DOCUMENTO PRESENTATO ALLA CORTE DI ASSISE DI VENEZIA

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DOCUMENTO PRESENTATO ALLA CORTE DI ASSISE DI VENEZIA
DOCUMENTO PRESENTATO ALLA CORTE DI ASSISE DI VENEZIA
(17 luglio 1987)
Il documento che segue venne inviato da Vinciguerra alla Corte di Assise di Venezia, accompagnato dalla
seguente lettera, indirizzata al presidente, Renato Gavagnin:
"II processo che mi vede imputato innanzi alla Corte da Lei presieduta è, per quanto mi riguarda, concluso.
Non ho dichiarazioni finali da fare, contrariamente a quanto affermato dall'avv. Pisauro che ha scambiato
per tali la mia risposta scritta alle fantasiose affermazioni storico-politiche del pubblico ministero. Trattasi
di un documento composto di settanta fogli manoscritti che allego alla presente nella speranza che possiate
acquisirlo. Una sola precisazione: non è a me che dovete dare "giustizia" perché non ho nulla da chiedervi e
voi non avete nulla da darmi. Eventualmente, un esempio di Giustizia lo potete dare a questo Paese che
ancora attende dalla sua magistratura una parola di verità su un ventennio di guerra civile: verità nei fatti e
verità nelle motivazioni che quei fatti hanno determinato. Distinti saluti. Vincenzo Vinciguerra"
PREMESSA
"In ogni processo per strage chi cerca la verità si è sempre scontrato con chi inquina le prove o addirittura
fa fuggire i responsabili. In un solo processo, però, ed è proprio quello per l'uccisione dei tre carabinieri a
Peteano, si sono visti uniti, nella congiura contro la verità, al completo tutti i poteri dello Stato" (Chi non
vuole la verità su Peteano, II Giamo, 24.6.86).
Con queste parole il dott. Gabriele Ferrari inizia la sua requisitoria. Rivela una realtà che tutti i magistrati
impegnati in inchieste sulla "eversione di destra" hanno constatato; ma, come tutti i suoi colleghi, non
giunge alla conclusione ovvia che vuole questo Stato, nelle persone dei suoi rappresentanti politici e
militari, coinvolto nella strategia del terrore. Come tutti gli altri magistrati, anche il dott. Ferrari individua in
una ideologia che da quarant'anni non ha più posto nella vita politica e culturale di questo Paese, perché
svuotata di ogni contenuto originario, la matrice del "male".
Come tutti, preferisce evocare il fantasma di un passato remoto al quale collega arbitrariamente alcuni
uomini del presente al fine di dimostrare una realtà di comodo che è - e nella sua coscienza io credo che lo
sappia - lo stravolgimento totale della realtà e, quindi, della Verità.
Per ottenere questo risultato, il pubblico ministero, al pari dei suoi colleghi interpreta come attacco
"fascista" all'ordine costituito, scaturito dalla seconda guerra mondiale, ciò che invece è stato difesa di
questo ordine non dalla minaccia "fascista" che non è mai esistita, bensì da quella, ipotetica o reale, del
comunismo e della sua avanzata, dal 1945 ad oggi, vista come unica, concreta, sola minaccia al mondo
occidentale, al mondo "libero" come viene definito. Le prove esistono, basta avere la volontà e il coraggio
di esibirle.
1. IL CONVEGNO DELL'ISTITUTO "POLLIO"
II pubblico ministero parla della "guerra rivoluzionaria" e del Convegno dell'Istituto Pollio, e allora vediamo
chi vi ha partecipato e con quali finalità.
PRESIDENZA:
Salvatore ALAGNA - consigliere di Corte d'Appello
Gianfranco FINALDI - giornalista
Adriano MAGI BRASCHI - polemologo, docente universitario
Alceste NULLI-AUGUSTI - generale
SEGRETARIO:
Paolo BALBO - avvocato;
RELATORI:
Eggardo BELTRAMETTI - giornalista e scrittore
Enrico DE BOCCARD - giornalista
Guido GIANNETTINI - giornalista
PARTECIPANTI:
Vittorio DE BIASI - industriale
Pino RAUTI - giornalista
Renato MIELI - scrittore
Marino BON VALSASSINA - docente universitario
Carlo DE RISIO - giornalista
Giorgio PISANO' - giornalista
Giano ACCAME - giornalista
Gino RAGNO - giornalista
Alfredo CATTABIANI - scrittore-editore
Giorgio TORCHIA - giornalista
Giuseppe DALL'ONGARO - giornalista
Vanni ANGELI - giornalista
Fausto GIANFRANCESCHI - giornalista
Ivan Matteo LOMBARDO - ex ministro
Dorello FERRARI - diplomatico
Osvaldo RONCOLINI - generale
Pio FILIPPANI-RONCONI - docente universitario
(l'elenco è conforme a quello pubblicato da Eggardo Beltrametti nel suo libro, Contestazione e megatoni,
Volpe, Roma 1971).
Fra i presenti in elenco risaltano subito i giornalisti de Il Tempo di Roma, quotidiano della destra
democristiana: Pino Rauti, Carlo De Risio, Gino Ragno, Giorgio Torchia, Giuseppe Dall'Ongaro, Fausto
Gianfranceschi.
Tutti fascisti infiltrati ne II Tempo, diretto dall'ingenuo Renato Angiolillo? Non credo sia una tesi seriamente
sostenibile.
Su Rauti e Gianfranceschi non mi soffermo, vista la loro notorietà di "nazisti" assunti dal giornale più
conservatore, reazionario e beghino della capitale per meriti che resteranno misteriosi fino a quando non si
apriranno gli archivi dei servizi di sicurezza.
Vediamo alcune note biografiche su altri meno conosciuti:
CARLO DE RISIO, è autore, potenza delle coincidenze, di un libro dal titolo Generali, servizi segreti e
fascismo (Mi, Mondadori 1978), nel quale fa l'apologia dei servizi di sicurezza militari nell'ultimo conflitto.
GINO RAGNO, dirige l'associazione "Italia-Germania", collegata a Franz Joseph Strauss, non, quest'ultimo,
ex-nazista, ma interprete nel 1945 presso gli americani che occupavano la sua terra, un "leale" collaborazionista.
GIORGIO TORCHIA, dirigeva, all'epoca, l'agenzia giornalistica Oltremare, finanziata dal SID, come risulta
dagli atti giudiziari nel processo per la strage di Piazza Fontana a Catanzaro.
GIANO ACCAME, dirigente di "Nuova Repubblica", l'organizzazione fondata e diretta dall'ex ministro della
Difesa Randolfo Pacciardi, che neanche il pubblico ministero può tacciare di "fascista"; è stato anche
redattore de “Il Borghese” di Mario Tedeschi.
GIORGIO PISANO', si accredita come "fascista" e tale viene ritenuto; non si accredita però come
collaboratore degli ufficiali della divisione carabinieri Pastrengo, per conto dei quali ha utilizzato “il
Candido”, da lui diretto, in almeno due occasioni facilmente rilevabili: l'operazione "Girotto", quando cioè
accreditò sul suo giornale "fascista", Girotto Massimo, detto "frate mitra", quale puro rivoluzionario
marxista-leninista, contribuendo in tal modo a facilitarne l'infiltrazione nelle Brigate Rosse, con i risultati
che tutti conoscono; l'inchiesta sulle responsabilità delle stragi, del gennaio 1981, attribuita pacificamente
ad Avanguardia Nazionale, in perfetta sintonia con le note informative che il generale Musumeci passava
alla magistratura bolognese, dopo aver collocato, in quello stesso mese di gennaio, la valigia con l'esplosivo
sul treno Taranto-Milano che doveva dimostrare la veridicità delle sue note informative e che gli è costata,
in seguito, l'accusa di calunnia e depistaggio: su Pisanò c'è, infine, il giudizio espresso da Maurizio Murelli,
suo amico, nel 1981, che in una lettera, che è nella disponibilità di chi scrive, dice che al senatore "fascista"
non bisogna toccare due cose: i carabinieri e la NATO!
PIO FILIPPANI-RONCONI, collaboratore del SID quale esperto in crittografia, amico personale di Umberto
Federico D'Amato.
IVAN MATTEO LOMBARDO, socialdemocratico, antifascista, esponente di primo piano della vita politica
italiana negli anni Cinquanta, ex ministro.
Da quali esigenze nasce il Convegno del maggio 1965 dell' “Istituto Alberto Pollio di studi storico- militari"?
Le rivela Eggardo Beltrametti, esperto militare di livello internazionale, alla cui citazione come teste in
questo processo si è opposto il pubblico ministero:
"In molti ambienti - scrive Beltrametti - compresi quelli ove si concentravano le maggiori cure per la
continuità dello Stato, si cominciava ad avvertire l'altro pericolo del varo delle regioni a statuto ordinario, il
quale, nel paesaggio del veniente centrosinistra, rappresentava un'altra grossa opportunità offerta ai
comunisti, di inserirsi nelle strutture portanti della Nazione. Parimenti cominciava a farsi strada la
convinzione che il comunismo in Italia, pur vestito di mentiti panni "democratici", svolge la sua lotta politica
eversiva al di fuori degli schemi tradizionali, con criteri e metodi che si apparentano più a quelli bellici che a
quelli consentiti in un paese libero e che perciò l'azione comunista in Italia andava considerata anche come
un episodio di guerra, guerra permanente, guerra rivoluzionaria. Arrivando così alla conclusione ovvia che,
per contrastare il comunismo, anche nei riguardi del fronte interno occorresse chiamare in causa, per la
parte di sua competenza istituzionale, l'organo tecnico a cui è affidata la difesa e la sicurezza delle
Istituzioni e dello Stato, cioè le Forze Armate (...) non è inutile ricordare -prosegue Beltrametti -che
l'impostazione data dal "1° Convegno" dell'Istituto Pollio non soltanto era condivisa dagli ambienti politici di
destra e non soltanto di destra, ma anche dallo Stato Maggiore, nelle persone dei suoi maggiori esponenti.
Tant'è che ci fu da parte di essi un appoggio concreto; non ci furono obiezioni quando si chiese e si ottenne
che un alto ufficiale seguisse i lavori del Convegno portando un contributo dì suggerimenti e di consigli".
Giustificazioni a posteriori del "fascista" Beltrametti? No, è sufficiente riandare con la memoria alla metà
degli anni Sessanta, per ricordare le violentissime polemiche che accompagnarono il varo delle regioni a
statuto ordinario.
Vi erano preoccupazioni di ordine politico, economico, sociale e militare, perché è nota l'importanza
militare della dorsale appenninica in quelle regioni centrali che sono tradizionalmente politicamente
"rosse".
Non smentito, né smentibile, Beltrametti prosegue:
"Da questo concreto e ampio consenso all'iniziativa, si può anche dedurre che le Forze Armate, nelle loro
istanze superiori, interpretando le preoccupazioni che provenivano dall'alto (e che erano state marcate
dalla ripetuta convocazione pubblica e significativa di alcuni capi militari), si dimostravano e si dicevano
disposte a raccogliersi attorno al problema del futuro prevedibile della Nazione, assediata da un'insidiosa
avanzata di forze, le quali, comunque, per calcolo, per fatalità o per ignavia, si collocavano in un'area
propiziatrice della vittoria comunista; cioè in un'area politica che non era quella in cui la Nazione aveva
scelto di collocarsi al momento in cui era divenuto legge di Stato il Trattato militare atlantico.”
Ritengo inutile e superfluo far rilevare i riferimenti, chiarissimi, al "Piano Solo" e all'area socialista quale
"propiziatrice della vittoria comunista" e il richiamo agli obblighi militari contratti dall'Italia con l'adesione al
Patto Atlantico.
Prima di entrare nel merito della "guerra rivoluzionaria", segnalo quanto afferma Eggardo Beltrametti
sull'utilizzo che da parte militare si è fatto degli Atti del Convegno, raccolti in un libro del giugno 1965, edito
dalla solita casa editrice Volpe di Roma, col titolo La guerra rivoluzionaria:
"II Convegno - scrive Beltrametti - ha destato vivo interesse negli ambienti militari, anche se (non?) fu
espresso ufficialmente, il volume che ne raccolse gli atti fu introdotto nelle biblioteche delle scuole
militari”.
Chiarirò nel prosieguo del discorso il perché dell'interesse dello Stato Maggiore dell'Esercito Italiano.
2. LA GUERRA RIVOLUZIONARIA
Il dott. Gabriele Ferrari ha parlato impropriamente di "guerra rivoluzionaria", impropriamente ha citato un
passo della relazione di Enrico De Boccard sulle tecniche impiegate dalla "guerra rivoluzionaria" (azione
psicologica e terrorismo), impropriamente ha attribuito l'utilizzo delle tecniche della "guerra rivoluzionaria"
ai relatori ed ai partecipanti del Convegno dell' “Istituto Pollio".
Nulla di questo è vero.
Il pubblico ministero vi ha presentato una strategia di attacco, la "guerra rivoluzionaria" che, a suo avviso,
sarebbe stata elaborata in quel Convegno diretta contro lo Stato, in funzione sovversiva. In realtà, nel Convegno si passarono in rassegna le tecniche della "guerra rivoluzionaria", considerata mezzo d'attacco
comunista, e si avanzarono delle proposte da dare in risposta, affinando e mettendo a punto tecniche di
"guerra controrivoluzionaria" in un ottica di difesa dello Stato.
Si tratta, come vedremo più avanti, di un errore fondamentale da parte del pubblico ministero, sempre che
di errore si tratti, frutto della sua ignoranza in materia, e non di una "deviazione" dettata dalla mala fede.
Cos'è, quindi, la "guerra rivoluzionaria"?
"... è il prodotto più raffinato della dottrina marxista- leninista - risponde il colonnello Antoine Argoud
(ufficiale paracadutista tra i vincitori della battaglia d'Algeri contro lo FLN algerino, vinta militarmente ma
non sufficiente ad impedire l'abbandono francese dell'Algeria, fu uno tra i militari che costituirono l'OAS;
condannato a morte in contumacia dal regime gollista, pena poi tramutata nell'ergastolo e tradottasi poi in
qualche anno di carcere, è stato uno tra i più ascoltati teorizzatori delle tecniche di guerra
controrivoluzionaria; uscì dal carcere nel 1968.)-. Essa consiste in una disgregazione generalizzata della
società, provocata grazie ad una tecnica incomparabilmente perfezionata di sovversione appoggiata dal
terrore. La guerra rivoluzionaria utilizza tecniche a lungo sperimentate e collaudate dalle organizzazioni
clandestine, d'agitazione e di propaganda: la guerra rivoluzionaria non rispetta alcuna legge.
Questa guerra per definizione è totale. Essa viene perciò condotta oramai su tutti i fronti: sul fronte
politico, sul fronte militare, sul fronte economico, sul fronte sociale e anche sul fronte dell'arte e della
cultura.
E' una guerra che si combatte nelle officine ma anche nelle università. Per quanto ciò possa apparire
straordinario - continua Argoud - l'esistenza di questa guerra rivoluzionaria costituisce per l'Occidente una
terribile minaccia. Se infatti la guerra atomica colpisce le persone fisiche ed i beni materiali, la guerra
rivoluzionaria ha come bersaglio le anime stesse degli uomini, la struttura stessa della società... Questa
strategia della guerra rivoluzionaria comunista - conclude Argoud - è squisitamente offensiva.
Mosca ha stabilito una volta per sempre, in modo irrevocabile, il suo obiettivo strategico: la conquista del
mondo. E per raggiungere questo obiettivo Mosca dispone in seno agli stessi paesi stranieri, come alleati,
dei partiti comunisti, questi veri e propri cavalli di Troia dell'era moderna" . ( E. DE BOCCARD, "Lineamenti
ed interpretazione storica della guerra rivoluzionaria", in AA. W., La guerra rivoluzionaria, Volpe, Roma,
1965, p. 21-22).
Non cito a caso il colonnello Argoud, uno dei massimi teorici della "guerra rivoluzionaria", perché sono
proprio gli ufficiali francesi reduci dall'Indocina a rendere di drammatica attualità e di pubblico dominio il
pericolo insito per l'Occidente nella "guerra rivoluzionaria" di stampo marxista-leninista, e a proporre
l'adozione di tecniche di "guerra controrivoluzionaria" che essi applicheranno in Algeria dal 1954 al 1962.
Dopo la Corea, dove i militari avevano dovuto arrestare la loro offensiva al 38° parallelo, i soldati francesi si
videro obbligati a lasciare l'Indocina pur non essendo militarmente sconfitti, in quanto la battaglia di Dien
Bien Phu non aveva intaccato la forza ed il morale del dispositivo francese.
Si giunse così alla conclusione che la vittoria dei "comunisti" nei paesi del Terzo Mondo era resa possibile
non dalla forza militare che i vari movimenti di liberazione riuscivano ad esprimere, bensì dalla debolezza
delle forze politiche occidentali, incapaci di sostenere all'interno dei loro paesi l'offensiva propagandistica
dei partiti comunisti, impegnati al di qua degli oceani a sostenere attivamente lo sforzo bellico dei loro
"compagni" in Corea come in Indocina e altrove.
Di fronte all'unitarietà di condotta dei partiti comunisti europei ed extra- europei, il cui impegno era diretto
e coordinato dalla centrale moscovita, stava la frammentarietà delle azioni difensive dei governi occidentali, incapaci, a detta dei militari, di comprendere che ad una guerra totale diretta da un unico Paese, la
Russia, occorreva opporre una difesa comune con l'adozione di tecniche belliche comuni, nell'interesse di
tutti.
Ma se furono i francesi a lanciare pubblicamente il grido d'allarme sul pericolo nel quale versava
l'Occidente, già dalla fine della Seconda guerra mondiale gli americani studiavano le contromisure da
prendere contro la guerra politica condotta dalla Russia in tutto il mondo, dall'Asia all'Europa, che rendeva
precari gli equilibri stabiliti dalla vittoria sulla Germania e sul Giappone.
L'avvento dell'era atomica e l'esperienza della guerra mondiale appena conclusa ponevano nuovi problemi
ai politici ad ai militari perché, da un lato si palesava la difficoltà di impiegare l'arma atomica quale mezzo
risolutore delle controversie internazionali sfocianti in azioni belliche, dall'altro si palesava una forma di
combattimento che nei sette anni di guerra aveva dimostrato la sua potenza e la sua praticabilità nel
campo bellico.
Può giustamente scrivere un esperto: (W. HAHLWEG, Storia della guerriglia, Feltrinelli, Milano, 1973, pp.
12-13.).
"Se dietro ogni conflitto armato fra popoli e stati moderni si leva sempre l'ombra minacciosa della guerra
atomica, dobbiamo pur tuttavia domandarci qual è, in pratica, la forma di guerra che si combatte. Uno
sguardo al periodo che intercorre fra la fine della seconda guerra mondiale ed i nostri giorni dimostra che i
frequenti conflitti armati (Grecia 1946-1949; Indonesia 1945-1949; Malesia 1948-1960; Indocina 19461954; Algeria 1954-1962; Cuba 1956-1959; Vietnam dal 1955) sono tutti più o meno condotti con i metodi
della guerriglia che vengono impiegati in parte anche nella guerra di Corea (1950-1953). Ne risulta che la
guerriglia dal 1945 in poi è divenuta la forma di guerra prevalente".
Ma cos'è la guerriglia e quale è stata la sua influenza sull'evoluzione del pensiero militare nell'ultimo
quarantennio? Diamo ancora la parola a Werner Hahlweg (ivi. pp. 11-12):
"Solo nei due decenni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale si è compreso appieno quali
possibilità si erano aperte con la guerriglia, nel quadro delle nuove combinazioni di carri armati ed arma
aerea, con l'impiego massiccio di enormi quantità di materiale e lo sviluppo delle nuove armi per lo
sterminio di massa. Certamente non nuovo come fenomeno in sé (come forma di combattimento di piccole
unità affidate ciascuna alla propria iniziativa autonoma e combattenti in ordine sparso), la guerriglia si
rivelava fenomeno nuovissimo per l'ampiezza e la portata delle forze che vi affluivano dal campo politico e
sociale: scompariva la differenza fra militari e civili, si era dì fronte ad una resistenza popolare totale, come
lotta dì masse. Era dato dì intravedere la possibilità di una riforma strutturale dell'esercito moderno. "Oggi
infatti la differenza fra campo militare e campo civile tende a scomparire, nel senso anzi che il campo civile
costituisce il vero e proprio campo d'azione della guerriglia, la quale però, per svilupparsi in modo efficiente
deve valersi di una tattica e di una tecnica di tipo militare. E' naturale che da questa situazione scaturiscano
conseguenze concrete per la organizzazione, la politica, la strategia della guerriglia. In questo contesto si
pone il problema del combattente di nuovo tipo, che trae i suoi impulsi motivazionali da una più robusta
coscienza sociale e civico- ideologica” (ivi, pag.16).
Ma la guerriglia è solo una fase della "guerra rivoluzionaria" che può favorire il successo di un partito
comunista, in un paese occidentale, anche senza giungere alla penultima fase che è appunto quella della
guerriglia e quella, ultima, dell'insurrezione. Può conquistare il potere anche applicando le tecniche delle
prime due fasi, quelle dell'azione psicologica e dell'infiltrazione, ovvero della creazione di gerarchie
parallele. E questi sono i temi trattati nel Convegno dell'Istituto Pollio, sul quale ritorneremo fra poco.
Intanto, ricordiamo come dal 1945 fino al I960, per limitarci al periodo in esame, solo l'Occidente conobbe
una serie di conflitti non convenzionali nelle sue tradizionali aree d'influenza, cosicché gli Stati Uniti
dovettero prendere atto che la superiorità militare sull'Unione Sovietica, atomica in particolare, nulla
serviva per arrestare un'offensiva che procedeva per linee interne. La strategia della "rappresaglia
massiccia" che aveva informato la politica americana negli anni Cinquanta cedeva il passo, con l'avvento
alla presidenza degli Stati Uniti d'America di J. F. Kennedy, a quella della "risposta flessibile".
Il nuovo presidente accettava la sfida sovietica e cinese, cosicché già
"il 28 giugno 1961 il professor Walt W. Rostow, consigliere e presidente dell'ufficio politico di pianificazione
del Dipartimento di Stato, tenne alla U. S. Special Warfare School una conferenza, in cui esponeva il
programma antiguerriglia del governo americano nei suoi aspetti internazionali. «Contrattacco all'attacco
della guerriglia» era il tema della conferenza, in cui Rostow sottolineava l'urgente necessità per gli
americani di porsi alla testa di un 'antiguerriglia universale nel senso della concezione del presidente
Kennedy’ (ivi, pag.259).
Ora che la necessità di una risposta unitaria da parte occidentale era stata accolta e fatta propria al
massimo livello nella nazione guida del mondo "libero", alla "guerra rivoluzionaria" di Mosca e di Pechino si
poteva
opporre
la
"guerra
controrivoluzionaria"
di
Washington.
3. "LA PARATA E LA RISPOSTA"
In Italia, per gli esperti politici e militari americano-dipendenti dal 1945 e per i loro consiglieri di multicolori
casacche, il come affrontare l'insidia rappresentata dal partito comunista è un problema di ardua e difficile
soluzione.
S'incarica Rauti di chiarire i termini di tale problema all'auditorio del Convegno dell'Istituto Pollio (P. RAUTI,
"La tattica della penetrazione comunista in Italia", La guerra rivoluzionaria, cit. p. 95.):
"Oggi - spiega - la difficoltà di combattere il comunismo in Italia dipende quasi esclusivamente dal fatto che
i comunisti non si vedono. Essi sono tanto onnipresenti quanto invisibili. Voi potete andare nei quartieri più
"rossi" di Roma, voi potete andare nelle zone più rosse e sovversive della Toscana e dell'Emilia, dove i
comunisti hanno già raggiunto da molto tempo - e sotto molti aspetti hanno già superato - la maggioranza
assoluta (dal 60 al 70% di voti); voi potete andare nelle cosiddette "Stalingrado rosse" che non sono
soltanto quelle di Sesto S. Giovanni, ma sono anche in certe zone agricole pugliesi, sono nel triangolo
molisano, e via dicendo (zone nelle quali i comunisti, notoriamente, controllano la situazione); ebbene - si
scandalizza Rauti - non vedrete mai un distintivo comunista all'occhiello. Questo per significare, per
sottolineare, quasi, che i comunisti intendono conquistare lo Stato, attraverso la conquista del potere"".
Lucidamente, Rauti prosegue nell'esposizione del suo pensiero:
"Di solito si tende a dire che la g.r., come viene attuata in Italia, sia la trasposizione in termini appena
appena adeguati delle tecniche di g. r. che i comunisti hanno seguito e stanno seguendo per la conquista
del potere nei Paesi afro- asiatici o, più in generale, nei paesi sottosviluppati. A mio avviso le citazioni di
Mao Tse Tung, le citazioni dei testi classici in materia, debbono servire soltanto come riferimento culturale,
informativo, perché la tecnica per la conquista del potere, in un paese industrializzato, in un paese
moderno, in un paese occidentale, ubbidisce a regole e necessità diverse. Regole - conclude Rauti - che io
ho creduto appunto di riassumere prima nelle due considerazioni principali ovvero nella infiltrazione nei
gangli dello Stato con il divieto quasi assoluto, per i propri attivisti, di ricorrere ad azioni di violenza, e nella
continuità e nella capillarità dell'azione politica” (ivi, pag.97).
L'analisi di Rauti, nella sua chiarezza, dimostra che mancavano i presupposti per un'azione di forza politicomilitare contro il partito comunista.
Il "nemico" esisteva, la sua insidia veniva valutata in tutta la sua "pericolosità", tanto maggiore in quanto
avanzava con il metodo di addormentare le coscienze e non con un attacco frontale e violento che, unico,
avrebbe permesso all'apparato politico- militare, italiano e atlantico, di agire contro di esso con il consenso
della Nazione ed il plauso internazionale. Un leggero "rumor di sciabole" era bastato nel luglio 1964 a mettere in riga un riottoso partito socialista che aveva scoperto, a sue spese, che stare al governo con la
Democrazia Cristiana significava condividerne le negative responsabilità ma non il potere. Ma mettere fuori
legge i comunisti con i quali anche la Chiesa cattolica si era messa a "dialogare", annoverandoli fra i suoi
"fratelli separati", era politicamente impossibile.
Non si poteva ricorrere a soluzioni di tipo balcanico o sudamericano con il consenso, sia pure, di un
presidente della Repubblica e della NATO, ma si poteva costringere il PCI a riporre l'abito della "talpa" per
reindossare quello della "tigre", creando così i presupposti per l'azione di forza politico- militare. Come?
Fomentando l'estremismo della base del PCI e contrapponendolo al "moderatismo" del vertice del partito.
La base del partito comunista non aveva rinunciato alla "rivoluzione" e ancora aspirava alla "dittatura del
proletariato" ed alla liquidazione del potere borghese. "Rivoluzionario" al suo interno e "moderato", aperto
al "dialogo" all'esterno, il PCI aveva proprio nell'estremismo della sua base, ancora fideisticamente certa
della vittoria del "proletariato", il suo tallone d'Achille.
Sarà Rauti, ancora lui, a ricordare ai compari e colleghi dell'Istituto Pollio che, dopo l'attentato a Palmiro
Togliatti,
"le masse comuniste, per conto loro, scesero nelle piazze ed andarono molto al di là di quanto non
volessero i loro dirigenti. Il che sta a dimostrare - esulta Rauti - che spesso i dirigenti comunisti non riescono
a padroneggiare il cosiddetto «estremismo di base»" (ivi, pag.95-96).
Una base che già allora si sentiva a disagio per l'accusa di "revisionismo" e di "imborghesimento" che i primi
gruppi "cinesi" lanciavano al partito, per lo più ignari (lo sapevano solo gli "infiltrati") che i primi manifesti
"cinesi" nelle strade italiane li avevano affissi quelli di Avanguardia Nazionale per incarico di Mario
Tedeschi.
Teorie? No, Renato Mieli, nel suo intervento centrato su "L'insidia psicologica della G. R. in Italia", dirà:
"Io credo che non dobbiamo sottovalutare l'importanza del contrasto che oggi divide l'Unione Sovietica
dalla Cina; esso non può costituire un motivo automatico di controllo del mondo comunista, anzi il
comunismo potrebbe trame vantaggio perché la presenza di un bicentrismo nel mondo comunista è
suscettibile di attirare maggiori consensi al comunismo stesso. Ma questa contraddizione diventa invece un
motivo di debolezza se si è capaci di denunciarla e di strumentalizzarla” (R. MIELI, "L'insidia psicologica della
guerra rivoluzionaria in Italia", La guerra rivoluzionaria, cit., p. 101.)
La teoria dell'"infiltrazione" a sinistra nei gruppi "cinesi", anarchici, marxisti-leninisti, critici verso il PCI è qui
chiaramente annunciata. Qualche anno dopo (1967) diverrà realtà pratica e concreta ad opera anche, fra gli
altri, dell'agente "T", da voi meglio conosciuto come Giorgio Freda, e dai suoi amici e colleghi di apparato
(di Stato), Claudio Orsi, Claudio Mutti e tanti altri.
Ed è in questa ottica di "infiltrazione" che Freda scriverà e pubblicherà, nel 1969, La disintegrazione del
sistema che non ha mai rappresentato la "bibbia" di nessuno, tantomeno di chi scrive, che questa
informazione la ebbe da Freda stesso nel 1971.
Nell'intervento dell'agente "Z", alias Guido Giannettini, c'è poi un invito ben evidenziato anche
tipograficamente nel testo citato, un invito dal sapore profetico perché "stranamente" precorre gli iniziali
avvenimenti del 1968.
Cosa dice, quindi, Guido Giannettini trattando della "cultura" che in Italia è di "sinistra"?
"E, a questo proposito, se gli anticomunisti avessero maggiore sensibilità politica, approfitterebbero della
situazione per sfruttare in senso anticomunista la naturale tendenza alla ribellione delle nuove generazioni
culturali contro il conformismo delle dottrine ufficiali" (G. GIANNETTINI, "La varietà delle tecniche nella
condotta della guerra rivoluzionaria", La guerra rivoluzionaria, cit., p. 165.).
Non credo sia una novità dirvi che i noti "katanghesi" dell'Università Statale di Milano si chiamarono così
perché vennero istruiti nelle tecniche di guerriglia urbana e di difesa personale da ex-mercenari che avevano operato nel Katanga; nulla di nuovo rivelo quando vi segnalo che la cosiddetta "battaglia di Valle
Giulia" all'Università di Roma, che segnò l'inizio ufficiale della contestazione studentesca, ebbe per
protagonisti gli attivisti di Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale e MSI.
La strategia della tensione comincia così a delinearsi.
L'estremismo dell'ultra sinistra, così irritante ed invitante per i comunisti ortodossi, li porterà, in un
momento di recessione economica, a radicalizzare le lotte sindacali in un crescendo che culminerà
nell'autunno caldo" del 1969.
Le masse studentesche, opportunamente tacciate di "sinistrismo", dopo aver inizialmente buttato fuori
dalle Università i rappresentanti del PCI, e opportunamente manganellate a dovere, trasformeranno la loro
"ribellione contro il conformismo delle dottrine ufficiali" in lotta politica contro il regime "borghese" e le
sue istituzioni.
Con le strade e le piazze italiane trasformate in campi di battaglia, i teorici della "guerra
controrivoluzionaria" possono mostrare alla nazione ed al consesso internazionale il "vero" volto del
comunismo italico che, ormai sicuro della sua forza e del suo potere, ha smesso il vestito della "talpa" per
reindossare quello della "tigre".
La "sovversione" era nuovamente allo scoperto, con i metodi che le erano propri, attaccando le "forze
dell'ordine", incitando alla ribellione ed all'eliminazione fisica dei propri avversari ("Se vedi un poliziotto ferito, finiscilo"), denigrando i "valori patriottici", sputando sulle divise degli ufficiali, occupando le scuole e le
fabbriche. Ma non bastava, mancava qualcosa che in passato sempre si era accompagnato al garrire delle
bandiere rosse, ai moti di piazza ed all'attacco sovversivo allo Stato: mancavano le bombe contro gli odiati
simboli del capitalismo e della borghesia, bombe anarchiche possibilmente.
Nessuna paura! Ci saranno pure quelle, perché gli agenti "T" e "Z", ed altri, dalle sigle ignote e dai nomi
conosciuti, il loro lavoro lo fanno con scrupolo.
Si comincerà con la "fiera di Milano", il 25 aprile 1969, si continuerà con i treni nell'agosto dello stesso
anno, e, infine, quando il Ministro degli Interni, Restivo, sulla base dei rapporti del capo della polizia, Vicari,
e dei suoi fedeli e solerti funzionati, il 9 e il 10 dicembre 1969, rivelerà in Parlamento, con toni angosciati e
profetici, il pericolo "anarchico", due giorni dopo, il 12 dicembre, gli "anarchici" fanno saltare la Banca
dell'Agricoltura con i suoi clienti, a Piazza Fontana, a Milano. Mai profezia ministeriale si era avverata in così
poco tempo!
La "strategia della tensione", della quale gli attentati dinamitardi erano solo un aspetto, il più eclatante
certamente, ma non l'unico, era oramai pienamente operativa. Ora che il disordine ed il terrorismo
avevano evidenziato il pericolo "rosso", la difesa dello Stato era divenuta obiettivo prioritario per le forze
politiche e militari appoggiate e sollecitate in tal senso dalla pubblica opinione che, dopo Piazza Fontana,
tutto avrebbe accettato e giustificato, nella sua stragrande maggioranza, pur di vedere ristabilito l'ordine
infranto.
L'attacco" comunista allo Stato che nel 1965 era "percepito" da pochi, ora era avvertito da tutti; gli
strateghi della "guerra controrivoluzionaria" avevano vinto la loro prima battaglia in difesa di quell'ordine
politico, economico, sodale e militare scaturito dalla vittoria anglo-americana sull'Europa.
4. LA DIFESA DELL'ORDINE POLITICO ED IL SUO STRUMENTO: LA GUERRA NON ORTODOSSA
Difesa di quest'ordine", quindi, e lo ribadisce quell'americano prestato all'Italia che risponde al nome del
socialdemocratico Ivan Matteo Lombardo, stabilendo nel suo intervento, più volte, il parallelo Lenin- Hitler,
comunismo- nazionalsocialismo.
Ivan Matteo Lombardo, che si occupa di "guerra rivoluzionaria" da prima che Rauti entrasse ne II Tempo e
Giannettini divenisse l'agente "Z", per tacere di Freda e compari ancora liceali, inizia il suo intervento, mai
citato da alcun pubblico ministero, in perfetta sintonia con quelli che l'hanno preceduto:
"Un problema di essenziale importanza sollevato da questo dibattito è, a mio modesto parere, quello
dell'urgenza ormai divenuta angosciosa di portare a conoscenza di un'opinione pubblica - che non è
informata, che segue schemi mentali tradizionali - il concetto ispiratore, l'essenza stessa, perfino la
denominazione con cui indicarlo, di quel fenomeno enorme, proteiforme, infinitiforme che è la "guerra
rivoluzionaria", il tentativo cioè del comunismo di conquistare il potere non solo nel nostro Paese, ma
ovunque. Infatti, l'aspirazione suprema del comunismo è la conquista del mondo" (I. M. LOMBARDO,
"Guerra comunista permanente contro l'occidente". La guerra rivoluzionaria, cit., p. 205.).
Dopo questa premessa, il socialdemocratico Ivan Matteo Lombardo informa i colleghi dei tentativi fatti per
designare in forma più appropriata questo conflitto permanente:
"Ad Oslo, nel 1960, all'Assemblea dell'Atlantic Treaty Association, un eccellente documento che ne
riassume i dibattiti, che si sforzarono proprio di analizzare ed approfondire il fenomeno, la definì «battle for
the minds of men», altri successivamente la definirono «guerra dei nervi», «guerra psicologica». A Parigi,
nel I960, e qui a Roma, nel 1961, due convegni internazionali, ai cui dibattiti parteciparono studiosi e politici
di moltissimi Paesi, trattarono del problema definendolo «guerra politica». Per la facile comprensione dei
più non era e tantomeno non lo è oggi, definizione felice, sia perché ingannevole nella sua insufficienza a
conglobarne tutti gli aspetti, sia perché troppo blanda per indicarne la sostanza drammatica. In questo dibattito si è usata l'indicazione di «guerra non ortodossa», nell'evidente traduzione di una denominazione
squisitamente militare di «un-ortodox war».
E, dopo aver consigliato di adottare come termine quello di "guerra permanente" al posto di "guerra
rivoluzionaria", conclude da par suo (ivi, pag.221):
"Mi rendo conto che, a fronte di un'impresa eversiva, di tale mole, di carattere internazionale, non è
solamente sul piano interno che quei problemi vanno affrontati, ma altresì sul piano della più stretta
collaborazione internazionale. Insomma, è un problema da Stato Maggiore di «controguerra
rivoluzionaria», da «Interpol politica», che si propone al mondo libero se vuole sopravvivere, se non vuole
morire più per colpa della propria stupidità che per violenza e raffinatezza dell'assalto nemico".
"Antiguerriglia universale nel senso della concezione del presidente Kennedy", Oslo I960, Parigi, Roma
1961, "Stato Maggiore" internazionale, "Interpol politica", ma dove stanno i fascisti e il fascismo in tutto
questo?
Ma andiamo avanti.
Un altro intervento sconosciuto ai Pubblici Ministeri è quello di Adriano Magi-Braschi, sulla cui figura
conviene soffermarsi, perché la sua presenza alla presidenza del convegno dell'Istituto Pollio fa giustizia
delle tante ciarle (o ciacole, come meglio conviene dire qui a Venezia) sull'attacco fascista" allo Stato,
teorizzato a detta del p. m. in quel convegno.
Presentato ai partecipanti con la qualifica di "avvocato", definito da Eggardo Beltrametti, nel suo elenco
pubblicato nel 1971 (riprodotto nelle pagine precedenti), come "polemologo e docente universitario"",
Adriano Magi- Braschi era, in realtà, un ufficiale dell'Esercito Italiano, nel quale ricopriva il grado di tenente
colonnello in servizio permanente effettivo, promotore dei "corsi d'ardimento" a Cesano, destinati alla
creazione di speciali reparti antiguerriglia.
E' pacifico, e non spreco parole per dimostrarvelo, che per assumere la presidenza di quel Convegno, il
tenente colonnello Adriano Magi- Braschi ebbe l'assenso ed il permesso delle massime gerarchie militari, e
che il segreto sulla sua appartenenza alle FF. AA. si giustifica con la necessità di "coprire" chi effettivamente
volle e patrocinò quel Convegno, vale a dire lo Stato Maggiore dell'esercito italiano.
Vediamo ora cosa disse, il 4 maggio 1965, il portavoce dello Stato Maggiore dell'esercito italiano:
"Quanto è stato detto sinora - così inizia - dall'on. Ivan Matteo Lombardo, ha praticamente messo a punto il
tema. Tuttavia vorrei fare una breve precisazione. In qualità di tecnico della guerra non ortodossa (vi
specifico guerra non ortodossa, per riportare la discussione sul piano tecnico, perché altrimenti la
discussione si politicizzerebbe), da sette anni a questa parte io ho avuto il piacere di incontrare l'on.
Lombardo nelle più diverse parti del mondo: in congressi, incontri, in convegni che avevano per tema, sempre, la guerra del comunismo... Egli fu l'organizzatore (ed è bene ricordarlo) del primo convegno che si è
tenuto in Italia sulla guerra politica dei sovietici" (A. MAGI-BRASCHI, "Spoliticizzare la guerra", in La guerra
rivoluzionaria, cit., p. 249).
Dopo aver posto in giusta evidenza la convergenza delle sue opinioni con quelle espresse dall'on. Ivan
Matteo Lombardo, ed aver esaltato la figura del compagno di partito dell'on. Giuseppe Saragat, così
continua:
"II primo congresso si tenne in Italia (se non erro nella data, nel 1961). Era stato indetto dalla Lega della
Libertà, ad esso aderirono vari movimenti politici e di cultura italiani. Per la prima volta il problema fu
presentato all'opinione pubblica italiana. Dunque, fu un atto di coraggio. Noi che da otto anni
c'interessiamo a questo problema, ponemmo attenzione, soprattutto, a ciò che avrebbe detto il PCI, ma il
PCI non reagì in alcun modo. Eppure in quel convegno furono pronunciate parole di fuoco nei riguardi della
sua condotta" (ivi, pag.249-250).
Era indubbiamente un grosso problema per il colonnello ed i suoi superiori che il PCI non reagisse! Ma
l'italico campione della guerra controrivoluzionaria, ufficiale dell'esercito italiano, non dimentichiamolo,
fornisce anche la sua definizione di Patria:
"Io ho sentito dire - afferma - che dobbiamo assolutamente trovare un'idea, che dobbiamo corazzare i
combattenti della guerra futura o di questa guerra, se si vuole accettare l'ipotesi che sia già in atto. Esiste
già: esiste il fronte delle due guerre. Un profugo di Budapest, al quale sentii chiedere se difendeva la sua
patria, rispose: "ma la mia patria è dove c'è la libertà". Ecco - s'infervora il colonnello - esiste già una patria
di tutti, una patria che va difesa. Esiste un'idea: è quella della libertà" (ivi, pag.251).
Dopo aver lanciato al suo meritato auditorio la parola d'ordine del nuovo nazionalismo, la mia patria è la
NATO, il colonnello passa alle proposte operative:
"Se la prima guerra mondiale vide gli Stati maggiori combinati, cioè dalla prima guerra mondiale si ricavò la
necessità di avere comandi composti delle tre armi, vale a dire Stati maggiori che ragionassero in funzione
tridimensionale; se dalla seconda guerra mondiale sono usciti gli Stati maggiori integrati che comprendono
personale di più nazioni; questa guerra vuole gli Stati maggiori allargati, gli Stati maggiori che comprendano
civili e militari contemporaneamente"29.
Qui il colonnello Magi-Braschi esprime un concetto chiave per la comprensione di tanti avvenimenti,
l'interpretazione dei quali rimane oscura, e tale rimarrà, a coloro che nulla sanno dell'evoluzione del pensiero militare in questo quarantennio.
Si poteva, in questo processo, approfondire il discorso su una certa struttura mista, composta da militari e
civili, ma il pubblico ministero, coerente con il nulla fatto in tre anni d'indagini, si è opposto anche alla
citazione di Miceli e Spiazzi, e non ha colto l'evidente imbarazzo del prefetto Federico D'Amato obbligato, a
domanda del Presidente, a dare una risposta sibillina che avvalora, non smentisce, il sospetto che questa
struttura mista esista e sia una realtà viva e tragicamente operante nel nostro Paese.
Figurarsi! Per chi, come il pubblico ministero, crede che l'esercito sia sempre quello di La Marmora, ipotesi
del genere sono fantapolitiche. Non viene il sospetto al pubblico ministero che la guerra Est-Ovest, perché
di guerra è giusto parlare dall'una e dall'altra parte, è per sua natura politica e ideologica. Che la "guerra
rivoluzionaria" e la "contro-guerra rivoluzionaria" impiegano gli stessi metodi e si propongono il medesimo
fine: la conquista dell'animo, delle menti e delle coscienze delle popolazioni.
Si chiama "guerra non ortodossa", proprio perché prevede l'impiego di mezzi non propriamente bellici:
giornali al posto di mezzi corazzati, ad esempio! Non sa il dott. Ferrari che, dall'immediato dopoguerra, il
Ministero degli Interni ha per legge di Stato la delega alla conduzione della propaganda e della contropropaganda politica e che ogni servizio di sicurezza ha un proprio ufficio di "guerra psicologica" incaricato di
tenere i contatti con i mass-media ai quali indirizza notizie, veline, informazioni per esigenze di natura
politica e non militare o di sicurezza, nell'interesse del regime e dello stato che serve? Non sa il dott. Ferrari
che dal concetto di "guerra totale" deriva quello di "difesa totale" dal quale, a sua volta, discende la
necessità per i politici di delegare alle forze armate la difesa oltre che dello "spazio geografico" anche di
quello “politico”? O crede che i servizi di sicurezza, che delle forze armate sono parte integrante, servono
soltanto a dare la caccia alle spie o agli "eversori"?
Certo, ai tempi di La Marmora...
5. “CROCIATA IN EUROPA”
(Titolo di un famoso libro del gen. D. Eisenhower, comandante supremo delle forze alleate in Europa
durante la seconda guerra mondiale, primo comandante militare delle forze integrate NATO in Europa dal
1951, poi presidente degli Stati Uniti dal 1953 al 1960.)
Prima di proseguire nell'analisi della requisitoria politica del pubblico ministero, mi soffermerò brevemente
sull'equazione fascismo- anticomunismo che pur se non è stata fatta espressamente dal dott. Ferrari, si
evince chiaramente da tutto ciò che è stato detto.
In particolare, dando per scontato che fascismo è anche anticomunismo, il che non vuoi dire che sia solo
anticomunismo, vedremo se il furore antibolscevico dell'ultimo quarantennio ha origine nel nostro Paese,
da una eredità del passato regime, o se, viceversa, trova la sua matrice nella necessità nordamericana di
utilizzare gli strumenti ideologici in funzione anti-russa.
Prima occorre brevemente premettere che all'ideologia totalitaria del marxismo- leninismo come arma
della Russia si è contrapposta dalla metà del XX secolo un'ideologia altrettanto totalitaria, seppur non ritenuta tale dai più: l'americanismo.
Un misto di moralismo quacchero, di puritanesimo, di business, di dollari, di fanatismo messianico, che
fonda le proprie origini e si alimenta nel mito dell'America, nazione- guida del mondo destinata da Dio alla
salvezza dell'orbe terracqueo e dei suoi abitanti. A costoro offre il modello americano di vita sociale,
economica, politica e culturale, nella certezza assoluta che sia il meglio che l'uomo abbia mai espresso e al
quale possa aspirare. Offre e impone!
“Noi americani... siamo il popolo eletto, scelto da Dio, l'Israele dell'epoca moderna, noi abbiamo in custodia
l'arca delle libertà del mondo... Dio ha dato a noi, e l'umanità si aspetta da noi grandi cose, e grandi cose
palpitano nei nostri cuori” (M. MARGIOCCO, Stati Uniti e PCI, Laterza, Bari, 1981, p. 7).
Questa è la prosa ispirata di Hermann Melville nel 1892, certo uno scrittore, un poeta, l'autore di Moby
Dick.
"Ho la sensazione che Dio abbia creato la nostra nazione e l'abbia portata al suo attuale livello di potenza
per adempiere ad un grande compito - quello di difendere i valori spirituali, il codice della moralità contro le
potenti forze del male che cercano di distruggere questi valori" (ivi, pag.8).
Questo è il tenore delle dichiarazioni di Henry Truman, presidente degli Stati Uniti, quello delle bombe
atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
Risparmio alla corte le citazioni di Wilson, Roosevelt, Kennedy e Reagan, tutte dello stesso tenore in una
linea di continuità che giunge fino ai nostri giorni, e torniamo ai fatti.
Comincia Ellery Stone, capo della Commissione alleata in Italia nel 1945, che scrive in un rapporto a
Washington del 15 giugno 1945:
"L'Italia si trova a un bivio... Come in altri paesi devastati dalla guerra, il terreno è fertile per la rapida
crescita dei semi di un movimento anarchico foraggiato e diretto da Mosca allo scopo di portare l'Italia
sotto la sfera d'influenza sovietica. Ci sono già i segni che, se la situazione attuale dura abbastanza a lungo,
il comunismo trionferà, forse con la forza... I posteri giudicheranno severamente il nostro operato, se il
primo paese europeo ad essere liberato dal fascismo e dal nazismo grazie agli sforzi di due grandi
democrazie dovesse cadere preda di un'altra dittatura" (ivi, pag.40).
Nel settembre 1945, un documento americano redatto da uno speciale Comitato interministeriale indicava
quale obiettivo prioritario per la politica degli Stati Uniti che l'Italia non precipitasse
“in un nuovo totalitarismo e da qui in uno schieramento politico internazionale diametralmente opposto
agli interessi americani” (ivi, pag.44).
"Interessi americani", signori, non "fascisti".
Senza soffermarci sugli anni Cinquanta, veniamo pure agli anni del Convegno dell'Istituto Pollio, agli anni
Sessanta, della “apertura a sinistra” al partito socialista di Nenni, autorizzata dalla Casa Bianca in opposizione al Dipartimento di Stato americano.
"In Italia l'esperimento di centro- sinistra non è ancora assestato e la direzione definitiva che il centrosinistra potrà prendere è tutt'altro che chiara" (ivi, pag.101).
Un fascista? No, Henry Kissinger, il 27 giugno 1966, deponendo davanti alla Commissione Esteri del Senato
americano.
"Siamo davanti ad una lotta senza speranza? L'America non ha più tempo per combattere" (ivi, p.102)
s'interrogava, con toni melodrammatici e angosciati, il senatore Barry Goldwater, i cui interventi
troveranno sempre spazio nelle pagine de Il Borghese, diretto da quel fraterno amico del prefetto Federico
D'Amato che risponde al nome di Mario Tedeschi. L'Italia, scriveva uno studioso americano nel 1964,
"è diventata il grande campo di battaglia ed il banco di prova per la strategia comunista in Europa
occidentale, non tanto perché il partito comunista italiano è il più numeroso e il più forte fra quelli dei paesi
appartenenti alla NATO; ma perché questo forte partito ha sviluppato una specifica strategia studiata per
assicurargli la leadership delle forze proletarie della Comunità Economica Europea, e, attraverso di essa, la
guida dei movimenti operai dell'Europa capitalistica - che deve essere affrontata e considerata dagli altri
partiti comunisti" (ivi, pag.102).
Quella "specifica strategia", così lucidamente descritta dai teorici della "guerra contro-rivoluzionaria"
dell'Istituto Pollio.
Potrei continuare per pagine e pagine con citazione di esempi sulla virulenza anticomunista dell'America e
sul fanatismo con il quale questa nazione conduce le sue battaglie, ma ho voluto fare solo una digressione,
spero utile, per dimostrare che non necessariamente la violenza anticomunista deve essere di marca
"fascista", e che la nazione guida del mondo occidentale, così come si configura dopo il 1945, è stata in
realtà il motore di tutte le strategie politiche e militari anti-marxiste che sono poi state attuate in Italia,
paese dipendente dagli Stati Uniti d'America, economicamente, politicamente, militarmente e
culturalmente.
In questo quadro a stelle e a strisce, come s'inserisce il neofascismo post-bellico?
6. IL NEO-FASCISMO
Per offrire una risposta esauriente bisogna tornare indietro nel tempo, alle "radiose giornate", come le
definì Palmiro Togliatti, al mese del sangue e delle rose del 1945.
Un insieme di testimonianze dirette, personali, e una somma imponente di documenti provenienti da tutte
le parti interessate dimostrano che ci fu da parte delle forze militari e politiche della resistenza di segno
anticomunista una selezione accurata fra i fascisti da eliminare fisicamente e quelli, i più, da non
considerare tali per età, mancanza di connotati ideologici nell'adesione alla RSI, e per appartenenza alle
Forze Armate regolari di Salò.
La ragione di questo atteggiamento di "benevolenza" era motivata da una preoccupazione che si era già
palesata nel luglio del 1943 e che era stata fatta propria ed espressa dal re Vittorio Emanuele III, con una
nota del 16 agosto 1943, indirizzata a Pietro Badoglio, con la quale ammoniva che
"l'eliminazione presa come massima di tutti gli ex-appartenenti al partito fascista da ogni attività pubblica
deve recisamente cessare - perché altrimenti - la massa onesta degli ex-appartenenti al partito fascista, di
colpo eliminata da ogni attività senza specifici demeriti, sarà facilmente indotta a trasferire nei partiti
estremisti la propria tecnica organizzativa, venendo così ad aumentare le future difficoltà di ogni Governo
d'ordine".
Mutatis mutandis, nella primavera del 1945 si trattava di evitare che la "massa onesta" degli aderenti alla
RSI e dei suoi soldati regolari, non di partito, si spostasse a sinistra, confluendo per reazione nei partiti
socialista e comunista, dato anche il carattere fortemente "sociale" e anticapitalista dell'ultimo fascismo.
L'operazione venne facilitata anche dal fatto che i quadri medi ed i militanti del PCI si resero
irresponsabilmente colpevoli di eccidi e massacri indiscriminati che cessarono solo per l'intervento delle
forze alleate e regolari del Regno del Sud.
La sanguinosa selezione compiuta dalle forze democratiche antifasciste di stampo anticomunista in
contrapposizione alla cieca caccia all'uomo scatenata dalla massa comunista, diede perciò i suoi frutti di cui
hanno beneficiato tutti i "governi d'ordine" fino ad oggi.
Eliminata la classe dirigente della RSI, liquidata fisicamente la gran parte di coloro che alla Repubblica di
Salò avevano aderito perché credenti in un'idea, all'esilio ed alla galera gli altri, nella restante massa dei
"repubblichini" restavano come tratti politici distintivi due componenti che erroneamente vengono
attribuite al solo fascismo: il nazionalismo et l'anticomunismo.
Questo, si potrà dire, vale per la "base" del neo-fascismo postbellico non per i capi, le "menti", i "teorici" e
via di seguito.
Al di là delle decine di sigle e di gruppi, l'unica formazione politica che rivendicava l'eredità della RSI e del
ventennio fascista, di un certo spessore numerico, fu il MSI e dei suoi dirigenti ci occuperemo quindi
brevemente.
ARTURO MICHELINI: non aderì mai alla RSI, pur avendo ricoperto durante il ventennio la carica di vicefederale dell'Urbe, dove rimase in attesa, occupandosi di commercio, dell'arrivo dei "liberatori".
FRANCO MARIA SERVELLO: nell'aprile del 1945 scrisse un articolo, comparso in un giornale di Salerno
controllato dalla V Armata, nel quale si compiaceva per la fucilazione di Mussolini. (Cfr. P. G. MURGLA,
Ritorneremo, Sugarco, Milano, 1976.)
ALFREDO CUCCO: arrestato dal prefetto Cesare Mori quale "mafioso" benché dirigente di primo piano del
PNF palermitano, assolto al processo, si vedrà rifiutare per anni udienza da Mussolini. Riportato in auge dal
calabrese Scorza, nel 1943 fu vice- segretario del PNF. Aderì alla RSI dove occupò la carica di sottosegretario
agli spettacoli del Minculpop, stabilendosi a Venezia. In ottimi rapporti col patriarca di Venezia, a fine
guerra si rifugiò in convento da dove uscì per aderire al MSI. (Cfr. A. PETACCO, II prefetto di ferro, Rizzoli,
Milano.)
GIORGIO ALMIRANTE: giornalista del Tevere e condirettore di Difesa della razza, aderì alla RSI e fu capo
gabinetto del ministro Mezzasoma del Minculpop, in sostituzione di Gilberto Bernabei ruggito al Sud nel
Natale del 1944. Il 25 aprile 1945, salutato dal ministro Mezzasoma con le parole "vado a morire con il
duce", preferì andare dalla parte opposta e si rifugiò a casa di un israelita di Torino. Unico fra tutti i dirigenti
della RSI, e forse fra tutti gli aderenti, a non essere processato per "collaborazionismo", nel dopoguerra
riapparirà per fondare il MSI. Riapparirà anche il suo predecessore al Minculpop, Gilberto Bernabei, che
sarà prezioso e fidato segretario personale di Giulio Andreotti per oltre un ventennio. (G. ALMIRANTE,
Autobiografìa di un fucilatore, II Borghese, Milano, 1974)
L'elenco potrebbe continuare con altri personaggi "mitici" della storia missina, come ad esempio Ezio Maria
Gray che il 25 luglio 1943 mandò un telegramma di congratulazioni a Pietro Badoglio (Cfr. A. PETACCO, Dear
Benito, caro Winston, Mondadori, Milano, 1976), ma è meglio passare alle "idee".
Il MSI, fin dal suo apparire si è sempre rifatto all'esperienza del regime fascista, in un arco di tempo che va
dal 3 gennaio 1925 al 25 luglio 1945. Ne metterà in risalto la politica estera e nazionalistica, quella religiosa
che porta al Concordato, quella sociale di stampo assistenzialistico, la componente antimarxista e la visione
statalista.
Dell'esperienza della RSI, porrà in risalto solo due aspetti: il "sacrificio" di quanti, primo Mussolini, la
costituirono per porre un fermo "all'ira tedesca" e la scelta per "l'Onore d'Italia" di quanti vi aderirono
senza per questo essere fascisti.
Il MSI, cioè, non ha una propria ideologia, ha solo una linea politica che cammina sul filo di due direttrici: il
nazionalismo e l'anticomunismo.
Due componenti ideologicamente derivate dal fascismo e non tali, quindi, da provocare il rifiuto del
"sistema" democratico e antifascista che in tale partito non vede un antagonista né un pericolo, vuoi per la
scarsa levatura intellettuale e morale dei suoi "capi", vuoi per la mancanza di una componente ideologica
definita che, unica, avrebbe potuto permettergli di proporre un'alternativa" che invece rimane solo uno
slogan fra i tanti che il MSI ha escogitato per nascondere il vuoto ideologico che da sempre ha
contraddistinto la sua esistenza e la sua attività.
Il Centro "Ordine Nuovo" di Pino Rauti ha una caratteristica sulla quale conviene soffermarsi: non ha mai
avuto un programma politico né si è mai posto un obiettivo politico. L'unico intervento nell'agone politico
risale alla campagna per la "scheda bianca" della primavera del 1968.
"Ordine Nuovo" non guarda all'esperienza del ventennio fascista come esempio positivo, si rifà
principalmente a quella del nazismo, e per quanto riguarda la RSI la considera positivamente non dal punto
di vista ideologico, bensì da quello dello "stile" di cui diedero prova i suoi combattenti.
Ma una formazione politica che non fa "politica", che svolge solo un'attività di tipo formativo, direi
pedagogico; che tende a "creare" degli uomini, a selezionarli, a reclutarli, affascinandoli con le teorie di
Evola e di Guénon; che offre non solo idee ma anche modelli di vita che queste idee hanno concretizzato,
attuato con coerenza, a che serve se non è una setta esoterica - ed "Ordine Nuovo" non lo è mai stato?
Per comprendere e dare una risposta a questo quesito occorre riportarsi alle tematiche sulla "guerra
rivoluzionaria" e "controrivoluzionaria", attingendo agli atti del Convegno dell'Istituto Pollio, là dove si parla
del "soldato rivoluzionario" e del suo antagonista "controrivoluzionario". Dice Eggardo Beltrametti:
"... l'elemento uomo, strumento e non soggetto della g. r. è un'arma e... l'impiego di quest'arma
conseguentemente non è impacciato da considerazioni morali o spirituali" (E. BELTRAMETTI, "La guerra
rivoluzionaria: filosofia, linguaggio e procedimenti. Accenni ad una prasseologia per la risposta", in La
guerra rivoluzionaria, cit., p. 76.).
E il soldato controrivoluzionario? Sempre secondo Beltrametti, "deve sentirsi protagonista della risposta
alla g. r., non tanto per il fucile che porta, quanto per la sua forza interiore; deve insomma avere un
carattere, una morale, una dottrina adatte per portare l'offesa sullo stesso terreno del nemico" (ibidem)
perché non vi deve essere "alcuna differenza morale nel colpire il nemico con quelle armi che si dimostrino
efficaci" (ivi, pag.78).
Un'attività culturale, formativa, quella del Centro "Ordine Nuovo", divenuto centro di reclutamento per le
esigenze della guerra "controrivoluzionaria". Si cercavano "uomini-arma" selezionandoli fra i simpatizzanti,
gli aderenti ed i "militanti" (questi i tre livelli di "Ordine Nuovo") per una causa che non era la loro.
Uomini da inserire nel più assoluto segreto in organismi NATO, a difesa di quel mondo "occidentale"
dominato dall'America, nella cui vittoria finale sull'Europa si individuavano l'origine della decadenza
occidentale e della finis Europae.
Parole prive di riscontri? Opinioni mie?
Non credo che il Ministro degli Interni vi abbia inviato il facsimile della "scheda di adesione" al Centro
"Ordine Nuovo" di Rauti, che conteneva fra l'altro domande riguardanti il servizio militare, il possesso di
porto d'armi, gli sport praticati e altro ancora che nulla avevano di "culturale". Non vi avrà certamente
mandato copia del volantino "Uno Stato forte contro la sovversione rossa", se sì avrete visto che
rappresenta, graficamente ben stilizzato, un plotone d'esecuzione in procinto di sparare.
Il Centro "Ordine Nuovo" fu, quindi, all'insaputa della stragrande maggioranza dei suoi iscritti,
"un'organizzazione parallela", secondo quanto teorizzato dallo stesso Rauti nel suo intervento al convegno
del maggio 1965, delle forze militari italiane ed atlantiche. Del resto le stesse esigenze della "guerra non
ortodossa" comportano la creazione di nuclei di difesa civili che agiscono sotto il controllo dei militari e che
sono stati in realtà formati, come testimonierà anni dopo lo stesso Beltrametti, in forma cauta e riduttiva,
ma chiara e inequivoca, "alla frontiera orientale”. Dice testualmente Beltrametti: "A dire il vero una
iniziativa di questa natura, la quale non ha superato la fase sperimentale, è stata presa in Italia in un'area
limitata del territorio orientale" (E. BELTRAMETTI, Contestazione e megatoni, cit., pp. 151-152).
Del resto, per definire il ruolo di Pino Rauti è sufficiente leggere quanto dice Gianfranco Finaldi nel suo
intervento introduttivo:
"... Questo non è un convegno di studio. Non è un convegno politico. Ad esso prendono parte persone
oltremodo qualificate: studiosi, esponenti del mondo economico ed imprenditoriale, intellettuali, giornalisti
e osservatori militari.
Non vi partecipano uomini politici in quanto tali, in quanto cioè militanti politici, dirigenti di partito e
parlamentari. L'esclusione vuole essere una limitazione intenzionalmente e responsabilmente posta da noi
stessi, onde evitare facili scivolamenti nel campo della polemica politica attiva. Si capisce che l'argomento è
profondamente politico. Ma proprio per questo, siamo decisi a mantenerlo su un piano che conveniamo
chiamare scientifico" (G. FINALDI, "Inaugurazione del Convegno", in La guerra rivoluzionaria, cit., p. 15.).
Occorre commentare? Serve far rilevare il fatto che il "nazista" Rauti vi partecipa con ben altri titoli che non
quelli di "politico"? Io credo di no.
Comunque, i "fascisti" ci stanno. Non lo negano. E se il pubblico ministero avesse avuto l'onestà di leggere
gli atti del Convegno avrebbe anche saputo il perché e con quale ruolo.
Mi tocca ancora citare Eggardo Beltrametti, il teste rifiutato in questo processo:
"... constatiamo che in questa sede si sono trovate persone che nel passato hanno operato in solchi politici
diversi. Vorrei soffermarmi un momento su questo dato positivo del Convegno. Esso infatti da un lato è
stato onorato dalla presenza attenta ed impegnata dell'on. Ivan Matteo Lombardo, il quale è uscito dalla
prigione il 25 luglio 1943. Perché egli era all'opposizione allora, quando in Italia era molto più difficile fare
l'opposizione. Ma alcuni di noi, più giovani, che sono nati e vissuti nel solco del fascismo sono qui presenti e
tutti, gli uni come gli altri, siamo degli ex che hanno un orizzonte comune, quell'orizzonte che è proprio di
questo convegno. Infatti, noi ci troviamo sulla stessa barricata. Probabilmente lo eravamo da allora e non lo
sapevamo” (E. BELTRAMETTI, "La guerra rivoluzionaria....", cit., p. 259).
Ma non è un vincitore che parla, bensì un vinto, uno sconfitto che si umilia nel definirsi "ex" e che nella sua
"cupidigia di servilismo" riduce il "fascismo immenso e rosso" di Drieu La Rochelle ad un movimento anticomunista, meramente antibolscevico come l'Azione Cattolica o i Comitati Civici.
Quindi gli ex-fascisti ci stanno ed hanno il ruolo subalterno e subordinato che i vincitori, i detentori del
potere, assegnano agli sconfitti che si mettono al loro servizio.
E quanto fosse subordinato e subalterno questo ruolo lo si vide nell'ottobre del 1969, allorché Pino Rauti fu
obbligato ad "aprire l'ombrello" perché i detentori del potere avevano deciso che uno "Stato democratico e
antifascista" non poteva essere "salvato" solo dalla minaccia comunista ma anche da quella "fascista" in
nome di quella "centralità" del potere democristiano riaffermata fin dal 1945.
7. "DESTABILIZZARE PER STABILIZZARE"
Ci fu uno scontro fra coloro che ritenevano tatticamente producente insistere solo sul pericolo "rosso" e
coloro che, viceversa, temendo uno spostamento a destra dell'asse politico, volevano rappresentare un potere attaccato da entrambi i lati, "cittadella assediata" dagli "opposti estremismi".
Uno scontro che rifletteva quello in atto da tempo negli Stati Uniti, fra Dipartimento di Stato, Casa Bianca,
Pentagono, CIA e FBI e che alla fine si risolverà con la vittoria dei fautori degli "opposti estremismi" e
provocherà la rottura, nella primavera del 1973, dei vertici militari e del SID.
Il pubblico ministero nella sua requisitoria è riuscito a confondere ciò che era chiaro e a negare ciò che è
vero; di più, nel tentativo di provare l'attacco "fascista" allo Stato democratico, ha citato a sproposito la mia
affermazione sulla finalità di una strategia che mirava a "destabilizzare l'ordine pubblico per stabilizzare il
regime", e di suo ha aggiunto che si voleva obbligare i cittadini a "barattare sicurezza con libertà".
Ma chiunque si proponga questi fini agisce in difesa del regime e dello Stato che con esso s'identifica, non
contro di esso, perché se nemici hanno la forza di "destabilizzare l'ordine pubblico" eventualmente lo fanno
per aprire la fase dello scontro generalizzato contro lo Stato, nell'ottica di un'offensiva contro di esso, che
tende ad indebolirne la capacità difensiva.
Se, viceversa, lo fanno per "stabilizzare il regime" o "il potere", come ha preferito dire il pubblico ministero,
allora costoro non sono nemici dello Stato, ma agiscono in un'ottica difensiva dello stesso, avendo inoltre la
facoltà legislativa di poter offrire ai cittadini intimoriti "sicurezza" in cambio di minor libertà.
Nel primo caso applicano le tecniche della "guerra rivoluzionaria", nel secondo quelle della "guerra
controrivoluzionaria" così come sono state teorizzate nei vari convegni internazionali e non soltanto in
quello del maggio 1965.
Il pubblico ministero, come esempio storico di "provocazione nazista", vi ha citato l'incendio del Reichstag
provocato, a suo dire, dai nazisti per incolpare i comunisti ed avere, in tal modo, la possibilità di metterli
fuori legge.
Non ha riflettuto il p. m. su quanto diceva, altrimenti avrebbe taciuto, perché, ammesso e non concesso
(storicamente non è provata la responsabilità dei nazisti) che gli hitleriani hanno posto in essere
quest'opera di provocazione ai danni del partito comunista, lo hanno fatto perché stavano già al potere
(Hitler era cancelliere del Reich dal 30 gennaio 1933) e avevano quindi gli strumenti legali per utilizzare la
provocazione mettendo fuori legge il partito comunista tedesco, cosa che puntualmente avvenne con il
consenso del presidente Hindenburg.
Fu un'azione perfettamente inquadrata in una logica di difesa dello Stato, minacciato dal pericolo "rosso".
Se dopo la strage di Piazza Fontana, il governo, con il consenso di una larga maggioranza parlamentare o
meno, avesse messo fuori legge i gruppi anarchici e, dopo la strage di Brescia, quelli della destra extra-parlamentare, il p. m. vi avrebbe visto un attacco fascista alla democrazia o una difesa dello Stato
democratico? La risposta mi pare superflua.
Ma c'è un esempio storico molto più calzante di quello citato dal p. m., la provocazione posta in essere dalla
polizia politica zarista e portata avanti per anni con attentati ad alte personalità dello Stato, bombe, incendi, congiure, complotti, ecc. ecc.
Il metodo era efficace: "provocatori" infiltrati nelle varie organizzazioni di opposizione al regime
trascinavano i loro "compagni" in campagne di attentati che permettevano poi al regime di emanare leggi
sempre più repressive e alla polizia politica di aumentare i suoi poteri.
E la mimetizzazione di questi "infiltrati" era talmente perfetta e segreta che quando su alcuni di essi emerse
la verità in sede processuale, i loro disgraziati compagni si rifiutarono per molto tempo di accettarla come
tale. Perfino nella Russia zarista, a volte, la verità sull'azione della polizia politica veniva a galla: in
democrazia, invece, i pubblici ministeri pur di negarla vanno a caccia di nazisti a quarantadue anni dalla fine
del Reich. Longevi e prolifici questi nazisti! Anche la polizia politica zarista agiva, ed efficacemente, in
un'ottica di difesa dello Stato, impersonificato dal "piccolo padre" di tutte le Russie.
Venendo ai nostri tempi, potrei ricordare tutti gli interventi compiuti dagli Stati Uniti in paesi latinoamericani ed europei utilizzando metodi destabilizzanti dell'ordine pubblico, al fine, sempre puntualmente
conseguito, di ristabilire "legge e ordine", ma non vorrei ripetere, moltiplicando gli esempi, quanto ho già
detto sull'Argentina e sui montoneros, i cui capi lavoravano per la giunta militare, mentre i loro militanti
compivano attentati con le pastiglie di cianuro in bocca per evitare di cadere vivi, in caso di insuccesso,
nelle mani della giunta.
Non posso comunque evitare di parlarvi del caso di David Graiver: banchiere di razza e religione israelita,
con interessi in Europa e negli Stati Uniti, fallito nel 1977 e morto in un “incidente” aereo in Messico nello
stesso anno.
David Graiver, banchiere di successo, fra le sue molteplici attività svolgeva anche quella di "riciclatore" del
denaro che i montoneros si procuravano con i sequestri di persona; e all'epoca del suo crollo finanziario
doveva dare a Firmenich e compagni la cifra di sedici milioni di dollari. (Mario Firmenich è stato uno dei capi
di spicco dei montoneros, sopravvissuto indenne agli anni dei desaparecidos e della repressione militare, fin
quando, nel 1985, sono apparse, anche sulla stampa italiana, le prime notizie e le prove del suo legame con
i militari argentini, in particolare quelli vicini alla massoneria ed al ramo argentino della P2: non a caso
Firmenich ha effettuato alcuni soggiorni in Italia, che costituiscono altri interessanti episodi della sua
carriera di provocatore e confermano l'utilizzazione a tutto campo delle strutture di “Interpol politica”
sognate da Ivan Matteo Lombardo.) Graiver era un uomo potente e dalle potenti amicizie, in Argentina, in
Israele, negli Stati Uniti e anche in Europa, così che quando, a seguito del crollo finanziario, venne
individuato come finanziatore dei montoneros, e si diede alla latitanza, la stampa argentina lo indicò solo
come estafador (truffatore), fuggito per aver fatto bancarotta con i soldi dei suoi clienti.
Si tacque anche sull'arresto di Jacobo Timmermann, israelita, direttore del quotidiano L'Opinion, anch'egli
implicato nelle operazioni dei sequestri di persona compiuti dai montoneros, e, in particolare, in quello
dell'italiano Oberdan Sallustro, e grande amico di David Graiver.
La giunta militare argentina impose il più rigoroso silenzio sugli aspetti politici di questa vicenda: Jacobo
Timmermann venne posto agli arresti domiciliari senza subire alcun interrogatorio e con facoltà di
telefonare ai familiari in Israele; il padre di David Graiver, inizialmente arrestato per complicità con il figlio,
venne presto scarcerato; e la provvidenziale, quanto mai tempestiva ed opportuna morte di David Graiver,
schiantatosi al suolo con il suo aereo privato, in Messico, sollevò la Giunta militare dall'onere di un processo
imbarazzante che comunque era stato subito circoscritto al solo reato di "bancarotta fraudolenta".
Qualche tempo dopo, alcuni amici, in Argentina, vennero in possesso di una lettera autografa di Sol
Linowitz, consigliere speciale di Jimmy Carter per l'America Latina, indirizzata ad Antonio Allende, esponente della democrazia cristiana argentina, nella quale, oltre a trattare di un imminente vertice
dell'Internazionale democristiana in Venezuela, a Caracas, si doleva per la morte del "nostro amico" (così
nel testo) David Graiver. Per il governo argentino, impegnato a difendersi dall'offensiva propagandistica del
presidente degli Stati Uniti sulla violazione dei diritti umani, era tale lettera un'arma di rara efficacia
propagandistica contro Carter ed il suo staff, perché dimostrava i legami di un uomo del "clan" del
presidente con la sovversione argentina: sulla lettera fu, invece, imposto il più rigoroso silenzio.
In conclusione, una fotocopia della lettera venne inviata a me, a Santiago del Cile, dove riuscii a farne
pubblicare il testo insieme ad un mio articolo di commento sul quotidiano della capitale cilena Cronaca, nel
quale inquadravo il "caso Graiver" nella sua giusta dimensione politica. Una settimana dopo, sullo stesso
giornale, con la medesima evidenza, appariva un articolo firmato da un giornalista messicano,
anticomunista viscerale, in ottimi rapporti con la giunta militare cilena, che aveva per titolo ''La grande
estafa del banquero David Graiver", presentato, secondo copione, come "truffatore", "millantatore",
"furbastro", che aveva abusato dell'ingenuità delle persone con le quali era venuto in contatto.
Un episodio emblematico ove si consideri che Sol Linowitz, amico personale dell'ex presidente Salvador
Allende e suo consigliere legale negli Stati Uniti, era indicato pubblicamente come nemico giurato del Cile
del generale Pinochet.
Non fu un caso che la risposta al mio articolo venne data, nei termini sopra indicati, da un anticomunista
"feroce", come non a caso mi trovo oggi contro, con mia soddisfazione, sia ben chiaro, gli anticomunisti
nostrani, più o meno "fascisti" o presunti tali.
Non fu un caso che i termini usati allora, in Argentina ed in Cile, per definire David Graiver siano identici a
quelli impiegati in Italia per tratteggiare la figura di Licio Gelli, caduto in disgrazia. Non è un caso che
l'azione montonera in Argentina giustificò il colpo di stato del 24 marzo 1976 e lo sciopero dei camionisti
cileni, finanziati dalla CIA, abbia giustificato il colpo di stato dell'll settembre 1973.
Non è un caso che il denominatore comune di questi avvenimenti, in America Latina ed in Europa, nella
diversità delle situazioni e delle soluzioni, sia sempre e soltanto l'anticomunismo. In America Latina si ricorre, secondo gli usi e la storia di quell'infelice continente, all'intervento diretto delle Forze Armate,
mentre in Europa si difende la democrazia con tecniche più sofisticate.
8. L'AZIONE PSICOLOGICA
E' l'anticomunismo, in chiave anti-russa, l'ossessione dell'America post-bellica che difende il suo impero ed i
suoi interessi, lanciando una crociata ideologica che coloro, in Italia ed ovunque, che ritengono il comunismo il "male" per antonomasia del XX secolo, trovano non solo necessaria ma sacrosanta ed alla quale
aderiscono senza riserve.
Del fascismo e del nazionalsocialismo, miti sepolti e tramontati, si ricorda solo ciò che serve ad alimentare
l'anticomunismo delle vecchie generazioni ed a generarlo nelle nuove. Non esiste un solo libro, a "destra",
in quella destra che viene definita, e a volte si autodefinisce, "fascista" o addirittura "nazionalsocialista", un
solo libro - dico -, che parli della guerra europea sui fronti occidentali, ma solo di quella sul fronte orientale.
Si ricordano le imprese delle Waffen SS sul fronte dell'Est e si tace sulle battaglie disperate delle divisioni SS
sul fronte occidentale, perché insieme al loro sacrificio vada seppellito anche il ricordo che l'Europa fu vinta
dagli aerei americani, dai mezzi corazzati americani e dalle armate americane.
Un'opera lenta, tenace, portata avanti da quarant'anni perché migliaia di giovani identificassero il loro
nemico nell'imperialismo sovietico e dimenticassero di vivere sotto il tallone di quello americano.
9. TRE LIVELLI PER UNA STRATEGIA DI GUERRA
Non occorse certo un gran lavoro di strategic intelligence agli esperti americani e della NATO per
individuare nel "ventre molle" dell'Europa il punto debole dello schieramento atlantico sul finire degli anni
Cinquanta. Più tempo gli occorse per trovare i punti deboli del nemico secondo le ricerche della tactical
intelligence da applicare alla "quarta dimensione" della guerra, così ben delineata dall'antifascista Ivan
Matteo Lombardo.
Non ripeterò qui quanto già detto e scritto sulla natura difensiva della strategia della tensione, aggiungerò
soltanto che snidare il nemico, farlo uscire allo scoperto e distruggerlo risponde anch'esso a principi di
strategia militare che impongono di intervenire prima che il nemico abbia completato la sua preparazione e
il suo schieramento, in questo caso la “infiltrazione nei gangli vitali dello Stato”. Un'operazione così
delicata, difficile e gravida di funeste conseguenze non viene varata da forze subalterne, ma deve essere
legittimata da forze politiche chiamate, in futuro, a "coprire" l'intera operazione e gli uomini che l'hanno
condotta a termine. Esistono quindi tre livelli:
1. II livello politico, l'unico in grado di delegare e di legittimare l'operato delle Forze Armate e di
sicurezza chiamate a condurre una guerra invisibile.
2. II livello militare, che studia, analizza e conduce sul terreno le operazioni per il tramite dei suoi
servizi di sicurezza, gli unici in grado di muoversi con la necessaria segretezza sul terreno della
"quarta dimensione" di questa guerra.
3. II livello civile, necessariamente politico, necessariamente subalterno al potere, necessariamente
"estremista" nei metodi se non nelle idee, necessariamente "fanatizzato".
IL LIVELLO CIVILE:
Nel caso italiano, si crea uno schieramento "civile" che va dai partigiani "bianchi" ai "fascisti", uniti, fianco a
fianco, nella lotta contro il nemico comune: il comunismo. Uno schieramento reso possibile da anni ed anni
di lenta, efficace, "azione psicologica".
Analizzando l'azione politica dei gruppi della destra extraparlamentare, senza distinzione alcuna, vediamo
subito che non esistono programmi politici, né proposte, né obiettivi, minimi o massimi, vicini o lontani nel
tempo.
Un dato ulteriore risulta subito ed è la mancata ricerca del consenso che sta alla base di ogni formazione
politica in quanto tale. La loro attività è esclusivamente indirizzata ad arginare la "marea rossa", le loro
proposte politiche si riducono a chiedere il potere per le Forze Armate, unico "baluardo" della Nazione
"tradita da un regime corrotto e corruttore".
Nella destra extra- parlamentare si agisce (contro i "rossi") o ci si addestra in vista dello scontro (con i
"rossi") dato per scontato ed imminente; ci si infiltra (fra i "rossi") e quando ci si dedica alla formazione culturale si pone l'accento sull'esigenza imperiosa di difendere la civiltà occidentale, "uomini in piedi fra le
rovine", minacciata, occorre dirlo?, dai "rossi".
L'anti- americanismo, che pure esiste in forma ridotta, non si traduce in termini politici, rimanendo
confinato in un disprezzo intellettuale fine a sé stesso.
Giudicati nel loro insieme o separatamente, i gruppi della destra extra- parlamentare appaiono incapaci di
costituire una minaccia politica per il regime statale, e non per incapacità di uomini ma per scelta, perché
(basti vedere le date della loro "nascita" ed i periodi del loro massimo sviluppo) sono nati quali formazioni
fiancheggiatrici di forze capaci per potenza di giungere a una soluzione del caso italiano: le Forze Armate.
Destinate a fare da supporto all'azione altrui, abbandonate a sé stesse da coloro che se n'erano servite per
tutti gli anni Sessanta e fino alla metà degli anni Settanta, le formazioni storiche della destra extraparlamentare si dissolveranno perché avranno esaurito la loro funzione e, nulla vedendo al di fuori di un
cieco anticomunismo, non saranno capaci di ritagliarsi uno spazio politico e spariranno come gruppi
organizzati: senza storia e senza gloria.
Sul MSI, c'è poco da aggiungere a quanto detto. Vi ricordo che questo partito null'altro ha mai saputo
proporre che "stato d'assedio", "leggi di emergenza", "potere ai militari", "blocchi d'ordine" e "pena di
morte", in un programma qualunquistico che è comune a tutte le destre reazionarie, in Europa e fuori.
Per le forze partigiane "bianche" (che vanno dai socialisti ai liberali), il discorso è identico, perché identico è
il fine e l'origine del loro raggrupparsi, sebbene - e questo diverrà di fondamentale importanza negli anni
Settanta - dividano equamente il loro odio fra comunisti e fascisti, non rifuggendo però dallo
strumentalizzare giovani "fascisti".
Tutti costoro vivono nella speranza messianica dell'intervento risolutore delle FF. AA., direi quasi che è una
fede abitualmente ispirata ed alimentata dall'azione psicologica degli ufficiali incaricati di operare in tali
ambienti. Ed è in questo mondo, strumentalmente unito dall'avversione al comunismo e dalla fiducia nelle
Forze Armate, che gli uomini dei "servizi", appoggiati e coadiuvati da ufficiali dei carabinieri, e, in un
rapporto di concorrenza e di rivalità, da funzionari della polizia politica, studiano, selezionano e reclutano
gli uomini che per caratteristiche appaiono loro più idonei a trasformarsi in loro collaboratori permanenti ai
quali affidare il compito di creare gruppi d'azione, proporre attentati, svolgere attività informative. A parte
personaggi della levatura di Edgardo Sogno e di Pino Rauti, che sapevano fin dall'inizio il lavoro che
svolgevano ed i fini che si volevano raggiungere, il primo con coerenza rispetto al secondo, la strumentalizzazione di quasi tutti gli altri fu possibile da un equivoco sempre presente nell'ambiente di destra: la
distinzione tra Stato e regime. In totale perfetta malafede ai vertici, fino a giungere alla buonafede nei livelli
più bassi della gerarchia, i militari hanno coltivato ed aizzato l'eversione, in questo mondo così vario, contro
il regime presentandosi come i difensori dello Stato che ad esso si contrapponeva.
Se per i "fascisti" il regime era "corrotto e corruttore", per i partigiani e gli antifascisti aveva "tradito "gli
ideali della resistenza; per entrambi era troppo debole nei confronti del comunismo. Le Forze Armate, per i
"fascisti" rappresentavano un mondo nel quale non erano (e non si sentivano) discriminati ed emarginati,
anzi si sentivano accettati e compresi per il loro fervore anticomunista, per il rispetto dei valori patriottici e
dell'ordine gerarchico; per i partigiani, esse incarnavano la continuità ideale della resistenza combattente,
lontana dai giochi di potere, logorata nella guerriglia e sacrificata sulla "Gotica". Erano, esse, la garanzia più
salda che gli ideali della lotta di "liberazione" non sarebbero stati traditi e che lo Stato democratico e
antifascista sarebbe stato difeso a costo di qualche "operazione indolore" da compiere con l'avallo e
l'appoggio delle forze politiche che dalla resistenza e dai suoi valori avevano origine ed in essi si
riconoscevano.
E le Forze Armate e di polizia che più di ogni altra istituzione incarnano la "continuità dello Stato" e ne sono
presidio e difesa, hanno coltivato questa illusione che almeno nei partigiani bianchi aveva fondamento e ragione d'essere, mentre nei "fascisti" era totalmente fuori luogo. E, non a caso, a pagare il prezzo di una
strategia che non gli apparteneva, saranno, poi, chiamati a rispondere i soli "fascisti", sul piano politico e su
quello giudiziario.
IL LIVELLO MILITARE:
Solo nelle aule dei tribunali si sente, oramai, parlare di ufficiali "fascisti" che hanno "tradito" il loro
giuramento di fedeltà alla Repubblica per "affinità ideologica" con i "terroristi neri".
Mi limiterò a questo proposito a sottolineare come gli ufficiali ex aderenti alla RSI, riammessi in servizio nel
1952, non hanno mai raggiunto gradi elevati né mai hanno ricoperto incarichi di vitale importanza per la
difesa della Nazione. A chi, come il pubblico ministero, ribadisce queste farneticazioni e rileva che ancora
nel 1987 esiste una "congiura contro la verità", in questo tipo di processi, naturalmente per colpa dei
"fascisti", ricordo che il generale Ernesto Viglione, capo di Stato Maggiore della Difesa, nel 1975, dodici anni
or sono, ha definitivamente bloccato la carriera degli ufficiali provenienti dalla RSI.
Dalla fine della guerra, solo gli ufficiali che avevano partecipato alla "campagna d'Italia" nei ranghi del
Corpo di Liberazione o avevano militato nelle bande partigiane, hanno avuto accesso alle più alte cariche
militari nelle Forze Armate italiane e in seno all'Alleanza Atlantica.
Alcuni esempi:
GIOVANNI DE LORENZO, M. O. al valor militare per meriti resistenziali, operò nelle reti informative militari a
Roma, in Toscana ed in Emilia, abolì i "corsi d'ardimento" voluti da Aloia e venne acclamato dal PCI, che lo
considerò un difensore delle istituzioni democratiche; a destra lo si considerava un generale "neutralista" e
Rauti scrisse un libello contro di lui, Le mani rosse sulle forze armate.
ENZO MARCHESI, decorato al valor militare per meriti partigiani, militò nella formazione azionista
"Stellina", capo di SM Esercito nel dicembre 1969, capo di SM Difesa nel dicembre 1970.
ALBERTO LI GOBBI, M. O. al valore partigiano, ha comandato la forza mobile della NATO (AMF) e, negli anni
'70, la brigata paracadutisti "Folgore"; i tedeschi, nel marzo del '44 gli uccisero il fratello ed a lui, arrestato,
lo interrogarono con metodi degni del commissario di PS Genova, dei NOCS.
RENZO APOLLONIO, decorato al valor militare per meriti partigiani, ha comandato la regione militare ToscoEmiliana negli anni '70.
DUILIO FANALI, capo di SM Aeronautica, sul finire degli anni Sessanta; dopo l'8 settembre 1943, aveva
aderito al Regno del Sud.
GIULIO GRASSINI, capo del SISDE dal 1978 al 1981, ufficiale dei carabinieri, decorato al valor militare per
meriti partigiani.
EUGENIO HENKE, ammiraglio, capo del SID, capo di SM Difesa, dopo l'8 settembre 1945 aveva aderito al
Regno del Sud.
ARNALDO FERRARA, partigiano confesso e non pentito, dal 1967 al 1977 ha ricoperto la carica di Capo di
SM dell'arma dei carabinieri, senza che questo riesca ad incuriosire qualche magistrato.
GIOVANBATTISTA PALUMBO, partigiano, come risulta dagli atti in vostro possesso, ha fatto brillante
carriera nei carabinieri.
Altri nomi li troverete nello scritto sulla RSI e sulla resistenza che ho allegato agli atti, in particolare nei
capitoli che trattano specificamente del ruolo dei militari nelle reti informative degli alleati e della
resistenza. Prima di fantasticare di "colpi di stato" fascisti, ideati, sognati o tentati da ufficiali superiori
dell'Esercito italiano, il pubblico ministero avrebbe dovuto informarsi se, ed eventualmente in quale misura,
le Forze Armate sono autonome dal potere politico o sono, comunque, in grado di sottrarsi, in tutto o in
parte, al controllo politico.
Avrebbe scoperto che la subordinazione delle alte gerarchie militari al potere politico è totale perché i
meccanismi delle nomine, degli avanzamenti, delle promozioni sono in mano ai politici che li utilizzano con
assoluta discrezionalità; avrebbe scoperto che il capo di SM Difesa è un consulente, in pratica, del Ministro
della Difesa e che ha funzioni di coordinamento fra le tre Armi; avrebbe scoperto che Esercito, Marina ed
Aviazione, attraverso i loro capi di SM, sono in eterna lotta fra loro, al fine di ottenere i finanziamenti
necessari per mantenere a livelli accettabili e migliorare i rispettivi apparati bellici e che si rivolgono ai
politici, unici in grado di soddisfare le loro esigenze.
Avrebbe cioè constatato che la dipendenza dei militari italiani dalla classe politica è totale, sia sotto il
profilo tecnico - amministrativo che psicologico. Avrebbe, poi, scoperto, approfondendo le sue ricerche, che
dalla fine della guerra, le Forze Armate italiane sono chiamate a garantire lo status quo voluto dai vincitori e
che sono chiamate a rispondere della lealtà con la quale assolvono tale ruolo sul piano interno dal potere
politico e su quello internazionale dall'Alleanza Atlantica, di cui l'Italia è parte integrante; il che si traduce in
un doppio controllo sul loro operato, cosicché le Forze Armate italiane sono subalterne e subordinate al
potere politico nazionale ed a un potere politico- militare sovranazionale.
Andando avanti nelle sue ricerche, il pubblico ministero avrebbe scoperto che le Forze Armate italiane sono
totalmente dipendenti per il loro armamento dagli USA e da paesi dell'Alleanza Atlantica; che non hanno la
possibilità di produrre mezzi bellici pesanti che non siano quelli consentiti su licenza degli Stati Uniti e, da
una decina di anni, dalla Germania e che sono qualitativamente inferiori a quelli di Francia, Germania, Inghilterra; che questa dipendenza rende impossibile ai nostri militari, anche il solo ipotizzare uno
sganciamento dall'Alleanza Atlantica e dalla tutela americana.
Avrebbe, quindi, scoperto che non solo dal lato politico ed economico ma anche, se non soprattutto, da
quello militare siamo un Paese a "sovranità limitata" per il quale valgono ancora oggi determinate clausole
del Trattato di pace e che ha la sola "libertà" di assolvere il ruolo delimitato assegnateci dai vincitori della
Seconda guerra mondiale. Dal che discende che un ipotetico "colpo di stato" nel nostro Paese poteva
essere fatto solo nell'ambito e con il consenso dei paesi aderenti all'Alleanza Atlantica, primo fra tutti gli
Stati Uniti. Un "colpo di stato fascista", inteso a ristabilire la situazione prebellica sul piano interno ed
internazionale (Stato totalitario e indipendenza nazionale), in un Paese suddito come il nostro e in un
consesso di nazioni interdipendenti fra loro, è solo un'affermazione priva di logica e basata sulla totale ed
assoluta ignoranza della realtà in cui viviamo.
Bisogna, inoltre, considerare che se mai ci fosse stata un'opposizione politica "fascista", organizzata e
decisa, avrebbe eventualmente praticato la via della rivolta, dell'insurrezione che è una rivoluzione che
parte dal basso; viceversa, il "colpo di stato" è una rivoluzione che parte dall'alto, da chi detiene, almeno in
parte, le leve del potere e vuole impadronirsene totalmente.
Non a caso si parla di "rivoluzione fascista" del 1922 e di "colpo di stato" del 25 luglio 1943. Il pubblico
ministero non ha mai parlato di "rivoluzione fascista" , bensì di "colpo di stato", con ciò riconoscendo che
l'eventuale azione eversiva era diretta ed alimentata dall'alto, il che implica il riconoscimento della
responsabilità nell'eversione stessa di una parte almeno della classe dirigente politica e militare italiana.
Nella sua superficialità, il pubblico ministero non ha considerato che "il colpo di stato", a sua volta, va
distinto dal provvedimento di necessità.
Cito un insigne giurista:
"Il colpo di stato si risolve in un abuso della legge vigente, che pretende di essere definitivo, cioè destinato
a durare; il provvedimento di necessità è bensì una violazione delle norme vigenti, ma considerata come
eccezionale e provvisoria". (F. CARNELUTTI, Controvento, Morano, Napoli, 1961) E, mentre non esiste prova
alcuna che in Italia si sia mai ipotizzato un "colpo di stato", esistono tutte le prove che, in più occasioni, a
partire dal I960 ad oggi, negli ambienti politici e militari detentori del potere e/o ad esso contigui, si è
adombrato, suggerito, invocato, cercato il "provvedimento di necessità", cioè quel particolare "colpo di
stato" che temporaneamente sospende le garanzie costituzionali e permette l'emissione dei provvedimenti
eccezionali contro le forze politiche che minacciano la sicurezza e la stabilità delle istituzioni.
Solo in questo caso le Forze Armate avrebbero potuto intervenire nel rispetto di precise norme
costituzionali previste dal nostro ordinamento e il loro operato, legittimato dal potere politico e
costituzionale, avrebbe assunto il significato difensivo dello Stato e della democrazia che solo avrebbe
potuto giustificare un'azione di forza nel rispetto dei trattati e dello spirito dell'Alleanza Atlantica.
Così operando, politici e militari avrebbero giustificato il loro agire invocando lo stato di necessità
provocato dall'attacco eversivo di sinistra prima, di destra e sinistra dopo, e apparendo i difensori della
democrazia e della libertà minacciate dai portatori di ideologie totalitarie; sul piano internazionale, inoltre,
avrebbero garantito la permanenza dell'Italia nell'Alleanza Atlantica o, secondo la terminologia corrente,
nel "mondo libero", che l'avanzata elettorale e "l'infiltrazione nei gangli vitali dello Stato" del PCI poteva
rimettere in discussione avviandola ad una scelta neutralista. Avrebbero così ristabilito "legge e ordine" in
un paese turbato dagli scioperi, dagli scontri di piazza, dagli attentati e dalle stragi, riscuotendo il plauso
della grande maggioranza della popolazione che avrebbe accolto con sollievo il baratto "sicurezza con
libertà" e, internazionalmente, il rispetto e il consenso dei Paesi della NATO.
Il ruolo delle Forze Armate e in particolare dell'arma dei carabinieri, preposta per compiti istituzionali alla
difesa della sicurezza del Paese, fu negli anni '60 quello di creare lo "stato di necessità" attraverso i suoi
servizi di sicurezza e i suoi apparati di polizia politica.
La strategia della tensione che ha attraversato un ventennio della nostra storia trova così la sua logica e la
sua ragione d'essere; insieme trovano spiegazione logica e coerente le coperture che ancora oggi vengono
date a coloro che, civili o militari, hanno contribuito al successo di tale strategia, eversiva nei metodi e
difensiva nei fini, che non possono essere sconfessati o abbandonati da un potere politico e militare che dal
loro operato ha tratto solo vantaggio e che dall'emergere della verità può ricavare solo danno.
Come hanno creato lo "stato di necessità"? Operando lungo due linee direttrici: l'azione diretta e
l'omissione, ovvero la "copertura".
L'azione diretta affidata ai civili inseriti in una struttura mista o reclutati per la bisogna negli ambienti
politici più fervidamente anticomunisti o predisposti all'azione. L'omissione o la "copertura" affidata ai CS,
agli ufficiali dei reparti preposti all'ordine pubblico dei carabinieri ed ai funzionari della polizia politica. Non
uso a caso il termine di "omissione" perché chi conosce il modus operandi degli addetti alla sicurezza sa che
costoro non hanno mai interrotto la loro attività informativa, cioè non si sono mai astenuti dal raccogliere
informazioni su uomini, gruppi, attentati, congiure e chi più ne ha più ne metta, ma ha "omesso" di
trasmettere alla polizia ordinaria ed alla magistratura le notizie di cui venivano in possesso. I servizi di
sicurezza nel nostro Paese sono numerosi e non collaborano fra loro, tanto più che una
compartimentazione stagna esiste anche all'interno dei singoli servizi. E' normale, quindi, che i civili (e a
volte non solo quelli) vengano schedati e sorvegliati da questo o quel servizio ignaro che i "sorvegliati"
magari lavorano per un altro servizio. Non c'è timore di errore in tale attività perché i Centri periferici non
hanno competenza per agire direttamente, ma svolgono la loro attività informativa ed inviano le notizie
raccolte al Centro che provvederà a conservarle nei suoi archivi o a utilizzarle quando, e se, se ne
presenterà la necessità. Anche la conoscenza del modus operandi degli "uomini dell'ombra" conferma che il
coordinamento di una strategia operativa che coinvolge direttamente o indirettamente migliaia di persone
può essere fatto solo ai vertici e dai vertici degli apparati di sicurezza e di polizia. Le "coperture" non
possono scattare mai a basso o medio livello della gerarchia, perché ciò che un CS periferico può "coprire"
può essere scoperto da un "servizio cugino", con le conseguenze che si possono facilmente intuire; tanto
più non saranno subalterni a "coprire", senza essere a loro volta autorizzati e "coperti", se i fatti sono di
estrema gravità, o coinvolgono militari o poliziotti, cioè "colleghi".
Ma di tutto questo, che ne sa il pubblico ministero? E, sempre restando in tema di quel che non sa il p. m.,
Amos Spiazzi, altro teste rifiutato in questo processo, ha pubblicamente dichiarato che quando, giovane
ufficiale del servizio "I" Esercito, prestava servizio in Alto Adige, al tempo degli attentati firmati dagli
irredentisti sud-tirolesi, ebbe a vantarsi con un suo superiore per il fatto che nel settore di sua competenza
non esplodevano bombe... venne rimproverato perché le bombe era meglio che esplodessero.
Ed è provato che i servizi italiani avevano anche i "terroristi" austriaci che le bombe le mettevano per loro
conto!
Qualcuno ha mai fatto l'elenco degli ufficiali dei carabinieri, dei servizi e dei funzionari di polizia che hanno
prestato servizio in Alto Adige, al tempo della guerriglia sud- tirolese, e che ritroveremo negli anni della
"strategia della tensione" in punti chiave del territorio nazionale e coinvolti in episodi a dir poco oscuri?
Non viene il sospetto al p. m. che, varata la strategia della "destabilizzazione dell'ordine pubblico per
stabilizzare il regime", era meglio che le bombe esplodessero in tutto il territorio nazionale, prima "rosse",
poi "nere" e, infine, multicolori?
Altrimenti come lo "destabilizzavano" questo ordine pubblico!
L'ennesima riprova del ruolo avuto dagli apparati militari e di polizia in questa strategia, la si ottiene
scorrendo anche parzialmente l'elenco degli ufficiali e dei funzionari di polizia chiamati, se non a rispondere
di reati, a spiegare certe omissioni o carenze investigative. Un elenco lungo che non ritengo utile riproporvi
(si potrebbe cominciare dall'attuale questore Antonino Allegra, per finire con il noto generale Musumeci),
perché il problema sostanziale non è quello di scorrere un lungo elenco nominativo, ma di dire una volta
per sempre se costoro sono tutti "fascisti" infiltrati negli apparati di Stato, o "traditori" della Repubblica (e
in tal caso che si cominci a provarlo e a spiegare perché, benché inquisiti, come Allegra nel 1969, li
ritroviamo sempre ai loro posti con accresciute responsabilità e poteri) o sono individui che hanno operato
in ossequio a direttive dall'alto e quindi fedeli allo Stato nel cui interesse hanno agito, anche violando il
codice penale certo, ma in nome della ragion di Stato.
IL LIVELLO POLITICO:
Non ripeterò quanto ho già scritto sulla preminenza dei politici sui militari e, quindi, sul controllo totale ed
assoluto che il potere politico ha sempre esercitato sulle gerarchie militari, mi limiterò a fare degli esempi
concreti.
Il pubblico ministero vi ha portato, come esempio di "colpo di stato fascista" il cosiddetto "Piano Solo" del
luglio 1964, citandovi alcuni passi tratti dalla relazione di minoranza della Commissione parlamentare d'inchiesta. Io comincerò col citarvi alcuni passi della relazione di maggioranza di tale Commissione, cosi
chiamata perché espressione della maggioranza di governo, di quella parte politica cioè che, a dire del p.
m., sarebbe stata la prima vittima del golpismo "fascista" di De Lorenzo e accoliti:
"Cosa dunque è accaduto? E' avvenuto che, nella primavera- estate del 1964, il generale De Lorenzo, quale
comandante generale dell'Arma dei carabinieri, al di fuori di ordini o direttive o di semplici sollecitazioni
provenienti dall'autorità pubblica (specificamente il ministro dell'Interno o il ministro della Difesa o il
Presidente del consiglio dei ministri) e senza nemmeno darne loro notizia, ideò e promosse l'elaborazione
di piani straordinari da parte delle tre divisioni dell'Arma operanti sul territorio nazionale".
A questo, risponde ancora la relazione di maggioranza: "Tutto ciò nella previsione che l'impossibilità di
ricostituire un governo dì centro- sinistra avrebbe portato a un brusco mutamento dell'indirizzo politico tale
da creare gravi tensioni determinando una situazione dì emergenza speciale".
Vale a dire alla temutissima, negli ambienti economici, militari, politici ed ecclesiastici, ipotesi di una
rinnovata alleanza PSI-PCI con la ricostituzione di un "Fronte Popolare". E, visto che non c'è traccia di golpismo "fascista", la relazione di maggioranza imputa al generale De Lorenzo la sola omissione di aver
predisposto un piano dì difesa della sicurezza nazionale e di averlo portato al livello di esecuzione senza
aver preventivamente informato i ministri competenti e il governo.
"Difesa della sicurezza nazionale" minacciata dall'eventuale alleanza PSI-PCI, nell'ottica del potere
democristiano e dell'Alleanza Atlantica; certo, anche Almirante sarebbe stato felice se il "Piano Solo" fosse
divenuto esecutivo, ma l'esultanza di codesto forcaiolo non è sufficiente per parlare di "colpo di stato
fascista".
D'altronde, a quali conclusioni giungono le mancate vittime di De Lorenzo? I relatori di minoranza scrivono
che è provata la connessione "tra l'operazione elaborata e preparata dal generale De Lorenzo e uomini
politici di elevato rango e responsabilità e, come si sa, fanno un preciso riferimento anche al capo dello
Stato, il democristiano Antonio Segni.
Non ci sono riferimenti ai "fascisti' sempre che non si voglia ritenere tale l'allora capo dello Stato, ma sono
certo che il p. m. non vorrà giungere a tanto.
Come finisce, è noto: a De Lorenzo, quale premio per aver fatto da capro espiatorio, uomini della DC
offrono la presidenza dei Cantieri Navali di Taranto, ma il generale rifiuta, si mette in politica prima coi
monarchici e poi con i missini quando i primi confluiscono nel partito di Almirante.
Ma sul "Piano Solo" non sappiamo tutto perché c'è stato chi ha "coperto", costellando di omissis i
documenti e utilizzando a tutto spiano l'arma del segreto di Stato; un uomo che così facendo ha permesso
ai "fascisti" del "Piano Solo", come Dino Mingarelli, quello "ideologicamente affine" a chi scrive, secondo
Casson e Ferrari, di continuare nella loro carriera di ufficiali dei carabinieri e di "tradire la Repubblica".
Faccio il nome, certo che il p. m. vorrà chiederne l'incriminazione, previa acquisizione della sua
testimonianza nell'inchiesta- bis su Peteano: si chiama Francesco Cossiga, ed attualmente risiede al
Quirinale, come già il suo conterraneo Antonio Segni nel 1964.
Veniamo al noto Giulio Andreotti, punto di riferimento del generale Gianadelio Maletti, capo del reparto
"D", "sicurezza interna", del SID, che il p. m. ha definito "famigerato". Il capo di tale "famigerato" ufficio,
nella primavera del 1973, si pone al servizio di Andreotti ed entra in guerra con il capo del SID, Vito Miceli,
che gode di altri protettori politici.
Ed è subito guerra, a colpi di informazioni riservate passate ai giornali, delazioni e riaperture di inchieste da
parte della magistratura che si vede beneficata di notizie ed informazioni.
Andreotti, per esempio, ha già da tempo deciso, dagli inizi del 1972 o ultimi del 1971, che il pericolo per la
democrazia viene dai "fascisti" e, con il valido aiuto di Maletti e La Bruna, decide di provarlo facendo
riaprire l'inchiesta sul "golpe Borghese" che la magistratura romana aveva già dichiarato inconsistente. Per
inciso, sulla rivista II Borghese, diretta dal fraterno amico del prefetto Federico D'Amato, Mario Tedeschi,
un tale di nome Filippo De Jorio dedica ad Andreotti un lungo articolo dal titolo alquanto antipatico, "Un
Giuda è fra noi". Alcuni giorni dopo, con una tempestività sorprendente, i NAP, i "Nuclei Armati Proletari",
sparano alle gambe di Filippo De Jorio che così capisce, almeno credo, che non solo non è il caso di scrivere
articoli così antipatici, ma forse è meglio non fare nemmeno gli articoli, altrimenti arrivano i NAP e sparano:
la prima volta alle gambe, la seconda chissà.
Tornando all'attività del nostro, lo vediamo impegnarsi in rivelazioni sull'aiuto dato, ad esempio, dal SID a
Giannettini del quale rivela l'appartenenza al servizio; lo vediamo denunciare sulla base dei dati raccolti da
Maletti e La Bruna, il "pericolo" corso dalla democrazia il 7 dicembre 1970: lo vediamo minacciare
l'apparizione, accanto agli imputati per la strage di Piazza Fontana, di imputandi.
Giulio Andreotti pare conoscere tutto e poter parlare di tutti ma, guarda caso, cessate le "guerre" interne al
potere, quando arriva a Catanzaro non ricorda, non gli pare di aver detto quello che hanno scritto i giornali,
perché, per carità, lui sarebbe disposto a collaborare ma non sa. Fu un bel colpo quello della riapertura
dell'inchiesta sul "golpe Borghese", vanamente contrastata da Vito Miceli che, per primo, ci rimette le
penne e finisce in galera per l'inchiesta sulla "Rosa dei Venti"; mentre Maletti s'incontra con il comunista
Pecchioli, in forma riservata, e La Bruna veglia sulla segretezza degli incontri; si sa, Andreotti ritiene che il
PCI sia una "tigre di carta" e gli anni Sessanta lui li ha già dimenticati. Ma, se per Maletti c'è cotanto
onorevole, per Miceli non c'è nessuno?
No, anche lui, tranquillizzatevi, ha un onorevole che lo stima. Aldo Moro. E' Moro a fare fuoco e fiamme
quando arrestano Miceli e ad inviargli un telegramma di solidarietà quando viene arrestato. E' sempre
Moro, in quel periodo, ad imporre "segreti di Stato" a tutto spiano e omissis sui documenti da mandare,
perché non se ne può fare a meno, a certi magistrati. E non fu l'on. Tanassi a raccomandare agli ufficiali del
SID di "dire il meno possibile"?
Quanti "segreti di Stato" hanno opposto i politici alla magistratura: sulle rivelazioni "Cavallero"; sulle attività
di Luigi Cavallo; sull'opera di Edgardo Sogno; sulla "Rosa dei Venti", ecc. ecc. I nomi di questi politici li
conosce anche il pubblico ministero, sono nomi di primo piano nella storia di questo Paese, dalla fine della
guerra ad oggi, e conosce anche la loro attività di "insabbiatori" e tuttavia ne trae la convinzione che
costoro ed il regime che rappresentano sono stati minacciati dall'eversione fascista, e cosa coprono e chi
coprono allora costoro? Le trame fasciste ed i fascisti che li volevano abbattere? Un minimo di serietà
serve, altro che "pericolo fascista "!
In realtà, il livello politico sa bene cosa copre, quale verità occulta e perché. II potere politico è l'unico e
vero beneficiario della strategia della tensione e non potrà mai abbandonare i suoi generali che l'hanno
organizzata e costoro a loro volta non possono lasciare che i loro subalterni paghino per aver eseguito i loro
ordini né possono abbandonare al loro destino i "civili" che, a loro volta, devono tacere anche a costo di
farsi qualche decina di anni di carcere, tanto le assoluzioni, prima o poi, arrivano.
Così i tre livelli, politico- ideativo, militare- organizzativo e civile- esecutivo sono fermamente uniti da un
imprescindibile filo d'omertà: al terzo livello, si fa i "martiri dell'idea" e i "perseguitati politici"; al secondo
livello, gli ufficiali intemerati che, al più, si sono rivelati incapaci; al primo livello, si loda la magistratura e la
si incoraggia a stroncare il terrorismo residuo e si esalta la vittoria della democrazia sull'eversione "nera e
rossa"; intanto si continuano ad opporre "segreti di Stato", si varano leggi che tendono a limitare il potere
dei magistrati e si premiano i "dissociati" perché stiano zitti; è sufficiente che si battano il petto e
riconoscano che lo Stato democratico aveva ragione e loro torto; alla stampa "indipendente", poi, ai mezzi
radiotelevisivi, è sufficiente ordinare di tacere.
10. P2: UNA STRUTTURA PARALLELA
"In ogni processo per strage chi cerca la verità si è sempre scontrato con chi inquina le prove o addirittura
fa fuggire i responsabili. In un solo processo però, ed è proprio quello per l'uccisione dei tre carabinieri a
Peteano, si sono visti uniti nella congiura contro la verità, al completo, tutti i poteri dello Stato".
Perché? Risponda, pubblico ministero.
Perché "Gelli nel 1944 era un brigatista nero, ideologicamente fanatico". Così risponde il dott. Gabriele
Ferrari, pubblica accusa al processo di Peteano, destinato a lunga e brillante carriera. Gli atti della
Commissione parlamentare d'inchiesta sulla Loggia P2 li avete, allegati alla documentacene processuale, e
non servirebbe da parte mia confutare l'incredibile affermazione del p. m.
Infatti, sottolineare che Gelli era un "brigatista nero" nel 1944 e per di più "ideologicamente fanatico",
cancellando quarant'anni dalla vita di costui, quasi che il Gran maestro della Loggia P2 abbia tramato da
allora contro la Repubblica con fanatismo è aberrante sotto il profilo storico, logico e politico.
Lo avete scritto nella relazione Anselmi, che Licio Gelli faceva il doppio gioco senza alcun fanatismo
ideologico e che, a guerra finita, consegnò ai servizi di sicurezza una lista di cinquantasei nomi di
"collaborazionisti", ancora protetti dal segreto perché fra costoro ci sono persone che hanno costruito le
loro fortune postbelliche su meriti antifascisti che, evidentemente, non potevano avere e rivendicare.
Affermare che per quarant'anni Lido Gelli abbia ingannato tutti coloro che, in un modo o nell'altro, lo
hanno aiutato nella sua ascesa all'interno della Massoneria e del potere, è talmente assurdo che non merita
la dignità di una confutazione, in un momento, poi, in cui Gelli "tratta" con le autorità italiane per tornare in
Italia, dopo essere "evaso" da una prigione svizzera di "massima sicurezza".
Licio Gelli, doppiogiochista, collaboratore dei servizi di sicurezza, massone, era anche anticomunista come
lo era tutta la Massoneria italiana, ispirata e diretta da quella nordamericana più che britannica. Assieme a
lui ed alla Massoneria, lo erano la classe politica dirigente del nostro Paese, la Chiesa cattolica, la classe
imprenditoriale ed economica, l'alta finanza e le Forze Armate; e, in un mondo "libero", votato alla sconfitta
del comunismo, disperatamente cercata per i propri interessi dagli Stati Uniti d'America, l'anticomunista
Gelli fa carriera, anche in virtù dei suoi sentimenti anticomunisti: dov'è la singolarità del caso?
La riprova la troviamo negli elenchi della Loggia P2, i cui iscritti erano, ovviamente, anticomunisti e non
erano quegli ingenui sprovveduti che potevano essere ingannati o truffati dal diabolico "brigatista nero",
Licio Gelli, impegnato a tramare contro la Repubblica democratica e antifascista. Nella lista della Loggia
massonica diretta da Licio Gelli si trovano i nomi del fior fiore dell'antifascismo italiano, tutti con un passato
resistenziale e alcuni, addirittura, con un ruolo preminente nella resistenza, nella cui leggenda sono entrati
a pieno titolo.
Gli esempi e le prove abbondano:
EDGARDO SOGNO RATA DEL VALLINO, responsabile dell'organizzazione "Franchi" durante la resistenza,
elemento di punta dell'antifascismo liberale, giunto ai vertici, nonostante la giovane età, del movimento
partigiano; la sua organizzazione, dedita allo spionaggio ed ai collegamenti con gli alleati, viene considerata
fra le migliori e le più attive in assoluto fra quelle operanti nel territorio della RSI.
Uomini destinati ad un brillante avvenire nel dopoguerra fanno parte della "Franchi", agli ordini di Sogno,
valga per tutti quello di Adolfo Beria d'Argentine, attuale Procuratore generale a Milano e, a quel tempo,
tenente delle Forze Armate di Salò e quindi doppiogiochista, come Gelli.
UMBERTO FEDERICO D'AMATO, collaboratore dei servizi di sicurezza americani nel periodo 1943-1945,
giovane commissario di PS della Repubblica di Salò e quindi doppiogiochista, come Gelli.
ORTOLANI UMBERTO, ufficiale del SIM (Servizio Informazioni Militari), operò al nord durante la guerra
civile, in stretto contatto con il vertice del CLN e del CVL.
JOHN McCAFFERY, inglese, buon amico di Sogno, Sindona, Gelli, dal 1943 al 1945 diresse a Berna il SOE
(Special Operations Executive), l'organizzazione britannica incaricata di "mettere a fuoco l'Europa con
metodi non da gentiluomini", come disse Winston Churchill. Spionaggio e sabotaggio erano le "specialità"
del SOE e di McCaffery, punto di riferimento di tutti i resistenti italiani, fra i quali il solito Edgardo Sogno.
GIOVAN BATTISTA PALUMBO, resistente, vice questore di Cremona dopo la "liberazione", non può essere
seriamente ritenuto un complice di Gelli nella trama "fascista" contro la Repubblica.
GIULIO GRASSINI, direttore del SISDE, generale dei carabinieri, partigiano decorato, anche lui vittima dei
raggiri del "fanatico brigatista nero Licio Gelli"?
VITALIANO PEDUZZI, banchiere, nel 1943-45 capo dell'organizzazione spionista "Feltre" della resistenza
italiana, in contatto con l'OSS americano.
Si potrebbe continuare nell'esame del passato degli iscritti alla Loggia P2, per trovarvi che la stragrande
maggioranza può avanzare, a ragione, meriti antifascisti e che un buon numero di essi vanta notevole esperienza e capacità nel campo dello spionaggio, delle wet operations e della guerra non ortodossa.
Uomini che, come Sogno, Ortolani, McCaffery, erano a livello di vertice nell'ambito dell'antifascismo
italiano, nel settore della guerra politica, non ortodossa, che all'epoca si chiamava "segreta" e veniva
condotta "senza bandiera", come ha scritto Sogno, mentre Gelli era un doppiogiochista di basso livello in
contatto con britannici e americani.
Tutti abbindolati da un "truffatore", da un "millantatore", come Gelli che per quarant'anni è riuscito ad
occultare il suo odio per la democrazia e i suoi propositi di restaurazione fascista in Italia, secondo la
brillante tesi del pubblico ministero in questo processo?
Ma tutti costoro, fra i quali si contavano a decine gli ufficiali dei carabinieri, dell'Esercito, della Guardia di
finanza e della polizia di Stato non si sono mai accorti di nulla? Tesi assurde, improponibili da chi giudica anche superficialmente la storia della Loggia P2, del suo "maestro venerabile" e dei suoi iscritti; tesi di
comodo, avanzate da chi rifiuta e teme la verità sulle motivazioni della "strategia della tensione" e dei
"depistaggi"; tesi comode per coloro, e sono tanti, che questa verità non vogliono far emergere.
Viene spontaneo chiedersi: come giudica il fatto che l'inchiesta su Peteano ricomincia a seguito di una nota
informativa del SISMI, diretto dal generale piduista Santovito, che indirizza i magistrati sulla "pista nera"?
Se Licio Gelli fu all'origine del depistaggio iniziale perché ha ordinato e permesso a un suo fedele iscritto di
far riaprire l'inchiesta, si era forse "pentito", "dissociato"?
Aveva forse sottovalutato la diabolica intelligenza del dott. Ferrari e del dott. Casson, ai quali non sapeva,
l'incauto, che sarebbe stata affidata l'inchiesta e il compito di smascherarlo? Possibile, errori ne fanno tutti,
anche il diabolico Gelli! Tralasciando ogni altra considerazione sull'argomento, desidero esprimere la mia
sorpresa nel constatare che i due magistrati veneziani, Casson e Ferrari, si siano limitati ad autoesaltare e
lodare i loro "meriti" nella conduzione dell'inchiesta sull'attentato di Peteano, dimenticando i loro
collaboratori che pure ci sono stati e che devono aver dato un prezioso contributo all'accertamento della
verità.
Eppure, chissà quante notti insonni ha trascorso il dott. Impallomeni, dirigente della DIGOS di Venezia,
pensando al modo migliore di collaborare con i due magistrati in questa inchiesta destinata a denunciare il
"pericolo fascista" impersonificato da Licio Gelli che, ne sono certo, il dott. Impallomeni deve odiare molto,
dopo aver scoperto, grazie alla sagacia di Ferrari e Casson che anche lui era una vittima, ingannato dal perfido Gelli, che lo voleva utilizzare per distruggere la democrazia e restaurare il fascismo: già, perché il dott.
Impallomeni è stato iscritto alla Loggia P2, insieme a Federico D'Amato e ad una ventina, o poco più, di altri
suoi ingenui collaboratori.
E a Trieste, il dott. Antonino Allegra, questore, ha certamente mobilitato tutte le risorse della polizia di
Stato per indagare sul territorio di sua competenza, sui fascisti "infiltrati" nel Ministero degli Interni. E' vero
che fu inquisito per aver fatto sparire uno o più reperti utili alle indagini sulla "strage di Piazza Fontana" e
venne poi amnistiato, ma rimase al suo posto perché ai suoi superiori apparve subito evidente che agì in
buona fede: inoltre non era solo, con lui c'era, ad esempio, il dott. Russomanno, dell'ufficio Affari Riservati,
sulla cui fedeltà alle istituzioni nessuno ha mai dubitato.
Inoltre è risaputo che è stato collaboratore di Federico D'Amato, che se lo portò, nel '74, nella Polizia di
frontiera, tanto lo stimava. E di D'Amato, presidente del Club di Berna, capo della rappresentanza italiana
nel Comitato speciale della NATO, incaricato dei problemi della sovversione, decorato della Bronze Star
americana per i servigi resi nel periodo '43- '45, e del suo lealismo democratico non si può dubitare.
Anche questi collaboratori della giustizia, della verità e della democrazia andavano citati e il non averlo
fatto non è stato molto elegante da parte di Casson e Ferrari. E oggi che il cinico e astuto Licio Gelli, "il
brigatista nero ideologicamente fanatico" si può considerare sconfitto dalla forza della democrazia, perché
mai si vedono "uniti nella congiura contro la verità, al completo, tutti i poteri dello Stato"? Perché, pubblico
ministero, perché?
11. UOMINI E IDEE
Ma altre sono le preoccupazioni del dott. Ferrari, rivelate, ad esempio, dalla perentoria affermazione:
"Questa ideologia va fermata anche se si propaga con mezzi pacifici", e come le ferma le idee, sia pure
"fasciste", questo Robespierre in sedicesimo? Consideriamolo un momento del delirio oratorio del pubblico
ministero, che ignora che le "idee" non si "fermano".
Ma non è stato questo testé citato l'unico momento delirante della requisitoria del dott. Ferrari, che si è
voluto dedicare anche ad Evola, citando Orientamenti, e che merita, quindi, una breve risposta anche su
questo punto.
Io non condivido certe operazioni politiche nelle quali fu coinvolto Julius Evola, e mi riferisco, per esempio,
alla pubblicazione de Gli uomini e le rovine, con la prefazione di Junio Valerio Borghese, nel 1952; mi sono
sempre opposto all'uso strumentale che del pensiero evoliano è stato fatto in certi ambienti e da ben
individuate persone, e non posso certo tacere dinanzi alla volgarizzazione e alla criminalizzazione che ne fa
il pubblico ministero, che, oltretutto, ignora totalmente l'opera di Julius Evola che non si racchiude in
Orientamenti ma spazia in un numero notevolissimo di opere e per un cinquantennio di vita culturale
italiana ed europea.
Il pubblico ministero, estraendo dal loro contesto alcuni passi di Evola, ironizza sui "superuomini", vi trova il
razzismo e l'esaltazione dello Stato totalitario. Ebbene, vediamo:
"Evola esalta l'individuo, il quale individuo non è tutt'uno con l'uomo, cioè con l'uomo qualunque, con
l'uomo «inautentico», direbbe Heidegger: ma colui che ha saputo sviluppare in sé la qualità superiore onde
si distingue il Mann dal Mensch, secondo i tedeschi, o il vir dall' homo, secondo i romani. Ciò che Evola
esalta, secondo le sue stesse parole, è la virilità; e non è la virilità fisica, sibbene la virilità spirituale. Posso
concedere al pubblico ministero che, pertanto, egli sia un fautore dell'aristocrazia; ma è l'aristocrazia nel
senso puro, intesa come il governo dei migliori. «Tramontata la cavalleria», si legge a pag. 134 (di Rivolta
contro il mondo moderno), «anche la nobiltà finì col perdere ogni elemento spirituale del genere come
punto di riferimento per la sua più alta fedeltà divenendo parte di semplici enti politici - come è appunto il
caso delle aristocrazie degli Stati nazionali succeduti alla civiltà ecumenica del medioevo. I principii
dell'onore e della fedeltà sussistono anche quando il nobile non è più un ufficiale del re; ma vana, sterile,
priva di luce, è la fedeltà quando non si riferisca più, sia pure mediatamente, a qualcosa di là dell'uomo.
Onde le qualità conservatesi per via dell'eredità nelle aristocrazie europee, da nulla più rinnovate nello
spirito delle loro origini, dovevano subire una fatale degenerescenza: al tramonto della spiritualità regale
non poté non seguire quello della stessa nobiltà, presso all'avvento di forze proprie ad un livello ancora più
basso».
Riesce a comprendere il pubblico ministero che la fedeltà di cui parla Evola è riferita non a gruppi, uomini,
stati e neanche ideologie politiche, pur sempre costruzioni sull'uomo, ma a qualcosa di trascendentale e di
spirituale?
Legga il pubblico ministero una critica seria allo Stato fascista ed alla degenerazione statolatrica del regime
mussoliniano tratta sempre da Orientamenti:
"Se l'ideale di una unità virile e organica fu già in parte essenziale nel mondo che andò travolto - per esso,
da noi, fu anche rievocato il simbolo romano - pure debbonsi riconoscere i casi in cui tale esigenza deviò e
quasi abortì lungo la direzione sbagliata del totalitarismo. Questo, di nuovo, è un punto che va visto con
chiarezza, affinché la differenziazione dei fronti sia precisa ed anche che non siano fornite armi a coloro che
vogliono confondere a ragion veduta. Gerarchia non è gerarchismo (un male questo che, purtroppo, oggi
cerca di ripullulare in tono minore), e la concezione organica non ha nulla a che fare con sclerosi statolatrica
e una centralizzazione livellatrice. Quanto ai singoli, superamento vero, sia di individualismo che di collettivismo, si ha solo quando uomini sono di fronte a uomini; nella diversità naturale del loro essere e delle
loro dignità, avendo massimo risalto l'antico detto che "la suprema nobiltà di essi è non essere padroni di
servi, ma dei signori che amano la libertà anche in coloro che obbediscono". E quanto all'unità che deve
impedire, in ogni genere, ogni forma di dissociazione e di assolutizzazione del particolare, essa deve essere
essenzialmente spirituale, deve essere quella di un'influenza centrale orientatrice; di un impulso che, a
seconda dei domini assume le forme più differenziate di espressione" (J. EVOLA, Orientamenti, Edizioni
Europa, Roma.)
E' stato detto ancora di Evola:
"Certo egli ha predicato (...) lo spirito legionario; ma è proprio per questo, a proposito del quale l'incredibile
leggerezza della polizia ha pescato il granchio più fenomenale di tutto il processo. Cosa sia lo spirito
legionario, l'Evola stesso ci dice: «Nulla ha imparato dalle lezioni del recente passato chi si illude oggi circa
la possibilità di una lotta permanente politica e circa il potere dell'una o dell'altra formula o sistema cui non
faccia da precisa controparte una nuova qualità umana. Ecco un principio che oggi quanto mai dovrebbe
aver evidenza assoluta: se uno Stato possedesse un sistema politico o sociale che, in teoria, valesse come il
più perfetto, ma la sostanza umana fosse tarata, ebbene, quello Stato scenderebbe prima o poi al livello
delle società più basse, mentre un popolo, una razza capace di produrre uomini veri, uomini dal giusto
sentire e dal sicuro istinto raggiungerebbe un più alto livello di civiltà e si terrebbe in piedi di fronte alle
prove più calamitose anche se il suo sistema politico fosse manchevole ed imperfetto. Si prenda dunque
precisa posizione contro quel falso realismo politico, che pensa solo in termini di programmi, di problemi
organizzatori partitistici, di ricette sociali ed economiche. Tutto questo appartiene al contingente, non
all'essenziale. La misura di ciò che può essere ancora salvato dipende invece dall'esistenza, o meno, di
uomini, di uomini che ci siano dinanzi non per predicare formule, ma per essere esempi». E' chiaro? Per
aver detto queste cose alla gioventù italiana, Evola dalla polizia italiana è stato definito come un
pazzoide...". (Carnelutti cit., pag.359-360)"Un pazzoide", lo stesso termine, identico, utilizzato dal pubblico
ministero per definire Evola trentacinque anni dopo. Le citazioni che ho utilizzato, infatti, sono tratte
dall'arringa che l'avvocato Francesco Carnelutti fece in difesa di Julius Evola, chiamato a rispondere, dinanzi
ad una Corte d'Assise della Repubblica Italiana, di "tentata ricostituzione del PNF", ai sensi della legge 3
dicembre 1947, n. 1546. Julius Evola venne assolto con formula piena.
Vincenzo Vinciguerra