Immagini dello straniero bergamaschi

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Immagini dello straniero bergamaschi
Immagini dello straniero.
Atteggiamenti degli adolescenti e socializzazione della diversità.
Oggetto di indagine
In questo progetto di ricerca intendo studiare l’atteggiamento degli adolescenti nei confronti del
fenomeno migratorio. Voglio focalizzarmi sulle rappresentazioni che i giovani hanno della
popolazione non nazionale, intese come la base degli atteggiamenti da essi dimostrati nei confronti
di un fenomeno attuale come quello dell’immigrazione straniera.
L’obiettivo che mi pongo è di guardare l’altro lato delle dinamiche migratorie, ovvero la società
di accoglienza considerata in un suo specifico segmento: la popolazione adolescente. Se oggi anche
in Italia sono ormai numerose le indagini che hanno come oggetto la qualità dell’inserimento
sociale della popolazione straniera, sono invece meno frequenti, almeno sulla base dalle
informazioni che ho raccolto fino ad ora, quelle relative alle dinamiche che l’immigrazione straniera
determina tra i membri della società di accoglienza1, soprattutto se quest’ultima è considerata nel
suo segmento più giovane. All’interno di questa prima considerazione un ulteriore vantaggio
consiste nell’aprire un punto di osservazione su una fascia di adolescenti al momento trascurata
dalle ricerche sui processi culturali, ovvero chi non si trova in condizione di studente.
I seguenti punti rappresentano le motivazioni che mi hanno guidato a prendere in
considerazione questo tema.
a) Il tema dello straniero rappresenta uno dei primi importanti oggetti di studio della sociologia.
Se l’interesse nei suoi confronti è stato discontinuo, elevato a inizio Novecento con le riflessioni di
Simmel e dei membri della Scuola di Chicago, è stato poi ripreso nel secondo dopoguerra da
esponenti come Schutz, Elias e Merton; questi ultimi hanno guidato la sua tematizzazione, per
quanto fluttuante, sino ai giorni nostri. Anche in ambito della sociologia italiana, pur riconoscendo
questa attenzione variabile, alcuni autori sostengono l’esistenza di una vera e propria
specializzazione disciplinare: la “sociologia dello straniero”2
b) Nello studio delle “reazioni” verso lo straniero si intersecano numerosi elementi che
rappresentano le basi fondanti dell’analisi sociale. Gli atteggiamenti dello straniero che la società
ricevente sviluppa non sono il semplice prodotto di dinamiche interne alla mente degli attori.
Entrano qui in gioco diversi fattori quali ad esempio l’identità (individuale e collettiva), la
socializzazione, i valori, le credenze, le disuguaglianze e il conflitto, solo per citare i più rilevanti.
c) Infine, secondo le poche recenti indagini su questo argomento, di cui si parlerà nel successivo
quadro teorico, gli adolescenti italiani sembrano dimostrare un significativo atteggiamento di
chiusura nei confronti dei loro pari con altra cittadinanza e, più in generale, nei confronti
dell’immigrazione in quanto fenomeno. Timori relativi alla sicurezza si intersecano con
preoccupazioni tipiche dell’area socio-economica e a livello della minaccia identitaria. Sono
elementi che contribuiscono allo sviluppo di diffidenza e poca disponibilità ad interagire.
Per concludere, se la parola immigrazione è sempre associata a integrazione, sia quando si
rilevano fatti o elementi che la descrivono in positivo, sia il contrario quando invece ad essere
rilevati sono deficit sotto questo profilo. L’impressione è che sovente si dimentichi quanto questo
termine tecnico, o concetto ideale, implichi un processo bidirezionale che chiama in causa tanto chi
1
Non annovero al riguardo i frequenti sondaggi condotti da istituti di ricerca, ad esempio su commissione di attori del
mondo dei media, o survey basate su campioni rappresentativi della popolazione che tendono entrambe a rilevare le
opinioni della popolazione locale nei confronti della presenza straniera, quest’ultima generalmente presentata sulla
dicotomia costi/benefici per la società italiana.
2
Tabboni S., (1986), Vicinanza e lontananza. Modelli e figure dello straniero come categoria sociologica, Milano,
Franco Angeli; Colombo E., (1999), Rappresentazioni dell’altro. Lo straniero nella riflessione sociale occidentale,
Milano, Franco Angeli; Cipollini R. (2000), Lo straniero come forma sociale, in Itinerari pedagogici e culturali. Scritti
in onore di R. Vallini, Siena, Cantagalli; Cipollini R. (a cura di), (2002), Stranieri. Percezione dello straniero e
pregiudizio etnico, Milano, Franco Angeli.
1
arriva quanto chi riceve. Per tale ragione, intendo qui focalizzarmi su un lato ancora poco
conosciuto del processo di integrazione, la società ricevente assunta in un suo specifico segmento:
le rappresentazioni e gli atteggiamenti degli adolescenti.
Quadro teorico
• I paradigmi classici
Generalmente le ricerche che si occupano di atteggiamenti, pregiudizi e stereotipi verso gruppi
etnici, fanno riferimento ad alcune classiche tradizioni teoriche.
La prima è rappresentata dagli studi di Gordon W. Allport3, che negli anni a venire sono stati
riassunti sotto l’etichetta “Contact Hypothesis” (CH). Pur muovendosi nell’ambito della psicologia,
lo scopo di Allport è di superare la precedente impostazione psico-dinamica di Adorno, sviluppata
negli studi sulla personalità autoritaria, e aprire un’importante pista di analisi verso i fattori sociali
in cui si trova inserito l’individuo. È necessario comprendere il modo in cui l’individuo “struttura
insieme tutte queste influenze [sociali, storiche, culturali ed economiche, ndr], ivi compresi i
conflitti inconsci e le relazioni psicodinamiche entro un globale sistema di vita”4. Per Allport il
pregiudizio è innanzitutto funzionale al processo di comprensione del flusso degli eventi attraverso
l’attività di categorizzazione. Inoltre, tale attività di categorizzazione fa si che il pregiudizio non si
rivolga semplicemente al singolo destinatario ma alla collettività alla cui quest’ultimo appartiene.
Infine, Allport nutre fiducia che il contatto intergruppo possa stimolare la mutua accettazione e
attenuare il pregiudizio, a patto che si svolga in determinate condizioni che rinviano alle
caratteristiche dell’interazione e del contesto socio-politico in cui si svolge.
La seconda è la cosiddetta “Social Identity Theory” (SIT) elaborata da Henri Tajfel. Anche
Tajfel si muove all’interno della psicologia sociale ma con il suo contributo entrano in campo
ulteriori fattori sociologici. Come per Allport il punto di partenza è il processo di categorizzazione,
ma è necessario comprendere come gli stereotipi negativi vengano “condivisi da grandi masse di
persone all’interno dei gruppi sociali”5. È quindi necessario integrare la funzione cognitiva dello
stereotipo con quella sociale. A livello cognitivo lo stereotipo serve sia per accrescere la coesione
intragruppo quanto per accentuare la distinzione intergruppo. Tuttavia tale processo non è neutro
ma mediato dal sistema di valori in cui il gruppo si riconosce. Per Tajfel questo processo si svolge
nell’interazione tra identità individuale e identità sociale. Riassumendo, i pensieri e le azioni degli
attori sono animati dalla finalità latente di preservare l’identità del proprio gruppo e garantire un
livello minimo, standard, di favoritismo nei suoi confronti perché esso rappresenta quel serbatoio di
risorse simboliche essenziali per la vita sociale del soggetto.
A questi due paradigmi se ne affianca un terzo, chiamato “Realistic Conflict Theory” (RCT).
L’autore che ha dato avvio a questa scuola è Muzafer Sherif e ha elaborato una prospettiva di
osservazione diversa rispetto alle due appena discusse, basata principalmente su situazioni
sperimentali. Secondo questo approccio se la cooperazione tesa al perseguimento di uno o più fini
comuni rafforza la coesione intragruppo, dall’altro lato incrementa invece l’ostilità itergruppo. in
condizioni competitive, se il contatto con gruppi esterni rappresentata un elemento di coesione e
democratizzazione dei rapporti interni, questo non si riflette sulle relazioni con l’outgroup che
diventano progressivamente ostili, e costituiscono la base per la nascita di stereotipi negativi, “cioè
rudimenti di pregiudizio”6. In questa prospettiva la competizione e il conflitto per risorse ritenute
scarse, aumentano la compattezza dell’ingroup ma rendono ostili i rapporti con l’outgroup percepito
come una minaccia ed un nemico.
3
Allport G., (1954), La natura del pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia Editrice (ed. originale 1973, The Nature of
Prejudice, Massachusset, Addison-Wesley Publishing Company).
4
Ibidem, pg. 539
5
Tajfel E. (1995), Gruppi umani e categorie sociali, Bologna, Il Mulino, pg. 215-220 (ed. originale 1981, Human
groups and social categories. Studies in social psychology, Cambridge, Cambrindge University Press.
6
Sherif M. (1972), L’interazione sociale, Bologna, Il Mulino, pg. 426.
2
• Sviluppi recenti
In questi ultimi anni, sono stati avanzati approcci innovativi rispetto ai paradigmi presentati che,
pur partendo dai rispettivi presupposti, hanno tentato di articolare ulteriormente il tema degli
atteggiamenti verso la diversità etnica; anche prendendo in considerazione segmenti più specifici
della popolazione quale ad esempio le classi più giovani. Ad esempio a livello di “Contact
Hypothesis” Hallinan e Williams negli anni ottanta e novanta hanno condotto indagini nelle scuole
americane per osservare quale fosse la disponibilità degli studenti a sviluppare rapporti di amicizia
intergruppo7. Dai loro risultati emerge che generalmente gli adolescenti prediligono relazioni
all’interno del proprio gruppo di appartenenza, ma quando avviene il contatto intergruppo questo
pare avere effetti positivi. Per Hallinan e Williams è cruciale che gli studenti si riconoscano
reciprocamente come amici e che venga data loro la possibilità di interagire. La molla scatenante
viene quindi individuata nella reciprocità. Tuttavia il solo contatto non pare sufficiente a generare
tale atteggiamento positivo ed è necessario supportarlo con specifiche condizioni strutturali, nel
senso che vi dev’essere l’opportunità per interagire: di qui il nome “opportunity hypothesis”. Per
tale ragione gli autori assegnano molta importanza alle politiche delle direzioni scolastiche, volte a
costituire classi e percorsi il più possibile eterogenei sotto il profilo della composizione etnica.
In ambito nordeuropeo considero interessante il tentativo di Peer Scheepers di fondere la SIT
con la RCT in un modello intermedio8. Si tratta di uno schema già applicato alla conduzione di studi
di survey9 in un’ottica prettamente sociologica. Il punto di partenza è dato dalla competizione tra
gruppi che, per la RCT porta ad un incremento di esclusione dell’outgroup, mentre per la SIT in
primo luogo rafforza l’identificazione sociale con il proprio gruppo. Sheepers propone al riguardo
di tenere distinti il livello micro da quello macro nelle dinamiche competitive tra gruppi. Nel primo
l’incremento dell’identificazione sociale prodotto da una situazione competitiva può avere come
risultato l’esclusione etnica, nel secondo la competizione si riferisce invece a dinamiche di gestione
politica delle risorse. Secondo questo approccio, è a livello individuale che si realizzano le
dinamiche più importanti, perché se la competizione è individuabile nelle effettive condizioni
sociali esperite dal gruppo maggioritario, nondimeno essa è anche individuabile a livello della
minaccia percepita da quest’ultimo. Secondo questo modello in fieri, chiamato “ethnic competitive
theory”, se un primo effetto della competizione è di aumentare la coesione interna, dall’altro lato
può produrre un processo di esclusione verso l’outgroup che è una funzione delle concrete
dinamiche sociali che caratterizzano il gruppo quanto del livello di minaccia da esso percepita .
Quest’ultimo dato, il livello di percezione della minaccia, pare agire come una sorta di variabile
interveniente che rafforza la più semplice relazione primaria stimolo(concrete dinamiche
sociali/competizione) – risposta(esclusione dell’outgroup).
In ambito americano Robert Putnam ha recentemente tentato di fornire un nuovo angolo di
visuale, evidenziando che le ipotesi della “Contact Hypothesis” quanto della “Realistic Conflict
Theory” non sarebbero corroborate dalla realtà statunitense10. Il suo punto di partenza è la misura
del capitale sociale in quartieri con bassa e alta diversità etnica. Elaborando i risultati di una survey
americana condotta nel 200011, il pluralismo etnico non pare produrre conflitto tra gli abitanti dei
quartieri misti, ne il contatto costituirebbe uno strumento per migliorare gli atteggiamenti reciproci.
Nei quartieri etnicamente eterogenei si verificherebbe invece un indebolimento del capitale sociale
ed una caduta della fiducia interpersonale. Dalla comparazione di diversi contesti urbani americani,
7
Hallinan M. T., Williams R. A., (1989) Interracial Friendship Choices in Secondary Schools, in American
Sociological Review, vol. 54, February 67-68.
8
Scheepers P. (a cura di) (2002), Ethnic exclusionism in European countries, public opposition to grant civil rights to
legal migrants as a reponse to perceived ethnic threat, in European Sociological Review, n° 18, pg. 242-265.
9
Scheepers P., Lubbers M., Coenders M., (2003), Majority populations’ attitudes towards migrants and minorities,
Report for the European Monitoring Centre on Racism and Xenophobia (documento on line:
http://fra.europa.eu/fra/index.php)
10
Putnam R., (2007), E Pluribus Unum: diversity and community in the twenty-first century. The 2006 Johan Skytte
prize lecture, in Scandinavian Political Studies, vol. 30 – n° 2.
11
Social Capital Community Benchmark Survey Sites.
3
emerge che il principale atteggiamento di chi abita in quartieri a composizione eterogenea è
definibile come una ritrosia nei confronti dell’ambiente circostante, rinchiudendosi in una
dimensione sociale molto limitata come quella del proprio ambiente domestico. La diversità
sembrerebbe ridurre la solidarietà a livello di ingroup quanto di outgroup - atteggiamento chiamato
“hunker down”12 – e propone il conio “constrict theory”: una condizione di indebolimento del
capitare sociale. Per evitare il deperimento della fiducia interpersonale ed evitare questo nocivo
ripiegamento su di sé, Putnam ritiene importante intervenire per (ri)costruire un senso del “noi” in
un contesto sempre più plurale come quello statunitense. Nutre quindi fiducia in politiche di
inclusione capaci di valorizzare le identità presenti connettendole con il più ampio nucleo di valori
americano13. Dal mio personale punto di vista questa prospettiva invita l’osservatore a prestare la
dovuta attenzione alle caratteristiche del contesto, a non considerare come innati i sentimenti di
ostilità verso il diverso e al ruolo che le politiche pubbliche possono esercitare per raggiungere una
buona coesione sociale.
Sempre in ambito statunitense ritengo utili i risultati di alcune indagini empiriche dirette da
Alberto Bisin che aggiungono importanti elementi di complessità al presente quadro teorico14. Si
tratta di complessi modelli econometrici basati su survey tesi a dimostrare che, in ambito urbano, gli
sforzi per socializzare le nuove generazioni all’identità etnica di appartenenza paiono essere
maggiori nei quartieri misti piuttosto che in quelli segregati15: maggiore è la diversità culturale che
quotidianamente circonda il soggetto e maggiore è l’impegno da parte della famiglia e del gruppo
etnico di riferimento affinché i giovani non subiscano deviazioni identitarie. Inversamente, nei
quartieri più omogenei il rischio di carriere identitarie idiosincratiche è minore e quindi meno
intensi sarebbero gli sforzi per la socializzazione all’identità etnica originaria. La loro analisi invita
a riflettere sui possibili effetti perversi insiti nelle politiche di inclusione, sovente animate
dall’obiettivo di evitare concentrazioni territoriali e distribuire in modo omogeneo i gruppi di
origine immigrata. Gli autori di questo modello non si riferiscono esplicitamente al tema degli
atteggiamenti e del pregiudizio etnico, tuttavia non è difficile scorgere un implicito riferimento
trasversale ai primi tre paradigmi considerati (CH, SIT, RCT) i cui assunti teorici vengono per certi
versi rovesciati. In sintesi, per i gruppi minoritari il principale effetto dell’interazione con il gruppo
maggioritario pare essere la disaffezione con l’identità di origine (CH e SIT), piuttosto che sul
versante della maggiore o minore bontà delle relazioni intergruppo (RCT). In questo caso non
sembra che il contatto influenzi il livello di conflittualità tra gruppo etnico e contesto ricevente, ma
il livello di coesione del primo.
Tornando in ambito europeo, ritengo che sia necessario prendere in considerazione i risultati di
un’ulteriore approccio allo studio del pregiudizio, che si è sviluppato in Francia a partire dagli anni
settanta. Mi riferisco in particolare alle analisi condotte sulle evoluzioni formali e sostanziali che in
questi ultimi trenta anni hanno caratterizzato fenomeni e termini quali razzismo e pregiudizio.
Secondo Pierre André Taguieff, a partire dagli anni settanta si assiste ad una metamorfosi nei
contenuti e nelle vesti del razzismo, qui inteso come pregiudizio, che avrebbe perso la sua originale
natura di prodotto della biologia. Quello a cui si assiste oggi, secondo Taguieff, è paragonabile a un
processo di culturalizzazione e democratizzazione del concetto stesso di razzismo. Non si sostiene
più l’esistenza di una gerarchia delle razze basata su criteri naturali, bensì ora si parla di “diritto dei
popoli all’identità”16. È un razzismo che non ha più come obiettivo l’ineguaglianza tra le razze ma
la salvaguardia delle rispettive differenze: razzismo differenzialista. Lo stesso concetto di razza si
svuota quindi di significato e viene sostituito da quello di cultura o di etnia, e si passa dalla paura
12
Letteralmente: “vivere nell’ombra”.
Putnam fa esplicito riferimento alle hyphenated identities: “identità con il trattino”
14
Bisin A., Patacchini E., Verdier T., Zenou Y., (2006), Bend it like Beckham: Identity, Socialization and Assimilation,
paper parte del “Polarization and Conflict Project” dato in carico dalla Commissione Europea – DG Sixth Framework
Programme; Bisin A., Verdier T., (2000), Beyond the melting pot: cultural transmission marriage and the evolution of
the ethnic and religious traits, in Quarterly Journal of Economics.
15
Nel testo: segregated neighborhoods.
16
Taguieff P. A., (1987) La force du préjugé, Paris, La Découverte, pg.10
13
4
per le differenze (eterofobia) all’amore per queste ultime (eterofilia). Questo radicale mutamento di
prospettiva pone i movimenti antirazzisti in profonda crisi che, a giudizio dell’autore, non
avrebbero ancora percepito appieno tali trasformazioni ideologiche e si troverebbero a lottare con le
armi sbagliate contro un nemico che non è più quello di un tempo. Ritengo utile considerare i
presupposti di questa prospettiva perché affrontano il problema con un’ottica prettamente storicosociologica, inseriscono l’oggetto trattato nei profondi mutamenti politici ed economici che a partire
dal secondo dopoguerra hanno caratterizzato l’Europa e assumono che razzismo e pregiudizio
etnico siano prodotti eminentemente sociali. In secondo luogo, riscontro in questa posizione l’invito
indiretto a riflettere sull’uso che quotidianamente si fa di termini quali razzismo, pregiudizio,
xenofobia ed etnocentrismo. Alla luce di questi risultati credo importante che un’indagine empirica
condotta sull’atteggiamento nei confronti delle persone di origine immigrata, debba
necessariamente interrogarsi sulle modalità di applicazione di tali categorie concettuali alla luce
appunto della loro riformulazione teorica.
A livello europeo è ancora necessario prendere in considerazione la prospettiva elaborata da
Teun van Dijk allo studio del razzismo17. Si tratta di un approccio complesso che integra
l’esperienza della linguistica con quella della sociologia e della psicologia sociale. Mediante le
categorie e le stereotipie presenti nel discorso, il gruppo maggioritario riproduce e perpetua
inconsapevolmente, con lo spontaneo uso della parola, la sua condizione di dominio nei confronti
dei gruppi minoritari. Si tratta quindi di un discorso dai contenuti non neutri, bensì costruiti ad hoc
per conservare gli attuali rapporti di potere e diffusi mediante “processi multipli di comunicazione
pubblica e interpersonale”18; individua nella classe politica, nei media e negli intellettuali i
principali autori il cui compito è di costruire tale tipo di discorso. Per van Dijk il discorso
rappresenta l’ambito in cui è possibile isolare la dimensione cognitiva e sociale del razzismo. In
questa logica il pregiudizio etnico è un atteggiamento che rappresenta il fondamento cognitivo del
razzismo, e quest’ultimo non è considerato un semplice atteggiamento o comportamento ma un
complessivo sistema di dominio e di controllo sociale.
• Gli studi in Italia.
L’attenzione degli studi italiani relativi agli atteggiamenti verso la popolazione proveniente da
Paesi stranieri nasce verso la fine degli anni ottanta del Novecento, in concomitanza con la presa di
coscienza del profondo mutamento di status in corso - da paese di emigranti a paese di
immigrazione – e i relativi “traumi sociali” che l’inizio dell’immigrazione ha generato in Italia. Al
momento mi limito a prendere in considerazione quei lavori che presentano una stretta vicinanza
con il tema che intendo trattare (l’atteggiamento degli adolescenti verso l’immigrazione),
rimanendo consapevole che, in particolare negli anni novanta, si incontrano alcuni studi sul
razzismo e il pregiudizio etnico, condotti sia con finalità teoriche quanto empiriche e rivolti a
specifici attori (la popolazione complessiva, la televisione, la stampa, ecc.).
Nel 1998 a Torino si tiene un seminario19 in cui ricercatori e operatori del mondo scolastico
tentano di delineare come i giovani si pongono di fronte alla diversità etnica. Quanto emerge
raffigura un mondo giovanile poco disposto a prendere in considerazione l’alterità, che ai loro occhi
assume invece la veste di una fonte di pericolo e insicurezza. Il profilo dell’adolescente che emerge
è quello di un soggetto prevalentemente rinchiuso nel proprio egocentrismo e narcisismo, incapace
ad operarsi per il bene comune perché teso verso il raggiungimento di mete prettamente individuali.
Si iniziano anche a profilare alcuni possibili indirizzi di ricerca, quali ad esempio le differenze nelle
17
Teun A. van Dijk, (1994), Il Discorso razzista. La riproduzione del pregiudizio nei discorsi quotidiani, Messina, ed.
Rubettino; Teun A. van Dijk, (2004), Ideologie. Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Roma, Carocci
18
Teun A. van Dijk, (1994), Il Discorso razzista. La riproduzione del pregiudizio nei discorsi quotidiani, Messina, ed.
Rubettino, pg. 53
19
Conoscere l’altro: educazione all’interculturalità (1998), atti del seminario “Pregiudizio e Razzismo tra i Giovani”,
in I Quaderni della Compagnia San Paolo, Torino.
5
espressioni di intolleranza misurate nei diversi istituti (tecnici-professionali vs licei), o in base alla
qualità del contesto familiare e di quartiere.
Negli ultimi due Rapporti Iard (2001 e 2007) noto con interesse che è presente un capitolo
dedicato espressamente all’atteggiamento dei giovani nei confronti dell’immigrazione20. Dalle
surveys Iard emerge in entrambi i casi un atteggiamento ambivalente, dove il polo della chiusura è
affiancato da quello solidaristico, quest’ultimo con un peso minoritario. Nel corso di questo
quinquennio entrambe le aree rimangono stabili. Se il timore per la minaccia in campo socioeconomico si è leggermente ridotto, è invece cresciuto per le questioni di ordine identitarioculturale e di assistenza pubblica. Sintetizzando, la presenza immigrata è innanzitutto percepita
come un pericolo in campo socio-economico, dove il lavoro e i sussidi statali sono i beni che si
teme che gli immigrati possano sottrarre più facilmente alla popolazione nazionale. Nel Rapporto
2007 è in cresciuto anche il timore per la sicurezza e l’ordine sociale, e questo vale anche per le
fasce più adulte. Emerge infine la questione identitaria, più di un terzo del campione crede che gli
stranieri minaccino l’identità culturale del nostro paese e una quota maggiore rispetto al 2001
dimostra di voler proteggere maggiormente l’accesso alla cittadinanza, vincolandolo maggiormente
alla discendenza e quasi a intendere tale diritto in senso “naturalistico”21. L’autore fa riferimento
alla “Rational Conflict Theory” per spiegare l’ampiezza del polo della chiusura: la competizione per
beni e risorse scarse determina le ragioni del pregiudizio. Ritiene però necessario articolare
maggiormente il quadro inserendo delle variabili relative alla percezione del senso di minaccia e si
rifà allo schema teorico della “ethnic competitive theory”: l’esclusione dell’outgroup è data dal
reale conflitto esperito a livello individuale e dal livello di percezione relativo alla minaccia
percepita. Il suggerimento implicito di Peri è di interpretare le percezioni come una sorta di
variabile interveniente che può rafforzare o meno l’iniziale atteggiamento derivato dal (solo)
conflitto in atto.
Ritengo ancora utile dedicare alcuni cenni a due indagini che, sulla base della ricerca che ho
condotto sinora, rappresentano le principali ricerche svolte in Italia sul tema della percezione dello
straniero da parte degli adolescenti e il relativo pregiudizio etnico. La prima risale al 2002 e la
seconda al 2004, entrambe sono svolte nel Lazio e adottano come unità di analisi gli studenti delle
scuole medie superiori22. Per quanto la prima si tratti di un’indagine esclusivamente quantitativa,
mentre la seconda contiene anche una fase di approfondimento qualitativa, la metodologia applicata
è pressoché sovrapponibile. Il quadro teorico di riferimento è rappresentato prevalentemente dagli
strumenti della “Social Identity Theory”. Il punto di partenza dell’indagine del 2002 consiste nella
rappresentazione multidimensionale dello straniero secondo le caratteristiche che emergono dalla
Sociologia dello straniero, che si inaugura con Simmel e giunge fino a Bauman: ambivalenza,
innovazione, marginalità, estraneità e differenza sono le principali dimensioni esplorate. Seguendo
l’insegnamento di Allport, il pregiudizio etnico è scomposto nelle componenti cognitiva, affettiva e
conativa, ed è nella prima di esse che emergono gli stereotipi salienti delineati da tale branca della
sociologia, offrendo una rappresentazione dello straniero a più dimensioni. Gli stereotipi risultano
essere il legame tra i singoli attori e il modello culturale di sfondo (o identità di gruppo) in cui è
contenuta l’immagine dello straniero. Il tipo di adesione che il soggetto mostra nei confronti di tali
rappresentazioni pare determinata dalle caratteristiche dell’identità individuale. La parte centrale
dell’indagine è quindi dedicata al ruolo dell’identità come principale fattore influenzante gli
atteggiamenti. In sintesi, un’identità che si presenta relativamente strutturata, in cui il processo di
esplorazione dei valori può dirsi relativamente concluso, sembra associata ad una maggiore “messa
20
Peri P. (2002), Giovani Immigrazione e Pregiudizio, in Quinto rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia,
Bologna, il Mulino; Peri P. (2007), L’atteggiamento dei giovani verso gli immigrati, in Sesta indagine Iard sulla
condizione giovanile in Italia, Bologna, Il Mulino.
21
Peri P. (2007), L’atteggiamento dei giovani verso gli immigrati, in Sesta indagine Iard sulla condizione giovanile in
Italia, Bologna, Il Mulino, pg. 259.
22
Cipollini R., (2002) (a cura di), Stranieri. Percezione dello straniero e pregiudizio etnico, Milano, Franco Angeli;
Agnoli M. S., (2004) (a cura di), Lo straniero in immagine, Rappresentazione degli immigrati e pregiudizio etnico tra
gli studenti del Lazio, Milano, Franco Angeli.
6
a fuoco della figura sociale degli stranieri immigrati”23, in cui è chiaro il loro ruolo occupato nella
società di accoglienza. Quando invece il processo di esplorazione identitaria è ancora diffuso,
l’immagine dello straniero pare più sfocata e indefinita, ed è meno chiaro per il soggetto la
posizione sociale degli immigrati. Simile per certi versi è il successivo lavoro del 2004, anche se il
focus è più orientato al nesso tra rappresentazioni dello straniero e orientamento all’azione. Per
quanto siano variabili presenti anche nella prima indagine del 2002, nella seconda le caratteristiche
di contesto hanno un peso maggiore. Si ritiene che la rappresentazione dello straniero sia il risultato
dell’area di intersezione tra caratteristiche individuali e contestuali, non il loro semplice prodotto
bensì il riflesso che si genera nel momento di incontro tra questi due fattori. Un risultato che emerge
con forza è dato dal ruolo che la dimensione territoriale (metropolitana/provinciale) esercita nel
condizionare la forma sociale dello straniero: rispetto ai pari della provincia i giovani metropolitani
hanno un rapporto generalmente più conflittuale con la diversità etnica, e questo si riflette su tutte le
dimensioni osservate. Riassumendo, a Roma il conflitto pare assumere più le forme di un fastidio a
livello fisico, tangibile (criminalità, degrado urbano, non rispetto delle regole, ecc.) in provincia,
invece, la tensione si svolge più sul piano della contaminazione identitaria.
Questo sommario quadro teorico è animato dallo scopo dichiarare le possibili strategie di analisi
che possono essere seguite nel presente lavoro di ricerca. Se la sociologia entra nello studio degli
atteggiamenti e del pregiudizio etnico nel momento in cui ci si rende conto dell’insufficienza del
solo approccio psicologico, rendendo necessaria un’ottica multidimensionale e interdisciplinare, è
un fatto che dal mio punto di vista suggerisce l’importanza di non cristallizzare la ricerca in un
unico paradigma o cornice teorica interpretativa. Credo che nel fare emergere i nessi esplicativi
ritenuti significativi per rispondere ai quesiti che muovono l’indagine, l’utilizzo di un approccio
teorico piuttosto che un altro, rappresenti una scelta dettata dalle caratteristiche dell’unità di
rilevazione e di analisi che di volta in volta affioreranno. Da un iniziale approccio centrato sulle
dinamiche della mente – i paradigmi classici - si inizia gradualmente a prestare attenzione a
variabili sociologiche, quali ad esempio l’opportunità e la reciprocità, il tipo di percezione e il
livello al quale si colloca (micro o macro), le caratteristiche del contesto e le azioni istituzionali
volte ad intervenire su di esso, le relazioni dell’individuo e della sua identità con l’ambiente sociale
circostante, le trasformazioni socio-politiche che in questi ultimi decenni hanno modificato il
contenuto delle abituali categorie concettuali impiegate (razzismo e pregiudizio), il discorso come
mezzo di consolidamento dell’ideologia. Relativamente all’ambito italiano, è alle ultime due
ricerche citate che al momento dirigo la mia attenzione. Sono indagini prettamente sociologiche
che, complessivamente, paiono attingere alle succitate variabili.
23
Cipollini R., (2002) (a cura di), Stranieri. Percezione dello straniero e pregiudizio etnico, Milano, Franco Angeli; pg.
265.
7
Metodologia
• Domanda cognitiva.
Sulla base degli elementi emersi nel quadro teorico, al momento mi limito a delineare una serie
di preliminari domande, che richiederanno necessariamente una maggiore specificazione e
articolazione affinché possa formulare una domanda cognitiva o un’ipotesi congruenti con l’oggetto
e gli obiettivi della ricerca.
1) In che misura l’atteggiamento degli adolescenti verso lo straniero è condizionato dai vincoli e
dalle opportunità di azione che derivano dalla loro complessiva collocazione sociale?
Per “vincoli e opportunità di azione” intendo le variabili di ordine contestuale che rappresentano
la struttura in cui l’attore realizza il suo comportamento. Quest’ultima è costituita da un insieme di
variabili che rinviano: a) alle caratteristiche socio-demografiche dell’attore, b) al suo capitale
culturale, c) alle sue dimensioni identitarie, d) alle caratteristiche dei suoi gruppi di appartenenza, e)
al tipo di legami che intrattiene con tali gruppi, f) alle caratteristiche del suo luogo di residenza (ad
es.: bassa/alta presenza straniera, basso/alto degrado urbano, ecc.), g) al suo stile di vita (habitus).
Considerato che gli atteggiamenti verso lo straniero possono costituire la base di un eventuale
pregiudizio etnico (inteso come valutazione negativa dello straniero) penso di poter porre
un’ulteriore domanda di ricerca:
2) L’atteggiamento verso lo straniero, indipendentemente dal contenuto di valore posseduto, quale
funzione svolge per l’attore?24
2a) E’ possibile che esso svolga una funzione finalizzata a confermare e riprodurre la sua identità
sociale, intesa quale risultato dei “vincoli e delle opportunità di azione” che derivano dalla sua
“complessiva collocazione sociale”?
Queste domande sono volte a studiare gli atteggiamenti e il pregiudizio etnico con un approccio
sociologico. Quando oggetti come quello in questione hanno un’estesa rilevanza a livello di
sistema, coinvolgendo in modo trasversale le classi sociali e i vari gruppi presenti, penso che le
dinamiche della mente assumano un ruolo secondario rispetto a quelle che invece derivano da una
collocazione sociale dell’individuo a più dimensioni intersecanti, al cui interno il principale sforzo
dell’attore è fornire senso al ruolo che esercita e racchiudere tali dimensioni in una complessiva
cornice di significato.
Infine sulla scorta delle domande poste finora credo che una possibile ipotesi di lavoro, per
quanto preliminare, possa essere così abbozzata:
Le cause degli atteggiamenti verso lo straniero e dei pregiudizi etnici sono differenziate sulla
base della collocazione sociale individuale.
In sintesi, la mia personale impressione è che in questo tema di ricerca entri in gioco in modo
rilevate l’identità sociale del soggetto, intesa quale prodotto del suo continuo processo di
socializzazione. Con questo non voglio dire che l’identità sia in una condizione di passività nei
confronti della morfologia del contesto. Penso invece che nel punto di intersezione tra
caratteristiche identitarie, determinanti strutturali/contestuali e la forma sociale che lo straniero
assume si trovi lo spazio di elezione per lo studio e la comprensione degli atteggiamenti e del
pregiudizio etnico.
24
Anche la teoria di Allport parla di “pregiudizio funzionale” e si riferisce all’utilità per l’attore del processo di
categorizzazione sociale per una economica e razionale comprensione degli eventi. Nel presente progetto di ricerca
l’espressione “funzione” assume un significato differente.
8
• Unità di rilevazione
Intendo cercare le risposte a queste domande interrogando un’unità di rilevazione composta da
adolescenti italiani, sia nelle vesti di studenti quanto di lavoratori (o di non studenti). Considerato
che l’atteggiamento verso lo straniero è un tema estremamente sensibile rispetto alle caratteristiche
ideologico-culturali dell’individuo, credo che adolescenti studenti o non più in tale condizione
esprimano differenti punti di vista sull’immigrazione. In secondo luogo, le poche indagini che ho
reperito su questo tema vertono tutte in ambito scolastico, una scelta dettata prevalentemente dalle
agevolazioni che la Scuola offre quando si vuole studiare gli adolescenti, nel senso che rappresenta
un grande “contenitore” di giovani e quindi di informazioni relativamente facili da raccogliere.
Tuttavia una volta concluso l’obbligo scolastico, una quota di adolescenti sceglie di non proseguire
gli studi e iniziare a lavorare o intraprende percorsi formativi brevi e volti all’apprendimento di una
professione specifica. Penso che quando si studiano gli adolescenti sia anche necessario tenere
conto di questa fascia di soggetti25, non soltanto perché il minore o maggiore capitale culturale
posseduto condiziona la percezione degli eventi, ma anche per i differenti stili di vita che si
intraprendono e le diverse modalità di posizionarsi rispetto al flusso degli eventi.
• Ambito
Il tipo di unità di rilevazione che intendo studiare, implica di operare una comparazione tra
contesti differenti: a) le scuole per la realtà degli adolescenti studenti, b) centri di formazione
professionale e attori del mondo associativo, o più generici luoghi aggregativi, per quanto riguarda i
giovani lavoratori o avviati verso questa condizione.
In secondo luogo, propongo di scegliere come ambito della ricerca due città: Torino e Genova26.
Le ragioni di estendere la comparazione anche a livello spaziale, oltre che contestuale, sono le
seguenti. In primo luogo penso che le diverse caratteristiche che l’immigrazione assume a livello
urbano, possano influenzare le rappresentazioni e i relativi atteggiamenti della popolazione locale.
Torino e Genova si pongono come realtà in cui l’immigrazione è connotata da vesti diverse, sia da
un punto di vista della composizione demografica - a Torino prevalgono le provenienze est-europee
e nord-africane, mentre Genova ospita la prima comunità sudamericana - quanto sul versante dei
comportamenti sociali messi in atto dalla popolazione straniera – a Torino è importante
l’associazionismo etnico con finalità religiose, in particolare per la componente cristiana e quella
musulmana27, Genova invece si sta distinguendo per la nascita di forme associative dai contorni
poco definiti, i cosiddetti Latinos; si tratta di espressioni giovanili simili alle bande metropolitane,
anche se al momento non paiono particolarmente orientate verso attività devianti, che si
“appropriano” degli interstizi urbani28.
• Scelta delle unità di rilevazione.
Le modalità di scelta delle unità di rilevazione da studiare (adolescenti studenti e lavoratori, o
non più in condizione di studenti) dovranno essere dettate dalle caratteristiche contenute nella
domanda cognitiva o ipotesi della ricerca. In primo luogo, se l’unità di rilevazione è l’individuo, in
questo caso l’adolescente, nell’ambito di questo progetto egli si presenta in una duplice veste:
studente e non studente. In secondo luogo, ho già anticipato che per gli studenti intendo rivolgermi
alle scuole, mentre per coloro in condizione di non studente ad associazioni o più generici attori
aggregativi. Per tale ragione penso che la scelta di tali luoghi possa seguire il criterio
25
Considerazione rilavata da parte di Carmen Leccardi e Augusto Palmonari (25/10/2007), in occasione della
presentazione del volume “La socializzazione flessibile. Identità e trasmissione dei valori tra i giovani” di F.Garelli,
A.Palmonari, L.Sciolla. Incontro organizzato dal Dipartimento di Scienze Sociali e il Dipartimento di Psicologia
dell’Università di Torino.
26
Al momento non è possibile anticipare con esattezza quale sarà la forma e lo stile della comparazione che si intende
adottare. Questo sarà possibile una volta definite le tecniche di raccolta utilizzate.
27
Per i musulmani però non si tratta di un associazionismo religioso dalle funzioni estese come invece per il gruppo di
confessione cristiana, quanto piuttosto di ritrovi espressamente dedicati a funzioni di culto.
28
Vedi: Palmas L. Q., Torre T. A., (2005), Il fantasma della bande, Genova, Fratelli Frilli Editore.
9
“presenza/assenza” della popolazione straniera o, per essere più verosimile, “bassa/alta” presenza29.
L’impressione è che tale criterio rappresenti una variabile significativa da un punto di vista
esplicativo per l’insieme delle dimensioni contenute nelle preliminari domande della ricerca.
a) Relativamente alle scuole penso che la loro selezione possa essere fatta mediante un
campionamento non probabilistico a scelta ragionata da compiersi con un procedimento multi-stadi.
Esso consente di prendere in considerazione alcune caratteristiche dell’universo30, che nel nostro
caso è il criterio della maggiore o minore presenza straniera e, rispetto ai campionamenti
probabilistici, offre “maggiori garanzie di rappresentatività non già dei casi ma delle variabili”31
sulle quali si intende orientare la ricerca. Per fare un esempio: in un primo stadio si possono
scegliere un numero n di quartieri nelle città di Torino e Genova diversi per consistenza della
componente immigrata; nel secondo, per ogni quartiere selezionato si individuano n scuole di
diverso orientamento formativo (licei e istituti tecnico-professionali); nel terzo stadio, all’interno di
ciascun istituto prescelto si selezionano n classi fra le diverse sezioni presenti. Per la scelta delle
classi sarà importante affidarsi alle indicazioni dei dirigenti scolastici o degli insegnanti referenti
per l’intercultura.
b) Per quanto riguarda le rimanenti realtà istituzionali (i centri di formazione professionale)
penso sia ancora possibile seguire il criterio adottato per le scuole.
c) Più difficile credo che sia il campionamento degli attori composti da giovani non più in
condizione di studenti. Per la scelta delle associazioni, o di più generici luoghi aggregativi, è forse
più opportuno rimettersi alle indicazioni di alcuni testimoni qualificati che possono essere: a) per
Torino l’Assessorato per le politiche per l’integrazione del Comune o l’Osservatorio
interistituzionale sugli stranieri della Prefettura; per Genova anche nel suo caso l’Assessorato con
delega alle politiche per l’immigrazione del Comune o il Centro Studi Medì - Migrazioni nel
Mediterraneo32. Procedendo in questo modo è inevitabile che si producano distorsioni ma essendo
un universo le cui caratteristiche sono difficili da conoscere, ritengo che questi svantaggi vengano
compensati da criteri di scelta che sono perlomeno congrui con gli obiettivi e le domande della
ricerca.
• Tecniche di analisi
Una volta individuate le unità di rilevazione è necessario trasformarle in unità di analisi33. Al
momento non sono ancora in condizione di definire quale sarà la tecnica o le tecniche impiegate,
ovvero se prediligere un approccio qualitativo o quantitativo. Credo comunque che, a prescindere
dal criterio che si intende adottare, un punto di partenza comune possa rappresentato da un primo
contatto con testimoni qualificati individuati nelle scuole (dirigenti scolastici o insegnanti referenti
per l’intercultura) nei centri di formazione professionale (docenti/formatori) e nei più generici
luoghi associativi/aggregativi (coordinatori/responsabili dell’associazione o anche educatori
professionali referenti di un particolare progetto educativo). Penso che questo primo contatto debba
assumere le vesti di un momento di approfondimento qualitativo da effettuarsi mediante intervista
discorsiva. Quest’ultima dovrà essere concepita nella sua declinazione guidata, per indirizzare il
focus del discorso sulle salienze della ricerca, e far emergere come è percepito l’atteggiamento dei
giovani verso i pari stranieri (nel caso in cui ce ne siano) e nei confronti del più generale fenomeno
migratorio. Questo primo passaggio avrebbe una funzione di studio-pilota, specificare e articolare
meglio la domanda cognitiva o l’ipotesi e, soprattutto, contribuire alla costruzione della tecnica con
cui si procederà per lo studio dell’oggetto (gli atteggiamenti degli adolescenti).
29
Oggi è difficile che vi siano scuole, centri di formazione o associazioni completamente privi di cittadini stranieri. Vi
sono semmai realtà caratterizzate da “alta presenza” e altre da “bassa presenza”.
30
Bruschi A., (1999), Metodologia delle scienze sociali, Milano, Mondadori, pg. 385
31
Cardano M., (2002), Tecniche di ricerca qualitativa, Torino, Libreria Stampatori, ppg.88-89.
32
Vedi: http://www.csmedi.it/
33
Per la distinzione tra “unità di rilevazione” e “unità di analisi” vedi: Marradi A., (1987), Concetti e metodo per la
ricerca sociale, Firenze, Giuntina, ppg. 20-21
10
1) Nel caso di proseguire con un approccio qualitativo penso sia possa procedere nel seguente
modo. a) Iniziare conducendo dei focus group impostati sulla base delle informazioni emerse
intervistando i testimoni qualificati. Tale tecnica “consente di cogliere le ragioni addotte a sostegno
delle credenze, degli atteggiamenti, dei valori di ognuno”34 ed è inoltre possibile “osservare i
processi di costruzione del consenso all’interno di un gruppo”35. Sarà importante instaurare una
buona collaborazione con i testimoni qualificati (insegnanti, responsabili/coordinatori di
associazioni) al fine di organizzare i gruppi mediante le loro indicazioni (nomination). Sono anche
consapevole dei limiti che l’impiego di tale tecnica può rivelare in un contesto scolastico e/o
associativo in cui è difficile costruire i gruppi in modo omogeneo e con individui tra loro estranei.
Tuttavia se la collaborazione con i testimoni qualificati sarà buona, non escludo che grazie alla loro
intermediazione i requisiti dell’eterogeneità e dell’omogeneità raggiungano un livello sufficiente,
ovvero che non pregiudichino la possibilità di fornire contributi nel senso della domanda della
ricerca. Inoltre, considerata la giovane età dei potenziali partecipanti credo che la dimensione di
gruppo possa favorire una vivace discussione che, a seconda della sua maggiore o minore
omogeneità ideologica-culturale, potrà risultare più o meno polarizzata. b) La documentazione
empirica raccolta mediante i focus group potrà poi essere utilizzata per mettere a punto la traccia di
interviste discorsive da rivolgere ai giovani. Si tratta anche in questo caso di interviste guidate volte
a far emergere le rappresentazioni che gli interpellati hanno dello straniero. In sintesi, con l’impiego
del focus group emerge come l’oggetto dell’indagine si connette alla dimensione di gruppo, mentre
con l’intervista discorsiva emergono maggiormente le rappresentazioni personali. Mi rendo conto
che con questo approccio non sarà possibile ottenere tutte le risposte alle domande che ho posto
all’inizio, ad esempio prendere in considerazione come le variabili di ordine socio-demografico e
contestuale possono influenzare gli atteggiamenti.
2) Nel caso di proseguire con una tecnica quantitativa penso si possa impiegare un questionario.
La sua costruzione potrà basarsi sulle seguenti fonti: a) la letteratura sociologica relativa alla
rappresentazione sociale dello straniero e i recenti contributi sociologici allo studio delle relazioni
intergruppo, b) i risultati a cui sono giunte le due esperienze di ricerca condotte nel Lazio e citate
nel quadro teorico36, c) le informazioni emerse dai testimoni qualificati inizialmente intervistati. In
questo caso le precedenti interviste discorsive assumono la funzione di articolare ulteriormente le
ipotesi di lavoro, che saranno soggette a controllo, e di costruire il questionario da somministrare.
Comunque va ricordato che al momento mi sono limitato a formulare una serie di domande
cognitive in veste molto preliminare; tuttavia ritengo possibile che attraverso le interviste ai
testimoni qualificati e l’approfondimento della letteratura sull’argomento sia possibile una loro
riformulazione in veste di ipotesi. Considerata la complessità dell’oggetto di studio (atteggiamento
verso lo straniero e l’immigrazione) penso sia necessario scomporlo in un congruo numero di
dimensioni da tradurre poi in successivi indicatori, ad esempio: la percezione, la minaccia, la
reciprocità, il capitale sociale, il capitale culturale, la sicurezza, il processo di esplorazione di sé, il
contatto, le relazioni con i gruppi di appartenenza, il contesto di azione e gli aspetti sociodemografici. Inoltre, ritengo opportuno che la prima discesa sul campo avvenga solamente come
“forma di collaudo”37 (pre-test) al fine di apportare gli accorgimenti e le modifiche necessarie prima
del suo impiego definitivo. Credo che il questionario possa anche contenere alcune (poche)
domande aperte, su items particolarmente rappresentativi del tema in oggetto, al fine di fornire un
contributo qualitativo minimo alle informazioni sulle dimensioni e le relative variabili che si
intendono studiare.
Complessivamente si tratta di una strategia di rilevazione con finalità molto diverse rispetto a
quella presentata al punto precedente. Innanzitutto ci si concentra sulle variabili che caratterizzano
34
Cardano M., (2002), Tecniche di ricerca qualitativa, Torino, Libreria Stampatori, pg.163
Ibidem.
36
Vedi nota 22
37
Corbetta P., La ricerca sociale: metodologia e tecniche. II Le tecniche quantitative, Bologna Il Mulino, pg.186
35
11
l’oggetto anziché scendere nel profondo dei casi. In secondo luogo, è possibile rilevare gli
atteggiamenti, le opinioni, i fatti accaduti e le autodescrizioni della personalità. È possibile inoltre
rendere evidente il peso delle variabili socio-demografiche nel condizionare la percezione degli
eventi, rilevare il modello di valori di riferimento e costruire tipologie sulla base dei nessi tra queste
aree tematiche. Dall’altro lato il limite principale è costituito dalla relativa impossibilità a scendere
nel profondo delle rappresentazioni sociali, elemento che nell’ambito di questa ricerca riveste una
certa importanza.
Per quanto abbia inizialmente dichiarato di non essere ancora giunto a definire quale approccio
prediligere e quale tecnica impiegare, riconosco che sulla base di come sono state formulate le
preliminari domande cognitive e la rispettiva articolazione in variabili dipendenti e indipendenti,
sarebbe più idoneo rivolgersi ad un approccio quantitativo. Tale scelta implicherebbe però una
migliore formulazione delle domande in veste di ipotesi e sub-ipotesi al fine di rendere più
operative le varie dimensioni che contiene. Inoltre, non intenderei cristallizzarmi su una rigida
scelta (quantitativa o qualitativa) perché anche nel caso in cui si opti per lo studio delle variabili
sarà comunque necessario farlo precedere da un momento qualitativo finalizzato alla migliore
costruzione e conduzione dello strumento.
3) Una terza via potrebbe contemplare un maggiore bilanciamento nell’uso di tecniche
qualitative e quantitative. Dopo il contatto con i testimoni privilegiati si costruisce e si somministra
un questionario e con i risultati ottenuti si interrogano direttamente gli adolescenti, ad esempio
tramite interviste discorsive. Questo sistema è inquadrabile in un’ottica multi-tecnica o
“triangolazione”38. Si otterrebbe un quadro estremamente ricco e approfondito perché i dati emersi
dai questionari, prevalentemente percezioni e le influenze su queste ultime delle variabili sociodemografiche, potrebbero fornire utili spunti per interrogare i giovani e, in particolare, verrebbero
così integrati dalle rappresentazioni dello straniero emerse durante i colloqui. Naturalmente un tale
disegno richiede molto tempo e risorse che, nell’ambito del presente progetto di ricerca, ritengo di
non facile realizzazione.
38
Cardano M., (2002), Tecniche di ricerca qualitativa, Torino, Libreria Stampatori, pg. 85.
12
Estensione teorica
Nel condurre questa ricerca il mio personale auspicio è in primo luogo di contribuire a
migliorare la conoscenza di un fenomeno sia per la sua rilevanza sociale e politica quanto a livello
di teoria sociologica. Innanzitutto è ormai chiaro che la società italiana è destinata ad intraprendere
un processo di cambiamento sociale simile a quello che sta caratterizzando altri paesi europei a più
lunga esperienza migratoria e, in secondo luogo, che tra le generazioni più giovani si registrano
evidenti atteggiamenti di chiusura e intolleranza verso la diversità etnica. È quindi importante che si
potenzino ulteriormente le azioni volte a modificare questi atteggiamenti negativi in positivi. Di
conseguenza credo che nel condurre la ricerca e, in particolare, nella fase di analisi dei dati sia
importante tenere a mente che si sta lavorando su un materiale molto sensibile per i possibili
contributi a livello di elaborazione di strategie educative volte a prevenire forme di discriminazione
che possono anche portare a esiti conflittuali, e a superare la stereotipizzazione negativa dello
straniero.
Da un punto di vista della teoria sociologica penso che il principale apporto sia di ampliare
maggiormente un tema di osservazione che, al momento, non è ancora particolarmente coltivato: i
giovani e l’immigrazione. La scelta di studiare tale oggetto con un approccio sociologico andrà
nella direzione di evidenziare i limiti dell’approccio psicologico allo studio degli atteggiamenti e
del pregiudizio etnico. L’impressione è che, rispetto alle (incontrollabili) dinamiche del profondo, a
prevalere siano innanzitutto le capacità cognitive-comprensive dell’attore in quanto prodotto della
sua complessiva collocazione sociale. Da tale collocazione derivano le risorse impiegate per
razionalizzare le percezioni, gli atteggiamenti e le scelte di azione, ridurre i conflitti con il gruppo di
appartenenza o invece superare la sua dimensione e porsi al di fuori di esso. Credo inoltre che
l’origine degli atteggiamenti e dei pregiudizi sia da ricercare anche nella funzione che essi svolgono
per l’attore, intesa come strumento per mantenere viva e perpetuare la sua collocazione sociale. Per
tale ragione penso che i meccanismi causali che sottostanno all’atteggiamento e al pregiudizio siano
differenziati rispetto all’origine sociale dell’individuo. Infine attribuisco molta importanza al
contatto quale possibile strada per sviluppare atteggiamenti positivi (“Contact Hypothesis”) e agli
interventi strutturali che lo possono agevolare, all’interno dei quali annovero anche la costruzione
intenzionale (istituzionale) della forma sociale dello straniero. Quello che non sarà dato conoscere è
la durata nel tempo delle percezioni e degli atteggiamenti emersi, e se costituiranno la base per
effettivi comportamenti. Sono consapevole che l’adolescenza è per definizione una cruciale fase di
passaggio verso l’”acquisizione dell’identità”39, in cui si investe molto nell’esplorazione di sé, e
quindi numerosi atteggiamenti, pensieri e stili di vita adottati in questo momento saranno modificati
negli anni seguenti. Non sarà quindi possibile sostenere che chi dimostra un atteggiamento di
chiusura, ostile e magari xenofobo verso lo straniero sia destinato ad esprimere comportamenti
discriminatori e razzisti anche nell’età adulta. Tuttavia non è questo l’obiettivo che mi pongo. Mi
attendo invece che la fotografia che emergerà, pur avendo una validità spaziale e temporale definita,
possa contribuire ad arricchire gli strumenti sociologici utilizzati, quali l’identità, la socializzazione,
il conflitto e il rapporto micro (l’interazione di gruppo) e macro (le scelte istituzionali volte ad
intervenire sul contesto). Inoltre uno sforzo particolare sarà dedicato all’arricchimento delle
classiche categorie concettuali utilizzate nei racial studies, come il razzismo, la xenofobia, il
pregiudizio e lo stereotipo. Secondo le recenti teorie sull’argomento, in particolare provenienti dalla
scuola francese, oggi la categoria razzismo sarebbe più onnicomprensiva di un tempo, includendo
una casistica di elementi molto estesa come ad esempio semplici credenze40. Per quanto tali studi
rappresentino utili contributi teorici, sono convinto che sia necessario articolare più a fondo la
questione circa l’utilizzo di tali categorie. Come hanno sostenuto Balbo e Manconi a inizio degli
anni novanta, operando un processo di categorizzazione o etichettamento di tipo razzista di ogni
39
Garelli F., Palmonari A., Sciolla L., (2006), La socializzazione flessibile. Identità e trasmissione dei valori tra i
giovani, Bologna, Il Mulino, pg 244.
40
Vedi nel “Quadro teorico” i riferimenti dedicati alla Scuola francese e in particolare all’analisi del discorso di Teun
van Dijk.
13
comportamento o atteggiamento ostile verso l’ ”altro”, si corre il rischio di innescare processi di
identificazione in tal senso anche quando la loro natura è differente41. Credo che uno dei contributi
che questa ricerca potrà fornire sia proprio relativo a migliorare la denotazione, la connotazione e il
relativo utilizzo delle suddette categorie. Credo che un tratto distintivo del razzismo debba essere
ricercato negli effetti dei concreti comportamenti, perché altrimenti si corre il rischio di utilizzarlo
come sinonimo di pregiudizio etnico, xenofobia, stereotipo negativo, ecc. Considerato che tra i
pensieri, gli atteggiamenti e i comportamenti il legame di consequenzialità non è diretto, forse vale
la pena ridefinire i contenuti di queste categorie concettuali, tenerle distinte ed applicarle a fatti
precisi.
Per riassumere, penso che attraverso l’analisi della documentazione empirica i feedback a
livello di Teoria possano andare nelle seguenti direzioni: a) consolidamento dell’approccio
sociologico allo studio del pregiudizio e messa in luce dei limiti dell’approccio psicologico, b)
contributi a livello educativo-pedagogico, c) utilità della “Contact Hypothesis”, d) arricchimento
delle categorie concettuali abitualmente impiegate.
41
Balbo L. e Manconi A. in Ambrosini M., (2005), “Sociologia delle migrazioni”, Bologna, Il Mulino, pg. 261.
14
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