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Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana
Anno IV - N. 18 - Luglio-Agosto 1998
La sacralizzazione
del sacro
Secessione
e costituzione
Il matematico
Giuseppe Peano
Le Fare della
Langobardia
Maior
La preistoria
del mondo
alpino e padano
18
La Libera
Compagnia
Padana
Quaderni Padani
Casella Postale 55 - Largo Costituente, 4 - 28100 Novara
Direttore Responsabile:
Alberto E. Cantù
Direttore Editoriale:
Gilberto Oneto
Redazione:
Alfredo Croci
Corrado Galimberti
Flavio Grisolia
Elena Percivaldi
Andrea Rognoni
Gianni Sartori
Carlo Stagnaro
Alessandro Storti
Grafica:
Laura Guardinceri
Collaboratori
Giuseppe Aloè, Camillo Arquati, Fabrizio Bartaletti, Alina Benassi Mestriner, Claudio Beretta, Daniele Bertaggia, Dionisio Diego Bertilorenzi,
Diego Binelli, Roberto Biza, Giovanni
Bonometti, Romano Bracalini, Nando
Branca, Ugo Busso, Giulia Caminada
Lattuada, Claudio Caroli, Marcello
Caroti, Giorgio Cavitelli, Sergio Cecotti, Massimo Centini, Gualtiero Ciola, Carlo Corti, Michele Corti, Giulio
Crespi, PierLuigi Crola, Mauro Dall’Amico Panozzo, Corrado Della Torre,
Alessandro D’Osualdo, Marco Dotti,
Leonardo Facco, Davide Fiorini, Alberto Fossati, Sergio Franceschi, Carlo Frison, Mario Gatto, Ottone Gerboli, Giacomo Giovannini, Michela
Grosso, Joseph Henriet, Thierry Jigourel, Matteo Incerti, Eva Klotz, Alberto Lembo, Pierre Lieta, Gian Luigi
Lombardi Cerri, Carlo Lottieri, Pierluigi Lovo, Silvio Lupo, Berardo Maggi,
Andrea Mascetti, Pierleone Massaioli, Ambrogio Meini, Ettore Micol,
Renzo Miotti, Aldo Moltifiori, Maurizio Montagna, Giorgio Mussa, Andrea Olivelli, Alessia Parma, Giò Batta Perasso, Mariella Pintus, Daniela
Piolini, Francesco Predieri, Ausilio
Priuli, Igino Rebeschini-Fikinnar, Giuliano Ros, Sergio Salvi, Lamberto
Sarto, Massimo Scaglione, Laura
Scotti, Silvano Straneo, Candida Terracciano, Mauro Tosco, Nando Uggeri, Fredo Valla, Giorgio Veronesi,
Antonio Verna, Alessio Vezzani.
Spedizione in abbonamento postale:
Art. 2, comma 34, legge 549/95
Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041
Arona NO
Registrazione: Tribunale di Verbania:
n. 277
Periodico Bimestrale
Anno lV - N. 18 - Luglio-Agosto 1998
I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla
“Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista.
Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana.
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Noi, Chiesa Padana - Brenno
La sacralizzazione del sacro - Note sui simbolismi
territoriali degli antichi popoli - Gilberto Oneto
Secessione e costituzione - Alessandro Storti
Simon Boccanegra - Flavio Grisolia
Il pensiero scientifico: un carattere distintivo della cultura padana
- Il matematico Giuseppe Peano - Silvano Straneo
Le Fare della Langobardia Maior, notarelle appunti
e considerazioni - Mario Gatto
31 gennaio: S. Geminiano,
il “Padre” dei modenesi - Alina Mestriner Benassi
Toponomastica celtica (e venetica)
nel Veneto - Renzo Miotti e Giuliano Ros
La Padania: quindicimila anni
di storia agricolo forestale - Lamberto Sarto
Ripartizioni agrarie e bonifiche paleovenete
nel territorio padovano - Carlo Frison
Riti “altri” in area subalpina - Massimo Centini
In Bassano per i Remondini - Giulia Lattuada Caminada
La preistoria del mondo alpino e padano - Ausilio Priuli
Mayno della Spinetta, brigante alessandrino,
imperatore della Fraschea - Mariella Pintus
Biblioteca Padana
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Noi, Chiesa Padana
N
egli ultimi tempi è montata di tono la polemica fra il movimento indipendentista padano e la Chiesa cattolica. Lo scontro si è sviluppato su tre livelli di intensità. Il primo vede i
padanisti accusare parte del clero di eccessivo attaccamento alle “cose del mondo”, di troppo
amore per ricchezze e finanze. Il secondo livello
riguarda l’atteggiamento della Chiesa verso la
politica e in particolare l’ingerenza della Gerarchia nei fatti amministrativi e partitici, e la conseguente insofferenza dei cittadini padani per
quella che considerano una indebita “invasione
di campo”. Ma fino a qui gli accenti si sono mantenuti entro i confini di una accesa ma civile divergenza. È infatti solo al terzo livello che la polemica è scaduta di tono con il rispolverare consunte argomentazioni anticlericali, fatte di operazioni scandalistiche sulle abitudini sessuali e
culinarie di taluni prelati, di accuse categoriche
che escludono ogni distinzione fra buoni e cattivi (e nelle quali i “preti” sono solo cattivi proprio
in quanto tali) e basate su infime argomentazioni da bettola. A tutto questo fa da contraltare un
altrettanto scomposto atteggiamento da parte di
talune gerarchie ecclesiastiche che accusano un
po’ maldestramente i Padani di egoismo e di
grettezza, che condannano senza giustificazioni
le istanze autonomiste e che prendono aperta
posizione in favore degli avversari politici dell’autonomia padana, indipendentemente da chi
siano e solo in virtù del loro essere contro la Padania, che viene così demonizzata.
È una brutta storia che divide i nostri popoli
proprio sulle due cose a loro più care: le istanze
di libertà e la fede religiosa. Due cose che non
possono essere tenute distinte e rese nemiche,
pena la sconfitta di entrambe. È una lite fra fratelli che porta vantaggi solo ai nemici esterni dei
popoli padani, delle libertà e del tradizionale rispetto per la religione. È necessario che lo scontro si ricomponga e che il dibattito rientri all’interno di livelli più civili e convenienti per tutti.
È vero che la Chiesa (o parte di essa) si occupa
di intrighi economici ed è vero che questo interessamento eccessivo è stato una costante anche
troppo ricorrente nella sua storia. È altrettanto
vero che questo in Padania non è mai stato facilAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
mente digerito e che esso ha - per reazione - dato
origine e vitalità a gran parte delle eresie padane
che hanno sempre avuto, come costante, il ritorno alla purezza e alla povertà delle origini, e la
forte richiesta di moralità e di netta distinzione
fra affari del mondo e affari dello spirito. Si ritrova sempre questa presa di posizione: dai Catari ai
Dolciniani, fino agli ultimi sussulti pauperistici
ottocenteschi. Ma è anche vero che questa inesausta voglia di pulizia morale ha dato origine a
molte reazioni anche all’interno del corpo della
Chiesa che in Padania è sempre stato molto sensibile a queste tematiche che hanno avuto nell’opera di pulizia di San Carlo uno dei loro momenti di più alta moralità. Sia dentro che fuori la nostra Chiesa si è sempre dato prova di una costante (e molto significativa) avversione per Roma,
intesa come centro emanatore di corruzione, come antico soggetto di distruzione delle culture
tradizionali (per i non cristiani) e di depravazione della purezza della Chiesa (per i cattolici). C’è
una continua e sottile linea di antiromanità che è inutile nasconderlo - ha sempre pervaso la
Chiesa padana, da Sant’Ambrogio, alle contrapposizioni con Venezia (e le sue eroiche resistenze
agli Interdetti papali), a San Giovanni Bosco e in fondo - anche con Giovanni XXIII e Giovanni
Paolo I.
Il fasto e l’intrigo non si addicono alla Chiesa
padana che è troppo legata alle antiche tradizioni
celtiche, sia per diretta discendenza organica
(molto è stato detto sulla continuità non solo
formale fra druidi e sacerdoti, e sulla profonda
influenza della religiosità celtica sul cristianesimo medievale) che attraverso la rievangelizzazione portata (a partire dal VII secolo) dai monaci irlandesi. Quella padana è una Chiesa fatta di
stretta comunanza fra sacerdoti e popolo, di civile discussione e accettazione delle idee, di tolleranza: il mondo celtico non ha fatto martiri, i romani sì. La nostra Chiesa è cresciuta con la nostra civiltà, con i nostri Comuni, con le nostre libertà.
Non è un caso che i Comuni della Lega avessero al loro fianco il Papa. Non si trattava solo di
convenienze politiche e di alleanze militari antiimperiali ma di legami molto profondi: sul CarQuaderni Padani - 1
roccio si diceva messa e le nostre bandiere sono
ancora oggi crociate.
Un arcivescovo, Uberto da Pirovano è stato l’inventore della Lega Lombarda, un Pontefice ha
scomunicato Federico II aiutando i Comuni della
seconda Lega. Libertà locali e religione sono andati d’accordo per secoli. Nei terribili ed eroici
giorni delle Insorgenze anti-giacobine i preti erano a fianco dei combattenti, dei cosiddetti “Viva
Maria” che innalzavano bandiere con la Vergine:
anche allora nella lotta dei popoli padani le istanze di autonomia erano difficilmente districabili
da quelle di difesa della religione tradizionale. C’è
stata la comune lotta contro l’unità massonica e
anticlericale d’Italia. Tutti i cosiddetti “padri” (o
meglio, “padrini”) della patria sono morti scomunicati e il risorgimento è stato fatto principalmente contro la Chiesa, intesa come entità temporale ma anche come struttura religiosa. Un Papa coraggioso ha condannato la prima guerra
mondiale (grande patriottico macello tricolore).
È infine stato per tornare vicino al popolo cristiano che la Chiesa ha finito per accettare l’Italia ma
ha poi anche accettato troppi compromessi col fascismo, con la greppia democristiana, e oggi con
un sordido regime mafio-comunista. Proprio con
questa poco cristiana compromissione e con queste poco evangeliche frequentazioni, la gerarchia
ecclesiastica si comporta - a proposito di lotta per
la libertà - qui diversamente che altrove: in Irlanda, in Lituania, in Slovenia, in Croazia era stata la
prima a benedire (e ad aiutare) l’indipendenza di
popoli cattolici. Perché ai Padani non riconosce
gli stessi diritti? Se alcuni alti prelati troppo filoromani abbandonano il popolo, il clero migliore
non deve seguirli: la Chiesa è popolo e parte del
popolo e deve stare con il suo popolo. Se si divide
il popolo dai suoi sacerdoti si spezza la forza di
una comunità.
È vero che nel passato la Chiesa ha troppe volte
contribuito a devastare antiche culture e a sradicare ogni segno e radice considerata pagana, ma è
altrettanto vero che quello che di più antico è rimasto nella nostra cultura è rimasto nella Chiesa:
mutato, modificato e sminuito ma ancora presente. Il culto dei Santi, della Vergine, l’attenzione
per elementi naturalistici e simbolici e per tanti
segni della nostra antica sacralità sono quel che
resta delle nostre radici. La Chiesa - piaccia o no è l’unica Tradizione vivente. Non ha perciò senso
attaccarsi a ritualità strampalate, inventarsi stravaganti riti druidici o ricercare tardivi contatti
con il protestantesimo che ha per certo sempre
mostrato grande sensibilità per le libertà indivi2 - Quaderni Padani
duali e incoraggiato l’attivismo (culturale e anche
economico) dei singoli ma che è anche stato il
più feroce nemico di ogni legame con le nostre
radici più antiche: il puritanesimo, il fanatismo
biblico e l’iconoclastìa hanno cancellato nel mondo riformato gran parte dei segni delle antiche civiltà precristiane spezzando un legame culturale,
affettivo e identitario carico di forza e di simboli
millenari che, sia pur deformati, sono stati invece
conservati dal Cattolicesimo.
In questo scomposto scambio di colpi, parte
della Chiesa accusa i Padani anche di scarsa propensione alla solidarietà: è un errore e una falsità.
Qui c’è il più alto numero di associazioni di volontariato del mondo, qui c’è la più elevata percentuale di donatori di sangue e di organi, qui la
Chiesa raccoglie le offerte più cospicue (che impiega altrove...) e qui trova chi è disposto ad “andare in missione”.
Ingiustamente accusati di egoismo, i Padani si
sentono offesi anche per l’eccesso di attenzione
che viene mostrata nei confronti delle esigenze
dei foresti, che saranno anche i nostri fratelli meno fortunati ma sono anche i più violenti, i più
neghittosi e i più propensi a delinquere. E che sono anche quelli meno propensi alla tolleranza
culturale e, soprattutto, religiosa. Fa tristezza vedere sacerdoti (magari agghindati da fattorini o
peggio) accudire con ostentata premurosità ai bisogni e ai desideri di clandestini, spacciatori e di
prepotenti, e magari trascurare (per una troppo
entusiastica e rivoluzionaria interpretazione della
parabola del figliol prodigo) la cura dei nostri vecchi e dei nostri malati. Aiutare certi malavitosi significa quasi sempre arrecare ulteriore danno alle
loro vittime, soprattutto alle più indifese. E in
questa visione molto terzomondista e pelasgica
della carità rientra anche la solerte cura delle anime dei mafiosi e dei loro cari, in cui le cronache
più recenti vedono premurosamente impegnati
tanti sacerdoti.
Fa tristezza vedere cardinaloni intendersela
con i rappresentanti (in doppiopetto) di un potere
mafioso e di un regime corrotto e liberticida, con
i discendenti di quei massoni e comunisti che
hanno scomunicato, con gli eredi (mai pentiti)
degli assassini di sacerdoti, degli aguzzini e degli
affamatori del popolo cristiano. Fa tristezza vedere le gerarchie sostenere uno stato ladro e nato
da una macchinazione anticlericale. Fa tristezza
vederli alleati con i nemici delle nostre libertà e
autonomie, non più sul Carroccio in mezzo al popolo ma al servizio del nemico della nostra terra.
Fa tristezza e rabbia vedere l’unità d’Italia (e l’otAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
topermille) diventare dogma di Fede. Fa rabbia
vedere la Chiesa, che da sempre è stata il più solido baluardo contro l’Islam, passare praticamente
di campo e favorire l’invasione (che ha forme pacifiche ma non si sa fino a quando...) dei nipoti di
quei saraceni e turchi che per secoli e secoli hanno portato morte, distruzione, schiavitù e fanatismo e che hanno sempre cercato di occupare e di
distruggere l’Europa e la sua civiltà, di cui la
Chiesa è parte centrale e antica. Da che parte sarebbero stati certi odierni pretoni a Lepanto?
Certo, tutto questo ci provoca un più che ammissibile sdegno ma non può giustificare nessun
esercizio di becero anticlericalismo. Noi cattolici
padani dobbiamo ricordare a noi stessi che la
Chiesa siamo noi, al clero che “va per la tangente” che non esiste Chiesa senza popolo, e agli anticlericali “per (scomposta) reazione” che non
esistono libertà senza tradizioni storiche, senza
identità e senza radici. La croce di San Giorgio è
la croce di tutto l’occidente cristiano, che tutti i
suoi figli migliori hanno difeso - cattolici, eretici
o atei - per quello che essa significa in termini di
continuità storica, culturale ed identitaria, e di
quel profondo ed eterno legame con la terra che
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
costituisce l’essenza della nostra civiltà.
Indipendentemente dalle loro personali convinzioni religiose, tutti i Padani sanno che esiste un
legame morale e simbolico fra la tradizione religiosa e l’identità padana: alla testa degli eserciti
padani c’è sempre stato uno stendardo con la croce, le rogazioni erano precedute da una insegna
del drago. La croce e il drago di Padania si fondono e identificano in San Giorgio, ma anche in
San Marco, Ambrogio, Maurizio e nei cento altri
simboli di cristianità e padanità, fino alla Madonna nera di Oropa che veglia su questa terra da
molto prima che il Cristianesimo vi comparisse,
per collegarsi con la forza antica della cultura Garalditana, Veneta, Ligure e Celta.
Tornino i Padani sotto le insegne crociate della
loro storia millenaria, nate del Cristianesimo celtico e dal Medioevo cristiano. Torni la Chiesa padana a fianco dei suoi popoli. Le nostre libertà e
autonomie (come le cattedrali romaniche e gotiche che ne sono il simbolo più efficace) sono state costruite dall’unione della Fede con le libertà.
È una unione che rende i nostri popoli invincibili
e la Padania libera e indipendente.
Brenno
Quaderni Padani - 3
La sacralizzazione del sacro
Note sui simbolismi territoriali degli antichi popoli
di Gilberto Oneto
L’
intervento dell’uomo sul territorio era inteso dalle civiltà tradizionali come un’opera di
adeguamento all’ordine cosmico in contrapposizione al caos informe e da questa intenzione
“morale” traeva ispirazione e giustificazione quasi diventando una continuazione dell’atto primordiale della Creazione di cui voleva riprendere
i ritmi e i simboli. Che questo principio abbia da
sempre governato la fondazione e la costruzione
delle città è cosa universalmente nota e accettata.
Assai meno palesi risultano essere le stesse intenzioni applicate al paesaggio, spesso invece inteso
quasi come elemento di contrapposizione allo
spazio ordinato dei centri urbani.
La maggiore notorietà e conoscenza dei riti e
dei simboli di fondazione urbana derivano dal fatto che questi siano stati presenti in tutte le civiltà
e, in particolare, anche in quella romana cui purtroppo la cultura ufficiale fa da molto tempo
esclusivo riferimento. L’atteggiamento romano
nei confronti della comprensione e della gestione
del territorio era invece improntato alla volontà
di conquista e di sottomissione, e alla necessità di
modificarne la forma per ragioni di sfruttamento
economico e di sottomissione simbolica. Lo strumento abituale con il quale si raggiungevano
questi obiettivi era la centuriazione e cioè la sovrapposizione sul paesaggio di un reticolo geometrico di quadrati di circa 700 m di lato che servivano per la equalitaria distribuzione delle terre
ai coloni (e quindi per l’insediamento di gente
“amica” sulle terre conquistate, dalle quali è stata
espulsa la gente “nemica”), per la razionalizzazione della produzione agricola, per il controllo militare del territorio e per la distruzione di tutti gli
elementi paesaggistici (i boschi, i luoghi sacri o
nemeton, i monumenti megalitici eccetera) su
cui si basavano invece gli schemi di sacralizzazione della terra dei popoli vinti. (1) Restavano per
evidenti ragioni escluse da questa operazione solo
le aree di collina e di montagna dove infatti la penetrazione romana è sempre solo stata molto superficiale e temporanea. (2)
Del tutto diverso era l’atteggiamento delle popolazioni più antiche, soprattutto di quelle di ori4 - Quaderni Padani
Allineamento di motte circolari nel Wiltshire.
(Da Marilyn Bridges. Markings. New York: Aperture,
1986)
gine celtica, ma risulta che del tutto analogo fosse anche quello delle altre stirpi e, in particolare e
per quel che ci concerne, di Garalditani, Liguri,
di Reti e di Veneti. Tutti questi non avevano col
territorio un rapporto imperialista di conquista (e
di sfruttamento) ma uno stretto legame che travalicava i limiti della convenienza economica o
del contatto fisico ma che arrivava a una identificazione simbolica e sacrale molto forte. La terra
era la tribù, nella terra si trovavano le origini ancestrali della comunità, la terra ospitava tutti gli
elementi di sacralità di cui la tribù faceva parte.
La terra era la “Madre Terra” dispensatrice fecon-
(1) Per i dettagli della sistematica centuriazione (e distruzione) del paesaggio padano da parte dei Romani si vedano:
Pierluigi Tozzi. Storia Padana antica. Milano: Ceschina,
1972, e AA.VV- Misurare la terra: centuriazione e coloni nel
mondo romano. Modena: Edizioni Panini, 1984
(2) È assai sintomatico che gli Stati Uniti, nella loro espansione verso ovest e con lo Homestead Act del 1862, si siano
comportati esattamente allo stesso modo stendendo sul paesaggio un reticolo di 16 acri che interessa un buon terzo degli Stati Uniti. Anche qui l’operazione è evidentemente riuscita solo nelle zone pianeggianti dalle quali le tribù pellerossa sono state immediatamente espulse e maggiore resistenza si è avuta solo nelle regioni montuose.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Schema di allineamenti nel
South Durham, Inghilterra. (Da
Paul Screeton. Quicksilver Heritage.
London: Abacus, 1974)
da di ogni pulsazione di vita e di
ogni ricchezza: ogni elemento e
parte della natura era custode di
una entità sacra o costituiva una
porzione di divinità che andava rispettata. (3) Il paesaggio era cioè
(3) “Un carattere che è singolarmente comune a tutte le religioni primitive (nel senso di
prime in ordine temporale) è il concetto
panteistico di natura ospitante il divino e di
natura stessa come manifestazione del sacro. In quel mondo ogni albero, ogni fonte,
ogni corso d’acqua, ogni collina costituiva
una ierofania o una epifania, o racchiudeva
una entità spirituale o aveva un proprio
“spirito guardiano” che faceva parte di un
sistema interconnesso e insostituibile, di
una vasta rete di relazioni attribuibile e riportabile alla presenza del divino. Tali spiriti erano in qualche modo accessibili all’uomo pur godendo di una condizione divina o
semi-divina autonoma o dipendente da un
Ente superiore e comunque rientranti in un
più generale disegno di ordine sacrale della
natura. Queste manifestazioni hanno assunto forme e nomi diversi nelle varie culture mantenendo una intrigante unità - anche formale - di fondo: così - ad esempio - i
centauri, i fauni, le ninfe eccetera della cultura greco-romana ricordano gli elfi, le fate,
gli gnomi eccetera delle tradizioni nord-europee. Nelle culture nordiche - e con singolari analogie in quelle estremo-orientali - ricorre una generalizzata tendenza alla
antropomorfizzazione e zoomorfizzazione degli elementi del
paesaggio quasi questi fossero “esseri” acquattati su di esso in
un sonno dal quale si possono sempre svegliare dando luogo a
fenomeni naturali di difficile spiegazione come terremoti o bradisismi. Tutte queste presenze famigliari, rassicuranti o inquietanti di divinità o di manifestazioni del divino implicavano un
rispetto che veniva riflesso sull’elemento naturale protetto che
finiva così per godere esso stesso di speciale riguardo: prima di
abbattere un albero, sventrare una montagna o imbrigliare un
torrente, era importante placare lo spirito preposto a quel particolare elemento o parte del paesaggio e dimostrargli l’effettivo stato di necessità che si trovava alla base della decisione di
intervento. (...) Oltre al descritto diffuso animismo, l’antica visione sacrale della natura si manifestava anche sotto la variante dell’impersonificazione del mondo intero con un essere vivente quasi sempre identificato con la Terra Madre. Anche in
questo caso il paesaggio è ritenuto meritevole di rispetto a causa di sue valenze religiose non più rappresentate da tante presenze autonome o semi-autonome ma per la sua più precisa
identificazione con la “pelle” della Terra Madre che arriva anche a livelli di dettaglio iconografico piuttosto interessanti: la
superficie terrestre è vista come l’epidermide, la vegetazione
sono i peli, le montagne le rugosità e l’acqua è la linfa vitale - il
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
sangue - che scorre e dà la vita. Proprio come la pelle di un essere vivente, il paesaggio può essere ferito - lasciando cicatrici
perpetue leggibili - o tatuato con grandi segni. Si collocano in
quest’ottica culturale tutte quelle manifestazioni dette geoglifi
che non avrebbero altra spiegazione pratica se non proprio
quella di essere dei “tatuaggi” a uso del sacro e a dimensione
territoriale. Si ricordano le figure collinari inglesi, quelle a movimento di terra nordamericane, i segni di Nazca e - in qualche
modo - anche gli allineamenti che qua e là sorgono in area celtica. Questa immagine del paesaggio come pelle della Grande
Madre trova particolare successo in talune culture, come quelle
pellerossa, dove viene portata alle conseguenze più estreme con
il rifiuto - ad esempio - di arare per non ferire o di abbattere alberi per non spogliare. Questo atteggiamento dura fino a oggi
sia in manifestazioni religiose di tipo tradizionale che nella riproposizione di immagini che inconsciamente riproducono
simboli evidentemente rimasti acquattati nel subconscio collettivo dopo aver perso i loro significati palesi. Anche questa metafora è stata cristianizzata e in qualche modo è pervenuta fino
a noi con la non troppo velata identificazione fra Terra Madre e
Vergine Maria (soprattutto nelle sue versioni icografiche “nere”) perdendo però le connotazioni più specificatamente legate
all’idea di paesaggio-pelle.”
Da: Gilberto Oneto, Manuale di pianificazione del paesaggio
(Milano: Il Sole 24 Ore-Pirola, 1997), pagg. 22 ÷ 27.
Quaderni Padani - 5
contenitore di sacralità ma anche,
esso stesso, elemento e soggetto
di sacralità. Ogni
intervento sul paesaggio doveva tenere conto di queste valenze e diventare parte del sacro, continuazione
del sacro e vi si doveva inserire solo
nella misurata veste di contributo
antropico all’armonia generale.
Si trattava di un
atteggiamento che
era comune (sia
pur con diverse
sfumature di comportamento) a tutte le civiltà tradizionali e che si è in
qualche modo conservato in occidente sotto la coltre di
cristianizzazione e
in veste di cultura
popolare, di memoria folklorica.
Molto di questo complesso patrimonio spirituale
e culturale stà negli ultimi tempi riaffiorando. Parecchio si comincia a sapere, ad esempio, sulla
scienza cinese del Feng-Shui che regolava ogni
azione umana di trasformazione o di utilizzo del
paesaggio sulla base di precisi rapporti di geomanzia. (4) Qualcosa di analogo comincia qua e là
a venire fuori anche fra le pieghe dei paesaggi occidentali sui quali - occorre ricordarlo - molto è
successo in termini di interventi e di modificazioni anche profonde da che le ultime civiltà tradizionali hanno avuto modo di lasciarvi incisi i loro
segni. (quasi si trattasse di lavagne sulle quali nel
frattempo abbiano continuato a stratificarsi interventi e cancellazioni di portata crescente). Come
se non bastasse, i nostri paesaggi hanno dovuto
subire la sistematica opera di cancellazione di
ogni antico segno di sacralizzazione da parte dei
Romani (che vi leggevano un pericoloso segno di
diversità, di autonomia e di identità contrario al
loro obiettivo di sistematica omologazione) e della Chiesa che vi vedeva segni di superstizione da
6 - Quaderni Padani
Schema di allineamenti nell’Ostfriesland, Germania. (Da
John Michell. Secrets of the Stones. Harmondsworth: Penguin
Books, 1977)
estirpare o la demoniaca sopravvivenza di antichi
culti naturalistici pagani. Perciò solo di rado e a
fatica riaffiorano brandelli di strutture organizzative del territorio basate su schemi sacrali, simbolici o astrali la cui identificazione è, oltre a tutto,
ulteriormente complicata dal non saper bene cosa cercare. Solo da pochi anni si sono ricostruite
alcune delle chiavi di lettura che hanno permesso
di fare riaffiorare segni che sono spesso ancora
troppo labili e imprecisi per potere vantare certezze. In queste condizioni è inevitabile che a situazioni vere, verosimili o a tracce sicure si mescolino supposizioni, errori o addirittura invenzioni a intorbidire una situazione già difficile. In
base alle attuali conoscenze, gli elementi portanti
(4) Sarah Rossbach. Feng Shui. The Chinese Art of Placement. New York: Dutton, 1983.
Un originale approccio del Feng-Shui nell’interpretazione
delle manifestazioni di gestione territoriale in Occidente è
stato proposto da: Derham Groves. Feng-Shui and Western
Building Ceremonies. Singapore: Graham Brash, 1991.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
su cui erano costruiti gli schemi
di sacralizzazione a livello territoriale delle antiche civiltà europee (o, più semplicemente, quelli che riusciamo ancora a cogliere) possono essere raccolti in
due tipi: gli orientamenti astrali
e gli allineamenti (in inglese
leys) o “geogeometrie”.
La storia della scoperta di
questi segni e della loro ricomparsa nell’immaginario collettivo è affascinante come i segni
medesimi. Il primo a cercare di
dare coerenza scientifica a un
insieme di percezioni è stato
l’inglese Alfred Watkins che si è
dedicato alla ricerca dei leys dell’Inghilterra meridionale: in anni di ricerche e di sopralluoghi
ha scoperto e dimostrato che
centinaia di monumenti megali-
Schema degli allineamenti imperniati su
Stonehenge. (Da Nature, 26 ottobre 1963)
tici marcanti luoghi sacri
(menhir, cromlech eccetera) sono stati posizionati su
delle linee lunghe decine e
decine di chilometri che
comprendono anche talune
emergenze morfologiche
(collinette, picchi eccetera)
e che si intersecano su elementi particolarmente rilevanti - Stonehenge è uno di
questi - con una precisione
e una ricorrenza che rende
del tutto improbabile la loro casualità. (5)
L’identificazione di tale reticolo è stata facilitata dalla
particolare configurazione
morfologica della regione,
dal buono stato di conserAllineamenti bretoni imperniati sul menhir di Er Grah. (Da J. Mi- vazione di quasi tutti i mochell, op.cit.)
numenti e dalla permanen(5) Le prime ricerche sono descritte in: Alfred Watkins. The
Old Straight Track. London: Abacus, 1977.
Le principali referenze sugli allineamenti inglesi si trovano in:
Janet e Colin Bord. Mysterious Britain. Frogmore: Paladin, 1974
Rodney Castleden. Stonehenge. Indagine nella Britannia Neolitica. Genova: EGIC, 1995
Francis Hitching. Earth Magic. London: Picador, 1976
John Michell. The View over Atlantis. New York: Ballantine,
1969
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
John Michell. Secrets of the Stones. Harmondsworth: Penguin
Books, 1977
John Michell e Christine Rhone. Twelve-Tribe Nations and the
Science of Enchanting the Landscape. London: Thames and
Hudson, 1991
Gilberto Oneto. “Territori allineati”, in VilleGiardini, n. 270,
maggio 1992
Nigel Pennick. Celtic Sacred Landscapes. London: Thames
and Hudson, 1996.
Quaderni Padani - 7
za dei luoghi “sacri” nei quali assai
spesso la chiesa o la croce stazionale hanno preso il posto e continuato le funzioni del preesistente
elemento sacrale pagano. Hanno
contribuito anche una migliore
conservazione del paesaggio (che
ha subìto meno di altri il rullo
compressore di chi voleva deliberatamente cancellare ogni segno
di sacralità), la disponibilità di una
efficiente base cartografica e la
presenza volonterosa di decine di
ricercatori la cui preparazione culturale (e la cui mentalità) non è
condizionata dal rigorismo classicista, positivista e romanocentrico, e che quindi possiedono ancora la freschezza e l’apertura mentale (l’inglese ingenuity) che permette di vedere cose che ad altri
erano precluse da preconcetti e da
incrostazioni di tabù. (6)
L’intero impianto ha una organizzazione complessiva nella quale allineamenti e orientamenti
astrali si trovano in stretta correlazione e sono spesso indistinguibili. Infatti non solo edifici e complessi monumentali ma anche interi reticoli di allineamenti sono
stati orientati in funzione solare
(equinozi o solstizi) o su significativi posizionamenti di altri corpi
celesti. Fin da tempi antichissimi
(III e IV millennio a.C.) le popolazioni locali hanno costruito architetture sacre organizzate su precisi riferimenti astrologici, con funzione di punti
di osservazione e di misurazione, o di grande calendario. I più noti di questi monumenti sono i
complessi inglesi di Stonehenge e di Avebury, e
quelli irlandesi di Newgrange e della valle del
Boyne. (7)
Trame di allineamenti del tutto simili per concezione ed estensione sono state ritrovate da
(6) In realtà anche i ricercatori inglesi hanno dovuto affrontare pregiudizi e boicottaggi da parte della cultura ufficiale,
spesso (anche se molto meno che da noi) ancora legata a
schemi classicisti. Questo ha ritardato la diffusione delle
scoperte che sono state relegate per lunghi anni nell’editoria
minore e quasi underground. Solo negli ultimi tempi queste
teorie e questi studi si sono conquistati un posto di rilievo
nel mondo scientifico e presso le case editrici più autorevoli.
(7) Le precise geometrie di Stonehenge sono state ricostruite
solo con l’ausilio dei più moderni elaboratori a dimostrazione dell’elevato grado di precisione e completezza raggiunto
dagli antichi astronomi. Il lungo lavoro di interpretazione è
stato descritto da: Gerald S. Hawkins. Stonehenge Decoded.
New York: Dell Publishing, 1965. Degli orientamenti irlandesi si è, in particolare, occupato: Martin Brennan. The
Stars and the Stones. Ancient Art and Astronomy in Ireland.
London: Thames and Hudson, 1983 Giova ricordare che analoghi rapporti astrali sono stati riscontrati in numerosi complessi architettonici antichi, dalle piramidi del Nilo fino a
monumenti precolombiani o dell’Asia orientale. Non va neppure dimenticato che anche le chiese cristiane erano un
tempo sistematicamente “orientate” (con l’abside e l’altare
volti a oriente) e che le moschee lo sono tuttora (verso La
Mecca).
8 - Quaderni Padani
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Sovrimpressione dei segni zodiacali sul paesaggio di Glastonbury, Inghilterra. (Da Janet
e Colin Bord. Mysterious Britain.
Frogmore: Paladin, 1974)
Teudt in Germania nella regione attorno alla selva di Teutoburgo e da Thom in Bretagna, in un
reticolo imperniato attorno al complesso megalitico di Carnac. (8)
Uno schema di sacralizzazione analogo per significati e simbolismi ma diverso per concezione fisica è stato scoperto e studiato da Katherine
Maltwood a Glastonbury, nell’Inghilterra meridionale: qui il paesaggio sarebbe stato organizzato sulla sovrimpressione dei dodici segni zodiacali, disegnati a scala geografica da strade,
corsi d’acqua e confini di appezzamenti. (9)
La Padania appartiene allo stesso ampio mondo culturale delle zone di cui si è fatto cenno ed
è perciò “normale” che i suoi antichi abitanti abbiano seguito analoghe linee di condotta nel proAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
cesso di sacralizzazione di questo territorio. Certo, qui la somma dei segni lasciati sul paesaggio dalle moltissime civiltà che
si sono succedute ha cancellato
gran parte delle tracce di allineamenti del genere: quello che
resta comincia però a riaffiorare
qua e là grazie anche all’impegno di una nuova generazione di
ricercatori non più legati agli intorpiditi schemi della “normale”
storiografia del paesaggio.
In particolare, sono moltissimi
gli esempi di strutture architettoniche antiche di cui si scoprono evidenti orientamenti astrali.
I casi più noti riguardano i cerchi di pietre della Val Belluna
(nella necropoli paleoveneta di
Mel, databile dall’VIII al IV secolo a.C.) che sono orientati sulla
levata del sole nei giorni di Imbolc e di Samain, i castellieri
sudtirolesi di Colle Joben e di
San Pietro in Fiè (allineati al
solstizio invernale), l’area megalitica aostana di Saint Martin de
Corleans (sito della leggendaria
Cordelia dei Salassi) orientata
sulla levata del sole a Beltane e a
Lammas (15 agosto), e numerosi altri castellieri
e monumenti tombali nel trevigiano (Montebelluna, Giavera, Volpago e Colbertaldo). (10)
(8) Degli allineamenti tedeschi e bretoni hanno scritto: Paul
Screeton. Quicksilver Heritage. London: Abacus, 1974, e
Wilhelm Teudt. Germanische Heiligtümer, s.l., s.d., 1929
(9) Notizie sul paesaggio costruito sui segni zodiacali sono
date, fra gli altri, da: Janet e Colin Bord, Mysterious Britain
(Frogmore: Paladin, 1974), pagg. 207 ÷ 213.
(10) Giuliano Romano, “Allineamenti astronomici nel paesaggio montano”, in Atti del convegno Le trasformazioni del
paesaggio alpino (Belluno: Fondazione Angelini, 1994),
pagg. 149 ÷ 159. Si veda anche: Giuliano Romano e A. Paolillo. “Orientamenti astronomici negli insediamenti preistorici
del Quartier del Piave (Treviso) nel quadro della loro distribuzione territoriale”, Università di Padova, 1988, pagg. 20 ÷ 31
Quaderni Padani - 9
I pochi villaggi fortificati (“motte”) superstiti sante notare come tutti i casi finora scoperti di
dei molti un tempo presenti nel territorio di Ca- orientamenti e di allineamenti padani riguardistelfranco Veneto (Castello di Gòdego, Vallà) sono no aree alpine (dove la romanizzazione è stata
orientati sull’allineamento astronomico legato al più superficiale) o il Veneto, che per lo svolgersi
solstizio d’inverno. (11)
degli eventi storici antichi non è stato colonizCarlo Frison ha scoperto e studiato i puntuali zato con la stessa durezza che è toccata al resto
orientamenti astrali di Padova e Treviso e la pre- della Padania. La cancellazione degli schemi e
cisa costruzione geometrica attorno ad essi degli elementi di sacralizzazione territoriale è
creata nel tracciamento dei loro nuclei più anti- stata perciò sistematica solo nelle aree di pianuchi. (12) Qui l’impianto comincia ad assumere di- ra: il posizionamento di Milano è un residuo domensione territoriale con connotazioni che so- vuto alla persistenza della collocazione dell’abimigliano a quelle dei leys inglesi. Ha sicuramen- tato.
te un interesse a dimensione più ampia la coLa sistematica opera di cancellazione non ha
struzione paesaggistica di epoca romana del ter- però neppure significato la distruzione dell’idea
ritorio compreso fra Verona e Vicenza e imper- stessa di sacralizzazione territoriale che è stata
niata radialmente sulla Cima Marana e che è conservata all’interno della cultura occidentale e
stata studiata da Giulio
in qualche modo riprePizzati. ( 13) Ancora in Schema dell’area megalitica di Saint Martin sa dalla Chiesa medieVeneto, un affascinante de Corleans (Disegno di G. Romano, 1994)
vale che era - giova
reticolo geometrico
sempre ricordarlo (esteso su 168 chilomeprofondamente impretri per 141) che collega
gnata di cultura celtica.
molte città (fra cui VeSolo in quest’ottica
rona, Este, Vicenza, Vepossono essere spiegate
nezia, Treviso, Oderzo,
le geometrie territoriali
Padova e Adria) è stato
formate - ad esempio ipotizzato da Giuseppe
dalle cattedrali francesi
Segato nella sua Carta
dedicate a “Nôtre DaCulturale. (14)
me” (come ipotizzato
Un fitto sistema di alda Charpentier) ( 17), o
lineamenti di elementi
dagli insediamenti temnaturali e architettonici
plari attorno a Pavia
(del tutto simile per
che sarebbero perfettaconcezione a quelli inmente organizzati su di
glesi) è stato descritto
uno schema stellare a
da Petitti per l’area delcinque punte centrato
la Valle d’Aosta e del
su Lardirago. (18)
Piemonte settentrionaAnaloghe costruzioni
le. (15) Di recente è stata
ambientali possono esipotizzata una precisa costruzione geometrica sere ritrovate sia pur in dimensioni più conteanche per la collocazione del nucleo antico di nute: Enrico Guidoni ha - ad esempio - risconMilano, basata su un rapporto di traguardazione trato una interessante analogia fra la disposiziocon il Monte Rosa e il Resegone. (16) E’ interes- ne degli elementi architettonici della Piazza dei
(11) Giuliano e Marco Palmieri, I regni perduti dei Monti
Pallidi (Verona : Cierre Edizioni, 1996), pagg.55 ÷ 56.
(12) Carlo Frison, Dal Pilpotis al Doge. La collegialità del governo veneto (Padova: Libreria Padovana Editrice, 1997),
pagg. 9 ÷ 21.
Lo stesso tema è stato trattato in: Carlo Frison “Tracce di
astronomia paleoveneta”, in Padova e il suo territorio, anno
XIII, fascicolo 71, gennaio-febbraio 1998
(13) Giulio Pizzati. L’Oro di Marana. Valdagno: S.e., 1985.
(14)Giuseppe Segato. Allegato della carta culturale “El nostro
Veneto”, Borgoricco (PD), 1994
10 - Quaderni Padani
(15) Riccardo Petitti. Sentieri Perduti. Un Sistema Celtico di
Allineamenti. Ivrea: Priuli e Verlucca, 1987.
(16) Gilberto Oneto. “Milano, centro della Terra di mezzo”, in
Quaderni Padani, Anno III, n.9, gennaio-febbraio 1997,
pagg.14-21. Ancora sullo schema di fondazione sacrale di Milano, si veda: Giorgio Fumagalli. “L’ellisse di Milano”, in La
Padania, 31 maggio 1998.
(17) Louis Charpentier, I Misteri della Cattedrale di Chartres
(Torino: Arcana, 1972), pagg. 32 e 33.
(18) Alberto Arecchi, La Saga del Ticino (Pavia: Fiume Azzurro, s.d.), pagg. 55 ÷ 63.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Schema di allineamenti fra il Piemonte e la Valle d’Aosta. (Da Riccardo Petitti. Sentieri Perduti.
Ivrea: Priuli e Verlucca, 1987)
Miracoli di Pisa e la
costellazione dell’Ariete che andrebbe al
di là di una normale
casualità. (19)
Ancora, studiando la
topografia del Sacro
Monte di San Vivaldo
in Valdelsa, Franco
Cardini ne ha evidenziato l’intenzione di
riprodurre esattamente la disposizione dei
luoghi originari di
Tracce di orientamenti astrali nella pianta di Treviso (Da Carlo Frison. Dal
Pilpotis al Doge. Padova: Libreria Padovana Editrice, 1997)
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
(19) Enrico Guidoni, Arte e
Urbanistica in Toscana
1000-1315 (Roma: Bulzoni,
1970), pagg. 49 ÷ 67.
Quaderni Padani - 11
La costellazione della Vergine e le “Nôtre Dame” di Francia. (Da Louis Charpentier. I Misteri
della Cattedrale di Chartres. Torino: Arcana, 1972)
Gerusalemme attraverso un complesso intervento sul paesaggio. (20)
Sempre a proposito di Sacri Monti - che per
loro origine e caratteristiche sono il fenomeno
recente che più facilmente è assimilabile a certi
elementi simbolici antichi - in uno studio su
quelli costruiti dai Borromeo, è stato ipotizzata
una loro collocazione sul territorio secondo una
precisa sequela di allineamenti incentrati sul
San Carlone che era il punto di arrivo del Sacro
Monte di Arona dedicato al Santo nel suo luogo
natale. Il colosso bronzeo sarebbe così il centro
attorno a cui ruota tutta una complessa operazione di organizzazione e geometrizzazione sacrale del paesaggio della zona del Lago Maggiore
e di cui - occorre dirlo - non vi è altra prova che
la precisione dell’allineamento stesso. (21)
Non può certo essere un caso che questi allineamenti medievali sono da attribuire a cistercensi e a templari hanno sempre rappresentato
forti nicchie di conservazione di culture e di
simbolismi precristiani,
e che quelli di epoca
controriformistica abbiano avuto per ispiratore San Carlo Borromeo che aveva una
profonda conoscenza
delle culture tradizionali e un forte interesse
Il pentacolo degli insediamenti templari attorno a Pavia. (Da Alberto
Arecchi. La Saga del Ticino. Pavia: Fiume azzurro)
12 - Quaderni Padani
( 20) Franco Cardini - Guido
Vannini. “San Vivaldo in Valdelsa: problemi topografici ed
interpretazioni simboliche in
una “Gerusalemme” cinquecentesca in Toscana”, in Religiosità e Società in Valdelsa
nel Basso Medioevo. Atti del
Convegno di S. Vivaldo, settembre 1979.
(21) Gilberto Oneto, “Il Monte
Sacro. Note sugli Aspetti Simbolici dei Sacri Monti”, in La
Città Rituale, (Milano: Franco
Angeli, 1982), pagg. 205 ÷ 207.
Gilberto Oneto, Il Paesaggio
Sacralizzato (Milano: D.V.,
1984), pagg. 29 ÷ 36.
e ben più imponente opera di organizzazione
paesaggistica effettuata su forme geometriche
sacrali o astrali di cui si perduta la memoria e
della cui esistenza non si ha certezza alcuna.
Oggi che l’antico senso identitario dei nostri
popoli stà finalmente risorgendo ricompaiono
sintomaticamente anche questi segni che costituiscono una antica testimonianza, un forte legame con le nostre lontane radici e un robusto
segno della identificazione fra popolo e terra.
Questi segni che sembravano cancellati vengono
anche a dimostrare che non sono bastate oppressioni di ogni genere ad annientare l’antico
legame di questi popoli con la loro cultura e con
la terra.
Non è un caso che le tracce di sacralizzazione
del territorio ricompaiano con il rinvigorirsi
della mai sopita voglia di libertà e di identità
delle nostre genti. (22) Col rinsaldarsi della eterna unione fra terra e popolo si rafforzano le nostre libertà.
Organizzazione del posizionamento dei Sacri
Monti Borromaici. (Da AA.VV. La Città Rituale. Milano: Franco Angeli, 1982)
nel significato morale e politico dell’opera di sacralizzazione del paesaggio.
Altre forme di geometrizzazione minore imperniate su qualche caposaldo architettonico sono riscontrabili con una certa frequenza un po’
ovunque soprattutto nell’area prealpina: strade
allineate su campanili o edifici religiosi messi in
fila potrebbero essere il rudere di qualche antica
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
(22) Anche un denigratore fazioso ma attento ha di recente
osservato la forte connessione fra la riscoperta dei segni di
sacralizzazione del paesaggio e le pulsioni libertarie di un
popolo: Rumiz fa un parallelo fra la ricerca degli allineamenti padani e lo studio, effettuato nel 1986 da Marko Pogacnik
e Dusan Podgornik, su un grande chrismon sovrapposto al
paesaggio istriano e imperniato sul colle di Montona. Il fatto
che un detrattore astioso delle libertà padane attribuisca a
questo parallelo connotazioni negative ci conforta sul valore
positivo dell’identificazione fra i segni di sacralizzazione e la
rinata aspirazione libertaria e identitaria dei nostri popoli.
Paolo Rumiz, La secessione leggera (Roma: Editori Riuniti,
1997), pagg. 132 e 133.
Quaderni Padani - 13
Secessione e costituzione
di Alessandro Storti
R
ecentemente è apparso sulle pagine de Il Sole 24 Ore un intervento di Fabrizio Lemme,
Professore di diritto penale dell’economia,
relativo alle elezioni del Parlamento della Padania. Naturalmente il penalista ravvisava gli estremi per la denuncia dei promotori e degli organizzatori, estendendo però i limiti di intervento
della Magistratura fino a ricomprendervi la fattispecie della preparazione del reato (“È da aggiungere che il reato è punibile anche nella forma del tentativo e quindi non solo se la consultazione elettorale venisse effettivamente attuata
ma anche se fossero posti in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a realizzarla”). Ciò
significherebbe attribuire ai giudici la possibilità
di agire anche soltanto in relazione all’allestimento dei gazebo elettorali, a prescindere dall’effettivo concretizzarsi di attività materiali. Non
intendiamo qui soffermarci sulle considerazioni
giuridiche del professore dell’Università di Siena;
al proposito ci sembra infatti sufficiente ricordare una questione. Lo Stato italiano dispone di
tutti i mezzi giuridici e fisici per impedirci di fare le elezioni: il sistema tricolore infatti si fonda
su una rigida interpretazione “monistica” e centralistica del principio sovranitario; ciò vuol dire
che Roma, concepita come fonte unica e suprema della legge e del potere, può inventare, anche
ex novo, tutte le strade utili per il boicottaggio
della rivoluzione padana. Non illudiamoci di poterci appellare ai giudici o alla Corte costituzionale: in uno Stato profondamente illiberale e
tendenzialmente autoritario gli unici veri arbitri
possono essere i cittadini, con il loro consenso e
la capacità di capire chi ha ragione fra un carabiniere che arresta e un manifestante in camicia
verde che viene arrestato.
Lasciando quindi da parte l’esame delle vie
giuridiche anti-secessioniste invocate da Lemme, pensiamo sia utile soffermarsi sul punto di
partenza concettuale da cui si sviluppa tutto
l’articolo. Il docente in principio affronta la questione della immodificabilità - anche attraverso
l’articolo 138 - di alcuni articoli della Costituzione della Repubblica italiana: “È principio giuridico ormai acquisito che alcune norme recate
14 - Quaderni Padani
nelle singole Carte costituzionali non siano modificabili attraverso il procedimento di revisione.
Le norme, in particolare, che qualificano l’ordinamento giuridico in senso democratico o totalitario, che proclamano l’inscindibilità dello Stato, costituendo l’essenza della costituzione materiale, non potrebbero essere modificate se non
con un procedimento di fatto, che mette origine
a un nuovo ordinamento...”. Non si tratta di una
posizione nuova e originale, ma del vecchio insegnamento dossettiano che una consistente
parte della dottrina ha trasformato in proprio
cavallo di battaglia. Basandosi su questa visione
della Carta, Lemme afferma che la secessione
(ma lo stesso discorso varrebbe per qualsiasi forma di autentico federalismo) non è una richiesta
compatibile con l’ordinamento italiano. Meglio
ancora, non sarebbe ipotizzabile alcun procedimento di destrutturazione dello Stato o di separazione consensuale: questi potrebbero avvenire
solo “di fatto” (lasciamo al lettore ulteriori riflessioni su tale termine, certamente vago e, diremmo noi, anche inquietante).
Giudicare la tesi di questo filone del pensiero
costituzionalista è un po’ come pretendere di
chiedere a un credente la dimostrazione scientiAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
fica dell’esistenza di Dio. Il problema, però, è che
in quest’ultimo caso, fortunatamente, le guerre
di religione non si fanno (quasi) più. La fede è un
fatto ormai personale, almeno in occidente, e l’elemento “irrazionale” di un credo è argomento
riservato a teologi e studiosi. Al contrario, la visione di tipo “fideistico” trasportata in ambito
costituzionale ha un solo effetto: genera mostri.
Come chiamare altrimenti uno Stato e delle istituzioni che non si reggono sulla base di un consenso perpetuato e manifestato liberamente ma
su quella di uno “spirito della Carta” inconoscibile, trascendente e immutabile?
Tuttavia le nostre preoccupazioni non si limitano all’esistenza di teorie giuridiche simili: in
una società sana e civile si tratterebbe di stravaganze proprie di frange minime del fondamentalismo statalista. Il fatto è che, a dispetto di quan-
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
to scrivono i Soloni dell’Ulivo,
la nostra non è una società
normale. E infatti la tesi della
“costituzione materiale” che
si colloca su un piano superumano e immutabile è pane
quotidiano per studenti universitari, giuristi, funzionari
di Stato e politici.
È a questo punto che possiamo riprendere quanto detto
all’inizio sulle vie giuridiche
proposte dal penalista senese
per contrastare la nascita di
una entità padana. Lemme afferma che quest’ultima potrebbe nascere solo “di fatto”,
e non per vie consensuali e,
almeno in parte, inserite giuridicamente nell’ordinamento
vigente; contemporaneamente il professore scrive che i separatisti possono
essere arrestati e incarcerati per aver posto in
essere manifestazioni politiche antiunitarie. In
questo modo si chiude il cerchio: la pretesa natura sacra e trascendentale dei primi articoli
della Costituzione (fra i quali v’è quelli sull’unità e indivisibilità della Repubblica) giustifica
una molto più pratica e materiale repressione
violenta dei secessionisti. E così, insomma,
Lemme non fa altro che dirci: “vi schiacceremo
e lo faremo in nome di principi costituzionali
che non possono essere cambiati, e che anzi ci
impongono di reprimervi”.
Non sappiamo quanto tali proseliti possano
aver successo nell’ambito politico-burocratico
romano. Certo è preoccupante che un giornale
prudente e sempre attento alla questione padana
quale è Il Sole 24 Ore - peraltro ineccepibile in
fatto di diritto - si azzardi a
pubblicare interventi così violenti e illiberali.
Per quel che ci riguarda possiamo soltanto ricordare al
professor Lemme che parlare
di repressione vuol dire assumersi tutto il peso e la responsabilità di ciò che si invoca. Ci pensino bene i governanti prima di trasformarsi
definitivamente in tiranni.
Già 75 anni fa un uomo ci ha
provato. Ed è finito a testa in
giù.
Quaderni Padani - 15
Simon Boccanegra
di Flavio Grisolia
L
e lotte intestine tra i Guelfi e i Ghibellini,
che nel corso del XIII e XIV secolo, tormentarono diversi comuni padani, non risparmiarono certo Genova, dove le due fazioni presero il nome di Rampini e Mascarati e si fronteggiarono cruentemente, creando all’inizio del
‘300, un periodo di forte instabilità politica. Nel
1317 i Guelfi, sfruttando l’ostilità tra i Doria e
gli Spinola di Lucoli, riuscirono per la prima
volta, a nominare due di loro, Carlo Fieschi e
Gaspare Grimaldi, capitani del Popolo e a prendere quindi il potere in città. Ne seguirono ben
quattordici anni di guerra civile, con l’intervento di forze straniere, che attraversarono e saccheggiarono tutta la Liguria. Genova stessa fu assediata dai Ghibellini,
appoggiati dai Visconti di Milano e
dal veronese Can Grande della Scala, con gran seguito di Milanesi, Lodigiani, Piacentini, Comaschi, Bergamaschi, Novaresi, eccetera, mentre Roberto d’Angiò re di Napoli, la
difendeva dall’interno, insieme ai
Guelfi locali e ad altri provenienti
da Asti, Alba, Marsiglia, Nizza, Provenza, Firenze, Bologna, solo per
citare i contingenti maggiori. Una
tragica guerra fratricida tra Padani
era in corso, in un inestricabile
connubio di idealità, interessi e sete
di potere.
I rivali di sempre dei Genovesi,
nell’Occidente mediterraneo, i Catalano-Aragonesi, pensarono bene
nel frattempo, di approfittare della
situazione e andarono a insediarsi
in Sardegna, creando così i presupposti per la
conquista della Corsica e per il loro predominio
in quel tratto di mare.
La drammaticità della situazione, col rischio
di un tracollo totale per la Repubblica, fece sì
che, seppur a stento, si raggiungesse una pace di
compromesso nel 1331: anche perché un anno
prima una flotta catalana, aveva saccheggiato le
Riviere liguri, da Monaco a Portovenere, minacciando Savona e la stessa Genova. La guerra che
16 - Quaderni Padani
ne seguì, terminerà solo nel 1336, con la rinuncia da parte di Pietro IV d’Aragona a qualsiasi
pretesa sulla Corsica, in cambio del mantenimento dei suoi possedimenti in Sardegna.
Questo lunghissimo periodo di guerre interne
e sui mari, che pure aveva coinvolto le più lontane colonie, aveva terribilmente stremato il popolo e fortemente denneggiato i commerci, decretando di fatto il fallimento dell’intera nobiltà,
quale classe dirigente.
La goccia che fece traboccare il vaso e compattò il popolo, contro i nobili, fu il mancato pagamento da parte di Aitone Doria, del compenso
spettante agli equipaggi delle sue navi, durante
Simone Boccanegra
la guerra tra Filippo VI di Francia (al cui servizio era il Doria) ed Edoardo III d’Inghilterra, nel
1339. Tornati in patria i marinai, che erano di
Savona e delle podesterie di Voltri, Polcevera e
Bisagno, sentendosi non tutelati dal Governo e
d’accordo probabilmente - come vedremo - coi
mercanti di Genova, insorsero a Savona, occupando la città (il 10 settembre); scacciando i nobili e saccheggiandone le abitazioni. Il 23 dello
stesso mese, la rivolta scoppia anche a Genova e
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Doge e Procuratore della Repubblica
Simone Bocanegra, nipote di Guglielmo, già capitano del Popolo, viene eletto a vita, “Doxe” (in
ligure pronunciato “duje”), rettore e governatore del popolo genovese e di tutti i suoi domini.
Si stabilì inoltre che mai un nobile potesse
ascendere al dogato e che i Guelfi fossero esclusi
da ogni carica di governo.
Simon Boccanegra era un ricco borghese imparentato con la nobiltà, quindi non un uomo
del popolo come potrebbe intendersi oggi; egli
infatti rappresentava il ceto mercantile, non certo quello artigianale o produttivo, né tantomeno
i Liguri residenti al di fuori dei grandi centri,
che, pur essendo maggioranza, subivano in termini commerciali e politici il dominio delle
città, là dove questo si era sostituito a quello
feudale.
Da buon mercante il nuovo “Doxe” (correttamente in italiano: duce), pensò oltre agli interessi di categoria, anche ai propri e a quelli del
numeroso parentado, tanto da destare fondati
sospetti di nepotismo e per lo sfarzo di cui si attorniava, l’ira e l’odio di una nobiltà che si riteneva ingiustamente trascurata. Congiure e sollevazioni furono la costante che l’aristocrazia gli
propinò nei primi anni del suo governo, a cui,
per inciso, il Boccanegra rispose per le rime, arrivando a tener saldamente sotto controllo enAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
trambe le Riviere, ad esclusione di Monaco e
Ventimiglia, che restarono sotto il controllo dei
Grimaldi e di altri fuoriusciti genovesi. Intensa
fu la sua attività internazionale, che toccherà il
culmine, allorché suo fratello Egidio sconfiggerà i Mori in uno scontro navale in Spagna,
permettendo così ai Castigliani e ai Portoghesi,
di liberare dall’assedio le città di Algesira e Tarifa, ricevendo in cambio la terra di Palma in feudo e la nomina di ammiraglio di Castiglia. Anche nelle colonie, la ritrovata unità della Repubblica si fece sentire e ciò permise, ad esempio, di
respingere con successo il tentativo dei Tartari
di conquistare i possedimenti genovesi in Crimea.
Alla fine però le macchinazioni dei nobili ebbero la meglio e Simon Boccanegra, temendo
per la sua stessa vita, decise il 23 dicembre del
1344, di abdicare e dopo un breve periodo di trasferirsi a Pisa, non ritenendo ormai Genova più
sicura per se e la sua famiglia. Ritornerà sulla
scena nel 1356, allorquando approfittando dell’insurrezione dei nobili, appoggiati da una parte
del popolo, contro la signoria viscontea (alla
quale comunque la città si era volontariamente
votata) riuscirà ingannando gli stessi Visconti a
riprendere il potere, facendosi rieleggere il 15
novembre “Doxe”.
Quaderni Padani - 17
Senza perdere le cattive abitudini del precedente dogato, il Boccanegra restò padrone di
Genova e domini sino al 13 marzo del 1363,
quando, probabilmente avvelenato, morì. Alla
notizia della sua prossima morte, gli stessi mercanti si sollevarono, imprigionando i suoi fratelli Bartolomeo, Giovanni e Nicolò e tutti gli altri
congiunti. Usciva così definitivamente di scena,
il primo “Doxe” di Genova, personaggio controverso e comunque pienamente espressivo della
classe emergente e dominante dell’epoca. E qui
stà sicuramente l’attualità e la “modernità” di
Simone, uomo già lontano dal Medioevo e figura
emblematica di una borghesia ricca, potente e
proiettata su nuove dimensioni sociali ed etiche.
Il predominio dell’interesse privato, seppur
nella tipica visione ligure del clan familiare, su
quello collettivo, saranno gli elementi caratterizzanti dei gruppi dirigenti che si alterneranno
al governo della Repubblica sino al 1528 e che di
fatto, ne sanciranno l’irrimediabile crisi morale
e militare. Solo la genialità e la lungimiranza
del grande Andrea Doria, consentiranno di dare
a Genova un regime, che pur certamente non
ideale, le permetterà comunque di mantenere
quegli equilibri di potere, che la faranno diveni-
18 - Quaderni Padani
re una delle pià grandi potenze economiche (se
non la più grande) del mondo. Da un punto di
vista socio-economico, à possibile affermare che
a Genova avvenne la prima rivoluzione borghese
della storia, ben 450 prima di quella francese e
senza alcun spargimento di sangue. Il fallimento
di entrambi gli eventi, pur nella differenza epocale e soprattutto della portata storica, ci deve
essere di severo monito, proprio oggi che ci accingiamo a costruire in Padania, una nuova comunità. La difesa dei ceti produttivi, a cui à doveroso aggiungere il piccolo commercio, dovrà
essere prioritaria nei confronti del grosso capitale, della grande finanza e di tutte quelle speculazioni parassitarie, nemiche “in primis” dell’identità e della libertà dei popoli e per questo
tanto care ai regimi centralisti, totalitari o pseudo democratici che siano. Il prevalere dell’interesse privato, di classe, la sete di potere, la faziosità, lo sfruttamento della città sulle campagne e
dei ceti mercantili su quelli produttivi, furono i
mali inguaribili che portarono all’irreversibile
decadenza di Genova e di cui il Boccanegra fu in
un certo senso espressione.
Che la coscienza di ciò e l’amore per i nostri
popoli ce ne rendano immuni.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Il pensiero scientifico:
un carattere distintivo della cultura padana
Il matematico Giuseppe Peano
di Silvano Straneo
L
a cultura di un popolo, intendendo con questo termine non solo la grande produzione
intellettuale delle università, dei centri di ricerca, delle accademie ma anche il complesso,
non codificato nei documenti del sapere ufficiale, degli atteggiamenti mentali e pratici verso la
vita e il mondo che quel popolo ha sviluppato, il
suo Volksgeist, per usare un termine della filosofia idealistica tedesca, è il prodotto di secoli di
vita comune, di paci e di guerre, della conformazione fisica del territorio, delle sue risorse, del
clima, delle influenze esterne.
Volendo individuarne, se possibile, i caratteri
distintivi, se ci si limita a considerare le realizzazioni ottenute in un determinato settore, ad
esempio quello scientifico, e a confrontarle con
quelle ottenute da altri popoli appartenenti allo
stesso bacino culturale, si ricavano solo valori
assoluti poco significativi, poiché sfugge quanto
di quei risultati sia dovuto a isolate genialità individuali e quanto invece al Volksgeist di quel
popolo, all’ambiente culturale generale.
Ad esempio, la Russia ha dato i natali a molti
illustri uomini di scienza senza che, per questo,
la scienza faccia profondamente parte dell’anima
russa, come invece accade per la musica.
Diversamente in Germania, dove una produzione scientifica e filosofica di primissimo piano
si accompagna a un grande interesse pubblico.
Gli stessi dettagli dell’organizzazione della vita
materiale tedesca bene riflettono questo fatto.
Ci si rende allora conto che ciò che occorre è
verificare se e quanto i grandi risultati della cultura ufficiale riverberano sulla vita di tutti i
giorni, sulla mentalità corrente, le abitudini,
abilità artigianali, iniziative industriali e quanto
un’atmosfera così creata diventa a sua volta fertile terreno per il sorgere di nuovi ricercatori e
nuovi risultati.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Scrive Francesco De Sanctis nella sua Storia
della letteratura italiana: “L’Europa aveva [nel
primo Settecento] Newton e Leibnizio; e a Napoli si stampava De antiquissima Italorum sapientia. Erano due culture, due mondi scientifici che si urtavano. Da una parte era il pensiero
creatore, che faceva la storia moderna, dall’altra
il pensiero critico che meditava sulla storia passata...”.
Nel Piemonte del Cinquecento, era duca Emanuele Filiberto, cui succederà Carlo Emanuele I.
Ecco la testimonianza di un osservatore dell’epoca (Bartolomeo Cristini) sull’ambiente di
quella corte: “Era [il duca] così interessato alle
arti matematiche che aveva invitato dall’estero,
per dare prestigio all’Università di Torino, tutti
le menti migliori in questa scienza, persuadendole con alti onorari...”.
E l’ambasciatore a Torino della Serenissima
repubblica veneta, Francesco Morosini: “Poichè
la scienza matematica è necessaria alla pratica
delle armi, così sua eccellenza il duca si delizia
nell’apprenderla ed il suo livello è molto più che
medio. Cosciente che si conosce una scienza solo continuando a studiarla, ogni giorno egli
ascolta una lezione su Euclide o qualche altro
grande matematico...”.
Nel Settecento, i maggiori centri dell’Illuminismo italiano sono a Milano, con la “Società dei
Pugni”, e a Napoli. Ma mentre Milano assimila il
pensiero del Vico, Napoli resta estranea alle
esperienze culturali del Nord, e il successivo sviluppo della filosofia italiana manterrà fino a
tempi recenti pericolosi pregiudizi contro le ricerche particolari, i problemi concreti dell’economia, l’interesse per la scienza. Sempre nel
Settecento, il grande matematico piemontese
Joseph Louis Lagrange dà contributi fondamentali in fisica matematica e in analisi, e fonda a
Quaderni Padani - 19
Torino la prestigiosa Accademia delle Scienze;
nell’Ottocento, il lombardo Carlo Cattaneo si
batte sulla rivista Il Politecnico contro la “reazione metafisica” e insiste sulla necessità dei “faticosi studi positivi”, delle feconde scienze che
segnano la transizione dalla cultura moderna a
quella antica e sono la vera ragione della superiorità della “solerte Europa” sul resto del mondo; fra l’Otto e il Novecento, Giuseppe Peano dà
un importantissimo contributo alle ricerche sui
fondamenti della matematica e lascia una scuola
di prim’ordine; nel Novecento, Francesco G. Tricomi lega il suo nome a un’importante equazione della gasfluidodinamica.
Ma ciò che importa qui sottolineare è che le
opere di questi grandi non sono state cattedrali
nel deserto. Esse sono sorte da un tessuto culturale (che hanno a loro volta contribuito a formare) che ha dato origine in Padania a una fioritura di scuole, centri di ricerca, istituzioni scientifiche la quale si è accompagnata a quello sviluppo tecnico e imprenditoriale in tutti i settori industriali (poi sistematicamente trasferiti altrove
dai governi romani) che ha fatto della nostra
terra una delle regioni più avanzate d’Europa. Si
pensi, ad esempio, che lo stato piemontese fu
uno dei primi in Europa a dotarsi di un catasto
modernamente inteso o alle sue grandi opere
idrogeologiche come il taglio del canale Cavour.
Si può allora affermare che, per il carattere intrinseco dei suoi popoli, per gli stretti contatti e
l’affinità di lingue e mentalità con l’Europa più
avanzata, il pensiero scientifico è un tratto caratteristico della cultura padana, sconosciuto all’Italia propriamente detta, letteraria e avvocatesca.
È tempo che la Padania incominci a riappropriarsi dell’eredità dei suoi grandi anche sul
fronte della scienza, fronte finora alquanto trascurato dai padanisti stessi e che costituisce invece un sicuro elemento distintivo della sua forma mentis da quella mediterranea che le è stata
imposta.
Purtroppo, a differenza di altri ambiti più immediatamente accessibili, per comprendere il
vero valore di un risultato scientifico senza ridurlo ad una favoletta, è necessario uno sforzo.
Nel presentare la figura di Giuseppe Peano,
professore di Analisi matematica all’università di
Torino, proponiamo preliminarmente al lettore
due giudizi sul personaggio dati da Bertrand
Russel e Norbert Wiener, a garanzia del fatto che
questo sforzo non sarà invano.
“Il congresso segnò una svolta importante
20 - Quaderni Padani
nella mia vita intellettuale perché fu in quell’occasione che incontrai Peano. Lo conoscevo
già di nome e avevo letto alcune delle sue opere,
ma non mi ero preso la briga di assimilare i
suoi simboli. Durante le discussioni del congresso mi resi conto che era sempre più preciso
di tutti gli altri e che in tutte le discussioni risultava invariabilmente il più brillante. Con il
passare dei giorni mi convinsi che questo dipendeva dalla sua logica matematica e pertanto mi
feci dare da lui tutte le sue opere e non appena
il congresso si chiuse mi ritirai a Fernhurst per
studiare in tutta tranquillità tutto ciò che lui e i
suoi discepoli avevano scritto. Mi resi conto che
il suo metodo di notazioni forniva quello strumento di analisi logica che per anni avevo cercato, e che studiando l’opera sua mi stavo impadronendo di una nuova e potente tecnica per
il lavoro che da molto tempo desideravo fare”(1).
“Due luoghi si imponevano come destinazioni
alternative: Cambridge, dove Russell era all’apice del suo fulgore intellettuale, e Torino, famosa
per il nome di Peano”(2).
Giuseppe Peano nasce il 27 agosto 1858 nella
frazione “Tetto Galant” del comune di Spinetta,
presso Cuneo. Trasferitosi presto a Torino, nel
1876 ottiene la licenza liceale presso il regio liceo Cavour con un brillante esame che gli vale
una borsa di studio e nello stesso anno è iscritto
all’Università di Torino, alla quale resterà legato
fino alla morte. Si laurea nel 1880. Secondo il
registro dell’università, Peano è interrogato in
meccanica razionale, geometria superiore, meccanica superiore, fisica matematica e geodesia
teorica e proclamato dottore in matematica pura con il voto massimo di 18 su 18. Subito è assistente universitario, prima alla cattedra di Algebra e geometria analitica di Enrico D’Ovidio,
poi alla cattedra di Analisi infinitesimale di Angelo Genocchi.
All’età di 26 anni cura la pubblicazione del testo Calcolo differenziale e principii di calcolo integrale. L’autore ufficiale appare essere il professor Genocchi, ma sul frontespizio si legge: “Pubblicato con aggiunte del dr. Giuseppe Peano”.
Le aggiunte sono davvero importanti e il libro
riceve molti elogi (vedrà anche edizioni tedesche e russe). Tra le tante degne di nota: teoremi
sull’esistenza e la differenziabilità delle funzioni
implicite; l’esempio di una funzione le cui deri-
(1) Bertrand Russell, Autobiografia, 1967.
(2) Norbert Wiener, Autobiografia, 1953.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
vate parziali seconde non commutano; l’espressione analitica della funzione di Dirichlet; una
nuova definizione di integrale definito svincolata dal concetto di limite.
Sull’Annuario dell’università, anno 1884, il
rettore segnala che il dottor Giuseppe Peano ha
conseguito la “privata docenza”, titolo attestante
la sua idoneità all’insegnamento universitario.
Nello stesso anno pubblica il volume Applicazioni geometriche del calcolo infinitesimale, dove
supera una prima difficoltà nella definizione di
misura di un insieme introdotta dal tedesco
Georg Cantor. Per capire il significato e l’importanza di questo lavoro occorre ricordare qual’è il
problema studiato dalla teoria della misura. Il
familiare piano geometrico è un insieme costituito da infiniti punti e le figure geometriche
elementari piane (quadrati, cerchi eccetera) sono allora particolari sottoinsiemi di punti del
piano a ciascuno dei quali è associato un numero positivo o nullo: l’area.
Il problema, assai difficile e sottile, affrontato
dalla teoria della misura è quello di generalizzare il caso elementare sopra esposto considerando, in luogo di sottoinsiemi “privilegiati” e ben
noti quali le figure geometriche, sottoinsiemi affatto generici o addirittura sostituendo all’insieme ‘punti del piano’ un insieme qualsiasi I.
Si tratta allora di definire una funzione la quale associ a ciascun elemento di una famiglia la
più ampia possibile di sottoinsiemi di un insieme dato I (famiglia dei sottoinsiemi misurabili
di I) un numero reale non-negativo (misura del
sottoinsieme) in modo tale che risultino soddisfatte condizioni opportune (ad esempio, che la
misura di un’unione infinita di sottoinsiemi misurabili disgiunti sia uguale alla somma delle loro infinite misure). Nel caso particolare in cui I
sia lo spazio ordinario e il sottoinsieme una figura ordinaria, il valore della misura si ridurrà
al valore dell’area in senso elementare.
Nella definizione originariamente data da
Cantor, poteva accadere che la misura dell’unione di due insiemi disgiunti risultasse minore
della somma delle loro misure. Peano supera
questa difficoltà quasi contemporaneamente al
francese Camille Jordan e il nuovo concetto
(non ancora tuttavia definitivo) verrà detto: misura di Peano-Jordan.
Va ricordato che la teoria della misura è alla
base del moderno calcolo integrale, strumento
fondamentale usato dagli ingegneri per la progettazione delle macchine che ci rendono comoda la vita di tutti i giorni.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Nel luglio del 1887 sposa Carola Crosio, figlia
del pittore Luigi Crosio. La coppia abita a Torino, dapprima in piazza Castello, poi in Corso Valentino.
All’inizio del 1889 pubblica il breve trattato
Arithmetices principia, nova methodo exposita
che contiene la formulazione dei suoi celebri assiomi per i numeri naturali. Questo lavoro costituisce una pietra miliare nella storia della logica
e dei fondamenti della matematica.
A differenza della Teoria dei numeri o aritmetica, che studia l’insieme discreto dei naturali 1,
2, 3,..., l’Analisi matematica studia processi infiniti concernenti grandezze continue (non numerabili) e riposa essenzialmente sul concetto
di numero reale, da sempre riferito a basi geometrico-intuitive (i punti di una retta).
Sui numeri reali, conosciuti fin dai tempi di
Pitagora, era stata costruita molta matematica.
Ma si era costruito su di un terreno infido. Infatti, nel corso dell’Ottocento i progressi della teoria delle funzioni incominciano a produrre risultati inquietanti contraddicenti concetti e certezze intuitive consolidate da secoli. Scrive
Bourbaki: “C’est toute la pathologie des mathématiques qui commençait. Depuis un siècle,
nous avons vu tant de monstres de cette espèce
que nous sommes un peu blasés, et qu’il faut accumuler les caractères tératologiques les plus
biscornus pour arriver encore à nous étonner.
Mais l’effet produit sur la plupart des mathématiciens du XIXe siècle allait du dégoùt à la consternation: ‘Comment’, se demande H. Poincaré,
‘l’intuition peut-elle nous tromper à ce point?’”.
La matematica è spesso paragonata a un albero che sviluppa sopra il terreno una struttura
sempre più ramificata mentre con le radici
muove verso il basso alla ricerca di solide fondamenta e la causa di quei fenomeni era essenzialmente dovuta al fatto che le radici dell’albero
poggiavano sull’intuizione, la quale aveva clamorosamente mostrato il suo carattere grossolano e incompleto.
Si fa dunque urgente l’esigenza di una fondazione rigorosa per le basi dell’Analisi. Ciò avviene ad opera di Karl Weierstrass e Julius Richard
Dedekind, i quali riescono a definire i concetti di
numero reale e di limite, spina dorsale dell’Analisi, escludendo l’antica guida intuitiva della
geometria e ricorrendo a strumenti di natura
puramente aritmetica (aritmetizzazione dell’analisi).
In questo ordine di idee, Peano compie il successivo passo dell’assiomatizzazione dell’AritmeQuaderni Padani - 21
tica. Se l’Analisi poggia sull’Aritmetica, è importante ridurre l’Aritmetica alla Logica, facendola
dipendere da un numero minimo di oggetti logici talmente elementari ed evidenti da garantirla
in modo definitivo contro l’insorgere di future
contraddizioni dovute all’insinuarsi dell’intuizione là dove proprio non è luogo per essa, ossia
là dove interviene in una sua qualche forma il
concetto di infinito.
Peano riesce dunque a ridurre l’Aritmetica a
poggiare soltanto su tre concetti primitivi: zero,
numero, successore e cinque assiomi:
l) Zero è un numero
2) Il successore di un numero è un numero
3) Zero non è il successiore di alcun numero
4) Due numeri, i cui successori siano uguali, sono essi stessi uguali
5) (Assioma d’induzione) Se un insieme N di numeri contiene zero e contiene anche il successore di ogni numero contenuto in N, allora ogni
numero è contenuto in N.
Uno stadio della curva
Muovendo da questo materiale elementare,
egli è in grado di ricostruire le operazioni dell’aritmetica, cioè a ridefinirle puramente in base ai
concetti primitivi e alle loro reciproche relazioni stabilite dagli assiomi, dimostrando poi le loro proprietà come teoremi.
Con questo risultato l’Aritmetica e di conseguenza, in ultima istanza, la più parte della matematica, è ridotta a essere conseguenza di tre
concetti primitivi e cinque assiomi e alla pura
essenzialità del simbolismo formale. Ogni ambi22 - Quaderni Padani
guità di significato o assunzione implicita derivante dall’intuizione o dal linguaggio ordinario
è definitivamente esclusa e la frontiera ultima
sembra finalmente raggiunta, parendo i numeri
naturali 1, 2, 3... oggetti della nostra conoscenza
tanto ovvi e sicuri da non destare preoccupazioni sull’insorgere di contraddizioni future e da
garantire così, oltre a se stessi, tutto l’edificio
eretto sulle loro spalle.
Così invece non era, e problemi di insospettata complessità inerenti alle nozioni collegate di
numero intero e di insieme aprivano una nuova
profonda crisi (ancora lontana dall’essere conclusa) che doveva condurre ai teoremi di indecidibilità di Kurt Güdel.
Per comprendere l’importanza del lavoro successivo di Peano occorre ricordare che nell’Ottocento, il concetto di dimensione di uno spazio
era definito, sostanzialmente ancora alla maniera di Euclide, come il minimo numero di parametri necessari per descrivere i suoi punti. Dunque, una retta è 1-dimensionale, bastando un
solo numero reale per individuarne un punto,
un piano è 2-dimensionale, bastandone 2 eccetera. Un primo colpo alla validità generale di
questa definizione era venuto da Cantor, il quale
aveva provato l’esistenza di una corrispondenza
biunivoca (necessariamente discontinua) tra i
punti della retta e quelli del piano, dissolvendo
così l’idea intuitiva che in uno spazio 1-dimensionale vi fossero “meno” punti che in uno 2-dimensionale e mostrando altresì come la dimensione non si conservasse nel passaggio da uno
spazio ad un altro pur dotato di “altrettanti”
punti.
Nel suo lavoro “Sur une courbe qui remplit
toute une aire plane”, Mathematische Annalen
36, 1890, Peano prova l’inquietante esistenza di
una ‘curva’ (da allora detta di Peano) che riempie completamente una superficie. Egli riesce
ad assegnare due funzioni x=x(t), y=y(t) tali
che, al variare del parametro t nell’intervallo
unitario, la curva (x(t),y(t)) descrive il quadrato
unitario, cioè passa per ogni suo punto. La funzione non è iniettiva, le x(t), y(t) sono continue
ma in nessun punto differenziabili e l’arco compreso fra due punti qualsiasi della curva ha lunghezza infinita.
Dal momento che una porzione di piano (2-dimensionale secondo la definizione classica) viene descritta dal solo parametro t, appare evidente l’inadeguatezza della definizione di dimensione quale minimo numero di parametri reali
continui necessari per descrivere uno spazio.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Da questi lavori prende avvio quel processo di
revisione e generalizzazione del concetto di dimensione che condurrà fino alla recente teoria
dei frattali e alla dimensione frazionaria. Nei
suoi Grundzïge der Mengenlehre del 1914, Felix
Hausdorff scrive a proposito della scoperta Peano: “Essa costituisce uno dei fatti più notevoli
della teoria degli insiemi”.
Durante l’ultima parte della sua lunga attività
scientifica, propone una lingua ausiliaria internazionale o interlingua, la cui idea originaria risaliva a Leibniz. La proposta di Peano è un latino privo di grammatica o latino sine flexione,
come egli lo chiama. Ma nonostante una attiva
azione di propaganda a livello internazionale, la
proposta non ha successo. Pubblica in interlingua una sua Algebra della grammatica. È un
tentativo pionieristico di trattare la filologia con
strumenti matematici.
Muore il 20 aprile 1932.
Come spesso accade ai grandi, Giuseppe Peano
è stato un precursore e molte delle sue idee hanno cominciato a rivelare la loro importanza solo
più tardi. La scuola che ha lasciato, costituita da
Tommaso Boggio, Mario Pieri, Giovanni Vacca,
Alessandro Padoa, Cesare Burali-Forti, Giovanni
Vailati, Filiberto Castellano, ha dato contributi
notevoli in tutti i campi di interesse del maestro.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
È possible trarre una qualche conclusione dallo scorcio di cultura padana che si è cercato di
tratteggiare? Oggi è di gran moda il mondialismo. Ogni giorno, da televisioni e giornali,
esperti tuttologi pontificano su villaggio globale,
Internet e dintorni senza a volte neppur sapere
esattamente di che cosa si tratti. Inneggiano a
un mondo standardizzato, magari controllato da
una stessa burocrazia e potere centrale. In Italia
poi, dove l’orizzonte culturale di governanti e
molti governati è quel che è, lo stesso processo
di unificazione europea è banalizzato e ridotto
trionfalisticamente al raggiungimento del tale o
tal’altro parametro economico.
Mi piace allora ricordare il pensiero del grande
antropologo Claude Levi-Strauss sul fatto che la
più importante ricchezza dell’umanità è la varietà delle culture, degli atteggiamenti con i
quali essa affronta il problema della vita.
E credo che questa sua idea si stia affermando.
Esempi ne sono la recente conquista dell’indipendenza da parte di molti popoli europei e la
recentissima conquista da parte del popolo scozzese e del popolo catalano di un proprio parlamento autonomo. In Europa ma anche in Italia
sta crescendo la considerazione dell’importanza
delle diverse radici culturali dei popoli e delle
loro autonomie, la coscienza della fortuna di essere affratellati ma diversi.
Quaderni Padani - 23
Le Fare della Langobardia Maior,
notarelle, appunti e considerazioni
di Mario Gatto
D
ecaduta Aquileia in
seguito alle devastazioni compiute dagli
Unni di Attila, Forum Iulii, l’odierna Cividale, era
stata scelta come caput
Venetiae, cioè capitale governativa della regione (1).
Nel 569 il popolo-esercito
dei Longobardi entra nella
Venetia: superato il ponte
sull’Isonzo, il duca Gisulfo
si avvia a presidiare Cividale con il suo distaccamento, non senza aver
prima chiesto e ottenuto
da re Alboino le migliori
Fare da dislocare nel resto
del vasto territorio.
Taola 1 - Fare della Langobardia Maior
Così, mentre il corpo
principale del popolo si di- 1) Fara (SLOVENIA)
19) Fara di Montebello Vicentino (VI)
rigeva verso occidente, a 2) Farra d’Isonzo (GO)
20) Fara Olivana (BG)
intervalli più o meno re- 3) Farella (UD)
21) Monte della Fara e via della Fara (BG)
golari da esso si dipartiva- 4) Faris (UD)
22) Fara (SO)
no spezzoni costituiti cia- 5) Farla (UD)
23) Fara di Gera d’Adda (BG)
scuno da uno o più gruppi 6) Ca’ Fara (UD)
24) Faramània (MI)
familiari, ovvero dei con- 7) Fara (PN)
25) Fallavecchia (MI)
tingenti che andavano a 8) Farra d’Alpago (BL)
26) Via Fara in Gallarate (VA)
insediarsi in località stra- 9) Farra di Mel (BL)
27) Faraona (VA)
tegicamente rilevanti se- 10) Farénzena (BL)
28) Fara Novarese (NO)
29) Fariola (VC)
guendo un piano eviden- 11) Farra di Feltre (BL)
30) Farettaz (AO)
temente preordinato per 12) Fara di Cavolano (PN)
31) Farigliano (CN)
lo meno nella prima fase, 13) Fara di Castel Roganzuolo (TV)
32) Fara (AL)
cioè dall’Isonzo a Verona, 14) Farra di Soligo (TV)
33) Faravella, Falavella, Falaveta (AL)
come si può osservare nel- 15) Farra di Valdobiàdene (TV)
34) Fara (MO)
la cartina ove sono indica- 16) Farra di Paderno del Grappa (TV)
35) Farazzano (FO)
ti gli stanziamenti per Fa- 17) Farronati (VI)
18) Fara Vicentino (VI)
ra. (tav. 1)
Il nome Fara deriva dalla consuetudine a periodiche migrazioni cui erano abituati i Germani a
( ) L. Bosio, “Direttrici di traffico e centri di interesse logisticausa sia della povertà dei suoli delle lande del co
della “Venetia” dall’età romana all’epoca longobarda”, in
Nord-Europa da dove provenivano e sia per i La Venetia dall’Antichità all’Alto-medioevo (Roma, 1988)
continui attriti tra le singole tribù in fase di pagg. 14-16
1
24 - Quaderni Padani
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
continua espansione (2).
Questo modo di vivere
nomade, caratterizzato da
continui spostamenti dei
gruppi familiari, era talmente radicato che il termine fara è tuttora vivo
nelle lingue germaniche
moderne: si veda l’inglese
“fare”=andare e il tedesco
“fahren”=viaggiare. Possono offrire un’idea di cosa si intendeva per Fara
con alcune attestazioni
coeve all’età longobarda:
“Alboenus rex Langobardorum cum omni exercitu... cum mulieribus vel
omni populo suo in fara
Italiam occupavit”(3)
Tavola 2 - Attestazioni dal termine giuridico Arimanno (=uomo del“Si quis liber homo, po- l’esercito, e in seguito “libero” del popolo dei Longobardi)
testatem habeat intra dominium regni nostri cum 1) Romans d’Isonzo (GO)
8) Romano di Lombardia (BG)
fara sua megrare ubi vo- 2) Romans di Varmo (UD)
9) Romanengo (CR)
luerit, sic tamen si ei a re- 3) Romagno (BL)
10) Romagnano Sesia (NO)
ge data fuerit licentia,...”
4) Romano d’Ezzelino (VI)
11) Romano Canavese (TO)
Rothari n. 177, Editto 5) Romagnano (VR)
12) Villaromagnano (AL)
di Rotari, anno 643. 6) Romanore (MN)
13) Romagnese (PV)
“Se un uomo è libero, 7) Romanoro (MO)
abbia facoltà di emigrare
con la sua fara dove vuole Per quel che riguarda la questione degli arimanni si consiglia
all’interno del dominio senz’altro di leggere G. Tabacco 1969 (8)
del nostro regno, purché
gli venga concesso il permesso dal re;...”(4)
Dislocamento delle fare in Langobardia Maior
“...Langobardorum faras, hoc est generatioUna volta compiuta la ricerca dei toponimi Fanes vel lineas,...”
ra -e derivati- esistenti nel territorio (sono state
Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, II, 9. considerate pure le attestazioni meramente do“...le fare dei Longobardi- cioè i gruppi o di- cumentarie), si è provveduto a segnalarle su carscendenze familiari-...”(5)
tine geografiche tramite simboli e numeri.(6)
(2) G. P. Bognetti, “L’influsso delle istituzioni militari romane sulle istituzioni longobarde del secolo VI e la natura della
fara”, in L’età longobarda, III (Milano) 1966.
(3) Mario d’Avenches, ad a. 569, Monumenta Germaniae Historica, Chronica minora, II, p. 238
(4) C. Azzara, Le leggi dei Longobardi (Milano, 1992) pag. 51
(5) L. Capo, “Commento a Paolo Diacono”, Storia dei Longobardi, Milano, 1992.
(6) Il toponimo Fara è indicativo di una prima e sicuramente
importante forma di insediamento dei Longobardi, ma sappiamo che non è l’unica, come dimostra, ad esempio, la diffusione dei toponimi derivati da Hariman e da Bard-, evidenziate
nelle due cartine qui allegate (tavv. 2 e 3). Ma anche queste sono indicazioni parziali e non bastano per offrire un’idea realistica della distribuzione dei Longobardi nel territorio. Bisogna
tener presente, in effetti,un dato piuttosto significativo: le
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
maggiori necropoli longobarde in Padania non sono segnalate
da toponimi di origine longobarda nella quasi totalità dei casi
(fa eccezione la necropoli di Roman’s d’Isonzo). E, tanto per
citare le più importanti, basti pensare alla necropoli di Castel
Trosino (Ascoli Piceno) con più di 200 tombe, Nocera Umbra
(Perugia) con circa 170 tombe, Testona (Torino) con circa 350
tombe, Sovizzo (Vicenza) con circa 450 tombe, per finire con
quella, andata distrutta, di Calvisano (Brescia) con circa 500
tombe. Ma lo stesso discorso vale per gli insediamenti nelle
città. Paolo Diacono, nella sua Storia dei Longobardi, ci informa che ogni Duca aveva la sua città e che i Duchi erano almeno 35, ciò significa che in quasi tutte le maggiori città della
Langobardia c’era un insediamento più o meno consistente di
Longobardi dato dal Duca e dalla sua gente. Forse l’insieme di
tutte queste considerazioni può fornire un’idea della reale
consistenza dell’insediamento longobardo in Padania .
Quaderni Padani - 25
Questo lavoro di localizzazione ha posto in in funzione anti franca e riguardante l’insediaevidenza una panoramica generale degli insedia- mento dei primi nella Venetia, almeno fino a Vementi e si è così potuto osservare che due sono rona. Ma del resto, la particolare dislocazione
le aree di principale concentrazione delle Fare.
delle Fare nel territorio potrebbe avere altre raLa prima concentrazione, che comprende il gioni d’essere, come ad esempio:
maggior numero di Fare, si trova disposta lungo a) La doppia fila di Fare poste lungo la Pedela fascia pedemontana e prealpina compresa tra montana friulana, trevigiana e vicentina si può
le regioni Friuli e Veneto. L’altra concentrazione anche spiegare con l’esigenza di agevolare la
è posta intorno alla città di Milano, soprattutto mobilità dell’esercito insediando subito quella
in una zona Nord-Ovest della città ove le Fare parte di popolo e di mezzi che ne rallentavano la
appaiono disposte su ben tre file parallele.
marcia.
Altre Fare sono poste al di fuori di questi due b) Altra esigenza non secondaria potrebbe essere
poli di aggregazione e si trovano ubicate in stata quella di voler salvaguardare le famiglie teprossimità di importanti
valichi di frontiera nel
cuore delle Alpi: Farénzena (BL), Fara (SO), Farettaz (AO). Farra d’Isonzo
ha ragion d’essere data la
vicinanza con il ponte
sull’Isonzo, principale
porta d’entrata orientale
del paese.
La complessiva dislocazione delle Fare nella Venetia, disposte in due file
parallele e a distanza più
o meno regolare l’una
dall’altra e la scelta degli
insediamenti in luoghi
per lo più pianeggianti o
tutt’al più posti sulla
sommità di non elevati ri- Tavola 3 - Attestazioni della radice bardlievi collinari dimostra sia
9) Bard (AO)
una certa pianificazione 1) Bardies (BL)
10) Bardoney (AO)
dell’occupazione sia l’as- 2) Bardolino (VR)
11) Bardonetto (TO)
senza di urgenti esigenze 3) Bardelle (MN)
4) Bardalone (PT)
12) Bardassano (TO)
difensive.
13) Bardonecchia (TO)
In ogni caso la Fara ri- 5) Bardine San Terenzio (MS)
14) Bardineto (SV)
sulta immersa nel territo- 6) Bardone (PR)
15) Bardino Nuovo/Vecchio (SV)
rio dove svolge una fun- 7) Bardi (PV)
zione di presidio, posizio- 8) Bardello (VA)
nata, come la troviamo
sempre, a poca distanza da centri abitati, guadi, nendole lontane dai pericoli della guerra, a quevalichi e strade di notevole importanza. A queste sto proposito C. A. Mastrelli scrive “...le Fare
considerazioni bisogna aggiungerne altre di or- erano insediate in zone sufficientemente sicure
dine strategico, come l’aggiramento - da parte e salde, arretrate rispetto alla effettiva zona di
dell’esercito longobardo diretto verso Verona - operazioni militari...” (7)
di Oderzo da Nord senza cercare di occupare la
città; così come non cercarono di conquistare
gli altri avamposti bizantini come Padova, Mon( ) C. A. Mastrelli, “L’elemento germanico nella toponomastiselice e Mantova. Di conseguenza non si potrà ca toscana dell’Alto Medioevo”, in Atti del V Congresso Internon pensare che tra Longobardi e Bizantini vi nazionale di Studi sull’Alto Medioevo (Lucca, 3-7 ottobre
sia stato in realtà un qualche preventivo accordo 1971), (Spoleto, 1973) pagg. 669-670
7
26 - Quaderni Padani
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
c) Se l’accordo con i Bizantini prevedeva l’occupazione della sola Venetia, le Fare erano utilizzate sia come punti di riferimento e supporto logistico tra Cividale, primo ducato e Verona, capitale del regno, sia per intercettare eventuali incursioni di Alemanni e Franchi provenienti da
Nord.(8)
d) Eclatante è la mancanza di Fare nelle provincie di Verona, Brescia e Trento, ma questa mancanza può avvalorare le tesi esposte nei punti a)
e b), difatti in quelle tre provincie i Longobardi
sono presenti in forze.
Considerazioni finali
Studi approfonditi sulle Fare non sono mai
stati fatti, così come non sono mai state compiute indagini archeologiche nei siti occupati
dalle Fare stesse; è interessante a questo proposito una affermazione dell’archeologo G. P. Brogiolo “..., è evidente che nel medio termine sarà
necessario avviare, anche a Nord degli Appennini, progetti di ricerca sul popolamento altomedievale, se non vogliamo far coincidere con la fine delle ville anche quella dell’archeologia medievale” (9).
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Quindi si possono fare considerazioni e riflessioni con i pochi dati storico-toponomastici attualmente disponibili.
Molte domande rimangono tuttora senza soddisfacenti risposte:
Da quanti individui era composta una Fara?
Si trattava di un insediamento fortificato?
Come era organizzata dal punto di vista abitativo?
Aveva compiti amministrativi e giurisdizionali
per un dato territorio circostante?
Si rivolge infine un invito a tutti gli studiosi e
appassionati della nostra storia ad approfondire
le ricerche nel territorio perché altri dati interessanti potranno sicuramente emergere dallo
studio puntuale della toponomastica e dalla ricerca storica in ambito locale.
(8) G. Tabacco, “Dai possessori dell’età carolingia agli esercitali dell’età longobarda”, in Studi Medievali, s. III, 10/1,
1969.
(9) G. P. Brogiolo, “La fine delle ville romane: trasformazioni
nelle campagne tra tarda antichità e alto medioevo”, 1° Convegno archeologico del Garda (Mantova, 1996) pag. 110.
Quaderni Padani - 27
31 gennaio: S. Geminiano,
il “Padre” dei modenesi
Ovvero quando i cittadini si sceglievano il vescovo
di Alina Mestriner Benassi
A
lcuni autori pretendono che Modena sia
stata la prima città della Padania a conoscere il Vangelo. Secondo il Vedriani, sacerdote della congregazione di S. Carlo (1601-1670) e
autore, fra l’altro, di una Storia della città, gli
stessi apostoli Pietro, Paolo e Barnaba, per primi ne furono i divulgatori, non specificando
però quale dei tre apostoli reggesse la Chiesa
modenese e non allegando alcun documento, a
sostegno della sua asserzione.
D’opinione diversa è il Panini, cronista modenese del XVI secolo: la città fu convertita il Cristianesimo, nell’anno 93 dell’era volgare, dall’ateniese Dionigi Areopagita e dal vescovo Eutropio, suo compagno. Subito i Modenesi dedicarono a S. Pietro, martirizzato ventitré anni prima,
il tempio già consacrato a Giove, edificio che allora si trovava fuori della città, seguendo una
tendenza tipicamente celtica, che sceglieva
sempre, come luogo di culto, siti abbastanza
isolati.
Crescendo poi, ogni giorno di più, la fede nel
popolo, nell’anno 103, imperatore Traiano e
pontefice Anacleto Greco, Modena domandò un
vescovo, che avesse cura dei cittadini. Concessa
l’elezione dal Papa, fu scelto a tale dignità un
certo Cleto di nazionalità romana, uomo illustre per dottrina e santità di vita.
Non resta memoria dei successosi di questo
primo vescovo fino all’anno 339. A spiegazione
di ciò il Vedriani riferisce che “i fieri editti dei
tiranni persecutori del Cristianesimo, fierissimamente eseguiti dai magistrati, costringevano
tanti prelati a stare nascosti nelle caverne, nei
sepolcri e fino nelle cisterne; ed agli scrittori
stessi, sbandati per tema delle persecuzioni in
luoghi occulti, non era permesso tenere diari
né annali, e se pure alcun di loro era bramoso
di eternare gli avvenimenti memorabili di quei
28 - Quaderni Padani
Facciata del Duomo di Modena dedicato a S.
Geminiano. La costruzione fu iniziata il 9
giugno 1099: il momento della fondazione è
sicuro perché ben due lapidi poste nella facciata ne ricordano la data
primi secoli, o per ordine pubblico o per suo
motivo privato, nulla di meno il rigoroso comando dell’empio e crudelissimo Diocleziano, il
quale sotto gravissime pene imponeva che tutte
le memorie cristiane fossero abbruciate, cagionò che, se ve ne era contezza, ella restasse
incenerita.”
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
C’è però da aggiungere, a questo proposito,
che in Padania, all’epoca, sopravviveva il pensiero druidico, molto più consono al temperamento non solo del popolo, ma anche dei suoi ministri del culto. Veri e propri druidi-cristiani officiavano nel profondo delle foreste, a contatto
con la natura.
Nell’anno 312 Costantino, in guerra contro
Messenzio, assediò e prese Modena, restaurandola poi in modo tale che, secondo il panegirico
di Nazario, “la città ebbe a rallegrarsi con se
stessa dei danni subiti”. Pur tuttavia l’allora vescovo Antonino lamentava di non avere neanche un piccolo duomo per le sue funzioni e che
i suoi cristiani erano così pochi da conoscerli
tutti per nome.” Sappiamo che l’anno dopo, nel
313, l’Editto di Milano concederà ai cristiani la
libertà di culto, ma si era ancora ben lontani da
ciò che diventerà la religione ufficiale dell’Impero. Proprio in quell’anno, secondo la tradizione, nacque a Gavello, oggi Cognento, un piccolo villaggio a pochi chilometri dalla città, un
certo Geminiano.
Si è affibbiata, in tempi più recenti, una derivazione “romana” al nome del Patrono, facendolo rampollo della “gens Geminia”. In realtà,
nulla sappiamo della famiglia del Santo, anche
se i biografi dicono che nacque da genitori molto illustri. L’affermazione lascia tuttavia dubbiosi, non solo per l’inguaribile tendenza degli antichi scrittori a nobilitare a tutti i costi la nascita e gli antenati del loro eroe, ma per un dato
storico che non si può ignorare. Nel 320 Costantino, per impedire che le ricchezze dei benestanti fossero sottratte alle imposte, richiamò
in vigore una legge secondo cui nessuno che
fosse abbastanza ricco e adatto alle cariche pubbliche, poteva assumere il nome e la dignità di
chierico. La famiglia del Santo quindi deve per
forza essere annoverata tra le “fortuna tenues”,
povere di beni, difficilmente perciò decurioni di
provenienza romana.
Occorre dunque esaminare il nome, un po’
particolare, con cui è ricordato il santo patrono.
E qui si affaccia il mistero del secondo Geminiano. Il Campani infatti riferisce che, all’epoca
dell’invasione di Attila (452 d.C.), sedeva sulla
cattedra vescovile di Modena un Geminiano, anch’egli annoverato fra i santi. Ignote sono la nascita, la giovinezza e le opere, anche se qualcuno ritiene che costui, e non l’altro S. Geminiano, abbia salvato la città dalla furia degli Unni.
E, se non bastasse, aggiunge che il sant’uomo,
impietosito dei mali cagionati da Attila ai VeneAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
ti, che, per primi, ne avevano assaggiato il furore, andò a soccorrerli. Dice poi che questi, dopo
la sua morte, avvenuta il 30 gennaio di non si
sa quale anno, gli dedicarono una chiesa nella
loro città, nei pressi del palazzo ducale. La chiesa oggi non esiste più, ma si legge nelle cronache di Venezia, sempre secondo il Campani, che
ogni anno il Doge soleva visitare, nella Domenica in Albis, la suddetta chiesa “con solennissima
pompa”.
Questa clonazione di un santo, che poi reca,
nel suo stesso nome, il concetto del doppio, non
può non insospettirci, richiamando alla mente
miti ben poco cristiani e tanto meno “romani”.
Tomba di S. Geminiano situata nell’abside
centrale del Duomo
Comunque sia, atteniamoci al primo Geminiano, di cui si hanno più notizie. Il nostro,
bruciate le tappe del ministero sacerdotale
(chierico, diacono e prete), non impiegò molto
neanche nel farsi conoscere e amare da chiunque avesse contatti con lui. Così, anche il vescovo Antonino prese a ben volere quel giovane
molto serio e di “buona famiglia”, che veniva
regolarmente a piedi da Cognento, per assistere
alle funzioni, e lo fece suo diacono.
Alla sua morte, i Modenesi lo acclamarono a
gran voce come successore, ma Geminiano non
ci teneva per niente e se la diede a gambe. Lo
schivo giovane, scappando verso l’Appennino,
trovò rifugio nel bosco delle Cadiane: immenso
e ricco e, guarda caso, di querce, metteva una
gran paura ai cittadini, che lo ritenevano popolato da demoni. Era però frequentato assiduamente da eremiti, che ricercavano il Sacro, nel
silenzio della natura selvaggia. Il toponimo,
senza alcun dubbio, ci rivela la presenza in quel
luogo di un tempio pagano, consacrato a Diana
o, con maggiori probabilità, a una celtica Dana,
visto che non ci sono reperti di costruzioni roQuaderni Padani - 29
mane. Oggi, in zona, ci sono la Via Cadiane e un
piccolo oratorio, posto a un crocicchio e dedicato alla Vergine, che si sovrappone forse, come
spesso accade, al sito dell’antico culto.
In mezzo a quel bosco, in una capanna a lui
già nota, il nostro rimase ben nascosto, determinato a far piuttosto l’eremita che il vescovo.
Gli angeli di Dio però, dicono, ci misero la penna e lo sventurato, dopo pochi giorni, si vide capitare tutti i Modenesi alle Cadiane, per prelevarlo. Geminiano, suo malgrado, si arrese ai
messi del Cielo e ai propri affezionati concittadini e, in lacrime, tornò a Modena, dove fu acclamato vescovo nell’anno 356. Soltanto due
anni dopo, Roma si fece viva e il Papa Felice II
lo consacrò vescovo.
Innumerevoli sono le leggende che fiorirono
sul suo conto durante i quarant’anni di episcopato.
Si racconta, fra l’altro, che una notte, mentre
Geminiano stava pregando nella chiesa di S.
Pietro, gli si avventò contro il demonio in persona: senza farsi prendere dal panico, il nostro,
con un gran segno di croce, lo rispedì all’inferno.
Il 31 gennaio del 398, vecchissimo, il buon
vescovo lasciò i Modenesi per andare diritto filato in Paradiso. Li lasciò molto poveri, a causa
delle vicissitudini storiche, ma molto ricchi,
spiritualmente parlando.
Nel 387 aveva fatto irruzione nella città Massimo, detto “il carnefice porporato”, che veniva
a combattere Valentiniano II e Modena fu ridotta in uno stato tale che S. Ambrogio, scrivendo
al suo amico Faustino, aveva voluto definirla
“ormai cadavere di mezzo diroccata città”.
Sarebbe lungo narrare tutto quello che Geminiano fece per Modena e per i Modenesi, durante il suo episcopato: in pratica, continuò come
prima. Fu buono, paziente, zelante e in più con
l’autorità di vescovo. Trasformò anche in chiese
cristiane i vecchi templi pagani, ormai abbandonati e deserti. Non so se abbia agito in questo
modo perché, data la povertà della diocesi, non
se la sentisse di procedere a nuove costruzioni o
se, dal momento che nel 380 Teodosio aveva dichiarato il Cristianesimo religione di stato, volesse conservare la memoria dei luoghi sacri,
sovrapponendo il recente culto. In ogni modo,
grazie a lui, possiamo essere certi che l’antica
sacralità dei siti è stata rispettata.
I Modenesi ancora oggi amano raccontare che
nel 452 gli Unni, guidati da Attila, il flagello di
Dio, provenienti dalla Pannonia, che non aveva30 - Quaderni Padani
Statua in legno di S. Geminiano (ignoto del
1300)
no perdonato neppure Milano, Piacenza e Parma (Reggio era stata già distrutta da Alarico),
passarono per Modena e non la videro perché
era tutta coperta di nebbia. Non c’è alcun dubbio, per i “geminiani”, che la nebbia, quasi “fiato di drago”, l’abbia fatta calare S. Geminiano
per proteggere i suoi fedeli concittadini. Tanto
più che la giornata era inizialmente chiara e
senza nubi, per poi oscurarsi all’improvviso. Solo quando gli Unni si portarono, vagando alla
cieca, ben lontano dalla città, un raggio d’oro
squarciò il buio e ricomparve l’azzurro del cieAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
lo. Non mi pare superfluo ricordare come la
nebbia, per i Celti, e non solo, sia sempre stata
un mezzo per il passaggio a un altro stato dell’essere, cancellando ogni dimensione spaziotemporale. Persino il Boccaccio, che in alcune
sue novelle, come tutti sanno, si prende gioco
del popolo credulone, ammette questo prodigio,
commentando, nel canto XII dell’Inferno dantesco, i versi:
“La divina giustizia di qua punge
quell’Attila che fu flagello in terra”
Un bassorilievo in marmo sulla facciata del
Duomo, che guarda Piazza Grande, raffigura un
cavaliere, attorniato da diversi armati sotto una
bandiera, con l’iscrizione che, tradotta dal latino, recita: “Qui S. Geminiano libera questa città
da Attila flagello di Dio”. E un antico ritmo, che
ancora si canta in Duomo nell’ufficio del santo,
celebra il miracolo dell’innocuo passaggio di Attila a Modena.
In un’antica Vita del Santo, stampata in città
dal Rocociola nel 1495, si legge che, circa un
secolo dopo la morte, Modena fu flagellata da
una vera e propria alluvione, tanto che i cittadini abbandonarono le case, cercando scampo
verso le montagne. Si sparse però la voce che, a
pochi chilometri dalla città, lungo la via Emilia,
c’era rimasto un piccolo isolotto libero dalle acque: i Modenesi tutti corsero là e il sito, tra Rubiera e Modena, fu chiamato “Città Geminiana”.
Molto tempo dopo, nell’anno 712, il re longobardo Liutprando la fortificò, chiamandola Cittanuova e, nel 744, Ildebrando, nipote del re, fece dono ai cittadini della chiesa di S. Pietro entro le mura della città Geminiana, detta Cittanuova. E, con il nome di Cittanuova, la possiamo trovare tuttora, semplice borgo, nei pressi
di Cognento, che tuttavia, in occasione di scavi
fortuiti, rivela, giorno dopo giorno, le vestigia
della passata grandezza. Anche se le antiche
cronache non riferiscono con precisione quando i Modenesi tornarono a Modena, secondo il
Campani, erudito della fine dell’Ottocento, soltanto verso il X secolo Cittanuova cominciò a
spopolarsi, poiché il vescovo Leodoino aveva restaurato Modena, cingendola di mura.
Sempre al miracolo gridarono i Modenesi,
molto tempo dopo, quando, durante l’orrendo
massacro perpetrato contro di loro da Azzo d’Este “il crudele”, nel 1306, Geminiano, con la
spada in pugno, apparve nella mischia, su di un
bianco cavallo, a menar fendenti sulle spalle dei
soldati.
La sua fama di protettore della città è forteAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
mente radicata nella tradizione popolare, forse
perché quest’uomo, al di là del concetto di santità, è stato scelto dalla sua gente, in un’età dell’oro, in cui non era sempre Roma a dettar legge.
Si ricorda inoltre che, quasi ultimata la Cattedrale (la prima pietra fu posta nel giugno de
1099), Lanfranco dichiarò che avrebbe interrotto i lavori, se non vi avessero trasportato subito
il corpo del santo, che giaceva nell’antico sepolcro, a pochi metri di distanza. Detto e fatto: il
30 aprile 1106, al cospetto della contessa Matilde e del vescovo Dodone, solennemente, l’arca
fu collocata al centro della cripta della nuova
costruzione. A questo punto, mentre ci si accingeva ad aprire il sarcofago per procedere al rito
della ricognizione, il popolo, temendo che qualcuno ne approfittasse per sottrarre preziose reliquie, fece opposizione. I Modenesi temevano
anche che al buon Geminiano toccasse, come a
tanti suoi colleghi, di essere bollito e smembrato per lucro, una volta finite le sue spoglie nelle
mani del clero. Dovette intervenire il Papa. La
tomba venne presidiata da sei cavalieri e da dodici cittadini e tutti giurarono che nessuno
avrebbe toccato il sacro corpo. Finalmente si
procedette all’apertura dell’arca: dentro all’urna
più grande ne apparve una di dimensioni inferiori e di umile fattura, la stessa probabilmente
che, fatta venire per via d’acqua dal veronese,
dopo la morte del Santo, aveva accolto le sue
spoglie mortali. Venne tolto anche il secondo
coperchio ed il corpo di S. Geminiano si rivelò
ai fedeli: intatto, dopo sette secoli e mezzo, tutto avvolto in un sudario ricamato di fili d’oro e
d’argento. Dopo questa apertura, resterà chiusa
per altri sette secoli, fino al 1955.
Per concludere, voglio ricordare un curioso
privilegio che compete, a quanto è noto, solo al
nostro Santo. Mi riferisco alle due immagini di
Geminiano, portate in orbita nella prima missione Gemini, poi di nuovo col Gemini 10. Grazie alla maestra Tina Zuccoli, già famosa in
città per aver piantato al Polo Nord una croce
fatta con il legno del nostro Appennino, e all’appoggio, naturalmente, delle autorità militari
statunitensi, le immagini in argento del patrono finirono, al collo di Grissom e Young, negli
spazi cosmici, fino a 15 chilometri dal suolo lunare.
Oggi i Modenesi possono vedere i resti dell’amatissimo Patrono ogni anno, il 31 gennaio, in
occasione della sua commemorazione, festeggiata anche con la tradizionale fiera.
Quaderni Padani - 31
Toponomastica celtica
(e venetica) nel Veneto
di Renzo Miotti e Giuliano Ros
L
a toponomastica è la scienza che studia i nomi locali nel loro significato, origine e sviluppo. Pur essendo una disciplina fondamentalmente linguistica presenta stretti legami
con la geografia e con la storia. È una disciplina
in parte “geografica” poiché studia sostanzialmente un “oggetto geografico”, definito dal toponimo, e è “storica” in quanto il fossile toponimico rispecchia un passato più o meno lontano.
Perciò lo studioso di storia linguistica può collaborare con lo storico antico che interpreta le
fonti classiche, con l’archeologo che esamina e
trae deduzioni dai reperti di scavo eccetera, al fine di individuare diversi “ethne” e le vicende etniche dei popoli che hanno dimorato nella Padania antica. In questa sede mi limiterò al Veneto
antico, focalizzando una fase importante della
sua storia preromana, ossia la celtizzazione
(seppur non uniforme) del suo territorio, evento
decisivo perché inserisce la regione in un contesto culturale più ampio, addirittura di portata
europea. Sappiamo bene che la Padania è stata
celtizzata culturalmente in modo più o meno
radicale soprattutto a partire dal IV secolo aC,
quando la marea delle incursioni celtiche diventa sempre più consistente e tribù provenienti
dall’Europa centro-occidentale si sovrappongono a popolazioni autoctone, a volte già parzialmente celtizzate in seguito a ondate migratorie
più antiche, come nel caso dei “celto-liguri” nella Padania occidentale. Si può dire che dal IV secolo aC quasi tutta la Padania sia celtica, in
quanto le principali tribù si sono già stanziate
nelle loro sedi storiche, nelle quali, nonostante
la romanizzazione politica, lasceranno profonde
tracce culturali, tuttora vitali. Solo il Veneto
sembra sfuggire, almeno in un primo momento,
a queste considerazioni di ordine storico e etnico. Eppure, anche in quest’area della Padania
orientale, che presenta una discreta compattezza etnica, in senso venetico, a partire dall’VIIIVII secolo fino al III aC, è possibile individuare
32 - Quaderni Padani
chiaramente un filone etnico-linguistico celtico,
ossia la presenza di popolazioni affini a quelle
del resto della Padania che pure in questa regione hanno lasciato chiare e indelebili tracce: i toponimi. Anche in Veneto la penetrazione celtica
si fa sentire a partire dal IV secolo. Stirpi celtiche accerchiavano letteralmente la regione: a
ovest i Cenomani, con capitale Brixia (Brescia),
che inglobavano nella loro area anche Verona
(che il poeta Catullo definiva figlia di Brescia); a
sud i Galli Boi, che avevano già occupato l’etrusca Felsina (da loro poi ribatezzata Bononia =
Bologna) e avevano mandato avamposti anche
in territorio adriese (e si ricordi che anche Adria
e Spina erano colonie etrusche); a oriente, a est
del fiume Livenza, i Carni, stanziatisi nell’attuale Friuli fin dal V secolo, con diramazioni anche
in Cadore e nel Bellunese, sicché la presenza
celtica è attestata anche a nord. Si noti che entrambi i toponimi, “Cadore” e “Belluno”, sono di
origine gallica, cioè celtica: il primo, da Cadubrium, attestato anche nella forma Catubria, è il
composto gallico “catu-bri(g)um” (“roccaforte”),
dove “catu” sta per “battaglia” e “bri(g)um” (affine a “briga”) per “monte”, “cima”, “rocca”; il secondo fonde la radice “bel-” (“splendente”, cfr. il
nome Belenus, divinità gallica venerata soprattutto ad Aquileia ma anche nella Gallia meridionale) con “-dunum” (“fortezza”, “rocca”, ma anche “monte”). L’influsso gallico si fa sentire soprattutto nel Veneto (centro-)settentrionale e
sebbene al momento della romanizzazione (II
secolo aC) l’influsso culturale celtico sia presente quasi ovunque nella Padania orientale, non va
dimenticato questo dato di fatto: che è proprio
nella fascia centro-settentrionale del Veneto che
riscontriamo la maggior concentrazione di toponimi di origine celtica, che coesistono con
quelli più antichi di ascendenza venetica. Due
popoli, due lingue, due componenti etniche in
una terra da sempre punto di convergenza di occidente e oriente, di nord e sud. Spina dorsale di
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
questo territorio erano i due fiumi Livenza, che
come ho detto era il confine tra Veneti e Carni, e
Piave, riportabili a due radici venetiche diverse
ma di analogo significato, quello di “scorrere”.
Com’è noto, sono venetici, in origine, anche i
nomi di alcuni importanti centri urbani più o
meno grandi, quali Este, da “Ates-ste” (“la città
dell’Atesis”, cioè dell’Adige, fiume venetico per
antonomasia); Padova, da Padua, spiegabile forse con la radice “pat-” (“estensione”, “apertura”), cfr. anche Padus = Po; Vicenza, da “Vicetia”, da una radice identica a quella del latino
“vicus”; Treviso, da “Tarvisium”, nome connesso
con “tarvos” (“toro”), che potrebbe essere anche
gallico; Asolo, da “Acelum”, radice “ak-” (“aguzzo”, con allusione alla rocca); Jesolo, da “Equilum” (“ekvo-” = “cavallo”); Oderzo, da “Opitergium”, che contiene la radice “terg-” (“mercato”); e forse anche Zenson, Riese e Resana, tutti
e tre in provincia di Treviso, da “Gentius” (nel
primo) e “Resius” (negli altri due), gentilizi venetici attestati in varie iscrizioni e che alludono
ad antiche proprietà fondiarie di cui i toponimi
rivelano il nome del possidente. Ma al di fuori di
queste località, i piccoli villaggi, i monti, i piccoli corsi d’acqua e i campi portano preferibilmente nomi celtici. Sono quasi sempre nomi (o meglio, radici) che designano quelle stesse realtà e
caratteristiche naturali dei luoghi a cui sono
stati imposti: “dura/duria” (“acqua” o simili),
Figurina di cavaliere con elmo, in bronzo,
(Trento, Museo Provinciale d’Arte)
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
che è alla base di “Duran” (Belluno) e di “Passo
Duran”, tra Agordo e Zoldo; “-dunum” (“rocca”,
“monte”), di cui si è già detto a proposito di Belluno, e che compare anche in “Meduna”, fiume
del Friuli occidentale che confluisce nel Livenza
non lontano dall’omonima località (chiamata
appunto “Meduna di Livenza”), situata nell’estremo orientale della provincia di Treviso, e in
“Meduno”, in provincia di Pordenone, entrambi
dal gallico “medio-dunum” (“in mezzo ai monti”); “briga” (“idem”), per cui vedi “Cadore”, ma
anche “Breganze” in provincia di Vicenza, a meno che quest’ultimo non derivi dal nome gallico
Brigantia (e Brigantia era anche la dea dal triplice volto, protettrice delle tre funzioni della società tradizionale: produttori, guerrieri e sacerdoti); “bedo-” (“fossa”, “canale”), che è all’origine del nome di un piccolo corso d’acqua dell’estremo orientale della provincia di Treviso (zona
di Oderzo, Chiarano e Cessalto), il “Bedoia” (che
è la sua denominazione dialettale locale, mentre
l’italianizzazione in “Bidoggia” ha il difetto di
oscurarne la trasparenza etimologica), oltreché
di un paese in provincia di Pordenone, ma prossimo al Veneto, “Budoia”, e forse anche della località di “Badoere”, Treviso (ma in questi tre toponimi non è escluso che ci troviamo di fronte
all’etimo celto-latino “betulea” (“betulla”), che
ancor prima di essere un toponimo è una voce
che si è conservata nell’uso vivo nel corso dei secoli, poco rivelativa quindi di un insediamento
effettivamente celtico, dal momento che potrebbe essere stata imposta, come denominazione di
luogo, in tempi più recenti). Ancora alcuni
esempi: la radice “bel-” (“splendente”) è contenuta in “Belluno”, di cui si è già detto; “morga”
(“corso d’acqua”, “palude”, ma anche “confine”)
potrebbe forse spiegare “Morgano”, in provincia
di Treviso; “mosa” (“palude”) è alla base dei vari
“Musile” e simili (uno è Musile di Piave, Venezia,
in area portogruarese); infine “bennacus” (“cornuto”) fa allusione ai molti promontori (o alla
penisola di Sirmione) del lago di Garda, il cui
nome classico era appunto Benacus lacus (ma
qui siamo già in territorio cenomane). Per “Segusino”, località presso la riva sinistra del Piave,
ai piedi delle Prealpi bellunesi, viene da pensare
alla Segusio piemontese (oggi Susa, Torino), il
cui nome vien fatto derivare dagli esperti dal
gallico “Segusia” (“la forte”, “la potente”), dalla
radice “sego-”. Anche i numerosi toponimi in acum (suffisso celtico latinizzato, che evolve in
veneto comune in -ago e in bellunese e friulano
in -ac(h)) sono di origine celtica e costituiscono
Quaderni Padani - 33
una categoria particolare, tra l’altro molto rivelativa per quel che riguarda gli insediamenti celtici, visto che si tratta di nomi locali che traggono origine dal nome del proprietario di quello
che inizialmente era un possedimento, espresso
appunto dal suffisso, e che poi sarebbe divenuto,
nel corso dei secoli, un centro abitato, un villaggio. Il proprietario doveva essere originariamente gallico, ma poiché il suffisso in questione ha
conservato per alcuni secoli una notevole vitalità, è molto frequente trovarlo associato a nomi
latini o anche germanici, ma sempre, comunque, e questo è il dato che più ci interessa, in
quelle campagne che sono state dissodate originariamente da genti galliche. Questi toponimi
in -ago (-aga) e -ac(h), ma anche in -igo, -iga (da
-icum, -ica, che possono essere suffissi anche venetici) sono molto comuni nel Veneto, pochi
esempi saranno quindi sufficienti: “Oriago” (Venezia) da “Aurelius” (cioè “Aureliacum”), “Canzago” (Verona) da “Cantius”, “Asiago” (Vicenza)
da “Asellius” o “Acilius”, “Lorenzaga” (Motta di
Livenza, Treviso) e “Lorenzago” (Belluno) da
“Laurentius”, “Zianigo” (Mirano, Venezia) da
“Julianus”, “Formeniga” (Vittorio Veneto) da
“Firminus” e, nel Bellunese, “Mozzach” (Agordo) da “Muttius”. Vorremmo ora riportare alcuni esempi che testimoniano il rapporto dei Celti,
ma anche dei Paleoveneti, col territorio. Era in
definitiva un rapporto col sacro, in cui ogni elemento del paesaggio poteva essere sede di entità
soprannaturali, ossia di divinità. Questa sacralizzazione del territorio era un aspetto costante
della Weltanschauung celto-venetica, a cui i Veneti contemporanei devono molto della loro religiosità tradizionale, basti pensare ai capitelli
eretti nei crocicchi di campagna, tanto per fare
un esempio. Si è già accennato a Brigantia, nome di persona gallico ma anche nome di divinità, che potrebbe essere all’origine di “Bregan-
34 - Quaderni Padani
ze”; un altro esempio è forse “Dolo” (Venezia),
in cui, se si vuole azzardare un’ipotesi, si può
ravvisare il nome di un’altra divinità gallica, Dulovis (cfr. l’omonimo torrente Dolo in Emilia,
per cui è stata proposta un’analoga etimologia).
Ma erano soprattutto le selve il luogo di relegazione del sacro, il tempio naturale in cui si celebravano i riti sacri o in cui venivano allevati gli
animali che sarebbero poi divenuti vittime sacrificali per la divinità. Non deve dunque stupire
l’abbondanza di toponimi come “Lugo” (nel Vicentino, nel Veronese e uno nel Veneziano),
“Lughetto” (Venezia), “Vallugana” (Vicenza) e
“Val Lugana” (Peschiera Veronese), a testimonianza, oltretutto, di quanto estesa fosse, allora,
la superficie boschiva nel Veneto. Non ci troviamo qui di fronte a elementi linguistici celtici, in
quanto tutti questi toponimi hanno alla base il
latino “lucus” (“bosco sacro” e più tardi semplicemente “bosco”), tuttavia è significativo come
anche il conquistatore romano, di fronte alla sacralità di certi luoghi, abbia preferito rispettarli
senza rinominarli e abbia optato quindi per una
designazione generica e puramente denotativa,
quella di “bosco sacro” appunto, confinando in
essa ciò che per lui era tabù. Di queste selve oggi non rimane che la memoria, cristallizzata in
un toponimo. Come si vede, anche l’origine latina di un toponimo può, a volte, lasciar trasparire aspetti essenziali della cultura celtica. Vorrei
far notare, comunque, che anche il celtico e il
venetico possedevano, per “bosco”, una radice
affine a quella del latino “lucus”, e cioè, rispettivamente, “leuk-” (da cui “Lecco”) e “louk-”. Difficile invece riportare allo stesso etimo latino toponimi come “Lugagnano” (Verona), “Lughignano” (Treviso) e “Lugugnana” (Venezia), per i
quali bisognerà supporre piuttosto un nome di
persona latino come “Lucanius”, probabile proprietario di quelle terre in epoca romana.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
La Padania: quindicimila anni
di storia agricolo forestale
di Lamberto Sarto
“S
ubito sotto le Alpi si estende per 2100
stadi (uno stadio varia tra 179 a 213 metri, n.d.r.), quasi uguale in lunghezza come in larghezza, una pianura considerevole; la
sua parte meridionale è limitata dalla costa dei
Veneti e da quei monti Appennini che giungono
fino alla zona intorno ad Ariminum e Ancona.
Questi monti infatti, cominciando dalla Liguria,
penetrano nella Tirrenia lasciando solo uno
stretto litorale; inoltrandosi poi un poco nell’entroterra, raggiunto il territorio di Pisa, si volgono verso l’aurora e verso l’Adriatico fino a raggiungere le regioni di Ariminum e Ancona, collegandosi in linea retta con la costa dei Veneti.
Da questi confini, pertanto, è chiusa la Celtica
Cisalpina e la lunghezza della costa, congiunta
coi monti, è di 6300 stadi, la larghezza poco meno di 2000” (Strab. V, 1, 3,). Con queste parole
Strabone, storico e geografo contemporaneo di
Augusto e autore della più grande opera geografica dell’antichità pervenutaci, delimita la: “vasta
regione dell’Italia che prima della dominazione
romana fu abitata dalle popolazioni celtiche,
culturalmente distanti e a lungo ostili rispetto al
mondo mediterraneo” (A. Violante).
Strabone dunque già all’epoca della dominazione romana era consapevole delle peculiarità
sia storiche ma anche geografiche della Padania,
infatti per risalire alla formazione della Pianura
e dei territori delimitanti i suoi confini bisogna
risalire all’Era Terziaria quando tra le Alpi e gli
Appennini si stendeva un ampio golfo marino all’interno del quale i corsi d’acqua provenienti
dalle zone montane adiacenti hanno dato l’avvio
a tutti quei processi di sedimentazione che porteranno alla nascita della Pianura Padana.
Nell’Era Quaternaria gli sconvolgimenti climatici che provocarono l’espansione e il ritiro
dei ghiacciai, abbinati a concomitanti accentuati
spostamenti delle linee di costa dei mari, ebbero
ripercussioni biologiche enormi: entità vegetali
e animali scomparvero, altre migrarono, altre
ancora si affermarono. Quindicimila anni fa cirAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
ca, “la Padania usciva da questi avvenimenti con
un volto nuovo: la tundra artica e la taiga, somiglianti alle formazioni vegetali attualmente presenti nella porzione settentrionale della penisola
scandinava ed in Siberia, la ricoprivano completamente” (Aa.Vv. La Pianura Padana). Seguirono periodi di varia lunghezza marcati dal mutare del clima; infine verso il 1500 a.C., i parametri climatici si stabilizzarono attorno ai valori
attuali. Sulla base di studi condotti sui resti vegetali (pollini) è possibile ricostruire la storia
del paesaggio vegetale riassunto nella tabella 1.
Il massimo rigoglio forestale si ebbe con il Periodo atlantico, durante il quale si affermò la
maggior parte degli alberi forestali della nostra
flora. Influenze di tipo continentale portarono
alla diffusione di elementi steppici e illirici, la risalita da meridione delle specie mediterranee
venne favorita da periodi climatici aridi e caldi.
Ma anche l’azione dell’uomo non si fece attendere. Durante il Neolitico si hanno le prime testimonianze di attività agricole. In questo periodo i vhò di Piadena cacciano cervo e cinghiale,
allevano capra, pecora e bovidi di grandi dimensioni (uro), coltivano Triticum monococcum, un
frumento primitivo proveniente dal Medio
Oriente, raccolgono nelle acque dolci tartarughe
e molluschi. Nell’Età del bronzo sorgono palafitte e terramare lungo i maggiori fiumi della
Lombardia orientale; nelle foreste di querce caducifoglie con alternate presenze di faggio, abete bianco, castagno, vivono cervi, caprioli, cinghiali che vengono cacciati, sono raccolti frutti
radici erbe, si coltivano fave, orzo e frumento.
Vari popoli si succedono, Etruschi, Celti, per arrivare alle invasioni romane: con gli ultimi iniziano il dissodamento e la messa a coltura sistematica del territorio attraverso disegni pianificatori semplici ma efficaci; dal centro delle città
ove si incrociavano le due vie principali si usciva
attraverso quattro porte cittadine puntando alla
campagna, il territorio si suddivideva in una
maglia quadrata la cui unità base era un quadraQuaderni Padani - 35
PERIODO
DATA
VEGETAZIONE
BIOCLIMA
Subartico antico
14000-8200 a.C.
tundra
artico
Preboreale
8200-6200 a.C.
boschi radi di betulle
pino silvestre
freddo
Boreale
6800-5500 a.C.
foreste di querce mesofile
con nocciolo
boreale con inverno
freddo, estate mite
Atlantico antico
5500-4000 a.C.
foreste di querce mesofile
con olmo, tiglio; ontano nero
lungo i fiumi
atlantico,
caldo umido
Atlantico recente
4000-2500 a.C.
come sopra con faggio
sporadico
atlantico,
temperato-umido
Subboreale
2500-800 a.C.
foreste di querce termofile
localmente con faggio
subatlantico
meno umido del precedente
Subatlantico
800-1500 d.C.
foreste di querce con olmo,
tiglio e maggiore espansione
del faggio
subatlantico umido
e gradualmente più freddo
Subatlantico recente
1500 ad oggi
declino del faggio, foreste
di querce, olmo, tiglio; ontano,
salice pioppi lungo i fiumi
subatlantico
poco più caldo del precedente
to di 710 metri per lato. Comunque l’intervento
romano anche per le differenti modalità di sottomissione e di conquista della Padania è sviluppato in maniera differente, a sud del Po l’impianto urbano e la divisione agraria sono fortemente interconnessi e continui, a settentrione
del Po dove maggiore è stata la resistenza delle
popolazioni celtiche la centuriazione è più frammentaria e non occupa tutto il territorio. Caduta Roma la popolazione diminuisce di numero,
le attività agricole ristagnano, si ha un ritorno
delle attività di caccia e di pastorizia e i boschi
riconquistano parte del territorio. Tuttavia venuti a mancare i tabù romani e le loro leggi di
difesa, la foresta torna a essere fonte di alimento, di energia e di materiale da costruzione. Lo
jus lignandi longobardo concede grande libertà
di taglio. Carlo Magno invece, mosso da interessi venatori, reintroduce leggi vincolistiche, i
proprietari privati sono espropriati e possono ricavare legna solo in caso di necessità. Nelle foreste pubbliche il popolo ha la facoltà di raccogliere ghiande per suini e di farveli pascolare, in
quelle private del sovrano e della Chiesa è con36 - Quaderni Padani
sentita solo l’attività venatoria. Alcuni monasteri tengono localmente viva la tradizione agricola. Dopo la pace di Costanza nel 1183, i boschi
già depauperati da guerre, ricostruzioni, tributi,
spostamenti di truppe, subiscono una decisa
contrazione per la messa a coltura di ampie superfici rese coltivabili da opere di bonifica e canalizzazioni. Con il Rinascimento, l’opera di diboscamento può considerarsi conclusa, il bisogno di legna verificatosi in questo periodo di fioritura economica e culturale della Padania, ha
effetti rimarchevoli sul patrimonio forestale.
Scompare il bosco da gran parte della pianura,
ma restano parecchi alberi lungo le proprietà e
resisteranno fino all’avvento della meccanizzazione. Decolla nel frattempo l’agricoltura, oltre
all’espansione territoriale avvengono miglioramenti di tecniche colturali e si affermano nuove
coltivazioni. Nel 1600, il ristagno economico, le
guerre e le epidemie provocano indisciplina e
abusi nella politica forestale con ulteriore degrado dei pochi boschi rimasti; un esempio è la
brughiera di Gallarate che nasce dalla distruzione dei boschi nel 1636 durante il conflitto tra
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
spagnoli e francesi. Anche l’agricoltura risente
di questo periodo di crisi socio economica, abbiamo infatti la prevalenza della segale sul frumento. Verso la metà del 1600 viene introdotta,
importata dall’America la coltivazione del mais,
inizialmente come prodotto di riserva nei momenti difficili per gli altri cereali, dal 1700 come
coltivazione stabile nella pratica agricola. Sempre nel 1700 abbiamo le prime introduzioni di
piante esotiche come ad esempio la robinia e
compaiono le prime colture di pioppi ibridi. Il
bosco Fontana a Mantova (attualmente uno degli ultimi esempi di bosco planiziale rimasto in
pianura), si riduce fino ad un decimo della sua
iniziale grandezza. Tra le colture stabili abbiamo
l’affermarsi del riso la cui introduzione era iniziata duecento anni prima. Nel 1800 il depauperamento dei boschi continua, le guerre risorgimentali sono combattute in pianura e i pochi
boschi rimasti ne fanno le spese. Nei primi del
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
‘900 la grande rivoluzione agraria legata alla
meccanizzazione se da un lato provoca la pressoché totale distruzione dell’antico patrimonio
agricolo forestale dall’altro lato rende la Padania
“centro economico primario, non solo livello
europeo ma anche a livello planetario.” (Aa.Vv.
La Pianura Padana).
Bibliografia
Aa. Vv., I Celti, Palazzo Grassi. Milano: Bompiani
editore, 1991
Aa. Vv., La Pianura Padana. Novara: Istituto
Geografico De Agostini S.p.A., 1988
A. Violante, I Celti a sud delle Alpi. Amilcare Pizzi S.p.A., 1993 (edizione speciale fuori commercio)
M. F. Barozzi, I Celti e Milano. Milano: Edizioni
della Terra di Mezzo, 1994
M. T. Grassi, I Celti in Italia. Milano: Longanesi
editore, 1991
Quaderni Padani - 37
Ripartizioni agrarie
e bonifiche paleovenete
nel territorio padovano
di Carlo Frison
S
arebbe errato attribuire ai
Romani il merito dell’introduzione nei paesi conquistati della ripartizione regolare dei terreni coltivabili.
Le divisioni agrarie con linee
rette perpendicolari, riferite a
caposaldi rappresentati da cippi iscritti, non è proprio dei
Romani né dei Latini, ma è comune a tutto il mondo antico
classico, al Vicino Oriente e all’Europa protostorica.
Le centuriazioni romane
hanno beneficiato in diverse
zone e luoghi di una lunga
evoluzione delle forme agrarie. Vi è analogia tra i cippi
confinari babilonesi e greci e
quelli usati nelle centuriazioni. In tutti i paesi la terra coltivata era segnata da pietre votive per invocare su chiunque
violasse i limiti dei campi la
maledizione divina(1).
Due cippi con iscrizioni venetiche, rinvenuti a Oderzo
(TV), sono stati interpretati
come cippi confinari(2). Di conseguenza nel Veneto antico, precedentemente all’arrivo dei Romani, può esserci stata divisione del terreno con
principi simili a quelli usati
da Roma.
Le prime tracce di organizzazione del territorio rinvenute
nel Veneto antico ci riportano
alla preistoria. Presso Roncade (TV), sono state trovate canalette con materiali del neolitico(3). Nel Basso veronese
sono stati scoperti fossi paralleli del periodo del Bronzo
Medio-recente, che evidentemente affiancavano un viottolo agrario(4). Nelle Valli grandi veronesi sono state rivelate
dalle foto aeree le tracce lasciate da due argini artificiali lunghi circa sette
chilometri utili sia per difesa dagli allagamenti
sia come strade di collegamento tra gli abitati
(1) Françoise Favory, “Proposition pour une modélisation des
cadastres ruraux antiques”, su AA.VV., Cadastres et espace
rural, (Parigi 1983), pagg. 61 ÷ 74.
Gérard Chouquer, Monique Clavel-Léveque, Françoise Favory, “Catasti romani e sistemazione dei paesaggi rurali antichi”, su Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo
romano (Modena: Panini, 1984).
(2) Anna Marinetti, “Nuove testimonianze venetiche da Oder-
zo (Treviso): elementi per un recupero della confinazione
pubblica”, su Quaderni di archeologia del Veneto, IV, 1988.
( 3) AA.VV., “Indagine interdisciplinare nell’insediamento
neolitico di Roncade (TV) ecc.”, su Quaderni di Archeologia
del Veneto, XII, 1996, pag. 108.
(4) AA.VV, “Progetto Alto Medio Polesine-Basso Veronese: settimo rapporto”, su Quaderni di Archeologia del Veneto, X,
1994, pagg. 116 ÷ 124.
38 - Quaderni Padani
Cippo rinvenuto a Oderzo
(TV). L’iscrizione in caratteri venetici te, abbreviazione di
teuta, “comunità”, significherebbe che il
confine era tracciato a nome
della comunità.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Divisione agraria antica parallela al canale Cagnola-Bovolenta (Padova). Sono parzialmente ricostruibili i decumani, mentre la scarsità delle tracce riferibili ai cardi deriva dal fatto che era
una centuriazione basata solo sui decumani, secondo una tecnica in uso probabilmente prima
del IV-III secolo a.C. La crocetta indica il punto del ritrovamento del cippo gromatico nel comune di S. Pietro Viminario.
del periodo del Bronzo recente(5). Il rilevamento
delle forme dei campi tuttora esistenti nelle zone
umide del Quartiere del Piave, tra Colbertaldo e
Sernaglia della Battaglia, ha indotto paragoni coi
campi celtici, che sono suddivisioni protostoriche
del suolo rilevate nell’Europa nord occidentale(6).
Le divisioni interne delle centurie (chiamate dai
gromatici latini strigae, scamna, lacineae eccetera) si sono sviluppate all’esterno e all’interno delle zone d’influenza e d’autorità romane o latine, e
sono precedenti alle centuriazioni vere e
proprie(7). Un interessante graffito dell’età del
Ferro sul monte Baldo, formato da un reticolo di
due file di quattro quadrati, ha un quadrato diviso
in tre rettangoli paralleli che suggeriscono la rapAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
presentazione della ripartizione a scamna(8).
La sostanziale autonomia di cui godeva il Veneto fino al primo Triumvirato, pur in condizioni
di protettorato, lo preservò da deduzioni colonia-
(5) Gian Carlo Zaffanella, “Il villaggio preistorico su altura
arginata circolare dei Castellari di Vallarana ecc.”, su
Athesia, III-IV, pag. 175.
(6) Giuliano Romano, A. Paolillo, “Orientamenti astronomici
negli insediamenti preistorici del Quartier del Piave ecc.”, su
Rivista di archeologia, XII, 1988.
(7) Favory, op. cit., pag. 119.
(8) Il disegno del graffito è stato pubblicato nel mio saggio
“Padania e Atlantide”, su Quaderni Padani, n. 15, 1998, pag.
38.
Quaderni Padani - 39
rie romane. La colonia di Aquileia, fondata nel
181 aC, era in realtà al di fuori del territorio veneto. Gli scrittori antichi citano solo la costituzione delle colonie romane negli agri di Este e
Concordia in seguito a accordi tra Ottaviano e
Antonio, mentre non ci fu nessuna deduzione coloniaria nell’agro padovano. Secondo il commentatore latino Servio (IV secolo d.C.), Patavium
avrebbe riscattato col denaro il proprio territorio.
Come spiegare, dunque, le numerose centuriazioni del Veneto? Secondo gli storici sono attribuibili a colonie fittizie, cioè a quelle fatte non da
confisca dei terreni per insediare nuovi coloni
provenienti dall’Italia centrale, ma da vecchi abitanti che continuavano a risiedervi ricevendo
però il diritto latino e non quello romano.
Per esempio, potrebbe essere una deduzione
fittizia della seconda metà del primo secolo a.C. la
centuriazione del territorio di Adria. Il criterio interpretativo è che solo i gromatici romani possedessero l’abilità tecnica per fare simile precisa divisione agraria. È rifiutata l’idea che fosse opera
di agrimensori locali, nonostante Adria vantasse
tradizioni greche e etrusche. A nord del polo urbano di Adria esisteva una ripartizione per scamna alla maniera greca, e canali di bonifica etruschi erano a sud-est(9). È forse possibile pensare
che la centuriazione di Adria sia antecedente alla
“romanizzazione”?
La questione delle centuriazioni paleovenete
viene posta dal ritrovamento negli agri centuriati
di palette rituali di bronzo, usate, si suppone, in
cerimonie agrarie legate alla semina e all’auspicio
di fertilità. Sembra che le palette non siano più
recenti del secolo III a.C. Si constata la sfasatura
cronologica tra la romanità delle centuriazioni e
l’età paleoveneta delle palette(10). O le palette erano usate anche in età romana, o le centuriazioni
sono da anticipare all’epoca paleoveneta.
La divisione agraria più problematica per
quanto riguarda la datazione è quella impostata
sul canale rettilineo Cagnola-Bovolenta. Daniele
Banzato ha proposto nella sua tesi di laurea(11) la
ricostruzione di questa divisione agraria con modulo di 20 actus per 20. La sua ricostruzione è
stata parzialmente ripresa da Enrico Zerbinati(12)
sulla tavola IGM al 100.000. Nella figura qui riportata la ricostruzione è ridisegnata sul tracciato
stradale ricavato dalle tavolette al 25.000. A quest’opera di bonifica si vorrebbe attribuire la stessa
la datazione del cippo gromatico scoperto nel
1972 nel comune di S. Pietro Viminario, di epoca
neroniana. Secondo gli archeologi il cippo è stato
rinvenuto ancora nella posizione originaria, ovve40 - Quaderni Padani
ro in situ alla profondità di oltre un metro. Il
punto di ritrovamento del cippo è indicato nella
tesi di laurea del Banzato, che ho potuto consultare. Il fatto è che questo punto si trova alla distanza di circa un centinaio di metri sia da un decumano sia da un cardo della ricostruzione proposta, mentre i cippi erano collocati agli incroci
dei limites. Ne dedurrei che il cippo non apparteneva alla centuriazione del canale Cagnola-Bovolenta, ma a un’altra. Ciò non meraviglia, perché
l’analisi della cartografia IGM e i telerilevamenti
rivelano frequentemente la presenza di divisioni
agrarie antiche di diverso orientamento sia accostate sia sovrapposte.
Sarei dell’opinione che questo canale sia di
epoca paleoveneta e di conseguenza la centuriazione stessa sarebbe anteriore all’arrivo dei romani. Il territorio verso la laguna meridionale
aveva notevole importanza economica per Padova. Strabone paragona i canali scavati tra la laguna e il delta del Po alle bonifiche del Basso Egitto. Per esempio, la fossa Clodia, che collegava la
laguna di Chioggia al ramo del Po di Adria è ritenuta di origine preromana dagli studiosi. Inoltre
si pensa che nella laguna meridionale fosse situato sia lo scalo portuale di Padova paleoveneta,
sia il leggendario villaggio paleoveneto presso
l’Adriatico paragonato a Troia da Tito Livio o
chiamato Pagus Troianus da Stefano Bizantino,
sorto dove sarebbe sbarcato l’eroe troiano Antenore. Il canale Cagnola-Bovolenta, che sfocia
nella laguna meridionale, poteva essere la principale via d’acqua che collegava la città al suo porto. Credo che il porto paleoveneto sia da identificare con Chioggia(13). La cittadina lagunare ha
una urbanistica regolare formata da isolati rettangolari paralleli lunghi e stretti definibili
scamna, non attribuibili alla urbanistica romana; anzi, il toponimo Vigo persistente nella porzione settentrionale del centro storico rimanda
alla memoria dei “vici maritimi” paleoveneti citati da Tito Livio.
(9) Enrico Maragno (a cura di), La centuriazione dell’agro di
Adria (Linea ags edizioni: Stanghella (PD), 1993), pagg. 142
÷ 178.
(10) Giovanna Gambacurta, “La paletta di Scaltenigo di Mirano ecc.,” su Quaderni di Archeologia del Veneto, X, 1994.
(11) Davide Banzato, “La centuriazione a sud di Padova”, tesi
di laurea discussa presso l’Università di Padova, Facoltà di
Lett. e Fil., a.a. 1976-77.
(12) Enrico Zerbinati, Edizione archeologica della carta d’Italia. Foglio 64. Rovigo, (Firenze: IGM 1982).
(13) Carlo Frison, “Lo scalo portuale di Padova paleoveneta”,
su Padova e il suo territorio, n. 32 (Padova 1991).
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Riti “altri” in area subalpina
Tracce di cultura rituale pagana
nelle tradizioni folkloriche piemontesi.
Qualche ipotesi metodologica.
di Massimo Centini
A
differenza di altre aree, il folklore nord-occidentale propone
un sostrato pagano meno
eclatante di quello rinvenibile in
altre regioni. Le motivazioni della
più limitata permanenza di certe
esperienze sono da imputare a
cause diverse, di origine prevalentemente ambientale le cui specifiche tipologie possono essere lucidamente poste in rilievo solo attraverso mirati studi locali. Una riflessione generale risulta pertanto
complessa e non affrontabile attraverso una semplice lettura in panoramica. Possiamo solo osservare
che nelle culture tradizionalmente
più chiuse e maggiormente legate
al patrimonio atavico autoctono,
dimensionato attraverso una serie
di riferimenti simbolici di riconosciuto valore locale, la persistenza
di motivi rituali precristiani è più
evidente. Tale persistenza è generata non solo da motivazioni di ordine culturale, ma principalmente
dalla volontà di non perdere il contatto con un’identità autonoma,
non intaccata dalle influenze cultuali esterne, notoriamente portatrici di alterità.
Come abbiamo già osservato, il
patrimonio folklorico piemontese
non è molto ricco di tradizioni rituali collettive riconducibili in toto all’universo
pagano. Ci riferiamo in particolare alle feste e a
quelle pratiche che si articolano intorno ad un
iter scenico in cui si focalizzano espressioni
simboliche destinate a porre in evidenza le
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Roc dla sgui-ja di Monte Zuloi, Omegna
istanze collettive nei confronti del sacro. Siamo
certamente al cospetto di una raccolta di esperienze di grande interesse, alcune delle quali
meriterebbero puntuali studi che purtroppo ancora mancano. Nello spazio consentito da un arQuaderni Padani - 41
Cristianesimo
 Tradizioni rituali
precristiane

Religiosità
popolare

42 - Quaderni Padani
la Rocca di Cavour o di Santa Brigida di Moncalieri. Sui primi le donne scivolavano per favorire
la fertilità e garantirsi una felice maternità; sulle
seconde si limitavano a sfregare il ventre con
identiche intenzioni simboliche.
Possiamo citare la conservazione della terra di
alcuni santuari (ad esempio quella dei Sacri
Monti) o la realizzazione di segni protettivi sugli
oggetti dell’uomo o sulle pietre nei pressi dell’alpeggio, poiché considerati utile strumento
per allontanare le influenze negative. È interessante segnalare che questi segni fanno parte di
un corpus decorativo rinvenibile senza interruzione dalla preistoria ad oggi.
f) Una fonte di grande interesse per meglio porre in evidenza l’azione intrapresa dalla Chiesa
per combattere le esperienze rituali pagane, fatte precipitare nella demonologia e parzialmente
risollevate dall’appiglio offerto dal folklore, è
rintracciabile nelle prese di posizione dell’inquisizione contro la stregoneria o negli atti dei processi. Rileggendo alcuni documenti locali riemergono con forza motivi rituali pagani di ampio respiro culturale. Emblematico il caso del
processo celebrato nel novembre 1474 a Levone
(Torino) e che portò al rogo due povere contadine del luogo, Antonia De Alberto e Francesca Viglone (Archivio Storico di Torino, Materie criminali, Mazzo 1, Fascicolo 1), accusate, tra l’altro,
di resuscitare gli animali uccisi per alimentarsene, attraverso una serie di pratiche rituali sovrapponibili alla magia sciamanica.
Da questa prima superficiale suddivisione, è
concretamente evidenziabile quale sia la molteplicità del problema, che risulta alimentato da
un forte sincretismo rituale di base. Per una più
immediata lettura della problematica, possiamo
abbozzare un modello teorico che può essere applicato all’indagine sul campo:

Possibili
convergenze

ticolo non è possibile entrare nel merito della
questione con la dovuta lucidità analitica e con i
necessari approfondimenti critici. Ci limitiamo
pertanto a fornire alcuni spunti di approfondimento, attraverso i quali mettere a fuoco delle
ipotesi metodologiche. Per cominciare, crediamo possa essere utile cercare di identificare le
diverse esperienze rituali tradizionali per effettuare una prima analisi tipologica e soprattutto
elaborare una sorta di griglia analitica per meglio ricercarne le fonti:
a) Celebrazioni di santi locali, spesso articolate
intorno al percorso simbolico della processione,
che conservano un sostrato pagano (ad esempio
la festa del martire tebeo San Besso; le numerose Vergini delle vette, grotte, fonti, eccetera).
b) Feste su temi chiaramente pagani, in particolare connessi ai rituali stagionali (gli Spadonari
di Giaglione, la cacciata dell’orso di Urbiano, la
Bahìo di Sampeyre, il falò di San Giovanni a Torino, eccetera) quasi sempre conviventi con il
culto cristiano. Infatti la festa è in genere preludio alla celebrazione solenne, ma il calendario di
riferimento è sempre quello pagano (solstizio e
altri periodi di una certa importanza per il calendario agro-pastorale).
c) Culti locali connessi al santo patrono in cui
sono rinvenibili in nuce tracce simboliche collegabili a divinità precristiane, o al mito dell’eroe
civilizzatore (basti pensare alla numerosa schiera di santi taumaturghi, da San Rocco a San Sebastiano; oppure ai martiri che localmente sono
venerati per aver salvato il paese o la frazione da
minacce di vario genere).
d) Celebrazioni di eventi straordinari connessi al
sacro (miracoli, apparizioni, eccetera) che risultano vincolati a due referenti simbolici condizionanti:
1) la morfologia del luogo (caverna, altura, fonte, bosco, eccetera);
2) l’eco di esperienze mitico-sacrali precristiane,
sulle quali si è sovrapposto il culto cristiano.
Spesso certi eventi straordinari hanno assunto il
ruolo di mito di fondazione di un santuario cristiano, o di supporto cultuale per una certa tradizione rituale.
e) Esperienze simboliche private, che pur riferendosi ad un humus la cui origine è da ricercare nella tradizione religiosa collettiva del paganesimo, sono entrate a far parte del patrimonio
di pratiche apotropaiche e superstiziose. I riferimenti sono numerosissimi: dai vari Roc dla
sgui-ja (pietre della scivolata) delle Valli di Lanzo alle Pere dla pansa (pietre con la pancia) del-
Folklore
 Valori positivi
 Valori negativi
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Osservando in panoramica le pratiche rituali
della religiosità popolare e del folklore locale,
pur con tutti i limiti che comporta una lettura
generalizzata, possiamo, a questo punto, individuare alcune caratteristiche ricorrenti, la cui
origine è in parte già da ricercare nei primi secoli del cristianesimo.
* Ad esempio un approccio al soprannaturale,
da parte della religione cristiana, con sistemi
rituali e devozionali in parte simili a quelli caratterizzanti le tradizioni pagane.
* Una pratica cultuale “rustica”, attuata per un
certo tempo in seno alle culture “basse”, in
cui il linguaggio del Verbo doveva necessariamente essere adattato alle istanze locali il cui
rapporto con il sacro aveva prerogative proprie, mantenibili solo attraverso un irrinunciabile sincretismo.
* Inserimento di luoghi di culto cristiani in siti
già sfruttati dalle religioni autoctone precedenti. Molti santuari cristiani delle Alpi, ad
esempio, sorgono su aree originariamente
consacrate a divinità come Giove, Diana, Mercurio, Cernunnus, eccetera.
Si ha comunque
traccia di innumerevoli azioni distruttive
dei templi pagani,
confermate da fonti
tardo antiche e medievali (sermoni, lettere, bolle, eccetera).
Emblematici in
questo senso i sermoni del vescovo torinese San Massimo (IV-V
secolo): “In realtà fatta eccezione di pochi
devoti, difficilmente
la campagna di ciascuno risulta incontaminata dagli idoli;
difficilmente un possedimento si può ritenere immune dal
culto dei demoni”
(Sermone 91, secondo l’edizione critica).
Per quanto riguarda la sovrapposizione cultuale effettuata dalla chiesa delle origini, bisogna dire che questa azione non va intesa come
una ricerca di analogia, ma come occultamento
dei temi pagani. La sovrapposizione di questi temi è garantita dalla religiosità e dal folklore,
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
che con una notevole riduzione evocativa, ne
propongono un’intensità diversa, non di rado in
netto contrasto con il dogmatismo cristiano e
pertanto ulteriormente demonizzabile. La rielaborazione di un primitivo significato pagano nasce dalla necessità di continuare a utilizzare un
tema, una figura, una pratica rituale, senza stravolgerne l’aspetto formale, ma ricostruendone
totalmente il significato simbolico. La dicotomia tra bene e male, tra divino e diabolico, si fa
quindi più fragile e la definizione dei ruoli è
spesso snaturata.
Procedendo nell’analisi, possiamo constatare
che nella sostanza la tradizione folklorica piemontese (religiosa o laica) non si sottrae alle
specifiche simboliche caratterizzanti la cultura
popolare.
Queste manifestazioni, come in parte le leggende e le fiabe popolari, hanno il ruolo di garantire all’uomo, da sempre così impaurito dall’instabilità del proprio stato, dei punti di riferimento per intessere un rapporto con il mito e
ottenere la possibilità di sentirsi meno solo, forse più vicino al soprannaturale.
Scivolo di Cheggio, Valle Antrona
In qualche modo capace di dialogare con entità di cui non conosce il nome, ma dalle quali
cerca di ottenere il privilegio della loro benevolenza attraverso un apparato rituale che per
molti aspetti lo rende simile ai suoi antenati, figli di un passato perduto nelle spirali del tempo.
Quaderni Padani - 43
In Bassano per i Remondini
di Giulia Lattuada Caminada
L
a laboriosità e l’intraprendenza dei popoli la modernizzazione e l’imprenditorialità.
padano-alpini, nonché la centralità del poliEditori e stampatori in Bassano, realtà urbana
centrico sistema padano aperto, da sempre, operosa ma certamente arretrata e chiusa cultualla cultura europea e in linea con il modello di ralmente, i cui abitanti “tutti dediti alle indusviluppo - mercantile prima e industriale poi - strie della lana, della seta, della pelle, delle candell’Europa occidentale, costituiscono il sostrato dele e del cacio avevano ben poca dimestichezza
decisivo di quell’imponente fenomeno d’arte po- con le lettere e le arti”(1), i Remondini e la tipopolare fiorito nel Veneto del Settecento e legato grafia non solo diedero lavoro e commercio ma
all’esperienza calcografica
della ditta Remondini di
Bassano. La fondazione e lo
spirito di gestione della Casa si configurano come un
momento di estrema rilevanza nel processo di superamento dell’economia e
della mentalità corporativa
verso un’organizzazione industriale moderna che dimostra la modernità dello
spirito imprenditoriale nuovo e spregiudicato dei Remondini, in un tempo di
stagnante immobilismo e
conservatorismo dell’economia Settecentesca. In
particolare, l’organizzazione tipografica veneta, ancora strettamente artigianale,
era soggetta a un ordinamento corporativo rigido e
paralizzante e a una mentalità produttiva antiquata. La
produzione era essenzialmente rivolta alle classi colte e la mancanza di spirito
imprenditoriale non aiutava
certo l’ampliamento del
mercato con nuovi generi
di più ampio interesse po- Xilografie del XVIII secolo della serie Santi in legno: Il cane barbipolare. I Remondini s’inse- no (incisore Antonio Morandi), il gatto domestico (incisore Antoriscono in questa realtà con nio Morandi), l’allocco notturno e l’avvoltoio
spirito d’iniziativa, idee e
capitali, decisi ad allargare il mercato e divenendo, in un breve periodo, la maggior risorsa del ( ) C.A. Zotti Minici, Le stampe popolari dei Remondini (Viterritorio bassanese e una forza trainante verso cenza: Neri Pozzi Editore, 1994) pag. 15.
1
44 - Quaderni Padani
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
zione di nuovi filoni iconografici, dando alla Casa
preziosissime indicazioni
sulle preferenze del pubblico. La fondazione della
tipografia ad opera di
Giovanni Antonio Remondini (1634-1711),
che tutti gli autori ottocenteschi vogliono piccolo mercante padovano di
“ferrareccia e droghetti”,
giunto a Bassano quasi
del tutto sprovvisto di
mezzi - figura su cui gravano, tuttavia, in assenza
di sufficiente documentaAcquaforte del XVII secolo: Madonna Immacolata, S. Giuseppe e zione, numerosi dubbi e
Bambino
incertezze, - segnò l’inizio di un lungo successo
stimolarono, in quel contesto, una presa di co- industriale e commerciale. L’intraprendenza e la
scienza fondamentale sul piano dello sviluppo ‘buona sorte’, la riorganizzazione dell’apparato
culturale. La loro impresa contribuì, inoltre, alla industriale, non meno che quella della struttura
diffusione dell’arte popolare in Europa e nei pae- commerciale, in vista di precise esigenze di
si ispano-americani, attraverso una ben organiz- mercato, sono stati momento imprescindibile
zata rete di distribuzione commerciale legata al nel processo di razionalizzazione delle risorse.
lavoro ambulante dei Tesini, poveri montanari La struttura commerciale era imperniata sia
della Val Tesina che per sfuggire alla miseria si sulla divulgazione capillare ad opera di venditori
spingevano a cercare fortuna anche molto lonta- ambulanti, che sulla pubblicazione di cataloghi
no. Scrive, a tal proposito, M. Rigoni Stern: “La di vendita, volti a favorire l’ordinazione e la disettimana dopo partirono a piedi. Le scarpe e le stribuzione delle merci.
gambe le avevano buone e sulle spalle, legata
La specializzazione di interessi e la riorganizcon una cinghia di cuoio, portavano la cassetta zazione interna del lavoro metteranno la ditta in
di legno con dentro un centinaio di fogli distesi grado, nell’arco di un trentennio, di superare
e divisi per argomento e serie. Erano quelle tutte le imprese venete nel settore. La semplifistampe iconografiche gli unici oggetti d’arte cazione nella costruzione e composizione delle
che da tre secoli diffondevano le opere dei gran- immagini, la sommarietà della tecnica, la scelta
di maestri tra la gente delle campagne e tra i di temi di largo successo, non meno che le empopolani delle città e nei casolari sparsi per piriche ma efficaci indagini di mercato svolte da
montagne e pianure. I tesini, vecchi ed esperti agenti, consiglieri e distributori, il controllo delvenditori ambulanti - un tempo giravano l’Eu- l’intero ciclo produttivo e commerciale e i prezropa vendendo pietre focaie - erano giunti a zi conseguentemente concorrenziali e stabili
piazzar stampe remondiniane, quelle delle fa- contribuirono alla larga diffusione delle immamose stamperie di Bassano, in ogni paese del gini remondiniane.
mondo: dalla Scandinavia alle Indie, dalla SibeLa popolarità delle stampe di devozione poporia al Perù. E ogni popolo, ogni nazione aveva lare, i santi e le sacre immagini venerate nelle
giustamente i suoi gusti e quello che andava be- chiese locali e nelle chiese dei paesi europei e
ne per i luterani del Nord Europa non era accet- ispano-americani che entreranno a buon diritto
tato dagli spagnoli...”(2).
nella dimensione europea del pellegrinaggio poIl connubio Remondini-Tesini fornì ai Re- polare, le vedute e le prospettive di città, le serie
mondini una capillare ed estesa rete commerciale già da tempo sperimentata con la vendita
di altri tipi di prodotti. Inoltre, i Tesini ricopri- ( ) M. Rigoni Stern, Storia di Tonle (Torino: Einaudi, 1978)
rono, senz’altro, un ruolo attivo nella realizza- pag. 14.
2
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Quaderni Padani - 45
dei soldatini - che rievocano i movimenti di soldati avvicendatasi in territorio veneziano nel
1797 -, i repertori figurativi delle stampe per
ventole, giochi, tabacchiere e biglietti da visita,
le carte geografiche, i fogli da ritaglio per presepi e quelli con il Cane barbino, il Gatto domestico, l’Allocco notturno e l’avoltoio non sono che
un esempio di quel cospicuo corredo di immagini che, inizialmente prerogativa dell’immaginario colto, veniva trasmesso anche agli umili del
tempo, in un’operazione culturale indubbiamente positiva, all’interno di un preciso programma educativo e di didattica religiosa.
In poco tempo le immagini religiose remondiniane, dal prezzo modico, allargheranno il mercato e costituiranno un momento affettivo e devozionale molto importante della pietà popolare,
forti anche di “alcune funzioni connesse al consumo del sacro, quali ad esempio il loro carattere liminare, di tramite tra il divino e l’umano, il
valore magico e taumaturgico della somiglianza
con il modello raffigurato (“la vera effigie”), o
analogamente la “territorialità” del santo”(3).
Entreranno nelle abitazioni, anche le più umili,
G. Zompini, El Mondo Niovo
e nei più diversi locali; saranno appese sopra i
letti, negli armadi, sulle porte, nelle stalle. Si
crede che esse preservino la casa e le persone,
gli animali, i mobili e quello che essi contengono. Alcune immagini di protezione e di preservazione beneficeranno, inoltre, di indulgenze
eccezionali accordatagli dai papi. Altre raggiungeranno una specializzazione che tocca perfino
la superstizione. La stessa preghiera sembra al
popolo più efficace se colui che s’implora è alla
sua portata.
La fortunata intuizione che, con criteri opposti ai consueti del tempo, preferì le produzioni
popolari - al tempo patrimonio esclusivo delle
più basse categorie di stampatori - permise, in
poco tempo, l’affermazione delle merci remondiniane su mercati eccezionalmente vasti. Una
produzione contrassegnata da grandi tirature,
da frequente imperizia esecutiva, da soggetti e
temi cari alle culture dei popoli. Stampe che direttamente concepite, prodotte e fruite per e dagli strati popolari, in realtà, avevano un pubblico
ben più ampio e diversificato, luogo di incontro
di molte culture, di diversi modi di vedere la vita, di reciproci scambi e influenze, in una continua dialettica economica e culturale. Caratteristica di tutta l’iconografia popolare, in particolare di quella di argomento religioso, erano le varianti regionali e i Remondini ovviarono a questo, tramite i loro corrispondenti sparsi nei più
diversi territori che raccolsero informazioni su
culti e usanze locali. La ricca coloritura dalle associazioni cromatiche ardenti, intense e vive,
l’impiego delle caratteristiche cornici mistilinee
o floreali incantavano le masse di tanta gente
semplice, sensibile e molto più attenta osservatrice della natura che non noi oggi. La chiarezza
e l’immediatezza del segno erano funzionali a
un messaggio immediatamente percepibile e
coinvolgente, l’impatto dell’immagine era di immediata forza evocativa.
Accanto ai motivi religiosi, il vasto repertorio
popolare remondiniano comprendeva motivi
iconografici nordeuropei, quali la raffigurazione
dei pianeti e più genericamente del mondo, dell’alternarsi delle stagioni e dei mesi: soggetti
questi largamente diffusi attraverso gli almanacchi, i lunari, i calendari. Poi, il filone che aveva
(3) E. Silvestrini, “Sacri ritratti e “vere effigi”: temi di interesse antropologico nelle stampe remondiniane”, in M. Infelise, P. Marini (a cura di), I Remondini di Bassano. Stampa e
industria nel Veneto del Settecento (Bassano, 1980) pag. 34.
46 - Quaderni Padani
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
come protagonista l’uomo e la
società e che ci permette di ricostruire, attraverso le carte
povere, preziosi elementi della
cultura del popolo, la sua visione del mondo, le sue credenze,
la sua morale ma anche, le sue
condizioni di vita, i suoi bisogni, i suoi desideri. Il tutto visto sempre secondo degli schemi fissi, precisatisi nei secoli
attraverso titoli costantemente
uguali, dentro i limiti dei quali
l’immaginazione dell’artista,
che era sempre figlio di quel
popolo che intendeva rappresentare, poteva spaziare abbastanza liberamente, giungendo,
talvolta, a lasciare trasparire
una velata ribellione degli oppressi contro le classi superiori.
Questo è l’esempio del Paese di Cuccagna dove
“chi manco lavora più guadagnia” o del Mondo
alla rovescia con il suo ribaltamento dei ruoli
sociali. Frequente anche il motivo degli animali
domestici.
Oltre all’organizzazione del processo industriale e commerciale, i Remondini crearono anche un’importante scuola di formazione dei giovani incisori attivi per la Casa che - al di là del
fatto che mantenessero o meno in seguito rapporti di collaborazione con l’azienda bassanese improntarono sensibilmente l’ambiente calcografico settecentesco giungendo nei maggiori
centri di produzione grafica d’Europa, fattore di
rinnovamento e di confronto.
Benché una complessa serie di fattori storici,
politici ed economici concorsero, più o meno direttamente, al suo declino, la ditta Remondini
chiuderà nel 1861, dopo essersi saputa gettare,
per più di un secolo di lungimirante produzione
e attività, come ponte fra la cultura veneziana e
quella nuova e articolata che si andava configurando in Europa al passaggio del secolo. Di grande interesse è anche l’esito finale dei singolari
rapporti intrattenuti dai Remondini e dai Tesini.
Infatti, tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo si verificarono decisivi mutamenti nelle modalità e nelle fonti di fornitura e nell’organizzazione stessa interna delle compagnie degli ambulanti Tesini, che diradano, progressivamente, i
loro legami con la Casa bassanese, estendendo i
loro rifornimenti a stampe di altri editori e trasformando la loro attività commerciale da ambuAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Boston, chiesa presbiteriana
lante a stanziale divenendo, essi stessi, prima negozianti e poi editori. Si crea così una fitta rete
commerciale - particolarmente forte e coesa, in
quanto fondata su legami di parentela, di patria e
di interesse - interamente gestita dai Tesini, con
stamperie proprie e decine e decine di negozi.
L’emancipazione dai Remondini con gli inizi dell’Ottocento può dirsi compiuta.(4)
Il Mondo Niovo
Quello delle vedute ottiche rappresenta un capitolo assolutamente a sé stante nel quadro delle
stampe d’uso. I Remondini furono, con tutta
probabilità, gli unici stampatori d’Oltralpe a dedicarsi a questo singolare genere di immagini, a
questi nuovi archetipi visivi che aprono modalità
percettive nuove e impensate. Venezia è lo scenario privilegiato dove la cassetta del Mondo Niovo
trova la sua cittadinanza naturale. Le vedute ottiche, variamente manipolate con forature, inserti,
coloriture, per l’impiego spettacolare all’interno
dei Mondi Nuovi aprono la fantasia all’incanto,
allo stupore, alla meraviglia. Il popolo affluisce
nelle piazze al richiamo di girovaghi e ambulanti
che, assieme a ogni sorta di mercanzia, per un
(4) Per un approfondimento, in particolare, C.A. Zotti Minici,
Le stampe popolari dei Remondini (Vicenza: Neri Pozza Editore, 1994); A. Bertarelli, “La Remondiniana di Bassano Veneto”, Emporium, LXVIII, VII, 408, dicembre 1928, pagg.
358 ÷ 369; Infelise M., Marini P. (a cura di), L’editoria del
‘700 e i Remondini (Bassano del Grappa: Atti del Convegno,
Bassano, 1992).
Quaderni Padani - 47
Praga, città vecchia
Nex York, distruzione della statua del re
soldo o due vendevano immagini e viaggi visivi,
mostravano “lontananze e prospettive” sfruttando la trasparenza di alcune parti dipinte che, illuminate anteriormente o posteriormente apparivano diverse al variare delle luci se poste in una
macchina per la visione. A Venezia, nel Settecento, per le piazze e per le vie, la folla variopinta si
apprestava alla visione. Venezia e i suoi commerci aprivano all’immaginario mondi nuovi e - anche se attraverso l’illusione di un apparecchio ottico - un viaggio “indicibilmente bello”, contribuendo a formare gli spazi dell’immaginazione e
della visione collettiva.
48 - Quaderni Padani
La didascalia che il parroco
Questini scrisse per l’incisione di Gaetano Zompini (17001779) tratta da Le Arti Che
Vanno Per Via Nella Città Di
Venezia (1753, tav. 55) e raffigurante lo spettacolo ambulante invita alla visione, “In
sta cassela mostro el Mondo
niovo / Con dentro lontananze, e prospetive; / Vogio un
soldo per testa; e ghe la trovo”; la didascalia che compare
sotto un’incisione di Ambrogio Orio, dedicata a un impresario di Mondo Nuovo e al suo
aiutante che con la ghironda
accompagna lo spettacolo, recita: “Signori, avanti che la
sera è tarda / Vedrete meraviglie affatto strane / Due giganti a cavallo di due rane / E
una mosca che tira di bombarda”, mentre C. Goldoni,
sostituendo la tecnologia alla
magia, “...un’industriosa macchinetta, / Che mostra all’occhio meraviglie tante, / Ed in
virtù degli ottici cristalli / Anche le mosche fa parer cavalli”. Voci che sembrano invitare il popolo ad accorrere, soprattutto in occasione del carnevale, in Piazza S. Marco dove le più conosciute città
d’Europa, d’Asia, d’Africa e
d’America si aprivano a un
viaggio immaginario, in territori che il piccolo foro della
cassetta di legno dipinto apriva a sguardi desiderosi di
spingersi “oltre l’ultima Thule della piazza del
paese o delle mura della propria città”(5). Prospettive di città e avvenimenti, immagini edificanti e diverse “curiosità” sono gli argomenti
privilegiati delle vues d’optique, che assumono
tutte le caratteristiche di un fenomeno industriale di vasta portata. La tecnica seriale di produzione (incisione su lastre di rame) comporta una
(5) C. A. Zotti Minici (a cura di), Il Mondo Nuovo. Le meraviglie della visione dal ‘700 alla nascita del cinema (Milano:
Mazzotta, 1988) pag. 15.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
sguardo, in un concerto di luce
e di suoni. Figure e gesti, mezzi
di trasporto e strumenti di lavoro... Si assiste al rapido snodarsi di una scena universale dove
oltre lo spazio conoscibile non
c’è un mondo popolato da demoni e da grandi paure, in
un’assoluta analogia fra i ritmi
del vicino e del lontano. La società sette-ottocentesca scorre
nello spazio di un’immagine, in
una sorta di epica del quotidiano alla conquista visiva del
mondo per puri scopi educativi.
Nel Settecento, a Venezia, le
Venezia, interno del teatro La Fenice, acquaforte (1780)
Vues d’Optique aprono la topografia dell’immaginazione molarga diffusione e inevitabilmente un’omologa- derna e l’era della riproducibilità tecnica dell’ozione dei soggetti raffigurati che spesso com- pera d’arte e della realtà. Piazza San Marco è il
paiono identici nel repertorio degli stampatori di luogo della visione, il palcoscenico dell’immagiLondra, Parigi, Augsburg e Bassano. Il Mondo ne, di un primordiale “tempo dell’immagine”
Niovo veneziano si configura come una sorta di precursore della modernità. Bassano, Augsburg e
ritorno alle origini anonime, popolari e presette- gli altri centri di produzione ‘dietro le quinte’ ricentesche di un genere - il vedutismo - che rag- spondono alle esigenze del mercato, determinangiunse nel Settecento la sua massima fortuna. done contemporaneamente il gusto, le mode.
Gli incisori attingono liberamente, in molti casi,
Le vedute ottiche rappresenteranno “dal vivo”,
da Canaletto, Bellotto, Longhi, Guardi, Van Wit- quello che la penna invano può descrivere, e le
tel, Carlevarijs, Piranesi, i grandi vedutisti vene- immagini si sedimenteranno nell’immaginario e
ziani, e lo sguardo plana su Venezia, Milano, Bre- nella memoria di un pubblico disperso in molti
scia, Parma, Firenze, Palermo, Londra, Parigi, continenti, raggiunto da tanti piccoli uomini Augsburg, Istanbul, New York, Pechino, Mosca, ambulanti e impresari - che pur senza lasciare
Boston, ... e ne ammira palazzi, piazze e monu- traccia del loro passaggio nel cammino della
menti, che si animano progressivamente sotto lo storia porteranno nelle varie città la ‘visione’.
Dapprima a Venezia, poi i luoAmsterdam, acquaforte (1780)
ghi dello spettacolo diventano
molteplici. Lo spirito con cui si
vogliono osservare luoghi e
monumenti traduce quello delle più famose guide turistiche
settecentesche: si va alla conquista del mondo per puri scopi educativi. E “Nobilissimi signori. È arrivato in questa nobilissima città il suo servo veneziano, il quale ha portato l’edificio di quel Teatro, con il
quale ha dato servitù per undici mesi nella Serenissima do-
( 6) M.A. Prolo, L. Carluccio, Il Museo
Nazionale del Cinema di Torino (Torino: Cassa di Risparmio, 1978) pag. 86.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Quaderni Padani - 49
minante di Venezia...”(6), recita un impresario loca Bassano nel circuito della produzione poponel suo biglietto di presentazione.
lare del tempo, accanto ad altri grandi centri euLa cassetta magica è produttrice e rivelatrice ropei - Londra, Parigi, Augsburg - con i quali si
di un mutamento in atto, le cui caratteristiche e trova a scontrarsi e a confrontarsi. Da sempre
la cui portata non si misurano subito e non si l’intera area padano-alpina si colloca - nel ripercepiscono a un primo contatto. In un breve spetto delle sue comunità e nella comunanza
giro del mondo - in compagnia di bambini, don- delle sorti - come forza identitaria fondamentale
ne e occasionali compagni di viaggio - l’intelli- e propulsiva nel complesso panorama europeo.
genza si apre a quello che è diverso e nuovo, in Venezia e Bassano, nello scenario europeo setteun immaginario viaggio dove la curiosità di co- centesco non sono che un esempio, non lontano
noscere e la capacità di capire fanno planare lo nei tempi, di una vicenda industriale e “spettasguardo attraverso lo spazio della scatola magica colare”, di apertura culturale e imprenditoriale
che si apre a nuove prospettive. Benché già nel alla modernità, in uno scenario di ‘mercato al‘400 dalle zone transalpine erano giunte a Vene- largato’ e di fitti rapporti culturali e commerciazia stampe che suscitarono la produzione xilo- li col mondo. Espressione di una cultura che ha
grafica locale, i Remondini di Bassano contribuiscono a creare, assieme
alle grandi Case calcografiche di Augsburg, Parigi
e Londra, un primo grande circuito produttivo e
commerciale di stampe,
“il primo mercato comune europeo delle immagini”(7).
I pantoscopi - o mondi
nuovi - si sintonizzano
con grande tempismo
con la cultura degli illuministi: per Rousseau e
Voltaire bisogna inventare un tempo capace di
unificare le esperienze
collettive e uno spazio in Le differenti età della vita dell’uomo e della donna, incisione a bulino
cui la luce della ragione (XVII secolo)
trionfi sulle tenebre. E la
piccola cassetta rientra nell’orizzonte di queste dato vita a nuove forme di presentazione delattese e speranze. In una lettera sugli spettacoli l’immagine sul piano ottico, ai suoi primi tentaa d’Alembert, Rousseau esorta a non sostenere tivi di movimento e alla scoperta di un linguaggli spettacoli “esclusivi, che rinchiudono triste- gio visivo nuovo - che tanto avrebbe influito nel
mente un piccolo gruppo di persone in un antro corso del nostro secolo nella formazione della
scuro, che le mantengono nella paura, immobili civiltà e del costume, ponendo le basi per l’espenel silenzio e nell’inazione, che non offrono agli rienza dello spettacolo cinematografico -, il
occhi che immagini affliggenti di servitù e dise- Mondo Niovo veneziano si configura come un
guaglianza”( 8). Gli illuministi chiedono agli momento, storico e scientifico, particolare, che
spettacoli di svolgersi alla luce del sole e di dive- non può non lasciare aperta la riflessione a una
nire strumenti di emancipazione sociale e cultu- sensibilità che apra alle molteplici valenze culrale, nel più ampio progetto di diffusione del sa- turali che disegnano la trama di questa storia.
pere, che deve essere partecipato ai più ampi
strati della popolazione perché diventi premessa
( ) C.A. Zotti Minici (a cura di), Il Mondo Nuovo. Le meravidi una trasformazione reale della società e dello glie della visione dal ‘700 alla nascita del cinema (Milano:
Stato.
Mazzotta, 1988)., pag. 19.
La produzione calcografica remondiniana col- ( ) Ibidem, pag. 27.
7
8
50 - Quaderni Padani
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
La preistoria
del mondo alpino e padano
di Ausilio Priuli
Il popolamento della pianura
e dell’ambiente alpino
Le vicende che hanno condotto l’uomo, nel
corso dei millenni, alla graduale conquista dell’ambiente alpino sono ancora poco conosciute
e solo oggi cominciano ad apparire nei loro
aspetti più remoti.
Durante l’ultima glaciazione grandi lingue di
ghiaccio ricoprivano tutto l’arco alpino, sfociando nella pianura, ma dal XV millennio a.C.
fino all’XI millennio si è verificata una lenta ma
continua regressione delle stesse, fino a lasciare quasi completamente liberi i grandi solchi
vallivi.
Il ritiro dei ghiacciai e l’instaurarsi della fase
climatica preboreale, che ebbe inizio attorno
all’8.300 a.C. e fu caratterizzata da temperature
in progressivo aumento con aspetti miti e secchi, contribuirono a contenere la diffusione di
boschi di conifere entro limiti altimetrici modesti ed a lasciare vasti spazi, nelle alte e medie
pendici montane, caratterizzate da steppe che
furono ambiente ideale per il pascolo di erbivori, costituendo così favorevoli condizioni di vita
per gli ultimi gruppi umani del Paleolitico superiore.
I fondi vallivi e le pendici montane, contemporaneamente, andavano subendo un vistoso
rimodellamento con imponenti fenomeni erosivi e grandi smottamenti di detriti di falda, dal
momento che era venuta meno la pressione
delle masse glaciali contro i fianchi delle montagne, mentre anche il fondo delle valli fu interessato da imponenti apporti sedimentari fluvio-lacustri, fautori di continue modificazioni
morfologiche.
In queste fasi di iniziale penetrazione umana
nelle zone alpine, da parte dei gruppi nomadi di
cacciatori-raccoglitori delle pianure, i territori
più idonei non furono quindi le direttrici delle
grandi valli ma le fasce altimetriche delle praterie alpine.
Queste erano confinate verso il basso dai liAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
miti di diffusione dei boschi di betulle, salici e
pini che, partendo dalle quote dell’antica lingua
glaciale, tendevano a diffondersi più in alto.
I limiti superiori della prateria steppica terminavano contro le rocce denudate e scarsamente inerbate.
Seguendo la fascia altimetrica delle antiche
praterie alpine è stato possibile ritrovare numerose tracce del cammino dei cacciatori paleomesolitici, in corrispondenza di passi obbligati,
in prossimità di sorgenti e laghetti, punti di sosta, bivacchi e accampamenti.
I cacciatori mesolitici, discendenti diretti dai
gruppi paleolitici, tra l’8.300 e il 6.800 circa,
dai consueti itinerari montani scesero gradualmente verso le basse pendici ed i fondi vallivi
quando l’ambiente conquistò un assetto di relativa stabilità, favorita dal progressivo miglioramento delle condizioni climatiche. Essi eressero le loro sedi stagionali a ridosso dei versanti
rocciosi, in ripari, sulle conoidi detritiche, in
prossimità degli sbocchi vallivi, lungo le sponde dei laghi e delle paludi di cui appresero gradualmente a sfruttare le risorse economiche di
pesca e raccolta di molluschi, preziosi integratori della tradizionale attività venatoria.
I cacciatori-raccoglitori del Mesolitico
Durante l’ultimo periodo della glaciazione di
Würm i clan di cacciatori delle steppe e delle
tundre che ricoprivano vaste regioni d’Europa,
trovavano possibilità di caccia nei grandi branchi di erbivori quali renne, alci, bisonti e cavalli, che costituirono la base di una economia
fortemente specializzata.
Ciò permise loro di garantirsi un approvvigionamento sicuro e continuo che contribuì in
modo determinante alla creazione di accampamenti stagionali che raggruppavano una popolazione relativamente numerosa, la cui eccedenza economica lasciava spazio allo sviluppo
di attività magico-religiose ad opera sicuramente di individui specializzati.
Quaderni Padani - 51
Da tale situazione hanno preso origine le
spettacolari manifestazioni artistico-religiose
del Paleolitico superiore e del Mesolitico.
Al termine della glaciazione le foreste, come
si è detto, presero gradualmente il posto delle
praterie e le grandi mandrie di erbivori vennero
sospinte più a nord con il conseguente decadimento delle grandi cacce comunitarie, il disgregarsi forzato delle grandi comunità di cacciatori e di tutto il modo di vita paleolitico; le
grandi mandrie vennero sostituite da branchi
più ridotti di animali adatti alla macchia e alla
foresta, quali il cervo, capriolo, bue selvatico e
cinghiale.
Di conseguenza le comunità umane si frazionarono in piccoli gruppi mobili e dispersi che
meglio si adattavano alle nuove esigenze ambientali che, con equipaggiamento semplice e
sviluppando nuove tecniche e nuovi strumenti
di caccia erano in grado di sfruttare anche le risorse costituite dalla selvaggine più minuta, a
volte con l’aiuto del cane, la cui comparsa e domesticazione sembra aver avuto inizio proprio
in questo periodo.
La caccia era inoltre integrata da una maggiore attenzione verso tutti i tipi di risorse del
territorio, dalla raccolta dei prodotti del bosco
all’uccellagione, dalla pesca alla raccolta dei
molluschi.
Tali processi di trasformazioni generali si riflettono nel nostro territorio dove le prime comunità mesolitiche vivevano in condizioni ambientali inizialmente a carattere preboreale,
con temperature in progressivo aumento e con
una tendenza all’inforestazione delle pendici
montane, con associazione di pino silvestre,
cembro e ontano.
Questa più antica fase del popolamento si
protrasse fino a circa il 5.500 a.C., quindi nella
fase climatica Boreale calda e umida successiva,
che produsse una sensibile espansione delle associazioni forestali in quota a spese delle praterie alpine; i più alti boschi di pini si evolsero alle quote inferiori verso associazioni di pino,
nocciolo e di querceto.
Le attività economiche di questi ultimi gruppi mesolitici erano basate sulla caccia a grossi
mammiferi: stambecchi, camosci, cervi, caprioli; la grossa caccia era però affiancata in misura
rilevante da una caccia minore nella quale si
annoverano roditori, marmotte e altri piccoli
mammiferi.
Una forte importanza economica rivestivano
la pesca, l’uccellagione, la raccolta di tartaru52 - Quaderni Padani
ghe e di molluschi di acqua dolce; attività che
si dovevano svolgere essenzialmente nei laghi e
negli acquitrini dei fondi valle.
Le aree montane furono oggetto di puntate
estive da parte di appartenenti ai gruppi più numerosi organizzati per grosse battute di caccia.
Durante il periodo climatico Atlantico che va
dal 5.500 al 2.300 a.C. e abbraccia quindi tutto
il successivo ciclo culturale neolitico, si realizza la massima diffusione dell’ambiente forestale
verso le alte quote, dove durante i primi momenti prosperarono associazioni boschive.
Tale diffusione delle foreste operò un’ulteriore drastica riduzione delle praterie alpine verso
le quote più alte, accompagnata quindi da condizioni di vita sempre meno favorevoli per i
branchi di erbivori.
Le origini dell’agricoltura e dell’allevamento
Quando nella regione alpina era in pieno sviluppo il mondo mesolitico, in vasti territori
dell’Asia Minore stava prendendo corpo un
nuovo modo di vita che da questi centri gradualmente si diffonderà in tutta Europa.
I processi che accompagnano tale trasformazione vanno sotto il nome di “rivoluzione neolitica”; questa definizione non è per nulla esagerata se si pensa ai radicali mutamenti prodotti nella società umana, nell’economia, nel mondo spirituale, nei rapporti tra l’uomo e l’ambiente.
Il termine “neolitico” fu introdotto attorno
alla metà dello scorso secolo per indicare l’”età
della pietra levigata” ma il termine sta a indicare società umane presso le quali esistono l’allevamento, l’agricoltura, uso di recipienti in terracotta e strumenti ottenuti levigando la pietra.
I gruppi mesolitici erano organizzati in piccole comunità, sottoposte a spostamenti stagionali e a frequenti trasferimenti.
L’affermazione di comunità sedentarie ed il
loro accrescimento poté avvenire inizialmente
solo in regioni che offrivano risorse permanenti, continuamente rigenerabili attraverso lo sviluppo di tecniche appropriate. È in definite aree
del vicino oriente, dove si reperivano allo stato
selvatico cereali, quali grano e orzo, e le più
diffuse specie di erbivori domesticabili, che si
realizzarono condizioni biologiche necessarie
per l’instaurarsi di un rapporto nuovo tra l’uomo e l’ambiente naturale.
Dallo sfruttamento intensivo delle mandrie di
erbivori e dalla contemporanea necessità di non
sterminarle doveva sorgere l’allevamento, menAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
tre dalla raccolta sistematica delle graminacee
prendeva origine una protoagricoltura.
Nelle prime fasi del Neolitico i limiti fra la
caccia e l’allevamento risultarono piuttosto sfumati; mentre l’allevamento propriamente detto
doveva effettuarsi all’inizio allo stato brado, con
la conseguente interfecondazione tra animali
domestici con quelli selvatici della stessa specie, che dovettero essere condotti in cattività ed
addomesticati.
La scoperta di metodi di controllo e di accrescimento delle risorse economiche attraverso
l’allevamento e l’agricoltura ha profondamente
trasformato il divenire delle società umane permettendone la sedentarizzazione.
Agli strumenti di tradizione mesolitica se ne
aggiunsero di nuovi, ottenuti levigando la pietra, lavorando l’osso, il corno ed il legno.
La tecnica dell’intreccio per ottenere stuoie e
canestri, già nota nel Mesolitico, acquistò un
nuovo impulso con la cerealicoltura, mentre filatura e tessitura iniziano a prendere piede soprattutto come conseguenza della domesticazione dei caproovini e della coltura del lino.
Cominciò a diffondersi l’uso di recipienti di
terracotta; già in quei suoi più antichi aspetti la
ceramica presenta una grande varietà di tecniche decorative e di aspetti formali.
Tale corrente culturale va sotto il nome di
“ceramica impressa” per le caratteristiche decorazioni presenti sulle sue forme vascolari.
In ambiente alpino e padano dai centri originari le nuove tecniche produttive che accompagnarono il Neolitico si diffusero principalmente, nel corso del VI e V millennio a.C., in Grecia,
nei Balcani, lungo la direttrice del Danubio e
dei suoi principali affluenti raggiungendo l’Europa centrale fino alle regioni periferiche nordalpine dove dettero luogo al grande complesso
culturale della “ceramica a bande lineari”.
A quella direttrice di diffusione continentale
se ne affiancò un’altra a carattere marittimo
che iniziò già nel VII secolo a.C. e nel corso del
sesto e quinto secolo investì gradualmente tutte le coste del Mediterraneo centrale ed occidentale, tendendo a irradiarsi nelle regioni più
interne attraverso processi di acculturazione
delle locali popolazioni mesolitiche.
I vari gruppi culturali che caratterizzarono il
primo Neolitico dei territori alpini risultavano
fortemente affini tra di loro nelle industrie litiche, che presentavano maggiori o minori rapporti con quelle del locale Mesolitico e reciproca autonomia nelle ceramiche.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Queste reciproche affinità nelle industrie litiche, gli elementi di importazione e di imitazione a livello ceramico e certe affinità generali riconoscibili in vari aspetti dei resti culturali,
permettono di affermare, come oculatamente
sostiene B. Bagolini (-), che vi siano stati fenomeni di acculturazione dei locali substrati tradizionali già sufficientemente maturi sotto il
profilo socioeconomico per ricevere il messaggio neolitico: messaggio che si è realizzato attraverso influssi multipolari ma anche con possibili lievi sfumature cronologiche.
Gli influssi giunti agli ambienti alpini non
sono comunque stati tali da riprodurre “standards” culturali nettamente riconducibili come
derivati dall’uno o dall’altro polo, ma hanno solo contribuito a catalizzare il processo neolitizzatore dei substrati tradizionali che finivano
con elaborare e formulare in maniera autonoma la nuova condizione neolitica.
In tutta l’area alpina, il passaggio al Neolitico
è datato circa verso la seconda metà del V millennio a.C.; le prime comunità neolitiche delle
nostre regioni alpine sono ancora caratterizzate
dalle attività di caccia e di raccolta, con qualche
accenna di agricoltura e allevamento.
Certo è che in questa prima fase di neolitizzazione delle comunità umane sia la raccolta che
la caccia non avvennero più in modo puramente predatorio, ma in modo organizzato e pianificato, tale da ridurre il più possibile l’impoverimento delle risorse ambientali, operando una
selezione intelligente e conservativa.
Presso questi gruppi che vissero nel pieno
dell’optimum climatico atlantico, risulta prevalente la caccia ai cervi, caprioli, cinghiali; era
modesta quella ai camosci; occasionale la caccia ai lupi e all’uro.
La sedentarietà della gente neolitica può aver
portato ad un più intenso sfruttamento delle risorse primarie con inizio di integrazione della
caccia con specie domestiche ed una accentuazione della componente vegetale nell’alimentazione, favorita forse dalla graduale comparsa di
modeste coltivazioni di cereali.
Per quanto concerne i rapporti intercorrenti
fra i vari gruppi del primo Neolitico e le comunità esterne, resta valido quanto detto per il
Mesolitico; la modesta incidenza del possesso di
animali domestici e di probabili piccole coltivazioni cerealicole non dovette comunque essere
tale da creare gravi problemi territoriali e patrimoniali.
Nell’ambito delle comunità, oltre alla consueQuaderni Padani - 53
ta divisione del lavoro sulla base del sesso e dell’età, non sembra ipotizzabile ancora alcuna
specializzazione nelle attività e soprattutto in
quella artigianale.
Ciascun nucleo familiare poteva produrre autonomamente il fabbisogno del cibo, il vasellame, gli indumenti e gli strumenti per il lavoro
e la caccia.
Il pieno e ultimo Neolitico
All’alba del IV millennio a.C. l’ambiente neolitico dell’Italia settentrionale subisce una radicale trasformazione che portò ad una vasta unificazione culturale di tutto il territorio alpino.
Una nuova cultura definita dei “vasi a bocca
quadrata”, per la caratteristica foggia dei recipienti, soppiantò i molteplici gruppi che l’avevano preceduta e che avevano caratterizzato il
sorgere del Neolitico in questi territori. Sembra
che tutto il precedente ciclo culturale, che aveva preso l’avvio dalla base mesolitica e che attraverso una serie di graduali trasformazioni
aveva portato alla formazione delle prime entità
neolitiche locali, sia stato spazzato via. L’affermarsi di questa nuova cultura, accompagnata
da un bagaglio di tradizioni e di tecnologia totalmente nuovo, non sia avvenuto attraverso
processi di acculturazione, ma tramite la colonizzazione forse non molto pacifica operata da
nuovi gruppi umani. Nei secoli a cavallo tra il
IV e III millennio a.C. profondi sommovimenti
causano una radicale trasformazione del quadro culturale delle aree alpine che segna l’inizio dell’ultima parte del ciclo neolitico.
La vasta unificazione del territorio operata
dalle genti della cultura dei vasi a bocca quadrata si sfalda sotto la spinta di nuovi gruppi.
Le origini dell’età dei metalli
Negli ultimi scorci del Neolitico, alla fine del
IV e agli inizi del III millennio a.C., la comparsa
del metallo non pare sostanzialmente modificare il quadro tradizionale e solo molto lentamente incide sulle strutture sociali tardoneolitiche a livello tecnologico e produttivo.
Col procedere del suo sviluppo, l’artigianato
metallico indusse oggettivamente una base di
mercato nei processi economici di reciprocità,
ridistribuzione e scambio delle società neolitiche. All’interno di queste comunità lo stimolo
dell’artigianato metallico si risolse in una crescente richiesta di beni, inizialmente di prestigio, in seguito gradualmente di necessità e di
scambio mercantile.
54 - Quaderni Padani
È dal vicino Oriente, dove più antica è la civiltà, che la conoscenza del rame si espanse
verso occidente in tempi sempre più recenti
man mano che ci si allontanava dai centri primari.
La metallurgia neolitica produsse utensili ed
armi in rame, spesso sostituendo quelle in pietra; la ceramica si perfezionò producendo vasellame ricco di decorazioni.
Nelle attività economiche alpine dell’età del
Rame, è testimoniato per la prima volta l’uso
del carro e dell’aratro indicativo di un’agricoltura che evolve verso forme più intensive di
colture ed accentuazione delle attività pastorali
e di allevamento; già nell’età del Rame si riscontrarono nuove tendenze a forme produttive
specializzate. Con la creazione di villaggi relativamente autosufficienti e spesso fortificati, il
cui sostentamento proveniva da un’agricoltura
già diversificata, dall’allevamento più o meno
brado di mammiferi domestici e da un equilibrato sfruttamento delle risorse territoriali di
caccia, pesca e raccolta, si instaurò un paesaggio umano più stabile che perdurò a lungo.
Durante l’età del Rame la divisione del lavoro
tese a realizzarsi principalmente verso l’esterno, tra comunità e comunità, creando tensioni
nella ridistribuzione su vasta scala di beni e
ostacoli concreti allo sviluppo o alla differenziazione delle forze produttive.
Con l’affermarsi dell’età del Bronzo, attorno
al XIX-XVIII secolo a.C., si concretizzò un’ulteriore tappa delle comunità alpine.
Con l’età del Bronzo la divisione del lavoro e
le conseguenti articolazioni e stratificazioni sociali tesero ad investire le singole collettività
riequilibrando le tensioni, ma con la perdita di
omogeneità e di coesione interna.
La componente unificante delle varie collettività dell’arco alpino era data dalla produzione
metallurgica, che presentò caratteri e stereotipi
assai uniformi in vaste aree geografiche.
I secoli dal XVI al XIII sono stati nell’area alpina un periodo di continua crescita economica
e culturale; la metallurgia si è andata diffondendo sempre più capillarmente, raggiungendo
un livello di alta specializzazione con una grande varietà di asce, scalpelli, seghe, falci, rasoi e
spilloni; sempre in metallo si diffondono punte
di freccia, alette, cuspidi di lancia e le spade.
Il Bronzo delle aree alpine vide l’evolversi
delle attività agricole attraverso l’introduzione
e l’incremento di nuove tecniche; ne fanno fede
l’uso sempre più diffuso e intenso del cavallo da
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
tiro, dell’aratro, del carro a quattro ruote.
Durante l’età del Bronzo si fecero più frequenti insediamenti vasti e di lunga durata nel
tempo, che riflettevano una continuità di vita
ed una maggiore sedentarietà, manifestando
una situazione socialmente ed economicamente più evoluta.
È però difficile dire quanto la singola comunità di villaggio, essenzialmente contadina, sia
stata integrata e vincolata organicamente in
entità tribali comprendenti più centri abitativi
in una compagine territorialmente più vasta.
L’ampliamento ed il potenziamento dei flussi
mercantili tra il XIII ed il XII secolo a.C. che
accompagnò l’incremento quantitativo ed il
progresso qualitativo della produzione metallurgica, si riflette nella maggiore ampiezza delle aree di diffusione di vari tipi di utensili, ornamenti ed armi.
Accanto agli oggetti estremamente cosmopoliti, quali particolari fogge di spade, pugnali,
asce, fibule e spilloni, si ebbero molti altri tipi
metallici a carattere più regionale legati a singole culture.
Evidentemente l’ampia circolazione mercantile, limitatamente alla sfera metallurgica, dovrebbe aver stimolato meccanismi concorrenziali, di imitazione stilistica e di adeguamento
tecnologico, tra le varie produzioni interne regionali e le importazioni commerciali.
L’entità del flusso di metallo si riflette nella
fitta rete di rinvenimenti di ripostigli che attestano la formazione di riserva di ricchezza
maggiore, tra il XIII e XII secolo, con caratteri
differenti da quanto riscontrato nei momenti
precedenti.
Le riserve economiche e la tesaurizzazione
della ricchezza in tale fase storica potevano solo
esprimersi non nell’immagazzinamento a lunga
scadenza di derrate alimentari, ma soprattutto
nell’incremento del patrimonio di greggi, armenti, di riserve di metallo per il fabbisogno interno e per alimentare i traffici. Tali fatti finirono gradualmente col modificare ulteriormente
ed in maniera sostanziale la struttura interna
delle comunità; è assai probabile pensare che i
piccoli aggregati contadini impegnassero le
proprie eccedenze produttive e le proprie riserve economiche nell’acquisto di utensili, ornamenti ed armi in bronzo. Pur venendo largamente utilizzato il metallo, perdura la produzione di oggetti ed armi in pietra e in osso, probabilmente ad uso delle classi povere che non
potevano permettersi il prezioso bronzo.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
La grande diffusione del commercio a vastissimo raggio, pienamente fiorente nel XIII secolo, già appare declinare nel corso del XII.
Accanto alla lavorazione del metallo si incrementarono ulteriormente l’agricoltura, l’allevamento e le altre attività artigianali, quali per
esempio la tessitura.
Il culto dei morti era assai vivo; mentre nei
periodi precedenti i morti venivano sepolti in
posizione rannicchiata, verso la fine dell’età del
Bronzo ebbe inizio il rito della incinerazione.
Tale immagine degli avvenimenti dell’età del
Bronzo va comunque rettificata sulla scorta di
una maggiore attenzione verso i singoli processi culturali delle varie regioni alpine alla luce
dei tempi sempre lunghi della loro evoluzione.
L’utilizzazione del ferro è nota fin dal III millennio a.C. nel vicino Oriente; attorno agli inizi
del II millennio si conoscono processi di raffinamento del metallo che veniva considerato
estremamente prezioso, durante tutta la prima
metà di tale millennio oggetti in ferro facevano
parte di ricchi corredi e tesori.
A partire dal XIII secolo, nel vicino Oriente, il
ferro diventò sempre più comune ed iniziò ad
affiancarsi al bronzo prima nel campo delle armi e poi in quello degli utensili; nel XII secolo
inizia il suo uso negli strumenti agricoli e
scompare dalla gioielleria.
È però solo con il IX secolo che il suo uso si
diffonde giungendo così all’Italia settentrionale.
L’introduzione massiccia dell’uso del ferro
negli ambienti alpini causò profonde trasformazioni di carattere sociale, economico e politico,
in quanto il rame era reperibile in pochissimi
giacimenti, mentre il ferro era diffuso in quasi
tutte le Alpi e facilmente estraibile.
La civiltà di Este, la civiltà di La Tène
e la civiltà retica
Particolare interesse per la conoscenza dell’evoluzione culturale del mondo alpino nel I millennio a.C. sono i processi civilizzatori che investono le regioni, dove agli albori del millennio prende corpo la civiltà di Este.
Durante lo sviluppo di questa nuova civiltà, la
modestia degli abitati fa contrasto con la ricchezza delle necropoli e dei luoghi di culto; le
capanne erano raggruppate in villaggi spesso
costruiti su un terreno bonificato.
Ami, pesi da telaio, rocchetti, fusaiole e pettini in corno attestano le attività di pesca e di
tessitura di lana; complessivamente per le genti
Quaderni Padani - 55
si ricavava l’immagine di un’economia agro-pastorale articolata con varie attività artigianali
molto sviluppate, mentre assai attivo doveva essere il commercio del metallo per alimentare il
fiorente artigianato di questo settore.
Il quadro complessivo che emerge dalle recenti ricerche di questa civiltà porta ad ipotizzare una società divisa in classi:
- il capo o sacerdote, la loro presenza è plausibile a causa della frequenza e dell’importanza
dei luoghi di culto;
- i cavalieri, difendevano il territorio da incursioni nemiche;
- gli artigiani, a cui competeva la molteplice
produzione dei beni di uso estranei alle attività
produttive domestiche;
- i servi, addetti ai lavori meno differenziati e
più pesanti.
La condizione della donna era evidentemente
diversa a seconda delle classi di appartenenza,
anche se qualche tratto del prestigio che essa
aveva nelle precedenti società agricole matrilineari doveva pur essere rimasto.
Le società alpine durante lo sviluppo della
cultura di Este, eminentemente agricole, sono
articolate in classi sociali nelle quali l’artigiano
ed il commerciante giocavano un ruolo di forte
rilievo; il commercio aveva ampio spazio per la
necessità di notevoli importazioni di rame e
stagno per soddisfare le esigenze del fiorente
artigianato del metallo, lo stesso si può dire per
l’oro, l’ambra e il corallo.
Nell’economia agricola è documentata la presenza del grano, ma la produzione di cereali
non pare superasse lo stretto fabbisogno locale,
per via della situazione delle valli alpine che offrivano condizioni indubbiamente più favorevoli alle attività di pastorizia e allevamento; nelle
attività artigianali domestiche, la notevole presenza di corna di cervo attesta come anche in
momenti avanzati della seconda età del Ferro
fosse diffusa la lavorazione di questa materia
prima.
Nell’ambito del mondo celtico, la cultura di
La Tène, attorno agli albori del IV secolo a.C.
iniziò la sua penetrazione nelle regioni alpine.
A nord delle Alpi la pressione celtica pone
bruscamente termine agli ultimi centri di cultura alpina fino ad allora in vigore; gli insediamenti fortificati sono distrutti ed abbandonati,
scompaiono le ricche tombe familiari, le inumazioni sono quasi dovunque semplici fosse;
56 - Quaderni Padani
nel II secolo a.C. sorsero vere città fortificate, si
coniarono monete di prototipi greci e si intensificarono vivaci scambi commerciali.
In tutto l’areale della cultura di La Tène sono
riconoscibili aspetti della religione in recinti
quadrati con terrapieni e fossati nei quali era
edificato, con strutture lignee, un piccolo tempio dove erano scavati profondi pozzi sacri; i
Celti erano accompagnati da necropoli ad inumazione piccola e i corredi sono caratterizzati
da oggetti di cultura di La Tène.
Durante il IV e il III i caratteri di questa cultura tendono a fondersi con influssi etruschi,
divenendo sempre più fortemente permeata da
questa nuova cultura; fin quando venne bruscamente annientata dalla conquista romana.
Alla fine del IV secolo a.C. prende corpo l’ultimo momento propriamente definito “retico”
della cultura alpina; in questo periodo, all’originale impronta culturale ed etnica locale fa riscontro una vasta gamma di oggetti che possono essere riferiti ad una produzione di diverse
officine artigianali.
Le invasioni celtiche che, tra la fine del V e
l’inizio del IV secolo a.C., portarono vasti sommovimenti e profonde trasformazioni nell’assetto culturale del centro Italia, ma ciò non avvenne nel bacino alpino, che restò sostanzialmente estraneo a questi fenomeni.
La fisionomia degli abitati restò di tipo alpino, legata ad una economia e a tradizioni montane che hanno puntuali riferimenti con la sfera culturale alpina; le caratteristiche strutturali
di questi abitati riflettono comuni esigenze dettate da precise condizioni di ambiente e di
rifornimento del materiale da costruzione, si
evidenzia la peculiarità di un mondo alpino legato ad una economia boschiva e agropastorale,
che risultò marcatamente autonomo rispetto ai
diversi tipi di culture che si sono succedute.
Non pare comunque che i dati archeologici
attualmente in nostro possesso siano tali da
convalidare la tesi di duri scontri e ampie resistenze delle popolazioni alpine che si opponevano alla colonizzazione dei nuovi incursori;
anche se avveniva una sorta di acculturazione
di queste popolazioni verso le nuove culture.
Con l’avvento dei Romani, verso il I secolo
a.C., l’incursione fu molto più radicale delle
precedenti, con il risultato che la cultura alpina
ne risentì fortemente trasformandosi ed evolvendosi quasi radicalmente; è solo con l’età romana che iniziarono ad affermarsi tecniche
economiche più propriamente moderne.
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Mayno della Spinetta,
brigante alessandrino,
imperatore della Fraschea
di Mariella Pintus
D
opo la vittoria di Marengo, Napoleone aveva rità e sono visibili negli archivi del Comune di
cercato di far dimenticare alle popolazioni Alessandria (busta dei processi criminali) e negli
di Piemonte e Liguria, con feste popolari e archivi nazionali di Parigi.
alberi della libertà, i saccheggi, i vandalismi e le
Grande fu lo scalpore in tutta la Regione,
vessazioni. Le illusioni, però, svanirono ben pre- quando gli uomini della sua banda, osarono atsto e, nelle campagne e nelle città, circolava l’a- taccare la carrozza del Vescovo depredandolo di
maro detto:” Liberté, egalité, fraternité, i Fransèis in caròsa, i Lisandren Un frate e un brigante in un’incisione ottocentesca
a pé”. I soprusi erano diventati intollerabili, ma soprattutto era intollerabile la leva obbligatoria che spesso
spingeva alla macchia.
Anche Giuseppe Mayno, come tanti
altri, aveva optato per il brigantaggio, per sfuggire a tale imposizione.
Egli fu il Brigante gentiluomo, dell’età napoleonica, che come un novello Robin Hood, depredava i ricchi
e i Francesi, per aiutare generosamente i poveri, amministrando una
sua, particolare giustizia che fece di
lui, l’eroe più popolare dell’Alessandrino.
Mayno nacque a Spinetta, intorno
al 1784 e non ancora ventenne, sposò
una compaesana, Maria Cristina Ferraris, dalla quale ebbe due figlie. Pare
che il giorno delle nozze coincidesse
con l’inizio della sua vita di brigante,
quando uccise un soldato francese
reo d’aver offeso la sua giovane sposa, di appena sedici anni. Fuggito con
alcuni compagni, nel 1803, era già ricercato dalla polizia francese.
Ben presto “Mayn” entrò nella storia, a tal punto che, anche le gesta
più clamorose, quelle che leggende e
mito hanno ingigantito, trovano conferma nelle relazioni della gendarmeria, nei documenti stilati dalle autoAnno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
Quaderni Padani - 57
tutti i suoi averi, compresa una tabacchiera d’oro e una grossa e preziosissima croce da collo, tempestata di brillanti.
Alcuni giorni dopo, il Brigante
stesso, sotto le mentite spoglie del
medico Paletta da Milano, si recava
alla Curia, facendosi ammettere alla presenza del Prelato. Fu facile
per Mayno, che non era un contadino rozzo e ignorante ma che possedeva una certa cultura che gli
derivava da alcuni anni passati in
seminario, rendersi gradevole e
imbastire la storia di un incontro
fortuito col bandito. Egli restituì la
tabacchiera e porse al Vescovo un
cofanetto, trafugato non si sa come, con un messaggio del Papa
che lo nominava Cardinale. Sul
suo petto, risaltava uno splendido
gioiello.
Il neo-Cardinale sussultò: “La
mia croce vescovile! Me l’hanno
tolta i banditi a Frassinello”. Un
brivido lo percorse mentre ripensava allo sgradito incontro. Si agitò
sul divano, ricordando con raccapriccio un’altra vittima che Mayno
aveva fatto giustiziare e poi appendere ad un albero con un cartello
al collo: “Questa è la fine che a tutti i tiranni, serba la Compagnia di
La diligenza Torino-Lione in un’incisione di W. Brockedon
San Giovanni”.
Il finto medico disse che la croce
gli era stata regalata, dal bandito, come ringra- in scacco i Francesi con gesta beffarde indossanziamento per aver curato la sua giovanissima do più volte la divisa dei gendarmi che talvolta
moglie ma che era disposto a restituirla. Il Pre- serviva a camuffare l’intera banda, come nel calato, magnanimo, non volle accettarla; ne ri- so del rapimento del ministro della Liguria, Satornò comunque, in possesso, il giorno seguen- liceti, per il quale venne chiesto un riscatto di
te, quando il vero dottor Paletta gliela riconse- duemila franchi. Persino il Papa, Pio VII, fu aggnò, con suo grande stupore. “Il capo dei bri- gredito, mentre si recava a Parigi per l’incoronaganti rinuncia alla croce che gli avevate conces- zione di Napoleone.
so di tenere, purché destiniate una somma in
Sul fenomeno del brigantaggio in periodo nadenaro, alle opere pie, che più riterrete opportu- poleonico sorse una specie di censura che ancone”. Il Cardinale annuì e silenziosamente, si ri- ra continua da parte degli studiosi, e la stessa
mise al collo la catena...con un vago sorriso. monarchia sabauda si guardò bene dal difendere
Mayno, la sua banda, i suoi fratelli detti “Chefs il fenomeno stesso, liquidandolo come delinde voleurs”, vissero di scorrerie e imprese come quenziale poiché era troppo scomodo annoveraquella appena narrata; essi agirono dapprima re dei banditi, tra i propri fautori. Erano comunsulle montagne ai confini con la Liguria, e in se- que la guerra e la fame a creare i briganti, tratguito nella pianura, verso la Lomellina e il Ver- tandosi, quasi sempre, di contadini, braccianti e
cellese.
giornalieri, in preda alla crisi economica.
Abile ma soprattutto temerario, Mayno tenne
Possiamo ricordare quanto gravi fossero le
58 - Quaderni Padani
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
condizioni di vita, tra inflazione, carestie e malgoverno, sul finire delle Settecento.
Il Brigante-contadino invece di schierarsi con
la nuova Repubblica, preferì darsi alla macchia.
La regione dove agì Mayno, la Fraschetta o Fraschea, fu tradizionalmente favorevole alla formazione di bande, essendo le sue popolazioni
assai fiere e riottose, in lotta da tempo col potere centrale, quale ne fosse il colore.
Il 12 Aprile del 1806, Mayno della Spinetta
venne catturato e ucciso in seguito alla delazione di una spia. Ad Alessandria esultarono: era
stato ucciso il più feroce brigante del Piemonte,
quello che, con orgoglio, si faceva chiamare: “Re
di Marengo e Imperatore delle Alpi”. I Francesi
non esitarono a esporre il corpo sfigurato dell’ucciso nella piazza d’Armi; molti non lo riconobbero ma da quel momento, la sua figura divenne ancor più leggendaria: lo stesso Brofferio,
lo considerò un guerriero anti-francese, al servizio degli umili.
Ancor oggi, il brigante-gentiluomo è ricordato
in tutto il Piemonte e per tutti rimane l’eroe che
“con una palla di metallo, ammazzò quattro
sbirri e un cavallo”. Nel Vercellese, nella campagna tra Balzola e Rive, anche se molto trasformato, è ancora rintracciabile il “Casòt di sasin”,
la casa degli assassini, uno dei rifugi di Mayno
della Spinetta.
Qualcuno possiede ancora il suo fucile, il leggendario “spaciafoss”; pare si tratti di un discendente del proprietario della cascina Stortigliona
che più volte ospitò Mayno, quando era ricerca-
Anno lV, N. 18 - Luglio-Agosto 1998
to dalla polizia. Per riconoscenza il bandito gli
regalò l’arma. La sua figura rimane comunque
controversa: c’è chi lo accosta ai briganti calabresi, chi al bandito Giuliano, ma nel cuore dei
Piemontesi resta la sua immagine di patriota
che lotta per l’indipendenza della sua terra.
Rimangono, in tutta la Regione Pedemontana,
numerosi toponimi che designano i luoghi frequentati dalle varie bande cosiddette realiste:
Maltratto o Maltrait, Bandito, Malvicino, Malpasso sono quelli più frequenti, ma non mancano i “Passi” o “Bricchi” del brigante.
Come abbiamo visto, la storia di Mayno della
Spinetta ha alimentato, per lungo tempo, la letteratura popolare e molti autori ne hanno descritto la vita, con opinioni diverse.
Le vicende dei “Banditi della Fraschetta” sono
comparse anche sulle scene teatrali:
Mayno della Spinetta di L. Forti - Milano
1843;
Mayno capo dei Briganti - Commedia musicale - Teatro Erba - Torino 1972;
Mantello, stivali e coltello di Gozzi e Orengointerpretata da Gipo Farassino, per la regia di
Massimo Scaglione-Torino, 1975.
Nei mesi prossimi verrà presentata una rievocazione particolare, in occasione dell’anniversario della morte di Mayno, avvenuta il 12 Aprile
1806: in un piccolo teatro della città di Torino,
efficaci attori e cantanti si alterneranno, con
musiche e testi inediti, a un relatore che presenterà alcuni episodi tra i più significativi della vita di “Mayn”, onorato brigante piemontese.
Quaderni Padani - 59
Biblioteca
Padana
L.A. Silcan, I primi abitanti
alpini. Insediamenti occidentali dal paleolitico ai Salassi
Keltia Editrice: Aosta, 1997
141 pagine. 25.000 lire
La storia dei primi insediamenti umani in
Padania e quella delle
vicissitudini delle popolazioni originarie
cominciano a delinearsi con una certa chiarezza sulla base di studi e ritrovamenti di
cui la nostra rivista ha
diffusamente parlato.
Sempre sui Quaderni
Padani sono apparsi
nel passato (ad opera
di Flavio Grisolia e di
altri autori) le prime
descrizioni storiografiche organiche. Uguale
chiarezza non può essere infatti solitamente ritrovata nelle varie
pubblicazioni finora
uscite sull’Italia preromana che sono quasi
sempre condizionate da romanocentrismo e da eccessiva attenzione per ogni manifestazione culturale mediterranea e
Franco Monteverde, Sovranità
e autonomie mediterranee Genova e la Liguria
Firenze: Vallecchi Editore,
1997
Pagg. 268, L. 27000
La Padania, come molti hanno
già avuto modo di notare, è
uno splendido mosaico di popoli diversi determinati a re60 - Quaderni Padani
pelasgica. Questo agile libro di
Silcan viene finalmente a riportare giustizia e ordine in
questo specifico settore proponendo una narrazione accurata
e coerente di tutti gli avvenimenti che hanno interessato la
Padania occidentale fino alla
prima invasione romana.
Dopo le glaciazioni gran parte
della nostra terra è stata popolata da popoli di cacciatori su
cui si sono sovrapposte le migrazioni indoeuropee. Il libro
descrive questi passaggi e la
formazione della cultura ligure, l’arrivo dei Celti e i caratteri
delle popolazioni alpine, con
particolare attenzione per i Salassi e per la loro lunghissima
ed eroica storia.
Proprio dei Salassi e delle speciali caratteristiche della loro
cultura Silcan dà una interpretazione dettagliata, documentata e convincente, descrivendoli come la perfetta sintesi di
Garalditani, Liguri e
Celti. Una sorta di paradigma di antica padanità, insomma.
Non è un caso che il libro termini con la
sconfitta dei Salassi aostani nel 25 a.C.
In allegato si trova un
interessante regesto di
toponomastica e di vocaboli celtici in Gallia
Cisalpina.
Questo volumetto, bene scritto e sufficientemente documentato
(per immagini e bibliografia) può sicuramente servire come libro di
testo per le scuole padane per dare tutte le
informazioni sufficienti
alla comprensione di quel primo e fondamentale capitolo
della nostra storia millenaria.
Ottone Gerboli
stare uniti nella lotta: uno di
questi popoli, e uno dei più antichi, è quello ligure, che solo
recentemente è tornato agli
onori delle stampe dopo un
lunghissimo lasso di tempo in
cui troppo pochi sono stati i
testi dedicatigli. Tra i protagonisti del “revival ligustico” va
annoverato senza ombra di
dubbio Franco Monteverde,
studioso serio e appassionato
della propria terra, cui ha regalato numerosi scritti.
L’ultimo in ordine di tempo è,
appunto, Sovranità e autonomie mediterranee - Genova e
la Liguria, libro a tutto tondo
su ciò che resta della Superba.
Fin dall’incipit risulta chiaro
dove Monteverde voglia arrivare: si inizia infatti sottolineanAnno lll, N. 12 - Luglio-Agosto 1997
do il declino che la Liguria ha
subito negli ultimi due - trecento anni, declino evidente
nel Päxo (oggi conosciuto come Palazzo Ducale) che, se fu
negli anni passati la sede dei
Magnifici e il simbolo universalmente riconosciuto dell’unità e della ricchezza del popolo ligure, nel 1998 è ridotto a
ospitare mostre e convegni
che, con tutto il rispetto, rappresentano solo una caduta di
stile rispetto ai tempi andati.
Perché, si chiede Monteverde,
al Päxo non si è affidato un
compito “istituzionale”, ad
esempio ospitare la sede della
Regione Liguria? Forse per
sottolineare come, accanto alla
morte di istituzioni funzionali
come quelle della Genova che
fu, assistiamo solo alla nascita
di strutture, come le Regioni,
prive di un reale potere e quindi ridotte a inutili apparati burocratici?
Monteverde passa poi a esaminare nel dettaglio l’etnia ligure, il cui tratto fondamentale
va rintracciato nel darsi da fare da un lato, e nello spirito
fazzioso che da sempre anima
i genovesi dall’altro. “Per un ligure darsi da fare non costituisce fatica e pena, né il lato
notturno della storia dell’uomo, né, tanto meno, un ostacolo al raggiungimento della
felicità, ma rappresenta il centro della vita, il primo dovere
al quale un uomo non può sottrarsi, se intende vivere libero”: solo così si spiega come
sia stato possibile per i liguri,
figli di una terra inospitale e
avara, andare alla conquista
del mondo (una conquista fatta non con le armi ma col denaro) fino a diventare, a un
certo momento della storia, la
vera e propria cassaforte dell’Europa. Ma soprattutto i liAnno lll, N. 12 - Luglio-Agosto 1997
guri hanno saputo elaborare
un sistema giuridico di common law (analogo a quello britannico e americano di oggi)
in cui era del tutto assente il
concetto di “diritto pubblico”:
ogni problema poteva essere
ricondotto a una faccenda di
“diritto privato”, da risolvere
con accomodamenti, arrangiamenti, risarcimenti.
Solo da queste premesse poteva nascere uno “stato” come la
Repubblica di Genova (che era
quanto di più lontano possa
esistere dagli stati moderni accentratori, tassatori e pianificatori): uno stato che, per tutta una serie di motivi, poteva
ben essere definito esempio di
tolleranza e di stato di diritto
(anzi, dei diritti) per tutti. Sono pochissime le guerre combattute dalla Repubblica: questa infatti aveva scelto una politica di neutralismo e si limitava a fornire mercenari a
chiunque fosse in grado di pagarli.
Anche quando Genova si è trovata direttamente coinvolta in
conflitti, le armi sono state
l’extrema ratio: si è preferito
infatti sempre seguire fin dove
possibile la strada della trattativa e dell’accordo finanziario
(tutte le colonie genovesi erano state regolarmente acquistate, e nessuna conquistata...), anche perché, vista l’intensa e redditizia attività dei
mercanti e degli armatori, i
soldi non mancavano.
Il vero declino della Liguria
comincia con le invasioni napoleoniche, che portarono e
imposero dei modelli nuovi e
del tutto innaturali: il che ebbe
solo l’effetto di spaesare completamente i Liguri e di tarpare le ali a quanti intendevano
darsi da fare alla vecchia maniera. Con l’unità d’Italia, poi
Biblioteca
Padana
si ebbe il disastro e il tracollo:
a istituzioni leggere, neutrali e
liberoscambiste si sostituì uno
stato forte e guerrafondaio,
centralizzato e burocratico. Si
mutò radicalmente l’impostazione economica della Liguria:
ad un’economia basata sullo
scambio e sul commercio si
sostituì un’economia industriale, oltretutto imperniata
sulla grande industria di stato
e, quindi, sull’assistenzialismo.
Chiaramente questo, in un primo tempo, ebbe effetti positivi,
poiché portò denaro e benessere: ma tali effetti sono stati
brevi e hanno lasciato solo
spazio alla miseria e alla disoccupazione attuali. Non si può
pretendere di cambiare, dall’oggi al domani, un’intera
economia naturale creata con
secoli di sforzi, sacrifici e impegni, un’economia che per di
più non chiedeva affatto di essere cambiata, perché funzionava.
Finita la rievocazione storica,
si passa ad esaminare l’attualità (sottolineando l’importanza della Lega Nord, di cui pure
l’autore non condivide alcune
impostazioni, nell’aver abbattuto un ceto politico parassitario e nell’aver riportato al centro del dibattito le vecchie
“piccole patrie”).
In particolare Monteverde sostiene, con una certa preoccupazione, che l’Italia ha creato
una immensa nomenklatura
burocratica, passata poi quasi
per osmosi, alla politica: e questo rappresenta un grave pericolo per tutti, poiché è tipico
della mentalità del burocrate
Quaderni Padani - 61
Biblioteca
Padana
stabilire il primato della procedura sull’individuo, mentre invece procedure, leggi e istituzioni dovrebbero essere unicamente poste al servizio e a tutela del cittadino. La burocrazia ha creato un mostro irriformabile, che va senza esitazione eliminato. La via per liberarsi di un simile moloc è,
secondo l’autore, quella della
città stato: bisogna ricondurre
il tutto a una federazione, su
basi volontarie, delle varie comunità presenti nel nostro
paese, in maniera tale che ven-
62 - Quaderni Padani
gano messi in comune alcuni
(pochi) poteri, mentre tutto il
resto è demandato all’autogoverno delle comunità locali.
Un modello simile a quello fornitoci dalla Repubblica di Genova, che aveva visto unirsi alla grande Genova tutta una serie di cittadine minori, senza
che nessuno dominasse o imponesse le proprie tasse agli altri: il che va di pari passo con
la globalizzazione dei mercati,
che ha reso piccolo il mondo e,
favorendo la circolazione dei
beni e delle merci (per utilizzare una tipica distinzione
marxiana), ha portato vantaggi
enormi a tutti coloro che ne
hanno saputo approfittare e,
parimenti, è stata causa di
enormi disagi per chi, come
l’Italia, si è fatto interprete di
politiche protezionistiche e illiberali.
Una sola valutazione ci divide
da Monteverde, che comunque
si è ancora una volta distinto
per il proprio coraggio e la
propria onestà intellettuale: lo
studioso ligure auspica infatti
una sorta di “Italia bis” che
sappia riconoscere e valorizzare le autonomie locali. Noi invece all’Italia non ci crediamo
più: al contrario, chiediamo
che finalmente venga riconosciuto ai Padani il loro diritto a
costruire nuove istituzioni, indipendenti e sovrane, che sicuramente saranno rispettose dei
nostri diritti e delle nostre libertà.
Giò Batta Perasso
Anno lll, N. 12 - Luglio-Agosto 1997