poggiare soltanto su tre concetti primitivi: zero, numero, successore e cinque assiomi: l) Zero è un numero 2) Il successore di un numero è un numero 3) Zero non è il successiore di alcun numero 4) Due numeri, i cui successori siano uguali, sono essi stessi uguali 5) (Assioma d’induzione) Se un insieme N di numeri contiene zero e contiene anche il successore di ogni numero contenuto in N, allora ogni numero è contenuto in N. Uno stadio della curva Muovendo da questo materiale elementare, egli è in grado di ricostruire le operazioni dell’aritmetica, cioè a ridefinirle puramente in base ai concetti primitivi e alle loro reciproche relazioni stabilite dagli assiomi, dimostrando poi le loro proprietà come teoremi. Con questo risultato l’Aritmetica e di conseguenza, in ultima istanza, la più parte della matematica, è ridotta a essere conseguenza di tre concetti primitivi e cinque assiomi e alla pura essenzialità del simbolismo formale. Ogni ambi22 - Quaderni Padani guità di significato o assunzione implicita derivante dall’intuizione o dal linguaggio ordinario è definitivamente esclusa e la frontiera ultima sembra finalmente raggiunta, parendo i numeri naturali 1, 2, 3... oggetti della nostra conoscenza tanto ovvi e sicuri da non destare preoccupazioni sull’insorgere di contraddizioni future e da garantire così, oltre a se stessi, tutto l’edificio eretto sulle loro spalle. Così invece non era, e problemi di insospettata complessità inerenti alle nozioni collegate di numero intero e di insieme aprivano una nuova profonda crisi (ancora lontana dall’essere conclusa) che doveva condurre ai teoremi di indecidibilità di Kurt Güdel. Per comprendere l’importanza del lavoro successivo di Peano occorre ricordare che nell’Ottocento, il concetto di dimensione di uno spazio era definito, sostanzialmente ancora alla maniera di Euclide, come il minimo numero di parametri necessari per descrivere i suoi punti. Dunque, una retta è 1-dimensionale, bastando un solo numero reale per individuarne un punto, un piano è 2-dimensionale, bastandone 2 eccetera. Un primo colpo alla validità generale di questa definizione era venuto da Cantor, il quale aveva provato l’esistenza di una corrispondenza biunivoca (necessariamente discontinua) tra i punti della retta e quelli del piano, dissolvendo così l’idea intuitiva che in uno spazio 1-dimensionale vi fossero “meno” punti che in uno 2-dimensionale e mostrando altresì come la dimensione non si conservasse nel passaggio da uno spazio ad un altro pur dotato di “altrettanti” punti. Nel suo lavoro “Sur une courbe qui remplit toute une aire plane”, Mathematische Annalen 36, 1890, Peano prova l’inquietante esistenza di una ‘curva’ (da allora detta di Peano) che riempie completamente una superficie. Egli riesce ad assegnare due funzioni x=x(t), y=y(t) tali che, al variare del parametro t nell’intervallo unitario, la curva (x(t),y(t)) descrive il quadrato unitario, cioè passa per ogni suo punto. La funzione non è iniettiva, le x(t), y(t) sono continue ma in nessun punto differenziabili e l’arco compreso fra due punti qualsiasi della curva ha lunghezza infinita. Dal momento che una porzione di piano (2-dimensionale secondo la definizione classica) viene descritta dal solo parametro t, appare evidente l’inadeguatezza della definizione di dimensione quale minimo numero di parametri reali continui necessari per descrivere uno spazio. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Da questi lavori prende avvio quel processo di revisione e generalizzazione del concetto di dimensione che condurrà fino alla recente teoria dei frattali e alla dimensione frazionaria. Nei suoi Grundzïge der Mengenlehre del 1914, Felix Hausdorff scrive a proposito della scoperta Peano: “Essa costituisce uno dei fatti più notevoli della teoria degli insiemi”. Durante l’ultima parte della sua lunga attività scientifica, propone una lingua ausiliaria internazionale o interlingua, la cui idea originaria risaliva a Leibniz. La proposta di Peano è un latino privo di grammatica o latino sine flexione, come egli lo chiama. Ma nonostante una attiva azione di propaganda a livello internazionale, la proposta non ha successo. Pubblica in interlingua una sua Algebra della grammatica. È un tentativo pionieristico di trattare la filologia con strumenti matematici. Muore il 20 aprile 1932. Come spesso accade ai grandi, Giuseppe Peano è stato un precursore e molte delle sue idee hanno cominciato a rivelare la loro importanza solo più tardi. La scuola che ha lasciato, costituita da Tommaso Boggio, Mario Pieri, Giovanni Vacca, Alessandro Padoa, Cesare Burali-Forti, Giovanni Vailati, Filiberto Castellano, ha dato contributi notevoli in tutti i campi di interesse del maestro. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 È possible trarre una qualche conclusione dallo scorcio di cultura padana che si è cercato di tratteggiare? Oggi è di gran moda il mondialismo. Ogni giorno, da televisioni e giornali, esperti tuttologi pontificano su villaggio globale, Internet e dintorni senza a volte neppur sapere esattamente di che cosa si tratti. Inneggiano a un mondo standardizzato, magari controllato da una stessa burocrazia e potere centrale. In Italia poi, dove l’orizzonte culturale di governanti e molti governati è quel che è, lo stesso processo di unificazione europea è banalizzato e ridotto trionfalisticamente al raggiungimento del tale o tal’altro parametro economico. Mi piace allora ricordare il pensiero del grande antropologo Claude Levi-Strauss sul fatto che la più importante ricchezza dell’umanità è la varietà delle culture, degli atteggiamenti con i quali essa affronta il problema della vita. E credo che questa sua idea si stia affermando. Esempi ne sono la recente conquista dell’indipendenza da parte di molti popoli europei e la recentissima conquista da parte del popolo scozzese e del popolo catalano di un proprio parlamento autonomo. In Europa ma anche in Italia sta crescendo la considerazione dell’importanza delle diverse radici culturali dei popoli e delle loro autonomie, la coscienza della fortuna di essere affratellati ma diversi. Quaderni Padani - 23 Le Fare della Langobardia Maior, notarelle, appunti e considerazioni di Mario Gatto D ecaduta Aquileia in seguito alle devastazioni compiute dagli Unni di Attila, Forum Iulii, l’odierna Cividale, era stata scelta come caput Venetiae, cioè capitale governativa della regione (1). Nel 569 il popolo-esercito dei Longobardi entra nella Venetia: superato il ponte sull’Isonzo, il duca Gisulfo si avvia a presidiare Cividale con il suo distaccamento, non senza aver prima chiesto e ottenuto da re Alboino le migliori Fare da dislocare nel resto del vasto territorio. Taola 1 - Fare della Langobardia Maior Così, mentre il corpo principale del popolo si di- 1) Fara (SLOVENIA) 19) Fara di Montebello Vicentino (VI) rigeva verso occidente, a 2) Farra d’Isonzo (GO) 20) Fara Olivana (BG) intervalli più o meno re- 3) Farella (UD) 21) Monte della Fara e via della Fara (BG) golari da esso si dipartiva- 4) Faris (UD) 22) Fara (SO) no spezzoni costituiti cia- 5) Farla (UD) 23) Fara di Gera d’Adda (BG) scuno da uno o più gruppi 6) Ca’ Fara (UD) 24) Faramània (MI) familiari, ovvero dei con- 7) Fara (PN) 25) Fallavecchia (MI) tingenti che andavano a 8) Farra d’Alpago (BL) 26) Via Fara in Gallarate (VA) insediarsi in località stra- 9) Farra di Mel (BL) 27) Faraona (VA) tegicamente rilevanti se- 10) Farénzena (BL) 28) Fara Novarese (NO) 29) Fariola (VC) guendo un piano eviden- 11) Farra di Feltre (BL) 30) Farettaz (AO) temente preordinato per 12) Fara di Cavolano (PN) 31) Farigliano (CN) lo meno nella prima fase, 13) Fara di Castel Roganzuolo (TV) 32) Fara (AL) cioè dall’Isonzo a Verona, 14) Farra di Soligo (TV) 33) Faravella, Falavella, Falaveta (AL) come si può osservare nel- 15) Farra di Valdobiàdene (TV) 34) Fara (MO) la cartina ove sono indica- 16) Farra di Paderno del Grappa (TV) 35) Farazzano (FO) ti gli stanziamenti per Fa- 17) Farronati (VI) 18) Fara Vicentino (VI) ra. (tav. 1) Il nome Fara deriva dalla consuetudine a periodiche migrazioni cui erano abituati i Germani a ( ) L. Bosio, “Direttrici di traffico e centri di interesse logisticausa sia della povertà dei suoli delle lande del co della “Venetia” dall’età romana all’epoca longobarda”, in Nord-Europa da dove provenivano e sia per i La Venetia dall’Antichità all’Alto-medioevo (Roma, 1988) continui attriti tra le singole tribù in fase di pagg. 14-16 1 24 - Quaderni Padani Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 continua espansione (2). Questo modo di vivere nomade, caratterizzato da continui spostamenti dei gruppi familiari, era talmente radicato che il termine fara è tuttora vivo nelle lingue germaniche moderne: si veda l’inglese “fare”=andare e il tedesco “fahren”=viaggiare. Possono offrire un’idea di cosa si intendeva per Fara con alcune attestazioni coeve all’età longobarda: “Alboenus rex Langobardorum cum omni exercitu... cum mulieribus vel omni populo suo in fara Italiam occupavit”(3) Tavola 2 - Attestazioni dal termine giuridico Arimanno (=uomo del“Si quis liber homo, po- l’esercito, e in seguito “libero” del popolo dei Longobardi) testatem habeat intra dominium regni nostri cum 1) Romans d’Isonzo (GO) 8) Romano di Lombardia (BG) fara sua megrare ubi vo- 2) Romans di Varmo (UD) 9) Romanengo (CR) luerit, sic tamen si ei a re- 3) Romagno (BL) 10) Romagnano Sesia (NO) ge data fuerit licentia,...” 4) Romano d’Ezzelino (VI) 11) Romano Canavese (TO) Rothari n. 177, Editto 5) Romagnano (VR) 12) Villaromagnano (AL) di Rotari, anno 643. 6) Romanore (MN) 13) Romagnese (PV) “Se un uomo è libero, 7) Romanoro (MO) abbia facoltà di emigrare con la sua fara dove vuole Per quel che riguarda la questione degli arimanni si consiglia all’interno del dominio senz’altro di leggere G. Tabacco 1969 (8) del nostro regno, purché gli venga concesso il permesso dal re;...”(4) Dislocamento delle fare in Langobardia Maior “...Langobardorum faras, hoc est generatioUna volta compiuta la ricerca dei toponimi Fanes vel lineas,...” ra -e derivati- esistenti nel territorio (sono state Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, II, 9. considerate pure le attestazioni meramente do“...le fare dei Longobardi- cioè i gruppi o di- cumentarie), si è provveduto a segnalarle su carscendenze familiari-...”(5) tine geografiche tramite simboli e numeri.(6) (2) G. P. Bognetti, “L’influsso delle istituzioni militari romane sulle istituzioni longobarde del secolo VI e la natura della fara”, in L’età longobarda, III (Milano) 1966. (3) Mario d’Avenches, ad a. 569, Monumenta Germaniae Historica, Chronica minora, II, p. 238 (4) C. Azzara, Le leggi dei Longobardi (Milano, 1992) pag. 51 (5) L. Capo, “Commento a Paolo Diacono”, Storia dei Longobardi, Milano, 1992. (6) Il toponimo Fara è indicativo di una prima e sicuramente importante forma di insediamento dei Longobardi, ma sappiamo che non è l’unica, come dimostra, ad esempio, la diffusione dei toponimi derivati da Hariman e da Bard-, evidenziate nelle due cartine qui allegate (tavv. 2 e 3). Ma anche queste sono indicazioni parziali e non bastano per offrire un’idea realistica della distribuzione dei Longobardi nel territorio. Bisogna tener presente, in effetti,un dato piuttosto significativo: le Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 maggiori necropoli longobarde in Padania non sono segnalate da toponimi di origine longobarda nella quasi totalità dei casi (fa eccezione la necropoli di Roman’s d’Isonzo). E, tanto per citare le più importanti, basti pensare alla necropoli di Castel Trosino (Ascoli Piceno) con più di 200 tombe, Nocera Umbra (Perugia) con circa 170 tombe, Testona (Torino) con circa 350 tombe, Sovizzo (Vicenza) con circa 450 tombe, per finire con quella, andata distrutta, di Calvisano (Brescia) con circa 500 tombe. Ma lo stesso discorso vale per gli insediamenti nelle città. Paolo Diacono, nella sua Storia dei Longobardi, ci informa che ogni Duca aveva la sua città e che i Duchi erano almeno 35, ciò significa che in quasi tutte le maggiori città della Langobardia c’era un insediamento più o meno consistente di Longobardi dato dal Duca e dalla sua gente. Forse l’insieme di tutte queste considerazioni può fornire un’idea della reale consistenza dell’insediamento longobardo in Padania . Quaderni Padani - 25 Questo lavoro di localizzazione ha posto in in funzione anti franca e riguardante l’insediaevidenza una panoramica generale degli insedia- mento dei primi nella Venetia, almeno fino a Vementi e si è così potuto osservare che due sono rona. Ma del resto, la particolare dislocazione le aree di principale concentrazione delle Fare. delle Fare nel territorio potrebbe avere altre raLa prima concentrazione, che comprende il gioni d’essere, come ad esempio: maggior numero di Fare, si trova disposta lungo a) La doppia fila di Fare poste lungo la Pedela fascia pedemontana e prealpina compresa tra montana friulana, trevigiana e vicentina si può le regioni Friuli e Veneto. L’altra concentrazione anche spiegare con l’esigenza di agevolare la è posta intorno alla città di Milano, soprattutto mobilità dell’esercito insediando subito quella in una zona Nord-Ovest della città ove le Fare parte di popolo e di mezzi che ne rallentavano la appaiono disposte su ben tre file parallele. marcia. Altre Fare sono poste al di fuori di questi due b) Altra esigenza non secondaria potrebbe essere poli di aggregazione e si trovano ubicate in stata quella di voler salvaguardare le famiglie teprossimità di importanti valichi di frontiera nel cuore delle Alpi: Farénzena (BL), Fara (SO), Farettaz (AO). Farra d’Isonzo ha ragion d’essere data la vicinanza con il ponte sull’Isonzo, principale porta d’entrata orientale del paese. La complessiva dislocazione delle Fare nella Venetia, disposte in due file parallele e a distanza più o meno regolare l’una dall’altra e la scelta degli insediamenti in luoghi per lo più pianeggianti o tutt’al più posti sulla sommità di non elevati ri- Tavola 3 - Attestazioni della radice bardlievi collinari dimostra sia 9) Bard (AO) una certa pianificazione 1) Bardies (BL) 10) Bardoney (AO) dell’occupazione sia l’as- 2) Bardolino (VR) 11) Bardonetto (TO) senza di urgenti esigenze 3) Bardelle (MN) 4) Bardalone (PT) 12) Bardassano (TO) difensive. 13) Bardonecchia (TO) In ogni caso la Fara ri- 5) Bardine San Terenzio (MS) 14) Bardineto (SV) sulta immersa nel territo- 6) Bardone (PR) 15) Bardino Nuovo/Vecchio (SV) rio dove svolge una fun- 7) Bardi (PV) zione di presidio, posizio- 8) Bardello (VA) nata, come la troviamo sempre, a poca distanza da centri abitati, guadi, nendole lontane dai pericoli della guerra, a quevalichi e strade di notevole importanza. A queste sto proposito C. A. Mastrelli scrive “...le Fare considerazioni bisogna aggiungerne altre di or- erano insediate in zone sufficientemente sicure dine strategico, come l’aggiramento - da parte e salde, arretrate rispetto alla effettiva zona di dell’esercito longobardo diretto verso Verona - operazioni militari...” (7) di Oderzo da Nord senza cercare di occupare la città; così come non cercarono di conquistare gli altri avamposti bizantini come Padova, Mon( ) C. A. Mastrelli, “L’elemento germanico nella toponomastiselice e Mantova. Di conseguenza non si potrà ca toscana dell’Alto Medioevo”, in Atti del V Congresso Internon pensare che tra Longobardi e Bizantini vi nazionale di Studi sull’Alto Medioevo (Lucca, 3-7 ottobre sia stato in realtà un qualche preventivo accordo 1971), (Spoleto, 1973) pagg. 669-670 7 26 - Quaderni Padani Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 c) Se l’accordo con i Bizantini prevedeva l’occupazione della sola Venetia, le Fare erano utilizzate sia come punti di riferimento e supporto logistico tra Cividale, primo ducato e Verona, capitale del regno, sia per intercettare eventuali incursioni di Alemanni e Franchi provenienti da Nord.(8) d) Eclatante è la mancanza di Fare nelle provincie di Verona, Brescia e Trento, ma questa mancanza può avvalorare le tesi esposte nei punti a) e b), difatti in quelle tre provincie i Longobardi sono presenti in forze. Considerazioni finali Studi approfonditi sulle Fare non sono mai stati fatti, così come non sono mai state compiute indagini archeologiche nei siti occupati dalle Fare stesse; è interessante a questo proposito una affermazione dell’archeologo G. P. Brogiolo “..., è evidente che nel medio termine sarà necessario avviare, anche a Nord degli Appennini, progetti di ricerca sul popolamento altomedievale, se non vogliamo far coincidere con la fine delle ville anche quella dell’archeologia medievale” (9). Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Quindi si possono fare considerazioni e riflessioni con i pochi dati storico-toponomastici attualmente disponibili. Molte domande rimangono tuttora senza soddisfacenti risposte: Da quanti individui era composta una Fara? Si trattava di un insediamento fortificato? Come era organizzata dal punto di vista abitativo? Aveva compiti amministrativi e giurisdizionali per un dato territorio circostante? Si rivolge infine un invito a tutti gli studiosi e appassionati della nostra storia ad approfondire le ricerche nel territorio perché altri dati interessanti potranno sicuramente emergere dallo studio puntuale della toponomastica e dalla ricerca storica in ambito locale. (8) G. Tabacco, “Dai possessori dell’età carolingia agli esercitali dell’età longobarda”, in Studi Medievali, s. III, 10/1, 1969. (9) G. P. Brogiolo, “La fine delle ville romane: trasformazioni nelle campagne tra tarda antichità e alto medioevo”, 1° Convegno archeologico del Garda (Mantova, 1996) pag. 110. Quaderni Padani - 27 31 gennaio: S. Geminiano, il “Padre” dei modenesi Ovvero quando i cittadini si sceglievano il vescovo di Alina Mestriner Benassi A lcuni autori pretendono che Modena sia stata la prima città della Padania a conoscere il Vangelo. Secondo il Vedriani, sacerdote della congregazione di S. Carlo (1601-1670) e autore, fra l’altro, di una Storia della città, gli stessi apostoli Pietro, Paolo e Barnaba, per primi ne furono i divulgatori, non specificando però quale dei tre apostoli reggesse la Chiesa modenese e non allegando alcun documento, a sostegno della sua asserzione. D’opinione diversa è il Panini, cronista modenese del XVI secolo: la città fu convertita il Cristianesimo, nell’anno 93 dell’era volgare, dall’ateniese Dionigi Areopagita e dal vescovo Eutropio, suo compagno. Subito i Modenesi dedicarono a S. Pietro, martirizzato ventitré anni prima, il tempio già consacrato a Giove, edificio che allora si trovava fuori della città, seguendo una tendenza tipicamente celtica, che sceglieva sempre, come luogo di culto, siti abbastanza isolati. Crescendo poi, ogni giorno di più, la fede nel popolo, nell’anno 103, imperatore Traiano e pontefice Anacleto Greco, Modena domandò un vescovo, che avesse cura dei cittadini. Concessa l’elezione dal Papa, fu scelto a tale dignità un certo Cleto di nazionalità romana, uomo illustre per dottrina e santità di vita. Non resta memoria dei successosi di questo primo vescovo fino all’anno 339. A spiegazione di ciò il Vedriani riferisce che “i fieri editti dei tiranni persecutori del Cristianesimo, fierissimamente eseguiti dai magistrati, costringevano tanti prelati a stare nascosti nelle caverne, nei sepolcri e fino nelle cisterne; ed agli scrittori stessi, sbandati per tema delle persecuzioni in luoghi occulti, non era permesso tenere diari né annali, e se pure alcun di loro era bramoso di eternare gli avvenimenti memorabili di quei 28 - Quaderni Padani Facciata del Duomo di Modena dedicato a S. Geminiano. La costruzione fu iniziata il 9 giugno 1099: il momento della fondazione è sicuro perché ben due lapidi poste nella facciata ne ricordano la data primi secoli, o per ordine pubblico o per suo motivo privato, nulla di meno il rigoroso comando dell’empio e crudelissimo Diocleziano, il quale sotto gravissime pene imponeva che tutte le memorie cristiane fossero abbruciate, cagionò che, se ve ne era contezza, ella restasse incenerita.” Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 C’è però da aggiungere, a questo proposito, che in Padania, all’epoca, sopravviveva il pensiero druidico, molto più consono al temperamento non solo del popolo, ma anche dei suoi ministri del culto. Veri e propri druidi-cristiani officiavano nel profondo delle foreste, a contatto con la natura. Nell’anno 312 Costantino, in guerra contro Messenzio, assediò e prese Modena, restaurandola poi in modo tale che, secondo il panegirico di Nazario, “la città ebbe a rallegrarsi con se stessa dei danni subiti”. Pur tuttavia l’allora vescovo Antonino lamentava di non avere neanche un piccolo duomo per le sue funzioni e che i suoi cristiani erano così pochi da conoscerli tutti per nome.” Sappiamo che l’anno dopo, nel 313, l’Editto di Milano concederà ai cristiani la libertà di culto, ma si era ancora ben lontani da ciò che diventerà la religione ufficiale dell’Impero. Proprio in quell’anno, secondo la tradizione, nacque a Gavello, oggi Cognento, un piccolo villaggio a pochi chilometri dalla città, un certo Geminiano. Si è affibbiata, in tempi più recenti, una derivazione “romana” al nome del Patrono, facendolo rampollo della “gens Geminia”. In realtà, nulla sappiamo della famiglia del Santo, anche se i biografi dicono che nacque da genitori molto illustri. L’affermazione lascia tuttavia dubbiosi, non solo per l’inguaribile tendenza degli antichi scrittori a nobilitare a tutti i costi la nascita e gli antenati del loro eroe, ma per un dato storico che non si può ignorare. Nel 320 Costantino, per impedire che le ricchezze dei benestanti fossero sottratte alle imposte, richiamò in vigore una legge secondo cui nessuno che fosse abbastanza ricco e adatto alle cariche pubbliche, poteva assumere il nome e la dignità di chierico. La famiglia del Santo quindi deve per forza essere annoverata tra le “fortuna tenues”, povere di beni, difficilmente perciò decurioni di provenienza romana. Occorre dunque esaminare il nome, un po’ particolare, con cui è ricordato il santo patrono. E qui si affaccia il mistero del secondo Geminiano. Il Campani infatti riferisce che, all’epoca dell’invasione di Attila (452 d.C.), sedeva sulla cattedra vescovile di Modena un Geminiano, anch’egli annoverato fra i santi. Ignote sono la nascita, la giovinezza e le opere, anche se qualcuno ritiene che costui, e non l’altro S. Geminiano, abbia salvato la città dalla furia degli Unni. E, se non bastasse, aggiunge che il sant’uomo, impietosito dei mali cagionati da Attila ai VeneAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 ti, che, per primi, ne avevano assaggiato il furore, andò a soccorrerli. Dice poi che questi, dopo la sua morte, avvenuta il 30 gennaio di non si sa quale anno, gli dedicarono una chiesa nella loro città, nei pressi del palazzo ducale. La chiesa oggi non esiste più, ma si legge nelle cronache di Venezia, sempre secondo il Campani, che ogni anno il Doge soleva visitare, nella Domenica in Albis, la suddetta chiesa “con solennissima pompa”. Questa clonazione di un santo, che poi reca, nel suo stesso nome, il concetto del doppio, non può non insospettirci, richiamando alla mente miti ben poco cristiani e tanto meno “romani”. Tomba di S. Geminiano situata nell’abside centrale del Duomo Comunque sia, atteniamoci al primo Geminiano, di cui si hanno più notizie. Il nostro, bruciate le tappe del ministero sacerdotale (chierico, diacono e prete), non impiegò molto neanche nel farsi conoscere e amare da chiunque avesse contatti con lui. Così, anche il vescovo Antonino prese a ben volere quel giovane molto serio e di “buona famiglia”, che veniva regolarmente a piedi da Cognento, per assistere alle funzioni, e lo fece suo diacono. Alla sua morte, i Modenesi lo acclamarono a gran voce come successore, ma Geminiano non ci teneva per niente e se la diede a gambe. Lo schivo giovane, scappando verso l’Appennino, trovò rifugio nel bosco delle Cadiane: immenso e ricco e, guarda caso, di querce, metteva una gran paura ai cittadini, che lo ritenevano popolato da demoni. Era però frequentato assiduamente da eremiti, che ricercavano il Sacro, nel silenzio della natura selvaggia. Il toponimo, senza alcun dubbio, ci rivela la presenza in quel luogo di un tempio pagano, consacrato a Diana o, con maggiori probabilità, a una celtica Dana, visto che non ci sono reperti di costruzioni roQuaderni Padani - 29 mane. Oggi, in zona, ci sono la Via Cadiane e un piccolo oratorio, posto a un crocicchio e dedicato alla Vergine, che si sovrappone forse, come spesso accade, al sito dell’antico culto. In mezzo a quel bosco, in una capanna a lui già nota, il nostro rimase ben nascosto, determinato a far piuttosto l’eremita che il vescovo. Gli angeli di Dio però, dicono, ci misero la penna e lo sventurato, dopo pochi giorni, si vide capitare tutti i Modenesi alle Cadiane, per prelevarlo. Geminiano, suo malgrado, si arrese ai messi del Cielo e ai propri affezionati concittadini e, in lacrime, tornò a Modena, dove fu acclamato vescovo nell’anno 356. Soltanto due anni dopo, Roma si fece viva e il Papa Felice II lo consacrò vescovo. Innumerevoli sono le leggende che fiorirono sul suo conto durante i quarant’anni di episcopato. Si racconta, fra l’altro, che una notte, mentre Geminiano stava pregando nella chiesa di S. Pietro, gli si avventò contro il demonio in persona: senza farsi prendere dal panico, il nostro, con un gran segno di croce, lo rispedì all’inferno. Il 31 gennaio del 398, vecchissimo, il buon vescovo lasciò i Modenesi per andare diritto filato in Paradiso. Li lasciò molto poveri, a causa delle vicissitudini storiche, ma molto ricchi, spiritualmente parlando. Nel 387 aveva fatto irruzione nella città Massimo, detto “il carnefice porporato”, che veniva a combattere Valentiniano II e Modena fu ridotta in uno stato tale che S. Ambrogio, scrivendo al suo amico Faustino, aveva voluto definirla “ormai cadavere di mezzo diroccata città”. Sarebbe lungo narrare tutto quello che Geminiano fece per Modena e per i Modenesi, durante il suo episcopato: in pratica, continuò come prima. Fu buono, paziente, zelante e in più con l’autorità di vescovo. Trasformò anche in chiese cristiane i vecchi templi pagani, ormai abbandonati e deserti. Non so se abbia agito in questo modo perché, data la povertà della diocesi, non se la sentisse di procedere a nuove costruzioni o se, dal momento che nel 380 Teodosio aveva dichiarato il Cristianesimo religione di stato, volesse conservare la memoria dei luoghi sacri, sovrapponendo il recente culto. In ogni modo, grazie a lui, possiamo essere certi che l’antica sacralità dei siti è stata rispettata. I Modenesi ancora oggi amano raccontare che nel 452 gli Unni, guidati da Attila, il flagello di Dio, provenienti dalla Pannonia, che non aveva30 - Quaderni Padani Statua in legno di S. Geminiano (ignoto del 1300) no perdonato neppure Milano, Piacenza e Parma (Reggio era stata già distrutta da Alarico), passarono per Modena e non la videro perché era tutta coperta di nebbia. Non c’è alcun dubbio, per i “geminiani”, che la nebbia, quasi “fiato di drago”, l’abbia fatta calare S. Geminiano per proteggere i suoi fedeli concittadini. Tanto più che la giornata era inizialmente chiara e senza nubi, per poi oscurarsi all’improvviso. Solo quando gli Unni si portarono, vagando alla cieca, ben lontano dalla città, un raggio d’oro squarciò il buio e ricomparve l’azzurro del cieAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 lo. Non mi pare superfluo ricordare come la nebbia, per i Celti, e non solo, sia sempre stata un mezzo per il passaggio a un altro stato dell’essere, cancellando ogni dimensione spaziotemporale. Persino il Boccaccio, che in alcune sue novelle, come tutti sanno, si prende gioco del popolo credulone, ammette questo prodigio, commentando, nel canto XII dell’Inferno dantesco, i versi: “La divina giustizia di qua punge quell’Attila che fu flagello in terra” Un bassorilievo in marmo sulla facciata del Duomo, che guarda Piazza Grande, raffigura un cavaliere, attorniato da diversi armati sotto una bandiera, con l’iscrizione che, tradotta dal latino, recita: “Qui S. Geminiano libera questa città da Attila flagello di Dio”. E un antico ritmo, che ancora si canta in Duomo nell’ufficio del santo, celebra il miracolo dell’innocuo passaggio di Attila a Modena. In un’antica Vita del Santo, stampata in città dal Rocociola nel 1495, si legge che, circa un secolo dopo la morte, Modena fu flagellata da una vera e propria alluvione, tanto che i cittadini abbandonarono le case, cercando scampo verso le montagne. Si sparse però la voce che, a pochi chilometri dalla città, lungo la via Emilia, c’era rimasto un piccolo isolotto libero dalle acque: i Modenesi tutti corsero là e il sito, tra Rubiera e Modena, fu chiamato “Città Geminiana”. Molto tempo dopo, nell’anno 712, il re longobardo Liutprando la fortificò, chiamandola Cittanuova e, nel 744, Ildebrando, nipote del re, fece dono ai cittadini della chiesa di S. Pietro entro le mura della città Geminiana, detta Cittanuova. E, con il nome di Cittanuova, la possiamo trovare tuttora, semplice borgo, nei pressi di Cognento, che tuttavia, in occasione di scavi fortuiti, rivela, giorno dopo giorno, le vestigia della passata grandezza. Anche se le antiche cronache non riferiscono con precisione quando i Modenesi tornarono a Modena, secondo il Campani, erudito della fine dell’Ottocento, soltanto verso il X secolo Cittanuova cominciò a spopolarsi, poiché il vescovo Leodoino aveva restaurato Modena, cingendola di mura. Sempre al miracolo gridarono i Modenesi, molto tempo dopo, quando, durante l’orrendo massacro perpetrato contro di loro da Azzo d’Este “il crudele”, nel 1306, Geminiano, con la spada in pugno, apparve nella mischia, su di un bianco cavallo, a menar fendenti sulle spalle dei soldati. La sua fama di protettore della città è forteAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 mente radicata nella tradizione popolare, forse perché quest’uomo, al di là del concetto di santità, è stato scelto dalla sua gente, in un’età dell’oro, in cui non era sempre Roma a dettar legge. Si ricorda inoltre che, quasi ultimata la Cattedrale (la prima pietra fu posta nel giugno de 1099), Lanfranco dichiarò che avrebbe interrotto i lavori, se non vi avessero trasportato subito il corpo del santo, che giaceva nell’antico sepolcro, a pochi metri di distanza. Detto e fatto: il 30 aprile 1106, al cospetto della contessa Matilde e del vescovo Dodone, solennemente, l’arca fu collocata al centro della cripta della nuova costruzione. A questo punto, mentre ci si accingeva ad aprire il sarcofago per procedere al rito della ricognizione, il popolo, temendo che qualcuno ne approfittasse per sottrarre preziose reliquie, fece opposizione. I Modenesi temevano anche che al buon Geminiano toccasse, come a tanti suoi colleghi, di essere bollito e smembrato per lucro, una volta finite le sue spoglie nelle mani del clero. Dovette intervenire il Papa. La tomba venne presidiata da sei cavalieri e da dodici cittadini e tutti giurarono che nessuno avrebbe toccato il sacro corpo. Finalmente si procedette all’apertura dell’arca: dentro all’urna più grande ne apparve una di dimensioni inferiori e di umile fattura, la stessa probabilmente che, fatta venire per via d’acqua dal veronese, dopo la morte del Santo, aveva accolto le sue spoglie mortali. Venne tolto anche il secondo coperchio ed il corpo di S. Geminiano si rivelò ai fedeli: intatto, dopo sette secoli e mezzo, tutto avvolto in un sudario ricamato di fili d’oro e d’argento. Dopo questa apertura, resterà chiusa per altri sette secoli, fino al 1955. Per concludere, voglio ricordare un curioso privilegio che compete, a quanto è noto, solo al nostro Santo. Mi riferisco alle due immagini di Geminiano, portate in orbita nella prima missione Gemini, poi di nuovo col Gemini 10. Grazie alla maestra Tina Zuccoli, già famosa in città per aver piantato al Polo Nord una croce fatta con il legno del nostro Appennino, e all’appoggio, naturalmente, delle autorità militari statunitensi, le immagini in argento del patrono finirono, al collo di Grissom e Young, negli spazi cosmici, fino a 15 chilometri dal suolo lunare. Oggi i Modenesi possono vedere i resti dell’amatissimo Patrono ogni anno, il 31 gennaio, in occasione della sua commemorazione, festeggiata anche con la tradizionale fiera. Quaderni Padani - 31 Toponomastica celtica (e venetica) nel Veneto di Renzo Miotti e Giuliano Ros L a toponomastica è la scienza che studia i nomi locali nel loro significato, origine e sviluppo. Pur essendo una disciplina fondamentalmente linguistica presenta stretti legami con la geografia e con la storia. È una disciplina in parte “geografica” poiché studia sostanzialmente un “oggetto geografico”, definito dal toponimo, e è “storica” in quanto il fossile toponimico rispecchia un passato più o meno lontano. Perciò lo studioso di storia linguistica può collaborare con lo storico antico che interpreta le fonti classiche, con l’archeologo che esamina e trae deduzioni dai reperti di scavo eccetera, al fine di individuare diversi “ethne” e le vicende etniche dei popoli che hanno dimorato nella Padania antica. In questa sede mi limiterò al Veneto antico, focalizzando una fase importante della sua storia preromana, ossia la celtizzazione (seppur non uniforme) del suo territorio, evento decisivo perché inserisce la regione in un contesto culturale più ampio, addirittura di portata europea. Sappiamo bene che la Padania è stata celtizzata culturalmente in modo più o meno radicale soprattutto a partire dal IV secolo aC, quando la marea delle incursioni celtiche diventa sempre più consistente e tribù provenienti dall’Europa centro-occidentale si sovrappongono a popolazioni autoctone, a volte già parzialmente celtizzate in seguito a ondate migratorie più antiche, come nel caso dei “celto-liguri” nella Padania occidentale. Si può dire che dal IV secolo aC quasi tutta la Padania sia celtica, in quanto le principali tribù si sono già stanziate nelle loro sedi storiche, nelle quali, nonostante la romanizzazione politica, lasceranno profonde tracce culturali, tuttora vitali. Solo il Veneto sembra sfuggire, almeno in un primo momento, a queste considerazioni di ordine storico e etnico. Eppure, anche in quest’area della Padania orientale, che presenta una discreta compattezza etnica, in senso venetico, a partire dall’VIIIVII secolo fino al III aC, è possibile individuare 32 - Quaderni Padani chiaramente un filone etnico-linguistico celtico, ossia la presenza di popolazioni affini a quelle del resto della Padania che pure in questa regione hanno lasciato chiare e indelebili tracce: i toponimi. Anche in Veneto la penetrazione celtica si fa sentire a partire dal IV secolo. Stirpi celtiche accerchiavano letteralmente la regione: a ovest i Cenomani, con capitale Brixia (Brescia), che inglobavano nella loro area anche Verona (che il poeta Catullo definiva figlia di Brescia); a sud i Galli Boi, che avevano già occupato l’etrusca Felsina (da loro poi ribatezzata Bononia = Bologna) e avevano mandato avamposti anche in territorio adriese (e si ricordi che anche Adria e Spina erano colonie etrusche); a oriente, a est del fiume Livenza, i Carni, stanziatisi nell’attuale Friuli fin dal V secolo, con diramazioni anche in Cadore e nel Bellunese, sicché la presenza celtica è attestata anche a nord. Si noti che entrambi i toponimi, “Cadore” e “Belluno”, sono di origine gallica, cioè celtica: il primo, da Cadubrium, attestato anche nella forma Catubria, è il composto gallico “catu-bri(g)um” (“roccaforte”), dove “catu” sta per “battaglia” e “bri(g)um” (affine a “briga”) per “monte”, “cima”, “rocca”; il secondo fonde la radice “bel-” (“splendente”, cfr. il nome Belenus, divinità gallica venerata soprattutto ad Aquileia ma anche nella Gallia meridionale) con “-dunum” (“fortezza”, “rocca”, ma anche “monte”). L’influsso gallico si fa sentire soprattutto nel Veneto (centro-)settentrionale e sebbene al momento della romanizzazione (II secolo aC) l’influsso culturale celtico sia presente quasi ovunque nella Padania orientale, non va dimenticato questo dato di fatto: che è proprio nella fascia centro-settentrionale del Veneto che riscontriamo la maggior concentrazione di toponimi di origine celtica, che coesistono con quelli più antichi di ascendenza venetica. Due popoli, due lingue, due componenti etniche in una terra da sempre punto di convergenza di occidente e oriente, di nord e sud. Spina dorsale di Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 questo territorio erano i due fiumi Livenza, che come ho detto era il confine tra Veneti e Carni, e Piave, riportabili a due radici venetiche diverse ma di analogo significato, quello di “scorrere”. Com’è noto, sono venetici, in origine, anche i nomi di alcuni importanti centri urbani più o meno grandi, quali Este, da “Ates-ste” (“la città dell’Atesis”, cioè dell’Adige, fiume venetico per antonomasia); Padova, da Padua, spiegabile forse con la radice “pat-” (“estensione”, “apertura”), cfr. anche Padus = Po; Vicenza, da “Vicetia”, da una radice identica a quella del latino “vicus”; Treviso, da “Tarvisium”, nome connesso con “tarvos” (“toro”), che potrebbe essere anche gallico; Asolo, da “Acelum”, radice “ak-” (“aguzzo”, con allusione alla rocca); Jesolo, da “Equilum” (“ekvo-” = “cavallo”); Oderzo, da “Opitergium”, che contiene la radice “terg-” (“mercato”); e forse anche Zenson, Riese e Resana, tutti e tre in provincia di Treviso, da “Gentius” (nel primo) e “Resius” (negli altri due), gentilizi venetici attestati in varie iscrizioni e che alludono ad antiche proprietà fondiarie di cui i toponimi rivelano il nome del possidente. Ma al di fuori di queste località, i piccoli villaggi, i monti, i piccoli corsi d’acqua e i campi portano preferibilmente nomi celtici. Sono quasi sempre nomi (o meglio, radici) che designano quelle stesse realtà e caratteristiche naturali dei luoghi a cui sono stati imposti: “dura/duria” (“acqua” o simili), Figurina di cavaliere con elmo, in bronzo, (Trento, Museo Provinciale d’Arte) Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 che è alla base di “Duran” (Belluno) e di “Passo Duran”, tra Agordo e Zoldo; “-dunum” (“rocca”, “monte”), di cui si è già detto a proposito di Belluno, e che compare anche in “Meduna”, fiume del Friuli occidentale che confluisce nel Livenza non lontano dall’omonima località (chiamata appunto “Meduna di Livenza”), situata nell’estremo orientale della provincia di Treviso, e in “Meduno”, in provincia di Pordenone, entrambi dal gallico “medio-dunum” (“in mezzo ai monti”); “briga” (“idem”), per cui vedi “Cadore”, ma anche “Breganze” in provincia di Vicenza, a meno che quest’ultimo non derivi dal nome gallico Brigantia (e Brigantia era anche la dea dal triplice volto, protettrice delle tre funzioni della società tradizionale: produttori, guerrieri e sacerdoti); “bedo-” (“fossa”, “canale”), che è all’origine del nome di un piccolo corso d’acqua dell’estremo orientale della provincia di Treviso (zona di Oderzo, Chiarano e Cessalto), il “Bedoia” (che è la sua denominazione dialettale locale, mentre l’italianizzazione in “Bidoggia” ha il difetto di oscurarne la trasparenza etimologica), oltreché di un paese in provincia di Pordenone, ma prossimo al Veneto, “Budoia”, e forse anche della località di “Badoere”, Treviso (ma in questi tre toponimi non è escluso che ci troviamo di fronte all’etimo celto-latino “betulea” (“betulla”), che ancor prima di essere un toponimo è una voce che si è conservata nell’uso vivo nel corso dei secoli, poco rivelativa quindi di un insediamento effettivamente celtico, dal momento che potrebbe essere stata imposta, come denominazione di luogo, in tempi più recenti). Ancora alcuni esempi: la radice “bel-” (“splendente”) è contenuta in “Belluno”, di cui si è già detto; “morga” (“corso d’acqua”, “palude”, ma anche “confine”) potrebbe forse spiegare “Morgano”, in provincia di Treviso; “mosa” (“palude”) è alla base dei vari “Musile” e simili (uno è Musile di Piave, Venezia, in area portogruarese); infine “bennacus” (“cornuto”) fa allusione ai molti promontori (o alla penisola di Sirmione) del lago di Garda, il cui nome classico era appunto Benacus lacus (ma qui siamo già in territorio cenomane). Per “Segusino”, località presso la riva sinistra del Piave, ai piedi delle Prealpi bellunesi, viene da pensare alla Segusio piemontese (oggi Susa, Torino), il cui nome vien fatto derivare dagli esperti dal gallico “Segusia” (“la forte”, “la potente”), dalla radice “sego-”. Anche i numerosi toponimi in acum (suffisso celtico latinizzato, che evolve in veneto comune in -ago e in bellunese e friulano in -ac(h)) sono di origine celtica e costituiscono Quaderni Padani - 33 una categoria particolare, tra l’altro molto rivelativa per quel che riguarda gli insediamenti celtici, visto che si tratta di nomi locali che traggono origine dal nome del proprietario di quello che inizialmente era un possedimento, espresso appunto dal suffisso, e che poi sarebbe divenuto, nel corso dei secoli, un centro abitato, un villaggio. Il proprietario doveva essere originariamente gallico, ma poiché il suffisso in questione ha conservato per alcuni secoli una notevole vitalità, è molto frequente trovarlo associato a nomi latini o anche germanici, ma sempre, comunque, e questo è il dato che più ci interessa, in quelle campagne che sono state dissodate originariamente da genti galliche. Questi toponimi in -ago (-aga) e -ac(h), ma anche in -igo, -iga (da -icum, -ica, che possono essere suffissi anche venetici) sono molto comuni nel Veneto, pochi esempi saranno quindi sufficienti: “Oriago” (Venezia) da “Aurelius” (cioè “Aureliacum”), “Canzago” (Verona) da “Cantius”, “Asiago” (Vicenza) da “Asellius” o “Acilius”, “Lorenzaga” (Motta di Livenza, Treviso) e “Lorenzago” (Belluno) da “Laurentius”, “Zianigo” (Mirano, Venezia) da “Julianus”, “Formeniga” (Vittorio Veneto) da “Firminus” e, nel Bellunese, “Mozzach” (Agordo) da “Muttius”. Vorremmo ora riportare alcuni esempi che testimoniano il rapporto dei Celti, ma anche dei Paleoveneti, col territorio. Era in definitiva un rapporto col sacro, in cui ogni elemento del paesaggio poteva essere sede di entità soprannaturali, ossia di divinità. Questa sacralizzazione del territorio era un aspetto costante della Weltanschauung celto-venetica, a cui i Veneti contemporanei devono molto della loro religiosità tradizionale, basti pensare ai capitelli eretti nei crocicchi di campagna, tanto per fare un esempio. Si è già accennato a Brigantia, nome di persona gallico ma anche nome di divinità, che potrebbe essere all’origine di “Bregan- 34 - Quaderni Padani ze”; un altro esempio è forse “Dolo” (Venezia), in cui, se si vuole azzardare un’ipotesi, si può ravvisare il nome di un’altra divinità gallica, Dulovis (cfr. l’omonimo torrente Dolo in Emilia, per cui è stata proposta un’analoga etimologia). Ma erano soprattutto le selve il luogo di relegazione del sacro, il tempio naturale in cui si celebravano i riti sacri o in cui venivano allevati gli animali che sarebbero poi divenuti vittime sacrificali per la divinità. Non deve dunque stupire l’abbondanza di toponimi come “Lugo” (nel Vicentino, nel Veronese e uno nel Veneziano), “Lughetto” (Venezia), “Vallugana” (Vicenza) e “Val Lugana” (Peschiera Veronese), a testimonianza, oltretutto, di quanto estesa fosse, allora, la superficie boschiva nel Veneto. Non ci troviamo qui di fronte a elementi linguistici celtici, in quanto tutti questi toponimi hanno alla base il latino “lucus” (“bosco sacro” e più tardi semplicemente “bosco”), tuttavia è significativo come anche il conquistatore romano, di fronte alla sacralità di certi luoghi, abbia preferito rispettarli senza rinominarli e abbia optato quindi per una designazione generica e puramente denotativa, quella di “bosco sacro” appunto, confinando in essa ciò che per lui era tabù. Di queste selve oggi non rimane che la memoria, cristallizzata in un toponimo. Come si vede, anche l’origine latina di un toponimo può, a volte, lasciar trasparire aspetti essenziali della cultura celtica. Vorrei far notare, comunque, che anche il celtico e il venetico possedevano, per “bosco”, una radice affine a quella del latino “lucus”, e cioè, rispettivamente, “leuk-” (da cui “Lecco”) e “louk-”. Difficile invece riportare allo stesso etimo latino toponimi come “Lugagnano” (Verona), “Lughignano” (Treviso) e “Lugugnana” (Venezia), per i quali bisognerà supporre piuttosto un nome di persona latino come “Lucanius”, probabile proprietario di quelle terre in epoca romana. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 La Padania: quindicimila anni di storia agricolo forestale di Lamberto Sarto “S ubito sotto le Alpi si estende per 2100 stadi (uno stadio varia tra 179 a 213 metri, n.d.r.), quasi uguale in lunghezza come in larghezza, una pianura considerevole; la sua parte meridionale è limitata dalla costa dei Veneti e da quei monti Appennini che giungono fino alla zona intorno ad Ariminum e Ancona. Questi monti infatti, cominciando dalla Liguria, penetrano nella Tirrenia lasciando solo uno stretto litorale; inoltrandosi poi un poco nell’entroterra, raggiunto il territorio di Pisa, si volgono verso l’aurora e verso l’Adriatico fino a raggiungere le regioni di Ariminum e Ancona, collegandosi in linea retta con la costa dei Veneti. Da questi confini, pertanto, è chiusa la Celtica Cisalpina e la lunghezza della costa, congiunta coi monti, è di 6300 stadi, la larghezza poco meno di 2000” (Strab. V, 1, 3,). Con queste parole Strabone, storico e geografo contemporaneo di Augusto e autore della più grande opera geografica dell’antichità pervenutaci, delimita la: “vasta regione dell’Italia che prima della dominazione romana fu abitata dalle popolazioni celtiche, culturalmente distanti e a lungo ostili rispetto al mondo mediterraneo” (A. Violante). Strabone dunque già all’epoca della dominazione romana era consapevole delle peculiarità sia storiche ma anche geografiche della Padania, infatti per risalire alla formazione della Pianura e dei territori delimitanti i suoi confini bisogna risalire all’Era Terziaria quando tra le Alpi e gli Appennini si stendeva un ampio golfo marino all’interno del quale i corsi d’acqua provenienti dalle zone montane adiacenti hanno dato l’avvio a tutti quei processi di sedimentazione che porteranno alla nascita della Pianura Padana. Nell’Era Quaternaria gli sconvolgimenti climatici che provocarono l’espansione e il ritiro dei ghiacciai, abbinati a concomitanti accentuati spostamenti delle linee di costa dei mari, ebbero ripercussioni biologiche enormi: entità vegetali e animali scomparvero, altre migrarono, altre ancora si affermarono. Quindicimila anni fa cirAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 ca, “la Padania usciva da questi avvenimenti con un volto nuovo: la tundra artica e la taiga, somiglianti alle formazioni vegetali attualmente presenti nella porzione settentrionale della penisola scandinava ed in Siberia, la ricoprivano completamente” (Aa.Vv. La Pianura Padana). Seguirono periodi di varia lunghezza marcati dal mutare del clima; infine verso il 1500 a.C., i parametri climatici si stabilizzarono attorno ai valori attuali. Sulla base di studi condotti sui resti vegetali (pollini) è possibile ricostruire la storia del paesaggio vegetale riassunto nella tabella 1. Il massimo rigoglio forestale si ebbe con il Periodo atlantico, durante il quale si affermò la maggior parte degli alberi forestali della nostra flora. Influenze di tipo continentale portarono alla diffusione di elementi steppici e illirici, la risalita da meridione delle specie mediterranee venne favorita da periodi climatici aridi e caldi. Ma anche l’azione dell’uomo non si fece attendere. Durante il Neolitico si hanno le prime testimonianze di attività agricole. In questo periodo i vhò di Piadena cacciano cervo e cinghiale, allevano capra, pecora e bovidi di grandi dimensioni (uro), coltivano Triticum monococcum, un frumento primitivo proveniente dal Medio Oriente, raccolgono nelle acque dolci tartarughe e molluschi. Nell’Età del bronzo sorgono palafitte e terramare lungo i maggiori fiumi della Lombardia orientale; nelle foreste di querce caducifoglie con alternate presenze di faggio, abete bianco, castagno, vivono cervi, caprioli, cinghiali che vengono cacciati, sono raccolti frutti radici erbe, si coltivano fave, orzo e frumento. Vari popoli si succedono, Etruschi, Celti, per arrivare alle invasioni romane: con gli ultimi iniziano il dissodamento e la messa a coltura sistematica del territorio attraverso disegni pianificatori semplici ma efficaci; dal centro delle città ove si incrociavano le due vie principali si usciva attraverso quattro porte cittadine puntando alla campagna, il territorio si suddivideva in una maglia quadrata la cui unità base era un quadraQuaderni Padani - 35 PERIODO DATA VEGETAZIONE BIOCLIMA Subartico antico 14000-8200 a.C. tundra artico Preboreale 8200-6200 a.C. boschi radi di betulle pino silvestre freddo Boreale 6800-5500 a.C. foreste di querce mesofile con nocciolo boreale con inverno freddo, estate mite Atlantico antico 5500-4000 a.C. foreste di querce mesofile con olmo, tiglio; ontano nero lungo i fiumi atlantico, caldo umido Atlantico recente 4000-2500 a.C. come sopra con faggio sporadico atlantico, temperato-umido Subboreale 2500-800 a.C. foreste di querce termofile localmente con faggio subatlantico meno umido del precedente Subatlantico 800-1500 d.C. foreste di querce con olmo, tiglio e maggiore espansione del faggio subatlantico umido e gradualmente più freddo Subatlantico recente 1500 ad oggi declino del faggio, foreste di querce, olmo, tiglio; ontano, salice pioppi lungo i fiumi subatlantico poco più caldo del precedente to di 710 metri per lato. Comunque l’intervento romano anche per le differenti modalità di sottomissione e di conquista della Padania è sviluppato in maniera differente, a sud del Po l’impianto urbano e la divisione agraria sono fortemente interconnessi e continui, a settentrione del Po dove maggiore è stata la resistenza delle popolazioni celtiche la centuriazione è più frammentaria e non occupa tutto il territorio. Caduta Roma la popolazione diminuisce di numero, le attività agricole ristagnano, si ha un ritorno delle attività di caccia e di pastorizia e i boschi riconquistano parte del territorio. Tuttavia venuti a mancare i tabù romani e le loro leggi di difesa, la foresta torna a essere fonte di alimento, di energia e di materiale da costruzione. Lo jus lignandi longobardo concede grande libertà di taglio. Carlo Magno invece, mosso da interessi venatori, reintroduce leggi vincolistiche, i proprietari privati sono espropriati e possono ricavare legna solo in caso di necessità. Nelle foreste pubbliche il popolo ha la facoltà di raccogliere ghiande per suini e di farveli pascolare, in quelle private del sovrano e della Chiesa è con36 - Quaderni Padani sentita solo l’attività venatoria. Alcuni monasteri tengono localmente viva la tradizione agricola. Dopo la pace di Costanza nel 1183, i boschi già depauperati da guerre, ricostruzioni, tributi, spostamenti di truppe, subiscono una decisa contrazione per la messa a coltura di ampie superfici rese coltivabili da opere di bonifica e canalizzazioni. Con il Rinascimento, l’opera di diboscamento può considerarsi conclusa, il bisogno di legna verificatosi in questo periodo di fioritura economica e culturale della Padania, ha effetti rimarchevoli sul patrimonio forestale. Scompare il bosco da gran parte della pianura, ma restano parecchi alberi lungo le proprietà e resisteranno fino all’avvento della meccanizzazione. Decolla nel frattempo l’agricoltura, oltre all’espansione territoriale avvengono miglioramenti di tecniche colturali e si affermano nuove coltivazioni. Nel 1600, il ristagno economico, le guerre e le epidemie provocano indisciplina e abusi nella politica forestale con ulteriore degrado dei pochi boschi rimasti; un esempio è la brughiera di Gallarate che nasce dalla distruzione dei boschi nel 1636 durante il conflitto tra Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 spagnoli e francesi. Anche l’agricoltura risente di questo periodo di crisi socio economica, abbiamo infatti la prevalenza della segale sul frumento. Verso la metà del 1600 viene introdotta, importata dall’America la coltivazione del mais, inizialmente come prodotto di riserva nei momenti difficili per gli altri cereali, dal 1700 come coltivazione stabile nella pratica agricola. Sempre nel 1700 abbiamo le prime introduzioni di piante esotiche come ad esempio la robinia e compaiono le prime colture di pioppi ibridi. Il bosco Fontana a Mantova (attualmente uno degli ultimi esempi di bosco planiziale rimasto in pianura), si riduce fino ad un decimo della sua iniziale grandezza. Tra le colture stabili abbiamo l’affermarsi del riso la cui introduzione era iniziata duecento anni prima. Nel 1800 il depauperamento dei boschi continua, le guerre risorgimentali sono combattute in pianura e i pochi boschi rimasti ne fanno le spese. Nei primi del Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 ‘900 la grande rivoluzione agraria legata alla meccanizzazione se da un lato provoca la pressoché totale distruzione dell’antico patrimonio agricolo forestale dall’altro lato rende la Padania “centro economico primario, non solo livello europeo ma anche a livello planetario.” (Aa.Vv. La Pianura Padana). Bibliografia Aa. Vv., I Celti, Palazzo Grassi. Milano: Bompiani editore, 1991 Aa. Vv., La Pianura Padana. Novara: Istituto Geografico De Agostini S.p.A., 1988 A. Violante, I Celti a sud delle Alpi. Amilcare Pizzi S.p.A., 1993 (edizione speciale fuori commercio) M. F. Barozzi, I Celti e Milano. Milano: Edizioni della Terra di Mezzo, 1994 M. T. Grassi, I Celti in Italia. Milano: Longanesi editore, 1991 Quaderni Padani - 37 Ripartizioni agrarie e bonifiche paleovenete nel territorio padovano di Carlo Frison S arebbe errato attribuire ai Romani il merito dell’introduzione nei paesi conquistati della ripartizione regolare dei terreni coltivabili. Le divisioni agrarie con linee rette perpendicolari, riferite a caposaldi rappresentati da cippi iscritti, non è proprio dei Romani né dei Latini, ma è comune a tutto il mondo antico classico, al Vicino Oriente e all’Europa protostorica. Le centuriazioni romane hanno beneficiato in diverse zone e luoghi di una lunga evoluzione delle forme agrarie. Vi è analogia tra i cippi confinari babilonesi e greci e quelli usati nelle centuriazioni. In tutti i paesi la terra coltivata era segnata da pietre votive per invocare su chiunque violasse i limiti dei campi la maledizione divina(1). Due cippi con iscrizioni venetiche, rinvenuti a Oderzo (TV), sono stati interpretati come cippi confinari(2). Di conseguenza nel Veneto antico, precedentemente all’arrivo dei Romani, può esserci stata divisione del terreno con principi simili a quelli usati da Roma. Le prime tracce di organizzazione del territorio rinvenute nel Veneto antico ci riportano alla preistoria. Presso Roncade (TV), sono state trovate canalette con materiali del neolitico(3). Nel Basso veronese sono stati scoperti fossi paralleli del periodo del Bronzo Medio-recente, che evidentemente affiancavano un viottolo agrario(4). Nelle Valli grandi veronesi sono state rivelate dalle foto aeree le tracce lasciate da due argini artificiali lunghi circa sette chilometri utili sia per difesa dagli allagamenti sia come strade di collegamento tra gli abitati (1) Françoise Favory, “Proposition pour une modélisation des cadastres ruraux antiques”, su AA.VV., Cadastres et espace rural, (Parigi 1983), pagg. 61 ÷ 74. Gérard Chouquer, Monique Clavel-Léveque, Françoise Favory, “Catasti romani e sistemazione dei paesaggi rurali antichi”, su Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano (Modena: Panini, 1984). (2) Anna Marinetti, “Nuove testimonianze venetiche da Oder- zo (Treviso): elementi per un recupero della confinazione pubblica”, su Quaderni di archeologia del Veneto, IV, 1988. ( 3) AA.VV., “Indagine interdisciplinare nell’insediamento neolitico di Roncade (TV) ecc.”, su Quaderni di Archeologia del Veneto, XII, 1996, pag. 108. (4) AA.VV, “Progetto Alto Medio Polesine-Basso Veronese: settimo rapporto”, su Quaderni di Archeologia del Veneto, X, 1994, pagg. 116 ÷ 124. 38 - Quaderni Padani Cippo rinvenuto a Oderzo (TV). L’iscrizione in caratteri venetici te, abbreviazione di teuta, “comunità”, significherebbe che il confine era tracciato a nome della comunità. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Divisione agraria antica parallela al canale Cagnola-Bovolenta (Padova). Sono parzialmente ricostruibili i decumani, mentre la scarsità delle tracce riferibili ai cardi deriva dal fatto che era una centuriazione basata solo sui decumani, secondo una tecnica in uso probabilmente prima del IV-III secolo a.C. La crocetta indica il punto del ritrovamento del cippo gromatico nel comune di S. Pietro Viminario. del periodo del Bronzo recente(5). Il rilevamento delle forme dei campi tuttora esistenti nelle zone umide del Quartiere del Piave, tra Colbertaldo e Sernaglia della Battaglia, ha indotto paragoni coi campi celtici, che sono suddivisioni protostoriche del suolo rilevate nell’Europa nord occidentale(6). Le divisioni interne delle centurie (chiamate dai gromatici latini strigae, scamna, lacineae eccetera) si sono sviluppate all’esterno e all’interno delle zone d’influenza e d’autorità romane o latine, e sono precedenti alle centuriazioni vere e proprie(7). Un interessante graffito dell’età del Ferro sul monte Baldo, formato da un reticolo di due file di quattro quadrati, ha un quadrato diviso in tre rettangoli paralleli che suggeriscono la rapAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 presentazione della ripartizione a scamna(8). La sostanziale autonomia di cui godeva il Veneto fino al primo Triumvirato, pur in condizioni di protettorato, lo preservò da deduzioni colonia- (5) Gian Carlo Zaffanella, “Il villaggio preistorico su altura arginata circolare dei Castellari di Vallarana ecc.”, su Athesia, III-IV, pag. 175. (6) Giuliano Romano, A. Paolillo, “Orientamenti astronomici negli insediamenti preistorici del Quartier del Piave ecc.”, su Rivista di archeologia, XII, 1988. (7) Favory, op. cit., pag. 119. (8) Il disegno del graffito è stato pubblicato nel mio saggio “Padania e Atlantide”, su Quaderni Padani, n. 15, 1998, pag. 38. Quaderni Padani - 39 rie romane. La colonia di Aquileia, fondata nel 181 aC, era in realtà al di fuori del territorio veneto. Gli scrittori antichi citano solo la costituzione delle colonie romane negli agri di Este e Concordia in seguito a accordi tra Ottaviano e Antonio, mentre non ci fu nessuna deduzione coloniaria nell’agro padovano. Secondo il commentatore latino Servio (IV secolo d.C.), Patavium avrebbe riscattato col denaro il proprio territorio. Come spiegare, dunque, le numerose centuriazioni del Veneto? Secondo gli storici sono attribuibili a colonie fittizie, cioè a quelle fatte non da confisca dei terreni per insediare nuovi coloni provenienti dall’Italia centrale, ma da vecchi abitanti che continuavano a risiedervi ricevendo però il diritto latino e non quello romano. Per esempio, potrebbe essere una deduzione fittizia della seconda metà del primo secolo a.C. la centuriazione del territorio di Adria. Il criterio interpretativo è che solo i gromatici romani possedessero l’abilità tecnica per fare simile precisa divisione agraria. È rifiutata l’idea che fosse opera di agrimensori locali, nonostante Adria vantasse tradizioni greche e etrusche. A nord del polo urbano di Adria esisteva una ripartizione per scamna alla maniera greca, e canali di bonifica etruschi erano a sud-est(9). È forse possibile pensare che la centuriazione di Adria sia antecedente alla “romanizzazione”? La questione delle centuriazioni paleovenete viene posta dal ritrovamento negli agri centuriati di palette rituali di bronzo, usate, si suppone, in cerimonie agrarie legate alla semina e all’auspicio di fertilità. Sembra che le palette non siano più recenti del secolo III a.C. Si constata la sfasatura cronologica tra la romanità delle centuriazioni e l’età paleoveneta delle palette(10). O le palette erano usate anche in età romana, o le centuriazioni sono da anticipare all’epoca paleoveneta. La divisione agraria più problematica per quanto riguarda la datazione è quella impostata sul canale rettilineo Cagnola-Bovolenta. Daniele Banzato ha proposto nella sua tesi di laurea(11) la ricostruzione di questa divisione agraria con modulo di 20 actus per 20. La sua ricostruzione è stata parzialmente ripresa da Enrico Zerbinati(12) sulla tavola IGM al 100.000. Nella figura qui riportata la ricostruzione è ridisegnata sul tracciato stradale ricavato dalle tavolette al 25.000. A quest’opera di bonifica si vorrebbe attribuire la stessa la datazione del cippo gromatico scoperto nel 1972 nel comune di S. Pietro Viminario, di epoca neroniana. Secondo gli archeologi il cippo è stato rinvenuto ancora nella posizione originaria, ovve40 - Quaderni Padani ro in situ alla profondità di oltre un metro. Il punto di ritrovamento del cippo è indicato nella tesi di laurea del Banzato, che ho potuto consultare. Il fatto è che questo punto si trova alla distanza di circa un centinaio di metri sia da un decumano sia da un cardo della ricostruzione proposta, mentre i cippi erano collocati agli incroci dei limites. Ne dedurrei che il cippo non apparteneva alla centuriazione del canale Cagnola-Bovolenta, ma a un’altra. Ciò non meraviglia, perché l’analisi della cartografia IGM e i telerilevamenti rivelano frequentemente la presenza di divisioni agrarie antiche di diverso orientamento sia accostate sia sovrapposte. Sarei dell’opinione che questo canale sia di epoca paleoveneta e di conseguenza la centuriazione stessa sarebbe anteriore all’arrivo dei romani. Il territorio verso la laguna meridionale aveva notevole importanza economica per Padova. Strabone paragona i canali scavati tra la laguna e il delta del Po alle bonifiche del Basso Egitto. Per esempio, la fossa Clodia, che collegava la laguna di Chioggia al ramo del Po di Adria è ritenuta di origine preromana dagli studiosi. Inoltre si pensa che nella laguna meridionale fosse situato sia lo scalo portuale di Padova paleoveneta, sia il leggendario villaggio paleoveneto presso l’Adriatico paragonato a Troia da Tito Livio o chiamato Pagus Troianus da Stefano Bizantino, sorto dove sarebbe sbarcato l’eroe troiano Antenore. Il canale Cagnola-Bovolenta, che sfocia nella laguna meridionale, poteva essere la principale via d’acqua che collegava la città al suo porto. Credo che il porto paleoveneto sia da identificare con Chioggia(13). La cittadina lagunare ha una urbanistica regolare formata da isolati rettangolari paralleli lunghi e stretti definibili scamna, non attribuibili alla urbanistica romana; anzi, il toponimo Vigo persistente nella porzione settentrionale del centro storico rimanda alla memoria dei “vici maritimi” paleoveneti citati da Tito Livio. (9) Enrico Maragno (a cura di), La centuriazione dell’agro di Adria (Linea ags edizioni: Stanghella (PD), 1993), pagg. 142 ÷ 178. (10) Giovanna Gambacurta, “La paletta di Scaltenigo di Mirano ecc.,” su Quaderni di Archeologia del Veneto, X, 1994. (11) Davide Banzato, “La centuriazione a sud di Padova”, tesi di laurea discussa presso l’Università di Padova, Facoltà di Lett. e Fil., a.a. 1976-77. (12) Enrico Zerbinati, Edizione archeologica della carta d’Italia. Foglio 64. Rovigo, (Firenze: IGM 1982). (13) Carlo Frison, “Lo scalo portuale di Padova paleoveneta”, su Padova e il suo territorio, n. 32 (Padova 1991). Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Riti “altri” in area subalpina Tracce di cultura rituale pagana nelle tradizioni folkloriche piemontesi. Qualche ipotesi metodologica. di Massimo Centini A differenza di altre aree, il folklore nord-occidentale propone un sostrato pagano meno eclatante di quello rinvenibile in altre regioni. Le motivazioni della più limitata permanenza di certe esperienze sono da imputare a cause diverse, di origine prevalentemente ambientale le cui specifiche tipologie possono essere lucidamente poste in rilievo solo attraverso mirati studi locali. Una riflessione generale risulta pertanto complessa e non affrontabile attraverso una semplice lettura in panoramica. Possiamo solo osservare che nelle culture tradizionalmente più chiuse e maggiormente legate al patrimonio atavico autoctono, dimensionato attraverso una serie di riferimenti simbolici di riconosciuto valore locale, la persistenza di motivi rituali precristiani è più evidente. Tale persistenza è generata non solo da motivazioni di ordine culturale, ma principalmente dalla volontà di non perdere il contatto con un’identità autonoma, non intaccata dalle influenze cultuali esterne, notoriamente portatrici di alterità. Come abbiamo già osservato, il patrimonio folklorico piemontese non è molto ricco di tradizioni rituali collettive riconducibili in toto all’universo pagano. Ci riferiamo in particolare alle feste e a quelle pratiche che si articolano intorno ad un iter scenico in cui si focalizzano espressioni simboliche destinate a porre in evidenza le Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Roc dla sgui-ja di Monte Zuloi, Omegna istanze collettive nei confronti del sacro. Siamo certamente al cospetto di una raccolta di esperienze di grande interesse, alcune delle quali meriterebbero puntuali studi che purtroppo ancora mancano. Nello spazio consentito da un arQuaderni Padani - 41 Cristianesimo Tradizioni rituali precristiane Religiosità popolare 42 - Quaderni Padani la Rocca di Cavour o di Santa Brigida di Moncalieri. Sui primi le donne scivolavano per favorire la fertilità e garantirsi una felice maternità; sulle seconde si limitavano a sfregare il ventre con identiche intenzioni simboliche. Possiamo citare la conservazione della terra di alcuni santuari (ad esempio quella dei Sacri Monti) o la realizzazione di segni protettivi sugli oggetti dell’uomo o sulle pietre nei pressi dell’alpeggio, poiché considerati utile strumento per allontanare le influenze negative. È interessante segnalare che questi segni fanno parte di un corpus decorativo rinvenibile senza interruzione dalla preistoria ad oggi. f) Una fonte di grande interesse per meglio porre in evidenza l’azione intrapresa dalla Chiesa per combattere le esperienze rituali pagane, fatte precipitare nella demonologia e parzialmente risollevate dall’appiglio offerto dal folklore, è rintracciabile nelle prese di posizione dell’inquisizione contro la stregoneria o negli atti dei processi. Rileggendo alcuni documenti locali riemergono con forza motivi rituali pagani di ampio respiro culturale. Emblematico il caso del processo celebrato nel novembre 1474 a Levone (Torino) e che portò al rogo due povere contadine del luogo, Antonia De Alberto e Francesca Viglone (Archivio Storico di Torino, Materie criminali, Mazzo 1, Fascicolo 1), accusate, tra l’altro, di resuscitare gli animali uccisi per alimentarsene, attraverso una serie di pratiche rituali sovrapponibili alla magia sciamanica. Da questa prima superficiale suddivisione, è concretamente evidenziabile quale sia la molteplicità del problema, che risulta alimentato da un forte sincretismo rituale di base. Per una più immediata lettura della problematica, possiamo abbozzare un modello teorico che può essere applicato all’indagine sul campo: Possibili convergenze ticolo non è possibile entrare nel merito della questione con la dovuta lucidità analitica e con i necessari approfondimenti critici. Ci limitiamo pertanto a fornire alcuni spunti di approfondimento, attraverso i quali mettere a fuoco delle ipotesi metodologiche. Per cominciare, crediamo possa essere utile cercare di identificare le diverse esperienze rituali tradizionali per effettuare una prima analisi tipologica e soprattutto elaborare una sorta di griglia analitica per meglio ricercarne le fonti: a) Celebrazioni di santi locali, spesso articolate intorno al percorso simbolico della processione, che conservano un sostrato pagano (ad esempio la festa del martire tebeo San Besso; le numerose Vergini delle vette, grotte, fonti, eccetera). b) Feste su temi chiaramente pagani, in particolare connessi ai rituali stagionali (gli Spadonari di Giaglione, la cacciata dell’orso di Urbiano, la Bahìo di Sampeyre, il falò di San Giovanni a Torino, eccetera) quasi sempre conviventi con il culto cristiano. Infatti la festa è in genere preludio alla celebrazione solenne, ma il calendario di riferimento è sempre quello pagano (solstizio e altri periodi di una certa importanza per il calendario agro-pastorale). c) Culti locali connessi al santo patrono in cui sono rinvenibili in nuce tracce simboliche collegabili a divinità precristiane, o al mito dell’eroe civilizzatore (basti pensare alla numerosa schiera di santi taumaturghi, da San Rocco a San Sebastiano; oppure ai martiri che localmente sono venerati per aver salvato il paese o la frazione da minacce di vario genere). d) Celebrazioni di eventi straordinari connessi al sacro (miracoli, apparizioni, eccetera) che risultano vincolati a due referenti simbolici condizionanti: 1) la morfologia del luogo (caverna, altura, fonte, bosco, eccetera); 2) l’eco di esperienze mitico-sacrali precristiane, sulle quali si è sovrapposto il culto cristiano. Spesso certi eventi straordinari hanno assunto il ruolo di mito di fondazione di un santuario cristiano, o di supporto cultuale per una certa tradizione rituale. e) Esperienze simboliche private, che pur riferendosi ad un humus la cui origine è da ricercare nella tradizione religiosa collettiva del paganesimo, sono entrate a far parte del patrimonio di pratiche apotropaiche e superstiziose. I riferimenti sono numerosissimi: dai vari Roc dla sgui-ja (pietre della scivolata) delle Valli di Lanzo alle Pere dla pansa (pietre con la pancia) del- Folklore Valori positivi Valori negativi Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Osservando in panoramica le pratiche rituali della religiosità popolare e del folklore locale, pur con tutti i limiti che comporta una lettura generalizzata, possiamo, a questo punto, individuare alcune caratteristiche ricorrenti, la cui origine è in parte già da ricercare nei primi secoli del cristianesimo. * Ad esempio un approccio al soprannaturale, da parte della religione cristiana, con sistemi rituali e devozionali in parte simili a quelli caratterizzanti le tradizioni pagane. * Una pratica cultuale “rustica”, attuata per un certo tempo in seno alle culture “basse”, in cui il linguaggio del Verbo doveva necessariamente essere adattato alle istanze locali il cui rapporto con il sacro aveva prerogative proprie, mantenibili solo attraverso un irrinunciabile sincretismo. * Inserimento di luoghi di culto cristiani in siti già sfruttati dalle religioni autoctone precedenti. Molti santuari cristiani delle Alpi, ad esempio, sorgono su aree originariamente consacrate a divinità come Giove, Diana, Mercurio, Cernunnus, eccetera. Si ha comunque traccia di innumerevoli azioni distruttive dei templi pagani, confermate da fonti tardo antiche e medievali (sermoni, lettere, bolle, eccetera). Emblematici in questo senso i sermoni del vescovo torinese San Massimo (IV-V secolo): “In realtà fatta eccezione di pochi devoti, difficilmente la campagna di ciascuno risulta incontaminata dagli idoli; difficilmente un possedimento si può ritenere immune dal culto dei demoni” (Sermone 91, secondo l’edizione critica). Per quanto riguarda la sovrapposizione cultuale effettuata dalla chiesa delle origini, bisogna dire che questa azione non va intesa come una ricerca di analogia, ma come occultamento dei temi pagani. La sovrapposizione di questi temi è garantita dalla religiosità e dal folklore, Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 che con una notevole riduzione evocativa, ne propongono un’intensità diversa, non di rado in netto contrasto con il dogmatismo cristiano e pertanto ulteriormente demonizzabile. La rielaborazione di un primitivo significato pagano nasce dalla necessità di continuare a utilizzare un tema, una figura, una pratica rituale, senza stravolgerne l’aspetto formale, ma ricostruendone totalmente il significato simbolico. La dicotomia tra bene e male, tra divino e diabolico, si fa quindi più fragile e la definizione dei ruoli è spesso snaturata. Procedendo nell’analisi, possiamo constatare che nella sostanza la tradizione folklorica piemontese (religiosa o laica) non si sottrae alle specifiche simboliche caratterizzanti la cultura popolare. Queste manifestazioni, come in parte le leggende e le fiabe popolari, hanno il ruolo di garantire all’uomo, da sempre così impaurito dall’instabilità del proprio stato, dei punti di riferimento per intessere un rapporto con il mito e ottenere la possibilità di sentirsi meno solo, forse più vicino al soprannaturale. Scivolo di Cheggio, Valle Antrona In qualche modo capace di dialogare con entità di cui non conosce il nome, ma dalle quali cerca di ottenere il privilegio della loro benevolenza attraverso un apparato rituale che per molti aspetti lo rende simile ai suoi antenati, figli di un passato perduto nelle spirali del tempo. Quaderni Padani - 43 In Bassano per i Remondini di Giulia Lattuada Caminada L a laboriosità e l’intraprendenza dei popoli la modernizzazione e l’imprenditorialità. padano-alpini, nonché la centralità del poliEditori e stampatori in Bassano, realtà urbana centrico sistema padano aperto, da sempre, operosa ma certamente arretrata e chiusa cultualla cultura europea e in linea con il modello di ralmente, i cui abitanti “tutti dediti alle indusviluppo - mercantile prima e industriale poi - strie della lana, della seta, della pelle, delle candell’Europa occidentale, costituiscono il sostrato dele e del cacio avevano ben poca dimestichezza decisivo di quell’imponente fenomeno d’arte po- con le lettere e le arti”(1), i Remondini e la tipopolare fiorito nel Veneto del Settecento e legato grafia non solo diedero lavoro e commercio ma all’esperienza calcografica della ditta Remondini di Bassano. La fondazione e lo spirito di gestione della Casa si configurano come un momento di estrema rilevanza nel processo di superamento dell’economia e della mentalità corporativa verso un’organizzazione industriale moderna che dimostra la modernità dello spirito imprenditoriale nuovo e spregiudicato dei Remondini, in un tempo di stagnante immobilismo e conservatorismo dell’economia Settecentesca. In particolare, l’organizzazione tipografica veneta, ancora strettamente artigianale, era soggetta a un ordinamento corporativo rigido e paralizzante e a una mentalità produttiva antiquata. La produzione era essenzialmente rivolta alle classi colte e la mancanza di spirito imprenditoriale non aiutava certo l’ampliamento del mercato con nuovi generi di più ampio interesse po- Xilografie del XVIII secolo della serie Santi in legno: Il cane barbipolare. I Remondini s’inse- no (incisore Antonio Morandi), il gatto domestico (incisore Antoriscono in questa realtà con nio Morandi), l’allocco notturno e l’avvoltoio spirito d’iniziativa, idee e capitali, decisi ad allargare il mercato e divenendo, in un breve periodo, la maggior risorsa del ( ) C.A. Zotti Minici, Le stampe popolari dei Remondini (Viterritorio bassanese e una forza trainante verso cenza: Neri Pozzi Editore, 1994) pag. 15. 1 44 - Quaderni Padani Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 zione di nuovi filoni iconografici, dando alla Casa preziosissime indicazioni sulle preferenze del pubblico. La fondazione della tipografia ad opera di Giovanni Antonio Remondini (1634-1711), che tutti gli autori ottocenteschi vogliono piccolo mercante padovano di “ferrareccia e droghetti”, giunto a Bassano quasi del tutto sprovvisto di mezzi - figura su cui gravano, tuttavia, in assenza di sufficiente documentaAcquaforte del XVII secolo: Madonna Immacolata, S. Giuseppe e zione, numerosi dubbi e Bambino incertezze, - segnò l’inizio di un lungo successo stimolarono, in quel contesto, una presa di co- industriale e commerciale. L’intraprendenza e la scienza fondamentale sul piano dello sviluppo ‘buona sorte’, la riorganizzazione dell’apparato culturale. La loro impresa contribuì, inoltre, alla industriale, non meno che quella della struttura diffusione dell’arte popolare in Europa e nei pae- commerciale, in vista di precise esigenze di si ispano-americani, attraverso una ben organiz- mercato, sono stati momento imprescindibile zata rete di distribuzione commerciale legata al nel processo di razionalizzazione delle risorse. lavoro ambulante dei Tesini, poveri montanari La struttura commerciale era imperniata sia della Val Tesina che per sfuggire alla miseria si sulla divulgazione capillare ad opera di venditori spingevano a cercare fortuna anche molto lonta- ambulanti, che sulla pubblicazione di cataloghi no. Scrive, a tal proposito, M. Rigoni Stern: “La di vendita, volti a favorire l’ordinazione e la disettimana dopo partirono a piedi. Le scarpe e le stribuzione delle merci. gambe le avevano buone e sulle spalle, legata La specializzazione di interessi e la riorganizcon una cinghia di cuoio, portavano la cassetta zazione interna del lavoro metteranno la ditta in di legno con dentro un centinaio di fogli distesi grado, nell’arco di un trentennio, di superare e divisi per argomento e serie. Erano quelle tutte le imprese venete nel settore. La semplifistampe iconografiche gli unici oggetti d’arte cazione nella costruzione e composizione delle che da tre secoli diffondevano le opere dei gran- immagini, la sommarietà della tecnica, la scelta di maestri tra la gente delle campagne e tra i di temi di largo successo, non meno che le empopolani delle città e nei casolari sparsi per piriche ma efficaci indagini di mercato svolte da montagne e pianure. I tesini, vecchi ed esperti agenti, consiglieri e distributori, il controllo delvenditori ambulanti - un tempo giravano l’Eu- l’intero ciclo produttivo e commerciale e i prezropa vendendo pietre focaie - erano giunti a zi conseguentemente concorrenziali e stabili piazzar stampe remondiniane, quelle delle fa- contribuirono alla larga diffusione delle immamose stamperie di Bassano, in ogni paese del gini remondiniane. mondo: dalla Scandinavia alle Indie, dalla SibeLa popolarità delle stampe di devozione poporia al Perù. E ogni popolo, ogni nazione aveva lare, i santi e le sacre immagini venerate nelle giustamente i suoi gusti e quello che andava be- chiese locali e nelle chiese dei paesi europei e ne per i luterani del Nord Europa non era accet- ispano-americani che entreranno a buon diritto tato dagli spagnoli...”(2). nella dimensione europea del pellegrinaggio poIl connubio Remondini-Tesini fornì ai Re- polare, le vedute e le prospettive di città, le serie mondini una capillare ed estesa rete commerciale già da tempo sperimentata con la vendita di altri tipi di prodotti. Inoltre, i Tesini ricopri- ( ) M. Rigoni Stern, Storia di Tonle (Torino: Einaudi, 1978) rono, senz’altro, un ruolo attivo nella realizza- pag. 14. 2 Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Quaderni Padani - 45 dei soldatini - che rievocano i movimenti di soldati avvicendatasi in territorio veneziano nel 1797 -, i repertori figurativi delle stampe per ventole, giochi, tabacchiere e biglietti da visita, le carte geografiche, i fogli da ritaglio per presepi e quelli con il Cane barbino, il Gatto domestico, l’Allocco notturno e l’avoltoio non sono che un esempio di quel cospicuo corredo di immagini che, inizialmente prerogativa dell’immaginario colto, veniva trasmesso anche agli umili del tempo, in un’operazione culturale indubbiamente positiva, all’interno di un preciso programma educativo e di didattica religiosa. In poco tempo le immagini religiose remondiniane, dal prezzo modico, allargheranno il mercato e costituiranno un momento affettivo e devozionale molto importante della pietà popolare, forti anche di “alcune funzioni connesse al consumo del sacro, quali ad esempio il loro carattere liminare, di tramite tra il divino e l’umano, il valore magico e taumaturgico della somiglianza con il modello raffigurato (“la vera effigie”), o analogamente la “territorialità” del santo”(3). Entreranno nelle abitazioni, anche le più umili, G. Zompini, El Mondo Niovo e nei più diversi locali; saranno appese sopra i letti, negli armadi, sulle porte, nelle stalle. Si crede che esse preservino la casa e le persone, gli animali, i mobili e quello che essi contengono. Alcune immagini di protezione e di preservazione beneficeranno, inoltre, di indulgenze eccezionali accordatagli dai papi. Altre raggiungeranno una specializzazione che tocca perfino la superstizione. La stessa preghiera sembra al popolo più efficace se colui che s’implora è alla sua portata. La fortunata intuizione che, con criteri opposti ai consueti del tempo, preferì le produzioni popolari - al tempo patrimonio esclusivo delle più basse categorie di stampatori - permise, in poco tempo, l’affermazione delle merci remondiniane su mercati eccezionalmente vasti. Una produzione contrassegnata da grandi tirature, da frequente imperizia esecutiva, da soggetti e temi cari alle culture dei popoli. Stampe che direttamente concepite, prodotte e fruite per e dagli strati popolari, in realtà, avevano un pubblico ben più ampio e diversificato, luogo di incontro di molte culture, di diversi modi di vedere la vita, di reciproci scambi e influenze, in una continua dialettica economica e culturale. Caratteristica di tutta l’iconografia popolare, in particolare di quella di argomento religioso, erano le varianti regionali e i Remondini ovviarono a questo, tramite i loro corrispondenti sparsi nei più diversi territori che raccolsero informazioni su culti e usanze locali. La ricca coloritura dalle associazioni cromatiche ardenti, intense e vive, l’impiego delle caratteristiche cornici mistilinee o floreali incantavano le masse di tanta gente semplice, sensibile e molto più attenta osservatrice della natura che non noi oggi. La chiarezza e l’immediatezza del segno erano funzionali a un messaggio immediatamente percepibile e coinvolgente, l’impatto dell’immagine era di immediata forza evocativa. Accanto ai motivi religiosi, il vasto repertorio popolare remondiniano comprendeva motivi iconografici nordeuropei, quali la raffigurazione dei pianeti e più genericamente del mondo, dell’alternarsi delle stagioni e dei mesi: soggetti questi largamente diffusi attraverso gli almanacchi, i lunari, i calendari. Poi, il filone che aveva (3) E. Silvestrini, “Sacri ritratti e “vere effigi”: temi di interesse antropologico nelle stampe remondiniane”, in M. Infelise, P. Marini (a cura di), I Remondini di Bassano. Stampa e industria nel Veneto del Settecento (Bassano, 1980) pag. 34. 46 - Quaderni Padani Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 come protagonista l’uomo e la società e che ci permette di ricostruire, attraverso le carte povere, preziosi elementi della cultura del popolo, la sua visione del mondo, le sue credenze, la sua morale ma anche, le sue condizioni di vita, i suoi bisogni, i suoi desideri. Il tutto visto sempre secondo degli schemi fissi, precisatisi nei secoli attraverso titoli costantemente uguali, dentro i limiti dei quali l’immaginazione dell’artista, che era sempre figlio di quel popolo che intendeva rappresentare, poteva spaziare abbastanza liberamente, giungendo, talvolta, a lasciare trasparire una velata ribellione degli oppressi contro le classi superiori. Questo è l’esempio del Paese di Cuccagna dove “chi manco lavora più guadagnia” o del Mondo alla rovescia con il suo ribaltamento dei ruoli sociali. Frequente anche il motivo degli animali domestici. Oltre all’organizzazione del processo industriale e commerciale, i Remondini crearono anche un’importante scuola di formazione dei giovani incisori attivi per la Casa che - al di là del fatto che mantenessero o meno in seguito rapporti di collaborazione con l’azienda bassanese improntarono sensibilmente l’ambiente calcografico settecentesco giungendo nei maggiori centri di produzione grafica d’Europa, fattore di rinnovamento e di confronto. Benché una complessa serie di fattori storici, politici ed economici concorsero, più o meno direttamente, al suo declino, la ditta Remondini chiuderà nel 1861, dopo essersi saputa gettare, per più di un secolo di lungimirante produzione e attività, come ponte fra la cultura veneziana e quella nuova e articolata che si andava configurando in Europa al passaggio del secolo. Di grande interesse è anche l’esito finale dei singolari rapporti intrattenuti dai Remondini e dai Tesini. Infatti, tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo si verificarono decisivi mutamenti nelle modalità e nelle fonti di fornitura e nell’organizzazione stessa interna delle compagnie degli ambulanti Tesini, che diradano, progressivamente, i loro legami con la Casa bassanese, estendendo i loro rifornimenti a stampe di altri editori e trasformando la loro attività commerciale da ambuAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Boston, chiesa presbiteriana lante a stanziale divenendo, essi stessi, prima negozianti e poi editori. Si crea così una fitta rete commerciale - particolarmente forte e coesa, in quanto fondata su legami di parentela, di patria e di interesse - interamente gestita dai Tesini, con stamperie proprie e decine e decine di negozi. L’emancipazione dai Remondini con gli inizi dell’Ottocento può dirsi compiuta.(4) Il Mondo Niovo Quello delle vedute ottiche rappresenta un capitolo assolutamente a sé stante nel quadro delle stampe d’uso. I Remondini furono, con tutta probabilità, gli unici stampatori d’Oltralpe a dedicarsi a questo singolare genere di immagini, a questi nuovi archetipi visivi che aprono modalità percettive nuove e impensate. Venezia è lo scenario privilegiato dove la cassetta del Mondo Niovo trova la sua cittadinanza naturale. Le vedute ottiche, variamente manipolate con forature, inserti, coloriture, per l’impiego spettacolare all’interno dei Mondi Nuovi aprono la fantasia all’incanto, allo stupore, alla meraviglia. Il popolo affluisce nelle piazze al richiamo di girovaghi e ambulanti che, assieme a ogni sorta di mercanzia, per un (4) Per un approfondimento, in particolare, C.A. Zotti Minici, Le stampe popolari dei Remondini (Vicenza: Neri Pozza Editore, 1994); A. Bertarelli, “La Remondiniana di Bassano Veneto”, Emporium, LXVIII, VII, 408, dicembre 1928, pagg. 358 ÷ 369; Infelise M., Marini P. (a cura di), L’editoria del ‘700 e i Remondini (Bassano del Grappa: Atti del Convegno, Bassano, 1992). Quaderni Padani - 47 Praga, città vecchia Nex York, distruzione della statua del re soldo o due vendevano immagini e viaggi visivi, mostravano “lontananze e prospettive” sfruttando la trasparenza di alcune parti dipinte che, illuminate anteriormente o posteriormente apparivano diverse al variare delle luci se poste in una macchina per la visione. A Venezia, nel Settecento, per le piazze e per le vie, la folla variopinta si apprestava alla visione. Venezia e i suoi commerci aprivano all’immaginario mondi nuovi e - anche se attraverso l’illusione di un apparecchio ottico - un viaggio “indicibilmente bello”, contribuendo a formare gli spazi dell’immaginazione e della visione collettiva. 48 - Quaderni Padani La didascalia che il parroco Questini scrisse per l’incisione di Gaetano Zompini (17001779) tratta da Le Arti Che Vanno Per Via Nella Città Di Venezia (1753, tav. 55) e raffigurante lo spettacolo ambulante invita alla visione, “In sta cassela mostro el Mondo niovo / Con dentro lontananze, e prospetive; / Vogio un soldo per testa; e ghe la trovo”; la didascalia che compare sotto un’incisione di Ambrogio Orio, dedicata a un impresario di Mondo Nuovo e al suo aiutante che con la ghironda accompagna lo spettacolo, recita: “Signori, avanti che la sera è tarda / Vedrete meraviglie affatto strane / Due giganti a cavallo di due rane / E una mosca che tira di bombarda”, mentre C. Goldoni, sostituendo la tecnologia alla magia, “...un’industriosa macchinetta, / Che mostra all’occhio meraviglie tante, / Ed in virtù degli ottici cristalli / Anche le mosche fa parer cavalli”. Voci che sembrano invitare il popolo ad accorrere, soprattutto in occasione del carnevale, in Piazza S. Marco dove le più conosciute città d’Europa, d’Asia, d’Africa e d’America si aprivano a un viaggio immaginario, in territori che il piccolo foro della cassetta di legno dipinto apriva a sguardi desiderosi di spingersi “oltre l’ultima Thule della piazza del paese o delle mura della propria città”(5). Prospettive di città e avvenimenti, immagini edificanti e diverse “curiosità” sono gli argomenti privilegiati delle vues d’optique, che assumono tutte le caratteristiche di un fenomeno industriale di vasta portata. La tecnica seriale di produzione (incisione su lastre di rame) comporta una (5) C. A. Zotti Minici (a cura di), Il Mondo Nuovo. Le meraviglie della visione dal ‘700 alla nascita del cinema (Milano: Mazzotta, 1988) pag. 15. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 sguardo, in un concerto di luce e di suoni. Figure e gesti, mezzi di trasporto e strumenti di lavoro... Si assiste al rapido snodarsi di una scena universale dove oltre lo spazio conoscibile non c’è un mondo popolato da demoni e da grandi paure, in un’assoluta analogia fra i ritmi del vicino e del lontano. La società sette-ottocentesca scorre nello spazio di un’immagine, in una sorta di epica del quotidiano alla conquista visiva del mondo per puri scopi educativi. Nel Settecento, a Venezia, le Venezia, interno del teatro La Fenice, acquaforte (1780) Vues d’Optique aprono la topografia dell’immaginazione molarga diffusione e inevitabilmente un’omologa- derna e l’era della riproducibilità tecnica dell’ozione dei soggetti raffigurati che spesso com- pera d’arte e della realtà. Piazza San Marco è il paiono identici nel repertorio degli stampatori di luogo della visione, il palcoscenico dell’immagiLondra, Parigi, Augsburg e Bassano. Il Mondo ne, di un primordiale “tempo dell’immagine” Niovo veneziano si configura come una sorta di precursore della modernità. Bassano, Augsburg e ritorno alle origini anonime, popolari e presette- gli altri centri di produzione ‘dietro le quinte’ ricentesche di un genere - il vedutismo - che rag- spondono alle esigenze del mercato, determinangiunse nel Settecento la sua massima fortuna. done contemporaneamente il gusto, le mode. Gli incisori attingono liberamente, in molti casi, Le vedute ottiche rappresenteranno “dal vivo”, da Canaletto, Bellotto, Longhi, Guardi, Van Wit- quello che la penna invano può descrivere, e le tel, Carlevarijs, Piranesi, i grandi vedutisti vene- immagini si sedimenteranno nell’immaginario e ziani, e lo sguardo plana su Venezia, Milano, Bre- nella memoria di un pubblico disperso in molti scia, Parma, Firenze, Palermo, Londra, Parigi, continenti, raggiunto da tanti piccoli uomini Augsburg, Istanbul, New York, Pechino, Mosca, ambulanti e impresari - che pur senza lasciare Boston, ... e ne ammira palazzi, piazze e monu- traccia del loro passaggio nel cammino della menti, che si animano progressivamente sotto lo storia porteranno nelle varie città la ‘visione’. Dapprima a Venezia, poi i luoAmsterdam, acquaforte (1780) ghi dello spettacolo diventano molteplici. Lo spirito con cui si vogliono osservare luoghi e monumenti traduce quello delle più famose guide turistiche settecentesche: si va alla conquista del mondo per puri scopi educativi. E “Nobilissimi signori. È arrivato in questa nobilissima città il suo servo veneziano, il quale ha portato l’edificio di quel Teatro, con il quale ha dato servitù per undici mesi nella Serenissima do- ( 6) M.A. Prolo, L. Carluccio, Il Museo Nazionale del Cinema di Torino (Torino: Cassa di Risparmio, 1978) pag. 86. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Quaderni Padani - 49 minante di Venezia...”(6), recita un impresario loca Bassano nel circuito della produzione poponel suo biglietto di presentazione. lare del tempo, accanto ad altri grandi centri euLa cassetta magica è produttrice e rivelatrice ropei - Londra, Parigi, Augsburg - con i quali si di un mutamento in atto, le cui caratteristiche e trova a scontrarsi e a confrontarsi. Da sempre la cui portata non si misurano subito e non si l’intera area padano-alpina si colloca - nel ripercepiscono a un primo contatto. In un breve spetto delle sue comunità e nella comunanza giro del mondo - in compagnia di bambini, don- delle sorti - come forza identitaria fondamentale ne e occasionali compagni di viaggio - l’intelli- e propulsiva nel complesso panorama europeo. genza si apre a quello che è diverso e nuovo, in Venezia e Bassano, nello scenario europeo setteun immaginario viaggio dove la curiosità di co- centesco non sono che un esempio, non lontano noscere e la capacità di capire fanno planare lo nei tempi, di una vicenda industriale e “spettasguardo attraverso lo spazio della scatola magica colare”, di apertura culturale e imprenditoriale che si apre a nuove prospettive. Benché già nel alla modernità, in uno scenario di ‘mercato al‘400 dalle zone transalpine erano giunte a Vene- largato’ e di fitti rapporti culturali e commerciazia stampe che suscitarono la produzione xilo- li col mondo. Espressione di una cultura che ha grafica locale, i Remondini di Bassano contribuiscono a creare, assieme alle grandi Case calcografiche di Augsburg, Parigi e Londra, un primo grande circuito produttivo e commerciale di stampe, “il primo mercato comune europeo delle immagini”(7). I pantoscopi - o mondi nuovi - si sintonizzano con grande tempismo con la cultura degli illuministi: per Rousseau e Voltaire bisogna inventare un tempo capace di unificare le esperienze collettive e uno spazio in Le differenti età della vita dell’uomo e della donna, incisione a bulino cui la luce della ragione (XVII secolo) trionfi sulle tenebre. E la piccola cassetta rientra nell’orizzonte di queste dato vita a nuove forme di presentazione delattese e speranze. In una lettera sugli spettacoli l’immagine sul piano ottico, ai suoi primi tentaa d’Alembert, Rousseau esorta a non sostenere tivi di movimento e alla scoperta di un linguaggli spettacoli “esclusivi, che rinchiudono triste- gio visivo nuovo - che tanto avrebbe influito nel mente un piccolo gruppo di persone in un antro corso del nostro secolo nella formazione della scuro, che le mantengono nella paura, immobili civiltà e del costume, ponendo le basi per l’espenel silenzio e nell’inazione, che non offrono agli rienza dello spettacolo cinematografico -, il occhi che immagini affliggenti di servitù e dise- Mondo Niovo veneziano si configura come un guaglianza”( 8). Gli illuministi chiedono agli momento, storico e scientifico, particolare, che spettacoli di svolgersi alla luce del sole e di dive- non può non lasciare aperta la riflessione a una nire strumenti di emancipazione sociale e cultu- sensibilità che apra alle molteplici valenze culrale, nel più ampio progetto di diffusione del sa- turali che disegnano la trama di questa storia. pere, che deve essere partecipato ai più ampi strati della popolazione perché diventi premessa ( ) C.A. Zotti Minici (a cura di), Il Mondo Nuovo. Le meravidi una trasformazione reale della società e dello glie della visione dal ‘700 alla nascita del cinema (Milano: Stato. Mazzotta, 1988)., pag. 19. La produzione calcografica remondiniana col- ( ) Ibidem, pag. 27. 7 8 50 - Quaderni Padani Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 La preistoria del mondo alpino e padano di Ausilio Priuli Il popolamento della pianura e dell’ambiente alpino Le vicende che hanno condotto l’uomo, nel corso dei millenni, alla graduale conquista dell’ambiente alpino sono ancora poco conosciute e solo oggi cominciano ad apparire nei loro aspetti più remoti. Durante l’ultima glaciazione grandi lingue di ghiaccio ricoprivano tutto l’arco alpino, sfociando nella pianura, ma dal XV millennio a.C. fino all’XI millennio si è verificata una lenta ma continua regressione delle stesse, fino a lasciare quasi completamente liberi i grandi solchi vallivi. Il ritiro dei ghiacciai e l’instaurarsi della fase climatica preboreale, che ebbe inizio attorno all’8.300 a.C. e fu caratterizzata da temperature in progressivo aumento con aspetti miti e secchi, contribuirono a contenere la diffusione di boschi di conifere entro limiti altimetrici modesti ed a lasciare vasti spazi, nelle alte e medie pendici montane, caratterizzate da steppe che furono ambiente ideale per il pascolo di erbivori, costituendo così favorevoli condizioni di vita per gli ultimi gruppi umani del Paleolitico superiore. I fondi vallivi e le pendici montane, contemporaneamente, andavano subendo un vistoso rimodellamento con imponenti fenomeni erosivi e grandi smottamenti di detriti di falda, dal momento che era venuta meno la pressione delle masse glaciali contro i fianchi delle montagne, mentre anche il fondo delle valli fu interessato da imponenti apporti sedimentari fluvio-lacustri, fautori di continue modificazioni morfologiche. In queste fasi di iniziale penetrazione umana nelle zone alpine, da parte dei gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori delle pianure, i territori più idonei non furono quindi le direttrici delle grandi valli ma le fasce altimetriche delle praterie alpine. Queste erano confinate verso il basso dai liAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 miti di diffusione dei boschi di betulle, salici e pini che, partendo dalle quote dell’antica lingua glaciale, tendevano a diffondersi più in alto. I limiti superiori della prateria steppica terminavano contro le rocce denudate e scarsamente inerbate. Seguendo la fascia altimetrica delle antiche praterie alpine è stato possibile ritrovare numerose tracce del cammino dei cacciatori paleomesolitici, in corrispondenza di passi obbligati, in prossimità di sorgenti e laghetti, punti di sosta, bivacchi e accampamenti. I cacciatori mesolitici, discendenti diretti dai gruppi paleolitici, tra l’8.300 e il 6.800 circa, dai consueti itinerari montani scesero gradualmente verso le basse pendici ed i fondi vallivi quando l’ambiente conquistò un assetto di relativa stabilità, favorita dal progressivo miglioramento delle condizioni climatiche. Essi eressero le loro sedi stagionali a ridosso dei versanti rocciosi, in ripari, sulle conoidi detritiche, in prossimità degli sbocchi vallivi, lungo le sponde dei laghi e delle paludi di cui appresero gradualmente a sfruttare le risorse economiche di pesca e raccolta di molluschi, preziosi integratori della tradizionale attività venatoria. I cacciatori-raccoglitori del Mesolitico Durante l’ultimo periodo della glaciazione di Würm i clan di cacciatori delle steppe e delle tundre che ricoprivano vaste regioni d’Europa, trovavano possibilità di caccia nei grandi branchi di erbivori quali renne, alci, bisonti e cavalli, che costituirono la base di una economia fortemente specializzata. Ciò permise loro di garantirsi un approvvigionamento sicuro e continuo che contribuì in modo determinante alla creazione di accampamenti stagionali che raggruppavano una popolazione relativamente numerosa, la cui eccedenza economica lasciava spazio allo sviluppo di attività magico-religiose ad opera sicuramente di individui specializzati. Quaderni Padani - 51 Da tale situazione hanno preso origine le spettacolari manifestazioni artistico-religiose del Paleolitico superiore e del Mesolitico. Al termine della glaciazione le foreste, come si è detto, presero gradualmente il posto delle praterie e le grandi mandrie di erbivori vennero sospinte più a nord con il conseguente decadimento delle grandi cacce comunitarie, il disgregarsi forzato delle grandi comunità di cacciatori e di tutto il modo di vita paleolitico; le grandi mandrie vennero sostituite da branchi più ridotti di animali adatti alla macchia e alla foresta, quali il cervo, capriolo, bue selvatico e cinghiale. Di conseguenza le comunità umane si frazionarono in piccoli gruppi mobili e dispersi che meglio si adattavano alle nuove esigenze ambientali che, con equipaggiamento semplice e sviluppando nuove tecniche e nuovi strumenti di caccia erano in grado di sfruttare anche le risorse costituite dalla selvaggine più minuta, a volte con l’aiuto del cane, la cui comparsa e domesticazione sembra aver avuto inizio proprio in questo periodo. La caccia era inoltre integrata da una maggiore attenzione verso tutti i tipi di risorse del territorio, dalla raccolta dei prodotti del bosco all’uccellagione, dalla pesca alla raccolta dei molluschi. Tali processi di trasformazioni generali si riflettono nel nostro territorio dove le prime comunità mesolitiche vivevano in condizioni ambientali inizialmente a carattere preboreale, con temperature in progressivo aumento e con una tendenza all’inforestazione delle pendici montane, con associazione di pino silvestre, cembro e ontano. Questa più antica fase del popolamento si protrasse fino a circa il 5.500 a.C., quindi nella fase climatica Boreale calda e umida successiva, che produsse una sensibile espansione delle associazioni forestali in quota a spese delle praterie alpine; i più alti boschi di pini si evolsero alle quote inferiori verso associazioni di pino, nocciolo e di querceto. Le attività economiche di questi ultimi gruppi mesolitici erano basate sulla caccia a grossi mammiferi: stambecchi, camosci, cervi, caprioli; la grossa caccia era però affiancata in misura rilevante da una caccia minore nella quale si annoverano roditori, marmotte e altri piccoli mammiferi. Una forte importanza economica rivestivano la pesca, l’uccellagione, la raccolta di tartaru52 - Quaderni Padani ghe e di molluschi di acqua dolce; attività che si dovevano svolgere essenzialmente nei laghi e negli acquitrini dei fondi valle. Le aree montane furono oggetto di puntate estive da parte di appartenenti ai gruppi più numerosi organizzati per grosse battute di caccia. Durante il periodo climatico Atlantico che va dal 5.500 al 2.300 a.C. e abbraccia quindi tutto il successivo ciclo culturale neolitico, si realizza la massima diffusione dell’ambiente forestale verso le alte quote, dove durante i primi momenti prosperarono associazioni boschive. Tale diffusione delle foreste operò un’ulteriore drastica riduzione delle praterie alpine verso le quote più alte, accompagnata quindi da condizioni di vita sempre meno favorevoli per i branchi di erbivori. Le origini dell’agricoltura e dell’allevamento Quando nella regione alpina era in pieno sviluppo il mondo mesolitico, in vasti territori dell’Asia Minore stava prendendo corpo un nuovo modo di vita che da questi centri gradualmente si diffonderà in tutta Europa. I processi che accompagnano tale trasformazione vanno sotto il nome di “rivoluzione neolitica”; questa definizione non è per nulla esagerata se si pensa ai radicali mutamenti prodotti nella società umana, nell’economia, nel mondo spirituale, nei rapporti tra l’uomo e l’ambiente. Il termine “neolitico” fu introdotto attorno alla metà dello scorso secolo per indicare l’”età della pietra levigata” ma il termine sta a indicare società umane presso le quali esistono l’allevamento, l’agricoltura, uso di recipienti in terracotta e strumenti ottenuti levigando la pietra. I gruppi mesolitici erano organizzati in piccole comunità, sottoposte a spostamenti stagionali e a frequenti trasferimenti. L’affermazione di comunità sedentarie ed il loro accrescimento poté avvenire inizialmente solo in regioni che offrivano risorse permanenti, continuamente rigenerabili attraverso lo sviluppo di tecniche appropriate. È in definite aree del vicino oriente, dove si reperivano allo stato selvatico cereali, quali grano e orzo, e le più diffuse specie di erbivori domesticabili, che si realizzarono condizioni biologiche necessarie per l’instaurarsi di un rapporto nuovo tra l’uomo e l’ambiente naturale. Dallo sfruttamento intensivo delle mandrie di erbivori e dalla contemporanea necessità di non sterminarle doveva sorgere l’allevamento, menAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 tre dalla raccolta sistematica delle graminacee prendeva origine una protoagricoltura. Nelle prime fasi del Neolitico i limiti fra la caccia e l’allevamento risultarono piuttosto sfumati; mentre l’allevamento propriamente detto doveva effettuarsi all’inizio allo stato brado, con la conseguente interfecondazione tra animali domestici con quelli selvatici della stessa specie, che dovettero essere condotti in cattività ed addomesticati. La scoperta di metodi di controllo e di accrescimento delle risorse economiche attraverso l’allevamento e l’agricoltura ha profondamente trasformato il divenire delle società umane permettendone la sedentarizzazione. Agli strumenti di tradizione mesolitica se ne aggiunsero di nuovi, ottenuti levigando la pietra, lavorando l’osso, il corno ed il legno. La tecnica dell’intreccio per ottenere stuoie e canestri, già nota nel Mesolitico, acquistò un nuovo impulso con la cerealicoltura, mentre filatura e tessitura iniziano a prendere piede soprattutto come conseguenza della domesticazione dei caproovini e della coltura del lino. Cominciò a diffondersi l’uso di recipienti di terracotta; già in quei suoi più antichi aspetti la ceramica presenta una grande varietà di tecniche decorative e di aspetti formali. Tale corrente culturale va sotto il nome di “ceramica impressa” per le caratteristiche decorazioni presenti sulle sue forme vascolari. In ambiente alpino e padano dai centri originari le nuove tecniche produttive che accompagnarono il Neolitico si diffusero principalmente, nel corso del VI e V millennio a.C., in Grecia, nei Balcani, lungo la direttrice del Danubio e dei suoi principali affluenti raggiungendo l’Europa centrale fino alle regioni periferiche nordalpine dove dettero luogo al grande complesso culturale della “ceramica a bande lineari”. A quella direttrice di diffusione continentale se ne affiancò un’altra a carattere marittimo che iniziò già nel VII secolo a.C. e nel corso del sesto e quinto secolo investì gradualmente tutte le coste del Mediterraneo centrale ed occidentale, tendendo a irradiarsi nelle regioni più interne attraverso processi di acculturazione delle locali popolazioni mesolitiche. I vari gruppi culturali che caratterizzarono il primo Neolitico dei territori alpini risultavano fortemente affini tra di loro nelle industrie litiche, che presentavano maggiori o minori rapporti con quelle del locale Mesolitico e reciproca autonomia nelle ceramiche. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Queste reciproche affinità nelle industrie litiche, gli elementi di importazione e di imitazione a livello ceramico e certe affinità generali riconoscibili in vari aspetti dei resti culturali, permettono di affermare, come oculatamente sostiene B. Bagolini (-), che vi siano stati fenomeni di acculturazione dei locali substrati tradizionali già sufficientemente maturi sotto il profilo socioeconomico per ricevere il messaggio neolitico: messaggio che si è realizzato attraverso influssi multipolari ma anche con possibili lievi sfumature cronologiche. Gli influssi giunti agli ambienti alpini non sono comunque stati tali da riprodurre “standards” culturali nettamente riconducibili come derivati dall’uno o dall’altro polo, ma hanno solo contribuito a catalizzare il processo neolitizzatore dei substrati tradizionali che finivano con elaborare e formulare in maniera autonoma la nuova condizione neolitica. In tutta l’area alpina, il passaggio al Neolitico è datato circa verso la seconda metà del V millennio a.C.; le prime comunità neolitiche delle nostre regioni alpine sono ancora caratterizzate dalle attività di caccia e di raccolta, con qualche accenna di agricoltura e allevamento. Certo è che in questa prima fase di neolitizzazione delle comunità umane sia la raccolta che la caccia non avvennero più in modo puramente predatorio, ma in modo organizzato e pianificato, tale da ridurre il più possibile l’impoverimento delle risorse ambientali, operando una selezione intelligente e conservativa. Presso questi gruppi che vissero nel pieno dell’optimum climatico atlantico, risulta prevalente la caccia ai cervi, caprioli, cinghiali; era modesta quella ai camosci; occasionale la caccia ai lupi e all’uro. La sedentarietà della gente neolitica può aver portato ad un più intenso sfruttamento delle risorse primarie con inizio di integrazione della caccia con specie domestiche ed una accentuazione della componente vegetale nell’alimentazione, favorita forse dalla graduale comparsa di modeste coltivazioni di cereali. Per quanto concerne i rapporti intercorrenti fra i vari gruppi del primo Neolitico e le comunità esterne, resta valido quanto detto per il Mesolitico; la modesta incidenza del possesso di animali domestici e di probabili piccole coltivazioni cerealicole non dovette comunque essere tale da creare gravi problemi territoriali e patrimoniali. Nell’ambito delle comunità, oltre alla consueQuaderni Padani - 53 ta divisione del lavoro sulla base del sesso e dell’età, non sembra ipotizzabile ancora alcuna specializzazione nelle attività e soprattutto in quella artigianale. Ciascun nucleo familiare poteva produrre autonomamente il fabbisogno del cibo, il vasellame, gli indumenti e gli strumenti per il lavoro e la caccia. Il pieno e ultimo Neolitico All’alba del IV millennio a.C. l’ambiente neolitico dell’Italia settentrionale subisce una radicale trasformazione che portò ad una vasta unificazione culturale di tutto il territorio alpino. Una nuova cultura definita dei “vasi a bocca quadrata”, per la caratteristica foggia dei recipienti, soppiantò i molteplici gruppi che l’avevano preceduta e che avevano caratterizzato il sorgere del Neolitico in questi territori. Sembra che tutto il precedente ciclo culturale, che aveva preso l’avvio dalla base mesolitica e che attraverso una serie di graduali trasformazioni aveva portato alla formazione delle prime entità neolitiche locali, sia stato spazzato via. L’affermarsi di questa nuova cultura, accompagnata da un bagaglio di tradizioni e di tecnologia totalmente nuovo, non sia avvenuto attraverso processi di acculturazione, ma tramite la colonizzazione forse non molto pacifica operata da nuovi gruppi umani. Nei secoli a cavallo tra il IV e III millennio a.C. profondi sommovimenti causano una radicale trasformazione del quadro culturale delle aree alpine che segna l’inizio dell’ultima parte del ciclo neolitico. La vasta unificazione del territorio operata dalle genti della cultura dei vasi a bocca quadrata si sfalda sotto la spinta di nuovi gruppi. Le origini dell’età dei metalli Negli ultimi scorci del Neolitico, alla fine del IV e agli inizi del III millennio a.C., la comparsa del metallo non pare sostanzialmente modificare il quadro tradizionale e solo molto lentamente incide sulle strutture sociali tardoneolitiche a livello tecnologico e produttivo. Col procedere del suo sviluppo, l’artigianato metallico indusse oggettivamente una base di mercato nei processi economici di reciprocità, ridistribuzione e scambio delle società neolitiche. All’interno di queste comunità lo stimolo dell’artigianato metallico si risolse in una crescente richiesta di beni, inizialmente di prestigio, in seguito gradualmente di necessità e di scambio mercantile. 54 - Quaderni Padani È dal vicino Oriente, dove più antica è la civiltà, che la conoscenza del rame si espanse verso occidente in tempi sempre più recenti man mano che ci si allontanava dai centri primari. La metallurgia neolitica produsse utensili ed armi in rame, spesso sostituendo quelle in pietra; la ceramica si perfezionò producendo vasellame ricco di decorazioni. Nelle attività economiche alpine dell’età del Rame, è testimoniato per la prima volta l’uso del carro e dell’aratro indicativo di un’agricoltura che evolve verso forme più intensive di colture ed accentuazione delle attività pastorali e di allevamento; già nell’età del Rame si riscontrarono nuove tendenze a forme produttive specializzate. Con la creazione di villaggi relativamente autosufficienti e spesso fortificati, il cui sostentamento proveniva da un’agricoltura già diversificata, dall’allevamento più o meno brado di mammiferi domestici e da un equilibrato sfruttamento delle risorse territoriali di caccia, pesca e raccolta, si instaurò un paesaggio umano più stabile che perdurò a lungo. Durante l’età del Rame la divisione del lavoro tese a realizzarsi principalmente verso l’esterno, tra comunità e comunità, creando tensioni nella ridistribuzione su vasta scala di beni e ostacoli concreti allo sviluppo o alla differenziazione delle forze produttive. Con l’affermarsi dell’età del Bronzo, attorno al XIX-XVIII secolo a.C., si concretizzò un’ulteriore tappa delle comunità alpine. Con l’età del Bronzo la divisione del lavoro e le conseguenti articolazioni e stratificazioni sociali tesero ad investire le singole collettività riequilibrando le tensioni, ma con la perdita di omogeneità e di coesione interna. La componente unificante delle varie collettività dell’arco alpino era data dalla produzione metallurgica, che presentò caratteri e stereotipi assai uniformi in vaste aree geografiche. I secoli dal XVI al XIII sono stati nell’area alpina un periodo di continua crescita economica e culturale; la metallurgia si è andata diffondendo sempre più capillarmente, raggiungendo un livello di alta specializzazione con una grande varietà di asce, scalpelli, seghe, falci, rasoi e spilloni; sempre in metallo si diffondono punte di freccia, alette, cuspidi di lancia e le spade. Il Bronzo delle aree alpine vide l’evolversi delle attività agricole attraverso l’introduzione e l’incremento di nuove tecniche; ne fanno fede l’uso sempre più diffuso e intenso del cavallo da Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 tiro, dell’aratro, del carro a quattro ruote. Durante l’età del Bronzo si fecero più frequenti insediamenti vasti e di lunga durata nel tempo, che riflettevano una continuità di vita ed una maggiore sedentarietà, manifestando una situazione socialmente ed economicamente più evoluta. È però difficile dire quanto la singola comunità di villaggio, essenzialmente contadina, sia stata integrata e vincolata organicamente in entità tribali comprendenti più centri abitativi in una compagine territorialmente più vasta. L’ampliamento ed il potenziamento dei flussi mercantili tra il XIII ed il XII secolo a.C. che accompagnò l’incremento quantitativo ed il progresso qualitativo della produzione metallurgica, si riflette nella maggiore ampiezza delle aree di diffusione di vari tipi di utensili, ornamenti ed armi. Accanto agli oggetti estremamente cosmopoliti, quali particolari fogge di spade, pugnali, asce, fibule e spilloni, si ebbero molti altri tipi metallici a carattere più regionale legati a singole culture. Evidentemente l’ampia circolazione mercantile, limitatamente alla sfera metallurgica, dovrebbe aver stimolato meccanismi concorrenziali, di imitazione stilistica e di adeguamento tecnologico, tra le varie produzioni interne regionali e le importazioni commerciali. L’entità del flusso di metallo si riflette nella fitta rete di rinvenimenti di ripostigli che attestano la formazione di riserva di ricchezza maggiore, tra il XIII e XII secolo, con caratteri differenti da quanto riscontrato nei momenti precedenti. Le riserve economiche e la tesaurizzazione della ricchezza in tale fase storica potevano solo esprimersi non nell’immagazzinamento a lunga scadenza di derrate alimentari, ma soprattutto nell’incremento del patrimonio di greggi, armenti, di riserve di metallo per il fabbisogno interno e per alimentare i traffici. Tali fatti finirono gradualmente col modificare ulteriormente ed in maniera sostanziale la struttura interna delle comunità; è assai probabile pensare che i piccoli aggregati contadini impegnassero le proprie eccedenze produttive e le proprie riserve economiche nell’acquisto di utensili, ornamenti ed armi in bronzo. Pur venendo largamente utilizzato il metallo, perdura la produzione di oggetti ed armi in pietra e in osso, probabilmente ad uso delle classi povere che non potevano permettersi il prezioso bronzo. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 La grande diffusione del commercio a vastissimo raggio, pienamente fiorente nel XIII secolo, già appare declinare nel corso del XII. Accanto alla lavorazione del metallo si incrementarono ulteriormente l’agricoltura, l’allevamento e le altre attività artigianali, quali per esempio la tessitura. Il culto dei morti era assai vivo; mentre nei periodi precedenti i morti venivano sepolti in posizione rannicchiata, verso la fine dell’età del Bronzo ebbe inizio il rito della incinerazione. Tale immagine degli avvenimenti dell’età del Bronzo va comunque rettificata sulla scorta di una maggiore attenzione verso i singoli processi culturali delle varie regioni alpine alla luce dei tempi sempre lunghi della loro evoluzione. L’utilizzazione del ferro è nota fin dal III millennio a.C. nel vicino Oriente; attorno agli inizi del II millennio si conoscono processi di raffinamento del metallo che veniva considerato estremamente prezioso, durante tutta la prima metà di tale millennio oggetti in ferro facevano parte di ricchi corredi e tesori. A partire dal XIII secolo, nel vicino Oriente, il ferro diventò sempre più comune ed iniziò ad affiancarsi al bronzo prima nel campo delle armi e poi in quello degli utensili; nel XII secolo inizia il suo uso negli strumenti agricoli e scompare dalla gioielleria. È però solo con il IX secolo che il suo uso si diffonde giungendo così all’Italia settentrionale. L’introduzione massiccia dell’uso del ferro negli ambienti alpini causò profonde trasformazioni di carattere sociale, economico e politico, in quanto il rame era reperibile in pochissimi giacimenti, mentre il ferro era diffuso in quasi tutte le Alpi e facilmente estraibile. La civiltà di Este, la civiltà di La Tène e la civiltà retica Particolare interesse per la conoscenza dell’evoluzione culturale del mondo alpino nel I millennio a.C. sono i processi civilizzatori che investono le regioni, dove agli albori del millennio prende corpo la civiltà di Este. Durante lo sviluppo di questa nuova civiltà, la modestia degli abitati fa contrasto con la ricchezza delle necropoli e dei luoghi di culto; le capanne erano raggruppate in villaggi spesso costruiti su un terreno bonificato. Ami, pesi da telaio, rocchetti, fusaiole e pettini in corno attestano le attività di pesca e di tessitura di lana; complessivamente per le genti Quaderni Padani - 55 si ricavava l’immagine di un’economia agro-pastorale articolata con varie attività artigianali molto sviluppate, mentre assai attivo doveva essere il commercio del metallo per alimentare il fiorente artigianato di questo settore. Il quadro complessivo che emerge dalle recenti ricerche di questa civiltà porta ad ipotizzare una società divisa in classi: - il capo o sacerdote, la loro presenza è plausibile a causa della frequenza e dell’importanza dei luoghi di culto; - i cavalieri, difendevano il territorio da incursioni nemiche; - gli artigiani, a cui competeva la molteplice produzione dei beni di uso estranei alle attività produttive domestiche; - i servi, addetti ai lavori meno differenziati e più pesanti. La condizione della donna era evidentemente diversa a seconda delle classi di appartenenza, anche se qualche tratto del prestigio che essa aveva nelle precedenti società agricole matrilineari doveva pur essere rimasto. Le società alpine durante lo sviluppo della cultura di Este, eminentemente agricole, sono articolate in classi sociali nelle quali l’artigiano ed il commerciante giocavano un ruolo di forte rilievo; il commercio aveva ampio spazio per la necessità di notevoli importazioni di rame e stagno per soddisfare le esigenze del fiorente artigianato del metallo, lo stesso si può dire per l’oro, l’ambra e il corallo. Nell’economia agricola è documentata la presenza del grano, ma la produzione di cereali non pare superasse lo stretto fabbisogno locale, per via della situazione delle valli alpine che offrivano condizioni indubbiamente più favorevoli alle attività di pastorizia e allevamento; nelle attività artigianali domestiche, la notevole presenza di corna di cervo attesta come anche in momenti avanzati della seconda età del Ferro fosse diffusa la lavorazione di questa materia prima. Nell’ambito del mondo celtico, la cultura di La Tène, attorno agli albori del IV secolo a.C. iniziò la sua penetrazione nelle regioni alpine. A nord delle Alpi la pressione celtica pone bruscamente termine agli ultimi centri di cultura alpina fino ad allora in vigore; gli insediamenti fortificati sono distrutti ed abbandonati, scompaiono le ricche tombe familiari, le inumazioni sono quasi dovunque semplici fosse; 56 - Quaderni Padani nel II secolo a.C. sorsero vere città fortificate, si coniarono monete di prototipi greci e si intensificarono vivaci scambi commerciali. In tutto l’areale della cultura di La Tène sono riconoscibili aspetti della religione in recinti quadrati con terrapieni e fossati nei quali era edificato, con strutture lignee, un piccolo tempio dove erano scavati profondi pozzi sacri; i Celti erano accompagnati da necropoli ad inumazione piccola e i corredi sono caratterizzati da oggetti di cultura di La Tène. Durante il IV e il III i caratteri di questa cultura tendono a fondersi con influssi etruschi, divenendo sempre più fortemente permeata da questa nuova cultura; fin quando venne bruscamente annientata dalla conquista romana. Alla fine del IV secolo a.C. prende corpo l’ultimo momento propriamente definito “retico” della cultura alpina; in questo periodo, all’originale impronta culturale ed etnica locale fa riscontro una vasta gamma di oggetti che possono essere riferiti ad una produzione di diverse officine artigianali. Le invasioni celtiche che, tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C., portarono vasti sommovimenti e profonde trasformazioni nell’assetto culturale del centro Italia, ma ciò non avvenne nel bacino alpino, che restò sostanzialmente estraneo a questi fenomeni. La fisionomia degli abitati restò di tipo alpino, legata ad una economia e a tradizioni montane che hanno puntuali riferimenti con la sfera culturale alpina; le caratteristiche strutturali di questi abitati riflettono comuni esigenze dettate da precise condizioni di ambiente e di rifornimento del materiale da costruzione, si evidenzia la peculiarità di un mondo alpino legato ad una economia boschiva e agropastorale, che risultò marcatamente autonomo rispetto ai diversi tipi di culture che si sono succedute. Non pare comunque che i dati archeologici attualmente in nostro possesso siano tali da convalidare la tesi di duri scontri e ampie resistenze delle popolazioni alpine che si opponevano alla colonizzazione dei nuovi incursori; anche se avveniva una sorta di acculturazione di queste popolazioni verso le nuove culture. Con l’avvento dei Romani, verso il I secolo a.C., l’incursione fu molto più radicale delle precedenti, con il risultato che la cultura alpina ne risentì fortemente trasformandosi ed evolvendosi quasi radicalmente; è solo con l’età romana che iniziarono ad affermarsi tecniche economiche più propriamente moderne. Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Mayno della Spinetta, brigante alessandrino, imperatore della Fraschea di Mariella Pintus D opo la vittoria di Marengo, Napoleone aveva rità e sono visibili negli archivi del Comune di cercato di far dimenticare alle popolazioni Alessandria (busta dei processi criminali) e negli di Piemonte e Liguria, con feste popolari e archivi nazionali di Parigi. alberi della libertà, i saccheggi, i vandalismi e le Grande fu lo scalpore in tutta la Regione, vessazioni. Le illusioni, però, svanirono ben pre- quando gli uomini della sua banda, osarono atsto e, nelle campagne e nelle città, circolava l’a- taccare la carrozza del Vescovo depredandolo di maro detto:” Liberté, egalité, fraternité, i Fransèis in caròsa, i Lisandren Un frate e un brigante in un’incisione ottocentesca a pé”. I soprusi erano diventati intollerabili, ma soprattutto era intollerabile la leva obbligatoria che spesso spingeva alla macchia. Anche Giuseppe Mayno, come tanti altri, aveva optato per il brigantaggio, per sfuggire a tale imposizione. Egli fu il Brigante gentiluomo, dell’età napoleonica, che come un novello Robin Hood, depredava i ricchi e i Francesi, per aiutare generosamente i poveri, amministrando una sua, particolare giustizia che fece di lui, l’eroe più popolare dell’Alessandrino. Mayno nacque a Spinetta, intorno al 1784 e non ancora ventenne, sposò una compaesana, Maria Cristina Ferraris, dalla quale ebbe due figlie. Pare che il giorno delle nozze coincidesse con l’inizio della sua vita di brigante, quando uccise un soldato francese reo d’aver offeso la sua giovane sposa, di appena sedici anni. Fuggito con alcuni compagni, nel 1803, era già ricercato dalla polizia francese. Ben presto “Mayn” entrò nella storia, a tal punto che, anche le gesta più clamorose, quelle che leggende e mito hanno ingigantito, trovano conferma nelle relazioni della gendarmeria, nei documenti stilati dalle autoAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 Quaderni Padani - 57 tutti i suoi averi, compresa una tabacchiera d’oro e una grossa e preziosissima croce da collo, tempestata di brillanti. Alcuni giorni dopo, il Brigante stesso, sotto le mentite spoglie del medico Paletta da Milano, si recava alla Curia, facendosi ammettere alla presenza del Prelato. Fu facile per Mayno, che non era un contadino rozzo e ignorante ma che possedeva una certa cultura che gli derivava da alcuni anni passati in seminario, rendersi gradevole e imbastire la storia di un incontro fortuito col bandito. Egli restituì la tabacchiera e porse al Vescovo un cofanetto, trafugato non si sa come, con un messaggio del Papa che lo nominava Cardinale. Sul suo petto, risaltava uno splendido gioiello. Il neo-Cardinale sussultò: “La mia croce vescovile! Me l’hanno tolta i banditi a Frassinello”. Un brivido lo percorse mentre ripensava allo sgradito incontro. Si agitò sul divano, ricordando con raccapriccio un’altra vittima che Mayno aveva fatto giustiziare e poi appendere ad un albero con un cartello al collo: “Questa è la fine che a tutti i tiranni, serba la Compagnia di La diligenza Torino-Lione in un’incisione di W. Brockedon San Giovanni”. Il finto medico disse che la croce gli era stata regalata, dal bandito, come ringra- in scacco i Francesi con gesta beffarde indossanziamento per aver curato la sua giovanissima do più volte la divisa dei gendarmi che talvolta moglie ma che era disposto a restituirla. Il Pre- serviva a camuffare l’intera banda, come nel calato, magnanimo, non volle accettarla; ne ri- so del rapimento del ministro della Liguria, Satornò comunque, in possesso, il giorno seguen- liceti, per il quale venne chiesto un riscatto di te, quando il vero dottor Paletta gliela riconse- duemila franchi. Persino il Papa, Pio VII, fu aggnò, con suo grande stupore. “Il capo dei bri- gredito, mentre si recava a Parigi per l’incoronaganti rinuncia alla croce che gli avevate conces- zione di Napoleone. so di tenere, purché destiniate una somma in Sul fenomeno del brigantaggio in periodo nadenaro, alle opere pie, che più riterrete opportu- poleonico sorse una specie di censura che ancone”. Il Cardinale annuì e silenziosamente, si ri- ra continua da parte degli studiosi, e la stessa mise al collo la catena...con un vago sorriso. monarchia sabauda si guardò bene dal difendere Mayno, la sua banda, i suoi fratelli detti “Chefs il fenomeno stesso, liquidandolo come delinde voleurs”, vissero di scorrerie e imprese come quenziale poiché era troppo scomodo annoveraquella appena narrata; essi agirono dapprima re dei banditi, tra i propri fautori. Erano comunsulle montagne ai confini con la Liguria, e in se- que la guerra e la fame a creare i briganti, tratguito nella pianura, verso la Lomellina e il Ver- tandosi, quasi sempre, di contadini, braccianti e cellese. giornalieri, in preda alla crisi economica. Abile ma soprattutto temerario, Mayno tenne Possiamo ricordare quanto gravi fossero le 58 - Quaderni Padani Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 condizioni di vita, tra inflazione, carestie e malgoverno, sul finire delle Settecento. Il Brigante-contadino invece di schierarsi con la nuova Repubblica, preferì darsi alla macchia. La regione dove agì Mayno, la Fraschetta o Fraschea, fu tradizionalmente favorevole alla formazione di bande, essendo le sue popolazioni assai fiere e riottose, in lotta da tempo col potere centrale, quale ne fosse il colore. Il 12 Aprile del 1806, Mayno della Spinetta venne catturato e ucciso in seguito alla delazione di una spia. Ad Alessandria esultarono: era stato ucciso il più feroce brigante del Piemonte, quello che, con orgoglio, si faceva chiamare: “Re di Marengo e Imperatore delle Alpi”. I Francesi non esitarono a esporre il corpo sfigurato dell’ucciso nella piazza d’Armi; molti non lo riconobbero ma da quel momento, la sua figura divenne ancor più leggendaria: lo stesso Brofferio, lo considerò un guerriero anti-francese, al servizio degli umili. Ancor oggi, il brigante-gentiluomo è ricordato in tutto il Piemonte e per tutti rimane l’eroe che “con una palla di metallo, ammazzò quattro sbirri e un cavallo”. Nel Vercellese, nella campagna tra Balzola e Rive, anche se molto trasformato, è ancora rintracciabile il “Casòt di sasin”, la casa degli assassini, uno dei rifugi di Mayno della Spinetta. Qualcuno possiede ancora il suo fucile, il leggendario “spaciafoss”; pare si tratti di un discendente del proprietario della cascina Stortigliona che più volte ospitò Mayno, quando era ricerca- Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998 to dalla polizia. Per riconoscenza il bandito gli regalò l’arma. La sua figura rimane comunque controversa: c’è chi lo accosta ai briganti calabresi, chi al bandito Giuliano, ma nel cuore dei Piemontesi resta la sua immagine di patriota che lotta per l’indipendenza della sua terra. Rimangono, in tutta la Regione Pedemontana, numerosi toponimi che designano i luoghi frequentati dalle varie bande cosiddette realiste: Maltratto o Maltrait, Bandito, Malvicino, Malpasso sono quelli più frequenti, ma non mancano i “Passi” o “Bricchi” del brigante. Come abbiamo visto, la storia di Mayno della Spinetta ha alimentato, per lungo tempo, la letteratura popolare e molti autori ne hanno descritto la vita, con opinioni diverse. Le vicende dei “Banditi della Fraschetta” sono comparse anche sulle scene teatrali: Mayno della Spinetta di L. Forti - Milano 1843; Mayno capo dei Briganti - Commedia musicale - Teatro Erba - Torino 1972; Mantello, stivali e coltello di Gozzi e Orengointerpretata da Gipo Farassino, per la regia di Massimo Scaglione-Torino, 1975. Nei mesi prossimi verrà presentata una rievocazione particolare, in occasione dell’anniversario della morte di Mayno, avvenuta il 12 Aprile 1806: in un piccolo teatro della città di Torino, efficaci attori e cantanti si alterneranno, con musiche e testi inediti, a un relatore che presenterà alcuni episodi tra i più significativi della vita di “Mayn”, onorato brigante piemontese. Quaderni Padani - 59 Biblioteca Padana L.A. Silcan, I primi abitanti alpini. Insediamenti occidentali dal paleolitico ai Salassi Keltia Editrice: Aosta, 1997 141 pagine. 25.000 lire La storia dei primi insediamenti umani in Padania e quella delle vicissitudini delle popolazioni originarie cominciano a delinearsi con una certa chiarezza sulla base di studi e ritrovamenti di cui la nostra rivista ha diffusamente parlato. Sempre sui Quaderni Padani sono apparsi nel passato (ad opera di Flavio Grisolia e di altri autori) le prime descrizioni storiografiche organiche. Uguale chiarezza non può essere infatti solitamente ritrovata nelle varie pubblicazioni finora uscite sull’Italia preromana che sono quasi sempre condizionate da romanocentrismo e da eccessiva attenzione per ogni manifestazione culturale mediterranea e Franco Monteverde, Sovranità e autonomie mediterranee Genova e la Liguria Firenze: Vallecchi Editore, 1997 Pagg. 268, L. 27000 La Padania, come molti hanno già avuto modo di notare, è uno splendido mosaico di popoli diversi determinati a re60 - Quaderni Padani pelasgica. Questo agile libro di Silcan viene finalmente a riportare giustizia e ordine in questo specifico settore proponendo una narrazione accurata e coerente di tutti gli avvenimenti che hanno interessato la Padania occidentale fino alla prima invasione romana. Dopo le glaciazioni gran parte della nostra terra è stata popolata da popoli di cacciatori su cui si sono sovrapposte le migrazioni indoeuropee. Il libro descrive questi passaggi e la formazione della cultura ligure, l’arrivo dei Celti e i caratteri delle popolazioni alpine, con particolare attenzione per i Salassi e per la loro lunghissima ed eroica storia. Proprio dei Salassi e delle speciali caratteristiche della loro cultura Silcan dà una interpretazione dettagliata, documentata e convincente, descrivendoli come la perfetta sintesi di Garalditani, Liguri e Celti. Una sorta di paradigma di antica padanità, insomma. Non è un caso che il libro termini con la sconfitta dei Salassi aostani nel 25 a.C. In allegato si trova un interessante regesto di toponomastica e di vocaboli celtici in Gallia Cisalpina. Questo volumetto, bene scritto e sufficientemente documentato (per immagini e bibliografia) può sicuramente servire come libro di testo per le scuole padane per dare tutte le informazioni sufficienti alla comprensione di quel primo e fondamentale capitolo della nostra storia millenaria. Ottone Gerboli stare uniti nella lotta: uno di questi popoli, e uno dei più antichi, è quello ligure, che solo recentemente è tornato agli onori delle stampe dopo un lunghissimo lasso di tempo in cui troppo pochi sono stati i testi dedicatigli. Tra i protagonisti del “revival ligustico” va annoverato senza ombra di dubbio Franco Monteverde, studioso serio e appassionato della propria terra, cui ha regalato numerosi scritti. L’ultimo in ordine di tempo è, appunto, Sovranità e autonomie mediterranee - Genova e la Liguria, libro a tutto tondo su ciò che resta della Superba. Fin dall’incipit risulta chiaro dove Monteverde voglia arrivare: si inizia infatti sottolineanAnno lll, N. 12 - Luglio-Agosto 1997 do il declino che la Liguria ha subito negli ultimi due - trecento anni, declino evidente nel Päxo (oggi conosciuto come Palazzo Ducale) che, se fu negli anni passati la sede dei Magnifici e il simbolo universalmente riconosciuto dell’unità e della ricchezza del popolo ligure, nel 1998 è ridotto a ospitare mostre e convegni che, con tutto il rispetto, rappresentano solo una caduta di stile rispetto ai tempi andati. Perché, si chiede Monteverde, al Päxo non si è affidato un compito “istituzionale”, ad esempio ospitare la sede della Regione Liguria? Forse per sottolineare come, accanto alla morte di istituzioni funzionali come quelle della Genova che fu, assistiamo solo alla nascita di strutture, come le Regioni, prive di un reale potere e quindi ridotte a inutili apparati burocratici? Monteverde passa poi a esaminare nel dettaglio l’etnia ligure, il cui tratto fondamentale va rintracciato nel darsi da fare da un lato, e nello spirito fazzioso che da sempre anima i genovesi dall’altro. “Per un ligure darsi da fare non costituisce fatica e pena, né il lato notturno della storia dell’uomo, né, tanto meno, un ostacolo al raggiungimento della felicità, ma rappresenta il centro della vita, il primo dovere al quale un uomo non può sottrarsi, se intende vivere libero”: solo così si spiega come sia stato possibile per i liguri, figli di una terra inospitale e avara, andare alla conquista del mondo (una conquista fatta non con le armi ma col denaro) fino a diventare, a un certo momento della storia, la vera e propria cassaforte dell’Europa. Ma soprattutto i liAnno lll, N. 12 - Luglio-Agosto 1997 guri hanno saputo elaborare un sistema giuridico di common law (analogo a quello britannico e americano di oggi) in cui era del tutto assente il concetto di “diritto pubblico”: ogni problema poteva essere ricondotto a una faccenda di “diritto privato”, da risolvere con accomodamenti, arrangiamenti, risarcimenti. Solo da queste premesse poteva nascere uno “stato” come la Repubblica di Genova (che era quanto di più lontano possa esistere dagli stati moderni accentratori, tassatori e pianificatori): uno stato che, per tutta una serie di motivi, poteva ben essere definito esempio di tolleranza e di stato di diritto (anzi, dei diritti) per tutti. Sono pochissime le guerre combattute dalla Repubblica: questa infatti aveva scelto una politica di neutralismo e si limitava a fornire mercenari a chiunque fosse in grado di pagarli. Anche quando Genova si è trovata direttamente coinvolta in conflitti, le armi sono state l’extrema ratio: si è preferito infatti sempre seguire fin dove possibile la strada della trattativa e dell’accordo finanziario (tutte le colonie genovesi erano state regolarmente acquistate, e nessuna conquistata...), anche perché, vista l’intensa e redditizia attività dei mercanti e degli armatori, i soldi non mancavano. Il vero declino della Liguria comincia con le invasioni napoleoniche, che portarono e imposero dei modelli nuovi e del tutto innaturali: il che ebbe solo l’effetto di spaesare completamente i Liguri e di tarpare le ali a quanti intendevano darsi da fare alla vecchia maniera. Con l’unità d’Italia, poi Biblioteca Padana si ebbe il disastro e il tracollo: a istituzioni leggere, neutrali e liberoscambiste si sostituì uno stato forte e guerrafondaio, centralizzato e burocratico. Si mutò radicalmente l’impostazione economica della Liguria: ad un’economia basata sullo scambio e sul commercio si sostituì un’economia industriale, oltretutto imperniata sulla grande industria di stato e, quindi, sull’assistenzialismo. Chiaramente questo, in un primo tempo, ebbe effetti positivi, poiché portò denaro e benessere: ma tali effetti sono stati brevi e hanno lasciato solo spazio alla miseria e alla disoccupazione attuali. Non si può pretendere di cambiare, dall’oggi al domani, un’intera economia naturale creata con secoli di sforzi, sacrifici e impegni, un’economia che per di più non chiedeva affatto di essere cambiata, perché funzionava. Finita la rievocazione storica, si passa ad esaminare l’attualità (sottolineando l’importanza della Lega Nord, di cui pure l’autore non condivide alcune impostazioni, nell’aver abbattuto un ceto politico parassitario e nell’aver riportato al centro del dibattito le vecchie “piccole patrie”). In particolare Monteverde sostiene, con una certa preoccupazione, che l’Italia ha creato una immensa nomenklatura burocratica, passata poi quasi per osmosi, alla politica: e questo rappresenta un grave pericolo per tutti, poiché è tipico della mentalità del burocrate Quaderni Padani - 61 Biblioteca Padana stabilire il primato della procedura sull’individuo, mentre invece procedure, leggi e istituzioni dovrebbero essere unicamente poste al servizio e a tutela del cittadino. La burocrazia ha creato un mostro irriformabile, che va senza esitazione eliminato. La via per liberarsi di un simile moloc è, secondo l’autore, quella della città stato: bisogna ricondurre il tutto a una federazione, su basi volontarie, delle varie comunità presenti nel nostro paese, in maniera tale che ven- 62 - Quaderni Padani gano messi in comune alcuni (pochi) poteri, mentre tutto il resto è demandato all’autogoverno delle comunità locali. Un modello simile a quello fornitoci dalla Repubblica di Genova, che aveva visto unirsi alla grande Genova tutta una serie di cittadine minori, senza che nessuno dominasse o imponesse le proprie tasse agli altri: il che va di pari passo con la globalizzazione dei mercati, che ha reso piccolo il mondo e, favorendo la circolazione dei beni e delle merci (per utilizzare una tipica distinzione marxiana), ha portato vantaggi enormi a tutti coloro che ne hanno saputo approfittare e, parimenti, è stata causa di enormi disagi per chi, come l’Italia, si è fatto interprete di politiche protezionistiche e illiberali. Una sola valutazione ci divide da Monteverde, che comunque si è ancora una volta distinto per il proprio coraggio e la propria onestà intellettuale: lo studioso ligure auspica infatti una sorta di “Italia bis” che sappia riconoscere e valorizzare le autonomie locali. Noi invece all’Italia non ci crediamo più: al contrario, chiediamo che finalmente venga riconosciuto ai Padani il loro diritto a costruire nuove istituzioni, indipendenti e sovrane, che sicuramente saranno rispettose dei nostri diritti e delle nostre libertà. Giò Batta Perasso Anno lll, N. 12 - Luglio-Agosto 1997