Leggi articolo - tappezziere

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Leggi articolo - tappezziere
Il personaggio
Pietro Virzi nel suo
showroom laboratorio a
Milano. A un’esperienza
quarantennale nella fine
arte della tappezzeria
affianca il ruolo di
presidente della C.i.t.a, la
più importante
associazione di tappezzieri
arredatori d’Italia
Tappezzieri in estinzione?
No, vivi e combattivi
Quarant’anni di pratica artigiana e quattro decenni di storia
della tappezzeria italiana, dagli sfarzi del periodo d’oro
dell’associazionismo di categoria all’abbandono totale
delle istituzioni e delle amministrazioni, con il conseguente
rischio d’estinzione di un mestiere prezioso. In sintesi la
storia di Pietro Virzi, tappezziere in Milano e presidente
della Consociazione Italiana Tappezzieri Arredatori
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maggio 2014
di SERGIO COCCIA
Il personaggio
Una storia di bottega, mestiere, manualità,
forza di volontà. Una storia come molte nel
nostro Paese. Una storia iniziata una
quarantina di anni fa e che rischia seriamente
di non ripetersi più. Quella di un artigiano
tappezziere. Ci preoccupiamo (giustamente) del
fatto che il nostro Paese si sta
deindustrializzando, che le fabbriche migrano
in nazioni più o meno lontane, che un paese
come il nostro non può vivere di soli servizi.
Bene, forse però sarà il caso di essere sensibili
anche al futuro che aspetta l’artigianato: stretto
tra l’impetuosa ascesa del digitale – inteso
come opposto del “manuale” e non come sua
naturale evoluzione – e una visione solo
nominalmente modernista che relega le attività
svolte con le mani in un ruolo minore,
secondario, se non addirittura dequalificato. E
non parliamo poi, nello specifico, del
tappezziere. Se per il fine ebanista, per il
restauratore di quadri, per il liutaio, si ha una
naturale soggezione e li si considera alla
stregua di artisti a loro volta, per il nostro
tappezziere non si ha certo la stessa
considerazione. Eppure questo mestiere non
ha nulla da invidiare ai citati. Anzi.
La storia di Pietro Virzi – protagonista della
nostra intervista – è esemplare: un fiume in
piena quasi inarrestabile che racconta
l’avventura di un ragazzo che è cresciuto nel
mestiere, di un uomo che costruisce la sua
attività e si afferma, e di un dirigente che lotta
per mantenere vivo il lustro per la categoria di
fronte all’insensibilità di istituzioni e
amministrazioni. È il racconto di una battaglia
che si scontra con uno dei tanti muri di
gomma della nostra italietta, quella stessa che
ha visto un ministro affermare che con la
cultura non si mangia. Forse questo ex (per
fortuna) ministro non ha abbastanza fame,
perché proprio il nostro Pietro Virzi ci ha
dimostrato nel suo racconto che la formazione,
la cultura di comparto, la conoscenza di un
mestiere, l’amore per l’artigianato hanno reso
proficua la sua attività e quella di tanti suoi
colleghi e, non ultimo, sono uno dei pilastri sui
quali regge ancora il mercato del tessile
d’arredamento e del mobiliero in Italia. E, come
vedremo, non solo di alta fascia…
Pietro Virzi, lei è del 1954, nel 1968, cioè a quattordici
anni, quando gli universitari italiani lanciavano la
più grande rivolta giovanile del nostro Paese lei
varcava la soglia di una bottega per cominciare a
imparare il mestiere di tappezziere. Ha rimpianti per
aver abbandonato gli studi dopo la licenza media e
aver cominciato a lavorare così presto?
Senta io sono di origini siciliane, trasferito a
Milano nel 1962. Dopo la scuola media si doveva
andare a lavorare, era naturale e ovvio per i figli di
famiglie non abbienti, tant’è che già in seconda
media trovai una bottega di tappezzeria a Bollate
dove cominciai ad avvicinarmi al mondo
febbraio 2014
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Il personaggio
Nelle immagini, il laboratorio/showroom di
Milano e alcune delle realizzazioni e degli
arredamenti realizzati da Pietro Virzi
dell’artigianato. Quando terminai le medie
cominciai a lavorare a tempo pieno e intuendo
subito di aver fatto la scelta giusta. No, non ho
nessun rimpianto questo mestiere mi piace, mi
piaceva anche da giovane, tanto che lo stesso
mio primo maestro mi indirizzò alla scuola
dell’Atisea che però era in C.so di Porta
Vigentina a Milano, quindi lontano da casa. Non
potevo continuare a lavorare da lui e frequentare
i corsi,cosi mi trasferii a lavorare nella bottega di
Renzo Pedrini, a trecento metri dalla scuola
tappezzieri. Mi assunsero come apprendista e
potei frequentare i corsi serali. Tra il 1968 e il
1974 ho lavorato presso tre “Botteghe scuola” allora si trovavano con facilità, - Tognolo al
(quartiere) San Marco, Merli all’Isola ed Enea
Paris in Porta Romana. Quest’ultimo grande
maestro e, tra l’altro, insegnante della stessa
scuola Atisea. Con lui ho visto la tappezzeria con
la “T” maiuscola e mi sono allenato per
lanciarmi autonomamente nel mondo del
lavoro. Cominciai proprio nel 1974 a lavorare da
solo, una sorta di “freelance” chiamato da più
botteghe. Nel 1981 decisi di fare il grande salto,
aprii la mia attività a Cologno Monzese con
l’intento di portare la tappezzeria di qualità
anche fuori dalla grande Milano e in fondo, nel
mio piccolo, credo di esserci riuscito. È andato
tutto bene per vent’anni, poi la zona
dell’hinterland milanese ha cominciato a essere
improduttiva e avendo comunque diversi clienti
in città, sono tornato a Milano, in via Mosso, a
ridosso di Viale Padova e Viale Monza una zona
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maggio 2014
artigiana piena di laboratori e attività simili alla
mia. Purtroppo tra il 2002 e il 2010 il sovrapporsi
di crisi economiche e l’abbandono dei vecchi
residenti causò la chiusura di diverse attività
nella zona, costringendomi a cercare una nuova
sistemazione. Si arriva così al 2011, anno in cui
si presenta la possibilità di spostarsi in Città
Studi, quartiere universitario e considerato da
molti ancora a misura d’uomo per la sua
vivibilità. Ripeto, nessun rimpianto è vero che la
scuola in senso classico l’ho terminata con le
medie, ma ho avuto la fortuna di studiare tutto il
necessario per la mia attività e poi fare
tantissima esperienza su strada. Che c’è di
meglio per un artigiano?
A fianco della sua esperienza professionale, da
molti anni, c’è anche l’attività associativa,
oltretutto oggi col ruolo di presidente
della Cita (Consociazione Italiana Tappezzieri
Arredatori): passione o dovere?
Un po’ dell’uno e un po’ dell’altro.
Indiscutibilmente passione perché amo il mio
mondo e desidererei vederne il futuro in crescita
e caratterizzato dalla giusta considerazione. Poi
anche dovere perché noi tappezzieri abbiamo
attraversato periodi di alti e bassi dal punto di
vista dell’associazionismo e oggi, pur essendo in
pochi rispetto al totale in attività, stiamo
mettendo il massimo sforzo per tornare a essere
una congregazione di riferimento. I numeri
dell’Atisea – chiusa nel 2002 – non torneranno,
ma la C.i.t.a. – che è nata nel 1975 – riteniamo
abbia la possibilità di crescere, soprattutto se
riesce a svolgere il suo progetto strategico. Certo
tutto è cambiato rispetto ai tempi della sua
nascita: allora le sette associazioni regionali (in
realtà cittadine ma con forza di coesione a livello
delle rispettive regioni) mettevano insieme
qualcosa come 1200 circa aderenti e il nostro
“movimento” aveva peso e voce in capitolo, tanto
da arrivare quasi a far votare una legge sulla
patente di mestiere. Abbiamo una splendida
sede a Genova e collaborammo con successo
alla nascita del Museo della Tappezzeria di
Bologna. Il problema vero è che con la chiusura
della scuola di Milano, contemporanea alla
scomparsa dell’Atisea, si è davvero compiuto un
tentato omicidio del mestiere. E ciò che più è
grave questa sorta di reato è avvenuto con
l’ausilio delle istituzioni e delle amministrazioni,
sorde a ogni richiesta di sostegno giunta da
parte dei tappezzieri. Come se non bastasse, la
Il personaggio
meno – il lavoro è frazionato e più faticoso. Però
non sono pessimista.
stessa rigidità, e anche qualcosa di più colpevole
poiché compiuta dalle associazioni sindacali
dell’artigianato, si è riproposta tra il 2012 e il 2013
quando abbiamo tentato di riaprire corsi di
tappezzeria presso la Scuola di Restauro e
Tecniche Artistiche di Piazzola sul Brenta.
Insieme al nostro vicepresidente Marco Longo le
abbiamo tentate veramente tutte: ci volevano
30mila euro per lanciare il primo corso, ne
trovammo 15mila, ma per trovare i restanti
nessuna associazione ne istituzione ci ha dato
retta. Odi, gelosie tra componenti politiche, puro
disinteresse, e così nulla si è riusciti a fare.
Eppure ci sarebbero state tutte le condizioni per
rilanciare il mestiere.
Ecco appunto, come vede il futuro prossimo del
mestiere, vista la crisi e al di là delle avventure
associative?
Guardi, le sembrerà strano, ma vedo parecchie
possibilità. Anche a causa della crisi, ma non
solo, c’è una richiesta diffusa di “ri-uso” nella
gente. Tornano le botteghe di sartoria per strada, è
di moda riparare e riciclare.
Tra i giovani si riaffaccia un desiderio di manualità,
anche fra quelli avviati a studi superiori. Insomma
l’aria è quella giusta. Certo, abbiamo perso due
generazioni e ora è più difficile fare qualsiasi cosa.
Si guadagna meno, c’è maggiore concorrenza
dalla distribuzione che propone il consumismo
come regola – butta e sostituisci, tanto spendi
Per molti settori del lavoro l’estero è stata una vera
e propria scialuppa di salvataggio. So di molti suoi
colleghi che operano fuori Italia. Crede che un
artigiano tappezziere possa esportare le proprie
competenze?
È molto difficile e quando avviene si è comunque
legati al lavoro di un architetto coordinatore del
progetto di ristrutturazione oppure, e i casi sono
rarissimi, si deve essere in grado di garantire
forniture quasi semi-industriali. Per gli artigiani
della dimensione standard ci vorrebbe proprio
una rete, un consorzio promozionale in grado di
garantire la diffusione della conoscenza fuori dai
confini altrimenti, per i singoli, i canali del lavoro
oltrefrontiera sono casuali ed episodici.
Oggi un tappezziere arredatore deve essere più
artigiano o più commerciante?
Diciamo che col cuore direi 75% artigiano e 25%
commerciante, purtroppo però siamo ormai al 50
e 50. Tutto è immagine, gioco delle parti col
cliente. Si fanno miriadi di preventivi per poi
scoprire che la variabile prezzo è diventata l’unica
importante. La gente non è normalmente
informata e quindi è tutta apparenza, dobbiamo
tirare fuori decine di campionari solo per far
“pesare” la gamma di tessuti che possiamo
offrire. In pratica dobbiamo coccolare il cliente. La
qualità del lavoro viene solo dopo.
Ma allora il mestiere conta ancora o tappezzieri ci si
può improvvisare?
Su questo argomento dobbiamo essere molto
chiari. Il mestiere non è cambiato e non si può
certo barare. Una cosa è essere un po’ più
venditori, un’altra è l’improvvisazione. Su ciò sono
categorico. Altro discorso sono però i vari livelli in
cui oggi si svolge il nostro mestiere, l’importante e
mantenere alta la professionalità nei confronti del
cliente e nel rispetto del nostro “mestiere”: voglio
dire che non è necessario essere tutti tappezzieri
d’arte per avere la stessa dignità professionale. E
questo discorso vale anche per l’associazione: non
è più tempo di essere snobisti nella selezione dei
soci che chiedono l’iscrizione. Dobbiamo
differenziare, creare gruppi e sezioni per dare
maggiore massa critica al numero di associati e
poter pesare di più.
Chiudiamo con le iniziative di sviluppo della C.i.t.a.,
al convegno dello scorso settembre si parlò di nuovo
sito e blog. A che punto state?
In dirittura d’arrivo. Entro un paio di mesi al
massimo saremo in rete. Il nuovo sito e un blog
che verrà inizialmente gestito da più soci ma nel
quale cercheremo di ruotare tutti per dare le
risposte ai quesiti che emergeranno. È un punto
d’inizio, non le nascondo che vorrei tanto tornare a
pubblicare un giornale ma per ora non ci sono
assolutamente i fondi. Però mai dire mai. Gli
obiettivi sono sostanzialmente tre: aumentare il
numero d’iscritti, riattivare un dialogo fitto a livello
nazionale e tra le varie realtà territoriali (ecco la
funzione del sito e del blog) e programmare la
collaborazione o addirittura l’affiliazione con
associazioni similari e contigue come per esempio
l’Assites.
Ultimissima battuta. Cosa fa grande un tappezziere?
La miglior qualità per un tappezziere, come per
qualsiasi artigiano, è creare e plasmare
collaboratori che siano vere e proprie risorse per
l’attività: in questo modo si esalta e si tramanda il
senso del nostro lavoro.•
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maggio 2014
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