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RASSEGNA STAMPA
lunedì 30 novembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
WELFARE E SOCIETA’
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Repubblica.it del 27/11/15
Un milione in piazza per il clima,
manifestazioni a Roma e in 150 paesi
Domenica cortei in tutti i continenti per l'uscita dai combustibili fossili:
"Serve all'ambiente e serve alla pace". A San Paolo truppe
carnevalesche invaderanno le strade a suon di samba. In Yemen,
nonostante la guerra in corso, ci sarà una manifestazione a Sanaa. In
Tanzania marceranno più di mille masai
di ANTONIO CIANCIULLO
ROMA - Domenica, mentre a Parigi i delegati Onu apriranno i lavori della conferenza sul
clima, nelle vie di 150 Paesi si svolgeranno 2.300 manifestazioni. per chiedere di fermare
le emissioni serra che stanno minando l'equilibrio dell'atmosfera. Solo a Parigi non si
marcerà, per motivi di sicurezza. E proprio in questa contraddizione sta la chiave di lettura
dei cortei che domenica porteranno in piazza a Roma come a Sidney, a San Paolo come a
Nuova Delhi, a Melbourne come a Tokyo più di un milione di persone per chiedere di
fermare sia la guerra contro l'ambiente che il terrorismo contro la democrazia.
"I signori della guerra e i signori del petrolio coincidono: abbandonare la dipendenza dai
combustibili fossili vuol dire mettere in sicurezza l'umanità dal punto di vista ambientale e
togliere una formidabile arma al terrorismo: il Daesh, il sedicente stato islamico, rinnova il
suo arsenale bellico con i soldi che vengono dalla vendita del petrolio; sarebbe
interessante capire chi lo compra", osserva Vittorio Cogliati Dezza, presidente di
Legambiente. Dello stesso parere anche il direttore di Greenpeace Giuseppe Onufrio. "La
conferenza sul clima è anche una conferenza sulla pace per due ordini di ragioni: fermare
il riscaldamento globale significa diminuire i rischi di conflitto per le risorse; e nello stesso
tempo sostituire le fonti fossili con l'energia pulita e l'efficienza vuol dire ridurre il rischio di
nuove guerre per il petrolio".
Ma non sono solo gli ambientalisti a sostenere la tesi di un legame molto stretto tra
sicurezza e fuoriuscita dai combustibili fossili. Il Time ricorda che nel 2014 un rapporto del
Dipartimento della sicurezza degli Stati Uniti indicava nel cambiamento climatico una delle
ragioni dell'instabilità politica che sta moltiplicando le tensioni sociali e il numero dei
profughi. E l'affermazione è stata rilanciata il mese scorso dal segretario di Stato John
Kerry che ha evidenziato il legame tra la crisi siriana e la lunga carestia che ha colpito il
paese gonfiando di ex contadini immiseriti le periferie urbane.
In Italia, la Coalizione per il cima, alla quale aderiscono 150 organizzazioni (dagli
ambientaliste alla Coldiretti, dai sindacati a Slow Food, dai Medici per l'ambiente all'Arci,
dagli studenti ai sindacati), ha indetto varie manifestazioni. A Roma l'appuntamento è per
le 14 a Campo de Fiori per un corteo che si concluderà in via dei Fori imperiali con un
concerto che inizierà alle 17. Sul palco si alterneranno Bandabardò, Dolcenera,
Meganoidi, Têtes de Bois, Kutzo, Sandro Joyeaux, presenteranno Massimo Cirri e Sara
Zambotti.
Nel mondo sarà la Nuova Zelanda a far partire le manifestazioni: Auckland scenderà in
strada con una partecipazione di massa alla Haka, la danza dei maori. Nelle Filippine
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manifestazioni nelle sei maggiori città con un'ampia partecipazione delle comunità che
hanno sofferto l'impatto devastante dei cicloni degli ultimi anni. A San Paolo truppe
carnevalesche invaderanno le strade a suon di samba. In Yemen, nonostante la guerra in
corso, ci sarà una manifestazione a Sanaa. In Tanzania, più di mille masai marceranno
per un accordo globale che garantisca energie rinnovabili in Ngorongoro, al confine con il
parco di Serengeti, dove hanno dovuto affrontare siccità estreme.
A Berlino i manifestanti si riuniranno al Branderburg Gate, mentre leader indigeni a
Bogotá, in Colombia, celebreranno una cerimonia per la madre terra. In Messico oltre 5
mila ciclisti percorreranno una trentina di chilometri attraversando la capitale per chiedere
un accordo globale che porti al 100% energia pulita. A Parigi dove si aspettava la marcia
più grande con oltre 200 mila partecipanti, ci sarà una marcia simbolica con decine di
migliaia di scarpe sparse su quello che sarebbe dovuto essere il percorso. Le scarpe dei
cittadini francesi non saranno sole ma bensì accompagnate da una marcia virtuale che sta
prendendo piede nei quattro angoli del pianeta.
Anche il popolo della rete si sta mobilitando: da ieri la prima pagina di Youtube è
interamente dedicata al cambiamento climatico con un video e un appello a firmare la
campagna di Avaaz per il 100% energie pulite.
"Saranno piazze piene di musica e di speranza: il cambiamento deve iniziare subito:
chiediamo azioni entro il 2020 a tutti, ai governi nazionali e locali, alle associazioni e ai
singolo", propone Maria Grazia Midulla del Wwf. E le prime risposte dagli enti locali
cominciano già ad arrivare. "Taglio delle emissioni di gas serra del 40%; 100 mila euro
solo nel Lazio per l'acquisto di bici pieghevoli per i pendolari; un milione di euro per far
avanzare il patto dei sindaci; Pil verde; territori a emissione zero; tetto del 50% agli
spostamenti privati su mezzi a motore; sconti ai Comuni che realizzano la raccolta
differenziata dei rifiuti", propone Riccardo Valentini, membro dell'Ipcc,
la tasf force degli scienziati Onu sul clima e capogruppo Pd alla Regione Lazio. "Sono le
sette proposte che, sulla scia degli obiettivi che i 195 paesi presenti al summit sul clima di
Parigi tenteranno di stabilire, lanciamo a partire dal Lazio".
http://www.repubblica.it/ambiente/2015/11/27/news/un_milione_in_piazza_per_il_clima_m
anifestazioni_a_roma_e_in_150_paesi-128273597/
Da Rinnovabili.it del 29/11/15
Le immagini del corteo di ieri nella capitale
A Roma in 15 mila alla Marcia per il Clima
Da Campo de’ Fiori ai Fori imperiali, la Marcia per il Clima ha radunato il mondo
dell’ambiente e del lavoro, uniti a chiedere un cambio di rotta
(Rinnovabili.it) – Circa 15 mila persone hanno sfilato ieri a Roma nella Marcia per il Clima,
aperta dai vertici delle maggiori associazioni ambientaliste e dal presidente della Camera,
Laura Boldrini. Da piazza Campo de’ Fiori ai Fori imperiali, il corteo ha raccolto numerose
sigle: Legambiente, WWF, Greenpeace, Arci, Oxfam, Lipu e decine di altri soggetti.
La marcia, organizzata in 150 Paesi e 2.300 eventi in tutto il mondo, ha visto 50 mila
partecipanti a Londra, 30 mila persone a Melbourne e migliaia a Dakka, in Bangladesh. In
Europa hanno aderito tutte le grandi capitali. I parigini hanno disubbidito all’ordine
governativo di restare a casa, e hanno provato a sfilare ugualmente. La polizia ha caricato
i manifestanti, arrestandone più di 200.
http://www.rinnovabili.it/ambiente/roma-15mila-marcia-per-il-clima-333/
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Da il Journal del 28/11/15
Concerto per il Clima a Roma alla vigilia della
COP21
di marina perotta
Un grande concerto e una marcia per il Clima a Roma: si aprono così le manifestazioni
della società civile alla vigilia della COP21, la 21esima Conferenza delle Parti sul clima
che si terrà a Parigi fino al 12 dicembre. La manifestazione italiana durerà tutta la giornata
e inizierà con la Marcia per il clima che attraverserà le strade di Roma, proseguendo dalle
17 in poi con il grande concerto organizzato da iCompany. L’evento sarà trasmesso in
diretta streaming.
Al concerto che sarà presentato da Massimo Cirri e Sara Zambotti parteciperanno
Bandabardò, Dolcenera, Piotta,kuTso, La casa del vento ft. Maneti Modena City
Ramblers,MEGANOIDI, Tetes de Bois, Med Free Orkestra, Andrea Rivera – Official
Fanpage, Giobbe Covatta, Sandro Joyeux, STAG, Anonima Armonisti, Ricky Anelli,
ZioFelp e tanti altri…
Promuove l’evento italiano la Coalizione Clima che raggruppa oltre 100 realtà e soggetti
sociali tra cui Arci nazionale, CGIL Confederazione Generale Italiana del Lavoro,
Coldiretti, Earth Day Italia, Fiom Cgil Nazionale, Greenpeace Italia, Istituto Nazionale Di
Urbanistica, Italian Climate Network, LAV, Legambiente Onlus, Link Coordinamento
Universitario, LIPU, Movimento Consumatori, Movimento Difesa del Cittadino, Oxfam
Italia, Rete Clima, Rete degli Studenti Medi, Slow Food Italia, Società Meteorologica
Italiana – NIMBUS, Touring Club Italiano, UIL Nazionale, Uisp Nazionale, Unione degli
Studenti – sindacato studentesco (pagina nazionale), UDU – Unione degli Universitari,
WWF.
http://iljournal.today/blogeko/2015/11/28/concerto-per-il-clima-a-roma-alla-vigilia-dellacop21/
Da Musical news del 28/11/15
Concerto per il Clima il 29 novembre ai Fori
Imperiali
di Alessandro Sgritta
Domenica 29 novembre dalle 17 ai Fori Imperiali di Roma il grande
Concerto per il Clima con Bandabardò, KuTso, Tetes de Bois, Andrea
Rivera, Sandro Joyeux, La Casa del Vento, Dolcenera, Med Free
Orkestra, Meganoidi, Piotta, Stag, Anonima Armonisti...
Domenica 29 novembre dalle 17 ai Fori Imperiali di Roma il grande "Concerto per il Clima"
con Bandabardò, KuTso, Tetes de Bois, Andrea Rivera, Sandro Joyeux, La Casa del
Vento feat. Maneti (Modena City Ramblers), Dolcenera, Med Free Orkestra, Meganoidi,
Piotta, Stag, Anonima Armonisti, Ricky Anelli e tanti altri, che sarà trasmesso in diretta
streaming sul canale Youtube di iCompany.
Si terrà il 29 novembre a Roma, nella splendida cornice di via dei Fori Imperiali, il grande
Concerto per il Clima. In contemporanea, migliaia di cittadini si uniranno in una marcia
globale nelle principali città di tutto il Mondo al fine di far sentire la propria voce contro gli
effetti dei cambiamenti climatici e per un radicale cambiamento del modello economico,
energetico e di sviluppo.
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Il concerto anticipa la Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima che si aprirà a Parigi il
giorno seguente; la COP 21 è un appuntamento fondamentale per il futuro del Pianeta.
La manifestazione italiana del 29 novembre 2015 si terrà a Roma durante l’intero arco
della gior-nata, con una marcia attraverso le strade di Roma ed un grande “Concerto per il
Clima” che verrà organizzato da iCompany e si svolgerà in via dei Fori Imperiali a partire
dalle ore 17.
La Coalizione Clima, promotrice dell’evento italiano, unisce oltre 100 realtà e soggetti
sociali che hanno risposto all’appello globale. Della Coalizione Clima, tra gli altri, fanno
parte anche ARCI, CGIL, COLDIRETTI, EARTH DAY ITALIA, FIOM, GREENPEACE,
ISTITUTO NAZIONALE URBANISTICA, ITALIAN CLIMATE NETWORK, LAV,
LEGAMBIENTE, LINK – COORDINAMENTO UNIVERSITARIO, LIPU, MOVIMENTO
CONSUMATORI, MOVIMENTO DIFESA CITTADINO, OXFAM, RETE CLIMA, RETE
DEGLI STUDENTI MEDI, SLOW FOOD ITALIA, SOCIETA’ METEREOLOGICA
ITALIANA, TOURING CLUB ITALIANO, UIL, UISP, UNIONE DEGLI STUDENTI, UNIONE
DEGLI UNIVERSITARI, WWF.
Il link alla coalizione: www.coalizioneclima.it | #ClimateMarch | @CoalizioneClima
CONCERTO PER IL CLIMA
29 Novembre 2015 - ROMA
via dei Fori Imperiali, ore 17:00
con
Bandabardò, Dolcenera, Piotta, Kutso, La Casa del Vento feat. Maneti (Modena City
Ramblers), Meganoidi, Tetes de Bois, Med Free Orkestra, Andrea Rivera, Giobbe Covatta,
Sandro Joyeux, Stag, Anonima Armonisti, Ricky Anelli, Zio Felp e tanti altri…
presentano Massimo Cirri e Sara Zambotti (RAI - Cartepillar)
L’evento sarà trasmesso in DIRETTA STREAMING su www.youtube.com/c/IcompanyItalia
ULTERIORI INFORMAZIONI SU: www.i-company.it/ievent/globalclimateday
http://www.musicalnews.com/articolo.php?codice=32075&sz=5
Da il Secolo XIX del 28/11/15
Grandi e piccini, in marcia a Genova per
difendere l’ambiente
Genova - Una folla di bambini con in mano palloncini verdi e grandi trifogli: sono stati in
circa 700 a scendere in piazza nel pomeriggio nel capoluogo ligure per la marcia globale
per il clima , per dire «no» alle energie inquinanti e promuovere invece quelle pulite e
rinnovabili.
Partiti alle 14.30 da Palazzo San Giorgio, i manifestanti hanno attraversato via San
Lorenzo per arrivare in piazza De Ferrari, dove per l’occasione, la fontana è stata colorata
di verde: «Domani inizia la conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici spiega il volontario di Greenpeace e di Avaaz, Andrea Garibaldi - In tutto il mondo si
scende in piazza oggi per chiedere a gran voce un accordo vincolante per la riduzione dei
gas serra e l’azzeramento dei combustibili fossili, per fare sì che il riscaldamento globale
stia sotto i due gradi di aumento di temperatura rispetto all’era pre-industriale».
La manifestazione è stata promossa da oltre 30 associazioni genovesi, tra cui Accademia
Kronos, Arci Genova, Circoliamo Sampierdarena, Greenpeace Genova, Music Hub e Wwf
Genova.
http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2015/11/29/ASES92a-difendere_piccini_ambiente.shtml
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Da Trieste Prima del 29/11/15
Marcia globale per il clima, evento nel
pomeriggio in piazza della Borsa
Anche a Trieste domenica 29 novembre – come in altre migliaia di località di tutto il mondo
– molte persone e associazioni si riuniranno per sensibilizzare i concittadini e le autorità
sulla lotta ai cambiamenti climatici e per la riduzione delle emissioni di gas serra.
Il vertice mondiale di Parigi COP21, che si svolgerà dal 30 novembre all'11 dicembre,
dovrà produrre accordi vincolanti per bloccare l'innalzamento della temperatura globale. In
caso contrario, la vita delle persone, gli ecosistemi, intere città e territori sono minacciati
da disastri naturali, alluvioni, carestie e dai conflitti e migrazioni che ne nasceranno. La
Coalizione Italiana per il Clima, che riunisce centinaia di associazioni, e la comunità di
Avaaz, a cui partecipano migliaia di giovani, stanno organizzando la marcia a Roma e in
tutta Italia.
A Trieste la Coalizione ed Avaaz hanno deciso di unire le forze, per cui l'evento viene
organizzato insieme. Le 26 associazioni che promuovono l'iniziativa sono: Avaaz, Acli,
AIAB-FVG, Arci Servizio Civile, Arci Trieste, BdM Senza Confini Brez Meja, Bioest, CCdLUIL, CGIL, Centro Italo-Sloveno Trieste, Comitato Pace e Convivenza Danilo Dolci,
COPED-CamminaTrieste, Federconsumatori, FIAB Trieste Ulisse, Forum regionale Acqua
Bene Comune, ISDE, Kmečka Zveza, Konrad, Legambiente, Marevivo, Rete della
Conoscenza, Slow Food, Studenti per l'ambiente, UISP, Unione degli Studenti, WWF,
ZSKD
La presenza di associazioni così diverse: ambientali, culturali, sindacali, ricreative,
sportive, studentesche, testimonia il fatto che il problema dei cambiamenti climatici
riguarda tutti noi e viene visto come uno dei problemi più urgenti con cui si confronta
l'umanità.
A Trieste la “marcia” sarà una grande festa con animazione, giochi, letture, musica,
destinato soprattutto ai giovani, ai bambini ed alle famiglie, per partecipare tutti a questo
momento di importanza storica.
Interverranno gli animatori di Arci Trieste, i gruppi musicali Drifting Waves e Azoto liquido, i
giovani di Acli e Arci Servizio Civile leggeranno i testi sui cambiamenti climatici, un gruppo
di ciclisti di Fiab Trieste Ulisse testimonierà di come ci si può muovere e divertirsi senza
produrre gas a effetto serra.
Ricordiamo che sabato 28 in via di Cavana dalle ore 16 l'Unione degli Studenti organizza
un Concerto per l'Ambiente "Ossigeno Musicale", con la partecipazione di diversi gruppi,
proprio per promuovere la marcia per il clima e una riflessione sui cambiamenti climatici, e
che la marcia si terrà domenica anche a Ljubljana, a Gorizia e a Udine alle ore 15 alla
Loggia del Lionello.
http://www.triesteprima.it/green/marcia-clima-piazza-della-borsa-29-novembre-2015.html
Da Primo Canale del 28/11/15
Ambiente, domani a Savona la marcia per il
clima
SAVONA - Parigi chiama Savona risponde.
Con questo slogan domani a Savona l'Arci ed altre associazioni chiamano tutti a raccolta
con una marcia per il Clima.
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Mentre a Parigi dal 30 novembre all'11 dicembre i Capi di Stato e di Governo delle Nazioni
si confronteranno sui cambiamenti climatici e sulle contromisure da adottare sotto la
Torretta domani a partire dalle 14.30 in molti si ritroveranno per poi toccare cinque piazze
tematiche.
L'appuntamento è in piazza Mameli per il ritrovo, poi ecco via Manzoni con il tema 'Cibo e
territorio', piazza del Brandale con 'Democrazia e diritti', via Pia con 'Energia' quindi piazza
Diaz con 'Salute e lavoro' e piazza Marconi con 'Acqua e beni comuni'.
La conclusione è prevista per le 17 in piazza Sisto IV alla presenza di Antonio Lupo del
Comitato Amigos Sem Terra Italia e del comico Daniele Raco.
http://www.primocanale.it/notizie/ambiente-domani-a-savona-la-marcia-per-il-clima163782.html
Leggi sulla marcia di Savona anche
- http://www.ivg.it/2015/11/savonesi-in-marcia-in-difesa-del-pianeta-con-la-coalizioneitaliana-per-il-clima/
- http://www.savonanews.it/2015/11/29/leggi-notizia/argomenti/politica-2/articolo/inmarcia-per-dire-stop-al-cambiamento-climatico-anche-a-savona-la-marcia-sulclima.html
Da Qui Brianza del 28/11/15
Una giornata in piazza per difendere il clima e
salvare la Terra
MONZA - Oggi, dalle 10.30 alle 18, sarà presente in largo Mazzini (di fronte alla
Rinascente) il Comitato Beni Comuni di Monza con un gazebo informativo. Una giornata
giornata per difendere il pianeta e sensibilizzare la popolazione sull’importanza del rispetto
dell’ambiente e sui rischi dei cambiamenti climatici
Una giornata per difendere il pianeta e sensibilizzare la popolazione sull’importanza del
rispetto dell’ambiente e i seri rischi dei cambiamenti climatici. Nella certezza (e
consapevolezza) che ciascuno può (e deve) fare la sua parte per abbassare la
temperatura della Terra.
Appuntamento oggi, domenica 29 novembre, con il Comitato Beni Comuni di Monza che
dalle 10.30 alle 18 sarà presente in largo Mazzini (di fronte alla Rinascente) con un
gazebo informativo, striscioni e la proiezione di video sul sistema agricolo e il commercio
di cereali su scala mondiale e un flah mob in piazza e nelle principali vie della città.
La giornata si concluderà alle 21 all’Urban Center con la proiezione del film documemtario
“Cowspiracy: quello che il sistema non vuole che tu sappia”. Il video, che dura circa
quaranta minuti, sarà preceduto e seguito da un dibattito durante il quale verranno anche
prese ntate proposte e progetti da attuare all’interno di ogni piccola e grande comunità.
L’ingresso è libero.
All’iniziativa hanno aderito anche Legambiente Monza, Associazione Progetto Co-scienza,
Comitato Basta Cemento Monza, Arci Scuotivento Monza, Comitato Parco, Lista Civica
Italiana, Associazione Minerva Concorezzo, Comitato Villa Reale è anche mia, Comitato
verso il distretto di economia solidale della Brianza, Associazione “Cani Sciolti” Milano,
Circolo culturale AmbienteScienze di Cremona e Coordinamento cittadini liberi Lombardia.
http://quibrianza.it/ambiente/monza/una-giornata-in-piazza-per-difendere-il-clima-esalvare-la-terra.html
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Da il Corriere della Romagna del 27/11/15
Rassegna. Prende il via oggi alle 15.30 a Palazzo Romagnoli "Str@ti
della cultura".
Arci, in città il festival nazionale
Nella biblioteca comunale evento dedicato a Pasolini
Forme culturali che vanno a toccare i territori dell'immagine e .. della musica, della
fotografia e del fumetto per una riflessione su "Le forme nella Città".
«Arci ha scelto Forlì per l'ottava edizione del festival nazionale "Str@ti della
cultura"- spiegano Michele Drudi e Margherita Favali dell'Arci -. Del nostro progetto è sfata
riconosciuta la capacità di creare collaborazioni: istituzionali, come con la Regione e il
Comune, ma anche con le associazioni del territorio, con cui cercare di dare risposte
concrete' all'emergenza occupazionale dei giovani e produrre reali innovazioni dei
processi culturali produttivi e sociali».
Il festival entra nel vivo oggi pomeriggio con 'Cantieri culturali. Incontri fra progetti culturali
dell'Arci", di scena a Palazzo Romagnoli alle 15.30: intervengono il sindaco Davide Drei,
l'assessora Elisa Giovannetti e la dirigente Cristina Ambrosini, .oltre che all' esperto di
fundraising Luciano Zanin. Alle 19.30 al Circolo Valverde inaugurazione della mostra di
Beatrice Bertaccini e dj· set di Hazillà. Alle 21.30, poi, alla biblioteca comunale "Saffi" in
corso della Repubblica "Serata Pasolini"' con la proiezione del film "Non essere cattivo"
di Claudio Caligari e la presentazione di "Diario segreto di Pasolini" di Elena Stambolliis, .
illustrato da Gianluca Costantini, presenti con Renata Penni, direttrice della "Saffi", e
Roberto Roversi, presidente dei Circoli cinematografici Arci. Domani alla Fabbrica
delle Candele, dalle 10 ,''Le forme nella città" su co-working, fablab, hubs creativi e noprofit, e alle 21, ai Musei San Domenico, Marco Ambrosini in concerto per i trent'anni della
Scuola di Musica popolare di Forlimpopoli. Il 28 alle 10 si torna al San Domenico per il
punto sui risultati dei gruppi di lavoro, e alle 13 concerto e disegno live con Giuseppe
Palumbo e Comaneci.
All'Area sismica alle 21.3Ò, infine, Luciano Laghi Bonelli con le sue multivisioni introduce.il
concerto di Simon Nabatov (pianoforte), Martin Blume '(batteria), Luc Houtkarnp (sax). Gli
eventi sono gratuiti. Info: www.arci.it. (mti) ·
Da il Resto del Carlino del 25/11/15
L’omaggio dell’Arci al maestro Pasolini
PER LA PRIMA volta in esclusiva a Forlì, l'Arci nazionale e quello locale hanno
organizzato l'evento annuale 'Strati della Cultura' che si terrà da domani a sabato in vari
luoghi della città. L'obiettivo è quello di promuovere la cultura «offrendo opportunità di
approfondimento e di riflessione su questo argomento - ha precisato l'assessore alla
Cultura e alle politiche giovanili del Comune di Forlì Elisa Giovannetti , in particolare su
quello legate alle attività giovanili ». Le reti tematiche Arci sono Arci Teatro, Arci-Real-Rete
Arci Musica Live, Arci Book, Ucca e altri. La cultura intesa · come sviluppo sociale ed
economico del paese diviene perciò prioritaria sia per l'innovazione sia per l'emergenza
occupazionale. «L'EDIZIONE 2015 - spiega Michele Drudi;. presidente dell'Arci forlivese si concentrerà sulle politiche a sostegno del sistema culturale e della creatività,
coinvolgendo enti, istituzioni, intellettuali ed esperti con grande attenzione al ruolo delle
amministrazioni locali». GLI SPAZI che accoglieranno gli eventi dei tre giorni di 'Strati della
cultura' sono: Palazzo Romagnoli, la Biblioteca Saffi, la Fabbrica delle Candele, la sala
refettorio dei Musei San Domenico, il circolo Arci Valverde e il circolo Arci Area Sismica. IL
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PROGRAMMA di domani prevede: al Palazzo Romagnoli (dalle 16.30 alle 19) 'Cantieri
culturali: incontri tra progetti culturali dell'Arci' a cui seguirà la vislta alla collezione
Verzocchi, l'inaugurazione (ore 19.30) all'Arci di via Valverde, della mostra di Beatrice
Bertaccini e musica del dj set Hazina. Seguirà alle ore 21.30 nella biblioteca Saffi una
serata dedicata a Pier Paolo Pasolini (foto) che sarà il focus di tutta la manifestazione con
proiezione del film 'Non essere cattivo' di Claudio Caligari e presentazione del libro 'Diario
segreto di Pasolini' di Eletra Stamboulis.
Da Gazzetta di Modena del 28/11/15
A Modena una fiaccolata per la pace contro il
terrorismo
I Giovani Musulmani a Modena daranno vita ad una vera e propria
mobilitazione di massa che ha coinvolto decine di associazioni:
appuntamento martedì 1 dicembre in piazza Roma
MODENA. Una fiaccolata martedì 1 dicembre alle ore 18 in piazza Roma contro la
barbarie del terrorismo e la guerra per restare umani e costruttori di ponti tra persone e
popoli.
“Non in nostro nome”, questo il titolo dell’iniziativa che in pochissimi giorni è riuscita a
raggiungere il sostegno di decine di associazione sparse sul nostro territorio a vario titolo
impegnate nel terzo settore, nel volontariato, nel welfare, nella solidarietà.
L’iniziativa nasce da una idea dei Giovani Musulmani d’Italia, con il patrocinio del Comune
di Modena ed è stata subito sposata da tutti, senza differenze.
Ci saranno Acli, Alkemia, Anpi, Arci, Associazione Interculturale Milad, Bambini nel
Deserto, Asssociazione Giunchiglia, Casa delle culture, Casa per la pace, Amici della Non
violenza Movimento non violento, Amnesty International, Associazione per la Pace,
Associazione di Volontariato Palmipedoni, Donne in nero, Fiab, Gavci, Gruppo “Studiare,
studiare, studiare”, pax Christi Modena, Rete di Lilliput, Casa della saggezza e
misericordia e convivenza, Cgil, Cisl e Uil, Comunità di base del Villaggio Artigiano, Centro
Siggillino, Comunità Islamica di Modena e Provincia, Csi Modena e Csi Volontariato,
Giovani Musulmani d’Italia di Carpi, Modena e Sassuolo, Gruppo carcere Città, Gruppo
Palestina, Gruppo Seconde Generazioni, Milinda, Modena Incontra Jenin, Overseas,
Movimenti dei Focolari, Porta aperta al Carcere, Tavolo Cattolico Islamico, Rete degli
Studenti, “Terra, Pace e Libertà”, Uisp Modena.
Si tratterà di un grande momento di condivisione «perchè il terrorismo non ha religione».
Lo aveva detto anche il vescovo immediatamente dopo i fatti di Parigi: «Fiducioso nel
dialogo, nell'integrazione vera, nella cultura, i soli strumenti in grado di trasformare lo
scontro in confronto e per isolare coloro che usano la religione come strumento di terrore e
di cieca violenza. La Chiesa modenese rinnova il proprio impegno, anche attraverso
il tavolo cattolico islamico, che da anni crea spazi di incontro e condivisione, insieme a
tanti cittadini di fede islamica, per costruire percorsi di comprensione, di cittadinanza,
fondati su quei valori condivisi, che sono alla base della convivenza, nel nostro Paese e in
Europa».
http://gazzettadimodena.gelocal.it/modena/cronaca/2015/11/28/news/a-modena-unafiaccolata-per-la-pace-contro-il-terrorismo-1.12524947
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Da Repubblica.it del 28/11/15 (Bari)
Bari ricorda Benny Petrone. E mette in mostra
le foto del 18enne ucciso dai fascisti nel '77
In piazza San Pietro una mostra con 60 scatti d'epoca. In questura
anche la cerimonia per l'appuntato Filippo, vittima di Prima linea.
Decaro: "Benny e Giuseppe vittime dello stesso furore ideologico"
"Tenere alta la guardia contro ogni forma di violenza legata al fanatismo che
periodicamente attraversa la nostra storia. Proprio come questo momento in cui viviamo".
E' il monito che il sindaco di Bari, Antonio Decaro, ha lanciato ricordando Benedetto
Petrone, il diciottenne barese che 38 anni fa fu ucciso a coltellate da un gruppo di ragazzi
aderenti al Fronte della gioventù.
Quest’anno a ricostruire piccoli pezzi di ricordo dell'omicidio di Petrone è la mostra
fotografica permanente 'Benedetto Petrone, storia e memoria della città'. A realizzarla è
stata l’Arci-Bari con il Comitato 28 Novembre (presieduto dalla sorella di Benedetto, Porzia
Petrone). Sessanta fotografie, da vedere nella sede in piazza San Pietro, la “casa aperta”
dell’Arci, nei locali sottratti alla criminalità, firmate da Fidel Belviso, Francesco Trotta,
Antonio Volpe e Antonella Saracino e da Arturo Cucciolla.
Tanti gli scatti che ricordano quella giornata, come quelli che ricostruiscono i momenti più
duri dei funerali, le lacrime, i pugni alzati, le bandiere, gli striscioni. E, ancora, i 28
novembre degli anni scorsi e un archivio fatto di copie di ritagli di giornale, telegrammi di
condoglianze, foto di Benny bambino, la sua carta d’identità e persino pagine del suo
diario scolastico. «Abbiamo voluto passare nelle mani dei giovani dell’Arci qualcosa dei
loro coetanei di allora», spiega Cucciolla, augurandosi che questa mostra diventi prima o
poi parte di un museo policentrico della città.
Decaro ha partecipato anche a una seconda manifestazione: quella in memoria
dell'appuntato di polizia Giuseppe Filippo, ucciso il 28 novembre del 1980 da terroristi di
Prima linea in un agguato nell'androne del palazzo in cui abitava. In occasione della
cerimonia in ricordo del poliziotto ucciso, che si è tenuta nella questura di Bari, il capo
della polizia, Alessandro Pansa, ha inviato un messaggio esprimendo "vicinanza e affetto
alla famiglia" di Filippo. Anche il questore del capoluogo pugliese, Antonio De Iesu, ha
rimarcato , rivolgendosi alla vedova
di Filippo, che "Giuseppe è nei nostri cuori con il suo insegnamento di dignità e onore".
Bari ricorda Benny Petrone. E mette in mostra le foto del 18enne ucciso dai fascisti nel '77
"Petrone e Filippo - ha detto ancora il sindaco Decaro - sono vittime dello stesso furore
ideologico: Benedetto vittima della violenza dei fascisti, Giuseppe ucciso da terroristi che
dicevano di combattere per la democrazia e la libertà". E ha concluso: "Ma noi di libertà
dobbiamo vivere e non morire".
http://bari.repubblica.it/cronaca/2015/11/28/news/petrone-128367641/
Da Repubblica.it del 28/11/15 (Bari)
"Un viaggio nella nostra memoria" in mostra
gli anni di Benny Petrone
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ANTONELLA GAETA
"Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo". Benedetto Petrone canta e suona la sua chitarra
seduto sulla muraglia, il mare alle sue spalle. Imparare a suonarla, averla è stata una
conquista per un diciottenne di Bari vecchia degli anni Settanta, che non si ferma e mette i
passi giusti, che fa politica, manifesta, difende i diritti della sua piccola città nella città,
militante della sezione del Pci "Introna-Pappagallo". Quella chitarra, qualche tempo dopo,
il primo dicembre del 1977 giace su un letto di fiori, i fiori del suo funerale. La memoria di
Benny Petrone, assassinato da una vile imboscata fascista il 28 novembre, in piazza
Prefettura, al limitare della linea che divideva la città rossa da quella nera, in trentotto anni
è stata alterna, affidata ai suoi caparbi compagni, qualche anno trascurata, qualche altro
meglio celebrata. Quest'anno a ricostruire piccoli pezzi di ricordo, è la mostra fotografica
permanente Benedetto Petrone, storia e memoria della città. A realizzarla è stata l'ArciBari con il Comitato 28 Novembre, presieduto dalla sorella di Benedetto, Porzia Petrone.
Sessanta fotografie, da vedere nella sede di piazza San Pietro, la "casa aperta" dell'Arci,
nei locali sottratti alla criminalità, firmate da "Fidel" Belviso, Francesco Trotta, Antonio
Volpe e Antonella Saracino e da Arturo Cucciolla. Proprio quest'ultimo, ci guida in un giro
di memoria, vivissima, fatta di particolari, nomi, segmenti, cuore che ancora batte nel
ricordare la forza di una sezione, di un movimento di giovani, studenti, professionisti,
lavoratori che, in maniera inedita lottavano insieme. «E quanto fosse forte il senso di quel
che facevamo, lo verificammo il giorno dopo l'assassinio di Benedetto. Quando in piazza
scendemmo tutti noi, scesero gli operai, eravamo in trentamila, una manifestazione
spontanea che mai Bari ha rivisto». Tanti gli scatti che ricordano quella giornata, come
quelli che ricostruiscono i momenti più duri dei funerali, le lacrime, i pugni alzati, le
bandiere, gli striscioni. E, ancora, i 28 novembre degli anni a venire e un archivio fatto di
copie di ritagli di giornale, telegrammi di condoglianze, foto di Benny bambino, la sua carta
d'identità e persino pagine del suo diario scolastico. «Abbiamo voluto passare nelle mani
dei giovani dell'Arci qualcosa dei loro coetanei di allora» aggiunge Cucciolla, augurandosi
che questa mostra diventi prima o poi parte di un museo policentrico della città. Luca
Basso, presidente di Arci Bari- Bat, aggiunge: «Abbiamo deciso di condividere con il
Comitato il compito della memoria, anche perché ciascuno dei seimila soci di Arci Bari si
può riconoscere in almeno una delle caratteristiche di Benedetto, che resta un riferimento
per quanti si riconoscono nei valori della democrazia, dell'uguaglianza sociale e
dell'antifascismo ». Stamattina la mostra sarà inaugurata alle 11,30 da Porzia Petrone e
dal sindaco Decaro. A ricordare Benny, anche Zona Franka alle 15 in una "balloon
parade" in centro e, alle 21, con mostra fotografica e live degli Uncle Jungle.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/11/28/un-viaggio-nellanostra-memoria-in-mostra-gli-anni-di-benny-petroneBari15.html?ref=search
Da Bari Today del 28/11/15
Decaro ricorda gli omicidi Petrone e Filippo:
"Fermare ogni fanatismo"
Il primo cittadino è dapprima intervenuto alla commemorazione del
18enne assassinato in centro nel 1977 dai fascisti, quindi in Questura
per ricordare l'appuntato di polizia ucciso nel 1980
"Tenere alta la guardia contro ogni forma di violenza legata al fanatismo che,
periodicamente, attraversa la nostra storia". Ad affermarlo, il sindaco di Bari, Antonio
Decaro, ricordando, nel 3(° anniversario dalla sua morte, Benedetto Petrone, il 18enne
11
barese ucciso a coltellate, nel centro murattiano, il 28 novembre 1977, da un gruppo di
ragazzi appartenenti al Fronte della Gioventù. La cerimonia si è svolta in piazza Prefettura,
sotto la targa che ricorda quella tragica giornata. Quest'anno, oltre alla commemorazione,
è stata allestita una mostra fotografica permanente dal titolo 'Benedetto Petrone, storia e
memoria della città", realizzata dall'Arci-Bari con il Comitato 28 Novembre, presieduto
dalla sorella di Benedetto, Porzia.
Il primo cittadino ha anche partecipato alla commemorazione, in Questura, per ricordare
l'appuntato di polizia Giuseppe Filippo, ucciso il 28 novembre del 1980 da terroristi di
Prima linea in un agguato nell'androne del palazzo in cui abitava. Alla cerimonia hanno
preso parte anche il questore Antonio De Iesu e la vedova di Filippo.
http://www.baritoday.it/cronaca/benedetto-petrone-Giuseppe-filippo-omicidicommemorazione-decaro.html
Da Repubblica.it del 28/11/15 (Napoli)
L'omaggio di Astradoc a Luca De Filippo
L'immagine dell'attore scomparso proiettata alla fine del documentario
"Janis" nella serata d'apertura della rassegna
di PAOLO DE LUCA
Debutto con sold out. Parte bene la settima edizione di Astradoc, la rassegna dedicata al
cinema d'autore. Centinaia di spettatori, soprattutto ragazzi e ragazze, hanno affollato
venerdì sera l'atrio e la sala del cinema Astra a via Mezzocannone. La manifestazione, a
cura di Arci Movie e in collaborazione con Parallelo 41 produzioni, Coinor e Federico II ha
aperto il suo cartellone di proiezioni settimanali con "Janis" , di Amy Berg, sulla vita della
grande cantante statunitense scomparsa nel 1970 ad appena 27 anni. A fine serata,
immancabile, l'omaggio a Luca De Filippo, scomparso poche ore prima, con la proiezione
di una sua immagine fissa sul maxischermo.
In platea, c'è stato anche un ospite a sorpresa, Amos Gitai, che ha portato il suo saluto al
pubblico partenopeo. E' la seconda volta a Napoli per il regista israeliano, da quando, lo
scorso 2 ottobre, ha presentato in anteprima il suo ultimo film "Rabin: the Last Day",
durante la rassegna Venezia a Napoli. "Amo questa città -ha detto Gitai - e voglio tornarci
ancora e ancora. Già la volta scorsa ho fatto una bellissima esperienza. E stasera è
bellissimo che siate in così tanti a guardare un altro tipo di cinema, diverso dagli altri.
Spero di ritornare a far vedere anche il mio film qui in questa sala, probabilmente
distribuito in Italia in marzo".
Astradoc, a cura di Antonio Borrelli con la collaborazione di Antonella Di Nocera
(presidente di Parallelo 41 distribuzioni), Maria Teresa Panariello e Roberto D'Avascio,
proseguirà tutti i venerdì fino ad aprile, alle 21. Il prezzo d'ingresso è di 3.00 euro per ogni
proiezione (2.50 euro per i soci Arci).
http://napoli.repubblica.it/cronaca/2015/11/28/news/l_omaggio_di_astradoc_a_luca_de_fili
ppo-128380438/
da il Mattino del 28/11/15
Astradoc, sold out per l’inaugurazione della
rassegna a Mezzocannone
12
Centinaia di persone, soprattutto giovani, ieri sera, venerdì 27 novembre, hanno affollato
l’atrio e poi la sala dello storico cinema Astra di via Mezzocannone per l’inaugurazione di
Astradoc – Viaggio nel cinema del reale 2016, VII edizione, regalando il sold out alla prima
della rassegna cult sul documentario d’autore a cura di Arci Movie in collaborazione con
Paralllelo 41 Produzioni, Coinor, Università degli Studi Federico II. Un successo che si
ripete di anno in anno con un numero di presenze impressionante (oltre 7.000 a stagione),
una trentina di titoli in programma tra alcuni dei migliori documentari degli ultimi tempi e
tantissimi ospiti già confermati.
A tenere a battesimo l’apertura di ieri sera, a sorpresa, il regista israeliano Amos Gitai, già
a Napoli lo scorso 2 ottobre per presentare in anteprima il suo ultimo film RABIN: THE
LAST DAY durante Venezia a Napoli, rassegna ideata e curata da Antonella Di Nocera.
Accompagnato dalla stessa Di Nocera ha così salutato il pubblico di Astradoc:
“Grazie per l’invito, amo questa città e voglio tornarci ancora e ancora. Sono stato qui a
Napoli la volta scorsa e ho fatto una bellissima esperienza andando in un quartiere di
periferia di Napoli, Ponticelli, al Cinema Pierrot, dove ho incontrato le scuole superiori e
dove abbiamo visto il film KIPPUR. E’ stata un’esperienza fantastica vederlo insieme a
loro e soprattutto sono stato colpito dalle domande che facevano quei ragazzi, sono state
domande più belle della conferenza stampa che avevo fatto a Venezia. E’ bellissimo che
siete in tanti stasera, è bellissimo questo atto di resistenza che fate qui organizzando
questa rassegna, a far vedere un altro tipo di cinema, a profondere nella mente delle
persone, delle personalità un modo di vedere un cinema diverso, a non mangiare tutti da
Mc Donald’s e non guardare tutti solo i film prodotti a Los Angeles ma di far vedere pure
altre cose. Spero di ritornare a far vedere anche il mio film qui in questa sala, Rabin: the
last day, probabilmente distribuito in Italia in marzo”.
Felice per il sold out e per la presenza dei tantissimi giovani accorsi per vedere JANIS di
Amy Berg, sulla vita e la carriera di Janis Joplin, Antonella Di Nocera, Presidente di
Parallelo 41 Produzioni che in collaborazione con Arci Movie organizza Astradoc:
“Sui giovani puntiamo molto, nel senso che facciamo queste attività per creare sempre di
più un’attenzione, una relazione con il cinema. Questa serata è particolarmente bella
come inaugurazione di Astradoc, quindi una bella collaborazione tra Arci Movie, Parallelo
41 e l’Università con il Coinor, una realtà che può essere moltiplicata nel tempo con grandi
energie, con un amore per il cinema che confermiamo ancora una volta, a partire da
stasera”.
Un saluto commosso, infine, di tutto il pubblico di Astradoc è stato rivolto a Luca De
Filippo, scomparso qualche ora prima nel pomeriggio. Sul grande schermo dello storico
Cinema Astra è stata proiettata a immagine fissa una sua foto che lo ritraeva sorridente: si
è avuta come la sensazione che Luca stesse lì in attesa dei tanti giovani che pian piano
entravano in sala e la riempivano per vedere, di venerdì sera, tutti insieme, un film. Per i
giovani di Napoli era tornato. I giovani di Napoli l’hanno così salutato ieri sera.
Astradoc proseguirà tutti i venerdì fino ad aprile, alle ore 21.00. Il prezzo d’ingresso è di
3.00 euro per ogni proirezione, 2.50 euro per i soci Arci.
http://www.ilmattino.it/NAPOLI/CULTURA/astradoc_sold_out_per_l_amp_rsquo_inauguraz
ione_della_rassegna_a_mezzocannone/notizie/1705991.shtml
Da Antimafia 2000 del 28/11/15
Free music! No mafia! Musica, parole,
esperienze - Bologna, 1° Dicembre
13
1° dicembre 2015, ore 21 - Zona Roveri - Music Factory - Bologna
Esibizione dei vincitori dell’omonima sezione del concorso La musica
libera. Libera la musica.
Libera e Arci presentano i “Campi della legalità”. Guest star Ghemon (Hip Hop - ITA - Live
set), con la partecipazione di Alessandro Gallo (autore teatrale e scrittore), conduce Paola
Maugeri (scrittrice e dj Virgin Radio).
A cura di Assessorato Cultura, Politiche giovanili e Politiche per la legalità e Agenzia
Informazione e Comunicazione della Giunta Regionale, in collaborazione con Arci Emilia
Romagna e Libera Emilia Romagna.
La rassegna 2015 si chiuderà martedì 1 dicembre con l'esibizione dei vincitori della
sezione Free Music! No Mafia! del concorso regionale “La musica libera. Libera la
musica” di cui Politicamente Scorretto è partner.
Durante la serata Libera e Arci presenteranno i “Campi della legalità”.
Guest star Ghemon (Hip Hop - ITA - Live set), con la partecipazione di Alessandro Gallo
(autore teatrale e scrittore), conduce Paola Maugeri (scrittrice e dj Virgin Radio).
L'evento è a cura di Assessorato Cultura, Politiche giovanili e Politiche per la legalità e
Agenzia Informazione e Comunicazione della Giunta Regionale, in collaborazione con Arci
Emilia Romagna e Libera Emilia Romagna
LA SEZIONE "FREE MUSIC! NO MAFIA!"
La collaborazione della nostra rassegna al concorso promosso dalla Regione EmiliaRomagna e giunto alla sua VI edizione è in particolare legata alla nuova sezione speciale
chiamata Musica libera, dedicata alla legalità e contraddistinta dal logo “Free Music! No
mafia!” il cui obiettivo è stimolare la creatività giovanile e far riflettere sul tema della
legalità, partendo dal linguaggio musicale, uno dei più universali.
Il concorso ha preso il via il 9 maggio, il giorno dell'anniversario della morte di Peppino
Impastato, voce libera di cultura e denuncia, assassinato dalla criminalità organizzata 37
anni fa.
I BRANI IN CONCORSO
Sul sito di Magazzini Sonori si possono ascoltare i brani in concorso.
I brani della sezione “Free Music! No mafia!”sono 62 su un totale di 203
http://www.antimafiaduemila.com/home/ci-vediamo-a/265-incontri/57928-free-music-nomafia-musica-parole-esperienze-bologna-1-dicembre.html
Da Tiscali Notizie del 30/11/15
"La musica libera. Libera la musica", 7 i
vincitori anche in nome della legalità
I premiati si esibiranno in 11 palchi di diverse citta' della regione grazie
ai partner dell'iniziativa.
Bologna 30.11.2015 (DM) - Sette vincitori per altrettante categorie musicali, 8 brani
menzionati, un calendario di esibizioni che li porterà a calcare 11 palchi tra Bologna,
Porretta Terme, Modena, Correggio, Forlimpopoli, Faenza. E' l’esito del concorso “La
Musica Libera. Libera la Musica”, organizzato dall'Assessorato alla Cultura, Politiche
giovanili e Legalità della Regione Emilia-Romagna, insieme con l’Agenzia comunicazione
e informazione della Giunta regionale in collaborazione con Mei, Meeting delle Etichette
Indipendenti, Porretta Soul Festival, Scuola di musica popolare di Forlimpopoli, Festival La
musica nelle Aie (Castel Raniero), Centro Musica di Modena, Estragon, Jazz Network
(Crossroads: musica e altro in Emilia-Romagna), Radio Bruno e i nuovi partner: Arci
14
regionale, Libera Emilia-Romagna, Politicamente scorretto (progetto dell’istituzione
Casalecchio delle culture) eLepida Tv.
“Obiettivo del concorso - ha ricordato il presidente della giuria e direttore dell’Agenzia di
comunicazione e informazione, Roberto Franchini - è quello di offrire opportunità ai giovani
musicisti e stimolare la creatività giovanile, offrendo loro un palco concreto, quello delle
rassegne partner dell’iniziativa ma anche un palco digitale, sui siti web che sono alla base
di questo premio, Magazzini Sonori e Radio Emilia-Romagna, esperienze con un grande
riscontro di utenza abbastanza uniche nel nostro Paese”. Quest’anno per la prima volta è
stata varata la sezione Musica libera per la legalità, contraddistinta dal Logo Free music!
No mafia! e si è aggiunta la sezione dedicata all’Hip Hop. Si è ampliata anche la rosa dei
partner aderenti rispetto alla passata edizione (da 9 a 12).
Le motivazioni che hanno portato alla scelta di un ampliamento in questo senso sono state
sottolineate a Bologna, nel corso di una conferenza stampa con premiazione dei
selezionati, dall'assessore regionale alla Cultura e Legalità Massimo Mezzetti: “Siamo alla
conclusione di un lungo viaggio partito lo scorso 9 maggio, non a caso anniversario
dell’uccisione di Peppino Impastato, in cui abbiamo voluto introdurre la nuova sezione di
musica per la legalità per promuovere un tema delicato e di forte attualità in questa
regione, anche grazie a quanto portato alla luce dall'inchiesta Aemilia. E abbiamo non a
caso voluto affrontare queste tematiche con l’utilizzo di un linguaggio fondamentale per i
giovani, quello universale della musica”.
I brani in gara sono stati 203 e 154 gli artisti in gara e che, per la prima volta hanno avuto
la possibilità di iscrivere ben due brani alla contest: uno nella sezione tematica Musica
Libera per la Legalità, il secondo in una delle altre 6 categorie.
La sezione Musica Libera per la Legalità ha ottenuto un buon successo con 62 brani. Gli
artisti iscritti provengono da tutta la regione ma in particolar modo dalla provincia di
Bologna con 85 iscritti, seguono Ravenna con 24 e Modena con 23.
La giuria di qualità, presieduta da Roberto Franchini e formata da direttori dei festival
partner, critici musicali e produttori, tenendo conto anche del voto online ha stabilito i
vincitori: per la sezione Musica Libera, Macola con il brano Il Prigioniero; per la sezione
Rock Palco Numero Cinque con Punto di vista; per la sezione Soul e R&B Gloria Turrini
con Solo Tu; per la sezione Jazz Misticanza con Pianocorde; per la sezione Folk, Spacca
il Silenzio! con la loro Artisti di strada "Paparaparapà”; per la sezione pop Pecori Greg con
il brano My Awesome Paperotto e per l’hip hop Big Service con Mu.Sa. I musicisti
menzionati dalla giuria sono stati :Dina Moe & The Slowmen con il brano Ain't no Man;
Stefano Zauli col brano Colornotte; Cranchi con Eroe Borghese; Ciri 5 Quarti con Esa,
senti come swingo!; Stereo Gazette feat. T-Flow con il brano Il Lato Sbagliato; The
Hangovers con Invece no; Paolo Arduini, feat. Lara Ferrari, col brano Leggera; Carlo
Bolacchi col brano Verità libera.
Il primo appuntamento è con “Free music. No mafia! – Musica, parole, esperienze”. Una
serata dedicata alla nuova sezione del concorso Musica Libera per la legalità,
contraddistinta dal logo “Free music! No mafia”, in programma domani alle ore 21, Zona
Roveri – Music Factory (via dell’Incisore, 2 Bologna). Un concerto importante che unisce
musica e parole e affronta con un linguaggio diverso un tema di profonda attualità come
quello della legalità, voluto dall’assessorato alla Cultura, politiche giovanili e politiche per
la legalità , in collaborazione con Arci Emilia-Romagna, Libera Emilia-Romagna e
Politicamente Scorretto. La serata - condotta dalla scrittrice e dj Paola Maugeri – si aprirà
con l’intervento dell’assessore Massimo Mezzetti e vedrà alternarsi sul palco la musica di
Macola (vincitore nella sezione Musica Libera per la Legalità del concorso regionale ) e
Carlo Bolacchi e Cranchi, secondi a pari merito, e ospiti del mondo della cultura,
Alessandro Gallo, autore teatrale e scrittore, assieme alle esperienze dei campi della
15
legalità, che verranno presentate da Libera e Arci. Guest star della serata sarà il rapper
Ghemon.
La giuria del concorso è stata presieduta da Roberto Franchini. Tra i giurati i partner e i
direttori di importanti festival regionali, giornalisti e critici musicali: Giordano Sangiorgi,
ideatore e organizzatore del Mei; Graziano Uliani, direttore artistico e ideatore del Porretta
Soul Festival; Marco Bartolini, direttore Scuola Musica Popolare di Forlimpopoli; Aldo
Foschini, direttore artistico La Musica nelle Aie –Castel Raniero Folk Festival; Andrea
Tinti, giornalista, critico musicale; Leonello Viale, organizzatore eventi RadioBruno; Sandra
Costantini, organizzatrice Crossroad, Jazz e altro in ER, presidente di Jazz Network; Lele
Roveri, general Manager & Art Director Estragon Club; Giorgio Nesci Eco- Politicamente
scorretto; Giovanni Gaspare Righi, organizzatore del Peppino Festival; Franco Montanari,
presidente della giuria del Concorso Daolio.
http://notizie.tiscali.it/regioni/emilia_romagna/feeds/15/11/28/t_74_20151128_1015_news_
La-musica-libera-Libera-la-musica-7-i-vincitori-anche-in-nome-dellalegalita.html?emilia_romagna&sub=ultimora
Da JobsNews del 30/11/15
Lombardia. 251 le aziende confiscate alle
mafie, l’11% del totale italiano. Cgil: il Senato
vari subito la nuova legge
Sono 251 in Lombardia le aziende confiscate alle mafie in via definitiva, su un totale
italiano di 2292. Pesano l’11% del totale italiano facendo della Lombardia la quarta
regione per numero di aziende confiscate, dopo la Sicilia (33%), Campania (23%) e
Calabria (12%) e prima del Lazio (8%) e della Puglia (7%). È quanto emerge da
un’elaborazione sugli ultimi dati disponibili – luglio 2015 – dell’Agenzia nazionale per i beni
confiscati.
Questi dati sono la base di partenza delle ricerche sul tema delle aziende confiscate alle
mafie e nel contrasto all’economia illegale presentate a Milano nel corso del convegno
“Buone prassi per contrastare l’economia illegale: l’utilizzo a fini sociali dei beni confiscati
alle mafie” promosso, in collaborazione con la Camera di commercio di Milano, da ICARO
– Instrument to remove Confiscated Asset Recovery’s Obstacle, progetto europeo ideato e
realizzato da sei organizzazioni da anni attive sui temi della legalità e del riutilizzo sociale
dei beni confiscati. – Arci Milano, Avviso Pubblico, CdIE, CGIL Lombardia, Sao, Università
di Milano.
Legalità e sicurezza alla base di un’economia e di imprese sane
“Legalità e sicurezza – ha dichiarato Massimo Ferlini membro di giunta della Camera di
commercio di Milano all’apertura dei lavori – sono alla base di un’economia e di imprese
sane. Conoscere le dimensioni e caratteristiche del fenomeno criminale è uno strumento
utile per combattere l’illegalità che rappresenta oggi un costo significativo per l’economia e
limita la crescita e competitività delle imprese del nostro territorio. In questa direzione si
muovono anche iniziative come lo sportello RiEmergo che la Camera di commercio mette
a disposizione delle imprese più in difficoltà per sostenerle nel processo di denuncia e
affrancamento da situazioni di illegalità ”.
Restituire alla collettività ciò che il crimine ha sottratto
Roberto Alfonso, procuratore generale del Tribunale di Milano, nel suo intervento ha
ricordato: “L’obiettivo della legislazione sulla confisca e il sequestro dei beni, che è quello
di restituire alla collettività ciò che il crimine le ha sottratto. In questa direzione va il
16
costante impegno delle istituzioni che ha permesso di raggiungere in questi anni
straordinari risultati rispetto alle attese degli anni ’90. Un passo ulteriore ci attendiamo
dalla modifica al Codice Antimafia attualmente in approvazione in Parlamento”.
Nando Dalla Chiesa, dell’Università di Milano, ha sottolineato che “il riutilizzo sociale dei
beni confiscati deve superare l’ostacolo della lentezza decisionale procedendo con
l’assegnazione già in fase di sequestro, che alcune regioni hanno sperimentato in maniera
efficace, permettendo anche la creazione di lavoro, oltre che la soddisfazione di altri
bisogni sociali. Su questo punto la Lombardia è più in ritardo rispetto ad altre regioni, e
spesso chi riceve un bene confiscato non è consapevole dell’origine, mentre dovrebbe
farsi carico anche eticamente di azioni di contrasto e di conoscenza della diffusione delle
mafie”.
L’infiltrazione in settori punti di forza dell’economia settentrionale
La professoressa Stefania Pellegrini ha sottolineato che “nel Nord l’economia mafiosa è
andata ad infiltrarsi e ad investire in settori che non sono propri della sua tradizione, ma
che rappresentano il punto di forza dell’economia settentrionale, ad esempio in Lombardia
una grossa fetta di aziende sono nel settore alberghiero e della ristorazione, nelle attività
immobiliari e altri servizi alle imprese, nei servizi pubblici e nelle attività finanziarie.
Sempre in Lombardia, la tipologia aziendale prevede, a differenza del sud, aziende
confiscate in forma di Spa e la confisca di Rami d’azienda: chiaro segno della
partecipazione mafiosa in imprese apparentemente legali”.
Azioni politiche e buone prassi di contrasto all’economia illegale
Nella sessione dedicata agli interventi su azioni, politiche e buone prassi di contrasto
all’economia illegale, hanno preso la parola, tra gli altri: Davide Mattiello, deputato della
Commissione Antimafia e Commissione Giustizia della Camera, che è stato il relatore
della riforma del Codice Antimafia, approvata l’11 novembre alla Camera.
“Le modifiche essenziali introdotte”, ha detto, “sono state dedotte dalla proposta di legge
‘Io riattivo il lavoro’ sostenuta da Cgil, Libera, Avviso Pubblico, Arci, Sos Impresa,
Legacoop, Acli, ANM e Centro studi Pio La Torre. Bisogna ora procedere rapidamente
all’approvazione in Senato perché questa buona riforma diventi legge”.
Luciano Silvestri, della Cgil nazionale, ha ricordato che “il sequestro delle aziende è un
fenomeno che ha assunto dimensioni inquietanti. Ormai riguarda tutto il territorio nazionale
ed è in crescita esponenziale. Questo fatto ci segnala due cose: il lavoro importante della
magistratura, ma anche la debolezza dello stato che non è capace di riconsegnare alla
legalità il patrimonio sottratto alle mafie. La legge approvata a novembre in prima lettura
alla Camera nata da una proposta di legge di iniziativa popolare recupera questo ritardo,
individuando strumenti come la sinergia tra istituzioni e organizzazioni sociali e fondi per
sostenere i costi dell’emersione alla legalità. Speriamo che il Senato la voti in fretta e
senza indugi”.
http://www.jobsnews.it/2015/11/lombardia-251-le-aziende-confiscate-alle-mafie-l11-deltotale-italiano-cgil-il-senato-vari-subito-la-nuova-legge/
Da Radio Lombardia del 29/11/15
Chiuso per mafia
Sono 251 in Lombardia le aziende confiscate alle mafie in via definitiva, su un totale
italiano di 2292. Pesano l’11% del totale italiano facendo della Lombardia la quarta
regione per numero di aziende confiscate, dopo la Sicilia (33%), Campania (23%) e
Calabria (12%) e prima del Lazio (8%) e della Puglia (7%). Emerge da un’elaborazione
sugli ultimi dati disponibili - luglio 2015 - dell’Agenzia Nazionale per i beni confiscati.
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Questi dati sono la base di partenza delle ricerche sul tema delle aziende confiscate alle
mafie e nel contrasto all’economia illegale presentate oggi a Milano nel corso del
convegno “Buone prassi per contrastare l’economia illegale: l’utilizzo a fini sociali dei beni
confiscati alle mafie” promosso, in collaborazione con la Camera di commercio di Milano,
da ICARO - Instrument to remove Confiscated Asset Recovery's Obstacle, progetto
europeo ideato e realizzato da sei organizzazioni da anni attive sui temi della legalità e del
riutilizzo sociale dei beni confiscati. – Arci Milano, Avviso Pubblico, CdIE, CGIL Lombardia,
Sao, Università di Milano. "Legalità e sicurezza - ha dichiarato Massimo Ferlini membro di
giunta della Camera di commercio di Milano all’apertura dei lavori - sono alla base di
un’economia e di imprese sane. Conoscere le dimensioni e caratteristiche del fenomeno
criminale è uno strumento utile per combattere l’illegalità che rappresenta oggi un costo
significativo per l’economia e limita la crescita e competitività delle imprese del nostro
territorio. In questa direzione si muovono anche iniziative come lo sportello RiEmergo che
la Camera di commercio mette a disposizione delle imprese più in difficoltà per sostenerle
nel processo di denuncia e affrancamento da situazioni di illegalità ”. (agiellenews.it)
http://www.radiolombardia.it/rl/news.do?id=60775
Da Umbria 24 del 28/11/15
«Aids Free Generation», la campagna per una
cultura sulla sessualità sicura e consapevole
E' realizzata da Unità di Strada Cabiria - Arci Solidarietà Ora d'Aria, in partenariato con
Anlaids Umbria, Cinegatti e Contro-Sguardi e finanziato dalla Tavola Valdese
«Aids Free Generation», la campagna per una cultura sulla sessualità sicura e
consapevole
«Aids Free Generation. Campagna di sensibilizzazione al di là degli stereotipi, per una
cultura su sessualità sicura e consapevole» è un progetto promosso dall’Unità di Strada
Cabiria – Arci Solidarietà Ora d’Aria, in collaborazione con Anlaids Umbria, Cinegatti e
Contro-Sguardi, finanziato con i fondi dell’OttoPerMille che ogni anno la Tavola Valdese
destina a progetti di natura sociale.
Il test salivare rapido L’Unità di Strada Cabiria dal 1998 si occupa di riduzione del danno
presso le/i sex workers in Umbria e nel biennio 2013/2014 partecipa al progetto pilota di
sperimentazione del test HIV salivare a risposta rapida promosso dall’Istituto Nazionale
per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma, che realizza a Perugia in
collaborazione con il dottor Claudio Sfara (responsabile del reparto di Malattie Infettive
dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia e presidente dell’associazione
ANLAIDS Umbria) . Il test salivare rapido per HIV consente, prelevando un campione di
saliva, di fornire il risultato dopo soli 20 minuti: è un modo veloce, pratico e diretto per
rilevare i casi di contagio e arrivare anche con attività di informazione e counselling al più
alto numero di persone.
L’Umbria insieme a Lombardia, Lazio e Provincia autonoma di Trento, è tra le regioni con
l’incidenza più alta di nuovi casi rispetto al numero di abitanti. Mentre i casi di contagio
aumentano non si fa più informazione, alimentando l’idea stereotipica che il rischio possa
riguardare soltanto omosessuali, prostitute e tossicodipendenti. Gli ultimi dati dell’Istituto
Superiore di Sanità (2014) ci parlano invece di un preoccupante aumento dei casi di
contagio da HIV tra persone eterosessuali con un età compresa tra i 25 e i 45 anni, per cui
la principale causa dei contagi sono i rapporti sessuali non protetti (83,9%). Allarmante è
inoltre il fatto che l’età media della diagnosi avvenga sempre più tardi, molto tempo dopo
l’avvenuta infezione, quando il virus ha già iniziato a danneggiare il sistema immunitario.
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Una diagnosi precoce è invece fondamentale perché oggi l’infezione da HIV si può
trattare.
Aids Free Generation intende fare informazione sul rischio di contagio da HIV e altre
malattie a trasmissione sessuale uscendo dalle categorie stereotipizzate dei soggetti a
rischio e rivolgendosi al più ampio numero di persone. La chiamata pubblica
#iocimettolafaccia in marzo ha visto la partecipazione di tanti alla realizzazione della
campagna grafica e dei due spot cinematografici visibili online, presso il grande schermo
dei Cinema Frontone, Méliès, Sant’Angelo e Post-Modernissimo, ed uno radiofonico che
sta andando in onda sulle frequenze locali. Sono state organizzate giornate di formazione
pubblica con la somministrazione dei test salivari HIV e una formazione specifica ha
coinvolto i Medici di base del Distretto Sanitario del Perugino. L’obiettivo è quello di
sensibilizzare tutta la cittadinanza ad una sessualità sicura e consapevole e poter
immaginare una futura generazione aids-free.
http://www.umbria24.it/aids-free-generation-la-campagna-per-una-cultura-sulla-sessualitasicura-e-consapevole/379891.html
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 30/11/15, pag. 7 (Cronaca di Roma)
Migliaia in festa ai Fori Imperiali per il clima
Si è conclusa in via dei Fori Imperiali con una festa la marcia per il clima partita ieri alle 14
da piazza Campo de’ Fiori. In testa al corteo tenendo lo striscione con la scritta «Cop 21,
un vero accordo per cambiare» anche la presidente della Camera, Laura Boldrini:
«Dobbiamo contenere il riscaldamento della terra entro due gradi». La marcia per il clima
che rientra nella «Global climate march», organizzata da Avaaz in contemporanea con
150 paesi e 2.300 eventi in tutto il mondo, si è svolta tra palloncini, tamburi, canti e
striscioni , in previsione del Summit «Cop21» di Parigi che comincia oggi. Alla presenza di
147 capi di stato e di governo e 40mila delegati attesi, l’obiettivo è che i governi
concludano il vertice sottoscrivendo un accordo vincolante sui gas serra. «Abbiamo
lanciato una petizione sul web dove si chiede che vengano abbandonati combustibili fossili
come petrolio e carbone» dicono gli organizzatori (www.avaaz.com). In piazza circa
10mila persone. (Man. Pel.)
Da Corriere.it del 30/11/15
verso il summit di parigi
Clima, ventimila in marcia a Roma Boldrini:
no ad accordi al ribasso
Da Campo de’ Fiori ai Fori Imperiali il corteo nell’ambito della Global
Climate March che chiede a oltre 150 governi di sottoscrivere un
accordo vincolante sui gas serra
di Redazione Roma online e Manuela Pelati
Dietro gli striscioni di Greenpeace alcuni ragazzi sono nati ai tempi dell’accordo di Kyoto:
«Sono cresciuta con lo smog e vorrei una diminuzione dell’industria del carbone» ha detto
Chiara sostenitrice della «Global climate march» romana. La marcia per il clima
organizzata da Avaaz in contemporanea con 150 paesi e 2.300 eventi in tutto il mondo, si
è mossa tra palloncini, tamburi, canti e striscioni da piazza Campo de’ Fiori a via dei Fori
Imperiali domenica pomeriggio a Roma. Con Legambiente, i Verdi, il Wwf, la Lipu, Rsu
Almaviva, Oxfam italia, Aifo e decine di altre sigle, ad aprire il corteo un grande striscione
con la scritta «Cop 21, un vero accordo per cambiare». strada secondo gli organizzatori
sono scese 20 mila persone, ma in realtà il numero non ha superato i diecimila.
Il vertice di Parigi
In testa al corteo la presidente della Camera, Laura Boldrini. «Dobbiamo contenere il
riscaldamento entro due gradi centigradi. Dobbiamo cambiare stile di vita anche nel
mangiare». Accanto a lei l’ambasciatrice di Francia Catherine Colonna. «Questo è un
punto di non ritorno», ha sottolineato Boldrini che ha aggiunto è «un’esortazione ai governi
a non fare a Parigi un accordo a ribasso». Lunedì infatti nella capitale francese comincia il
vertice sul clima dell’Onu COP21, con 147 capi di stato e di governo e 40mila delegati
attesi. «Dobbiamo chiudere con l’era dei combustibili fossili», «Stop al carbone»,
«Facciamo investimenti utili e diamo opportunità agli imprenditori e non alle speculazioni
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delle multinazionali» hanno detto gli ambientalisti. A Parigi, con la città blindata in seguito
agli attacchi terroristici e i cortei proibiti per questioni di sicurezza, alcuni manifestanti che
si sono autodefiniti «AntiCop21» hanno sfidato i divieti e sono scesi in piazza a Place de la
Republique provocando scontri con le forze dell’ordine e lanci di lacrimogeni.
Gli altri cortei nel mondo e le scarpe di papa Francesco
In strada sabato a Melbourne, in Australia, sono scesi dai 30 ai 60 mila manifestanti «la
più grande manifestazione di sempre» hanno detto gli organizzatori che sottolineano come
siano scesi in piazza in migliaia anche a Beirut domenica mattina migliaia e a Dakka in
Bangladesh, mentre in Europa hanno aderito tutte le grandi capitali come Madrid,
Copenaghen, Amsterdam, Berlino. «Grande assente Parigi e noi siamo qui anche per loro:
abbiamo raccolto centinaia di scarpe donate da attori politici e personaggi famosi, che
abbiamo messo in Place de la Concorde. Tra i donatori anche papa Francesco ne ha
inviato un paio»
«Diminuire i gas serra non basterà»
Al vertice di Parigi l’obiettivo è che i governi concludano il summit nella capitale francese
sottoscrivendo un accordo vincolante sui gas serra. «Abbiamo lanciato una petizione sul
clima si chiede che vengano abbandonati combustibili fossili tipo petrolio e carbone»
dicono gli organizzatori. «Siamo sui social con #marciaperilclima #climatemarch» ha detto
durante la marcia romana Francesco Benetti di Avaaz. «Chiediamo che Roma passi al
100% di energia rinnovabile a cominciare dai mezzi pubblici e i centri storici pedonali e
chiusi al traffico».
Accordo globale
«Oggi Parigi - osserva il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza - è il luogo
simbolico per eccellenza per esplicitare le connessioni profonde tra clima e pace, tra
petrolio e guerra. L’emergenza climatica richiede un accordo globale e un organismo
autorevole che ne verifichi l’applicazione». Non si fa illusioni Vincenzo Pepe, presidente di
FareAmbiente: «È demagogico pensare che vi sarà una drastica inversione di tendenza
anche riducendo le emissioni di gas serra. Cambiare modello di sviluppo è un’esigenza
improcrastinabile per la civiltà mondiale, tuttavia la politica deve prepararsi a far fronte a
eventi climatici violenti che stanno oramai diventando normalità».
http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_novembre_29/emergenza-clima-cop21-parigisummit-15-mila-marcia-roma-boldrini-no-ad-accordi-ribasso-04686f04-96a7-11e5-bb634b762073c21f.shtml
Da repubblica.it del 29/11/15
Clima, in 15 mila alla marcia da Campo
de'Fiori ai Fori Imperiali
E al termine il concerto gratuito con Modena City Ramblers, Piotta e altri
Circa 15 mila persone in marcia per le vie del centro storico della Capitale per il grande
corteo organizzato contro i mutamenti climatici e le politiche che li hanno causati. Il corteo,
partito da piazza Campo dei Fiori, sta per raggiungere via dei Fori Imperiali dove alle 17 è
previsto il grande concerto che concluderà la manifestazione con artisti come Piotta e
Modena City Ramblers ad alternarsi sul palco. In prima fila dalla partenza la presidente
della Camera, Laura Boldrini, secondo cui la mobilitazione odierna "è un segnale forte che
va direttamente ai governi. Ma è anche un momento di solidarietà alla cittadinanza di
Parigi, ferita da questi attacchi terroristici".
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Alla marcia anche Paolo Cento,
reswponsabile nazionale ambiente di Sel, e Stefano Fassino, leader di Sinistra italiana e
candidato sindaco di Roma. "Siamo qui alla Marcia di Roma - ha detto Fassina - come
tanti milioni di uomini e donne oggi nel mondo, per chiedere ai propri governi nazionali
coerenza tra promesse e fatti, per chiedere un impegno stringente su obiettivi chiari per il
futuro del Pianeta e dei nostri figli. Siamo qui per riaffermare il diritto alla libertà di
manifestare".
http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/11/29/news/clima_in_15_mila_alla_marcia_da_cam
po_de_fiori_ai_fori-128429011/
Altre notizie sulla marcia per il clima
- http://www.osservatorelaziale.it/index.asp?art=17084
- http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2015/11/29/clima-boldrini-no-accordo-aribasso_13633da3-8729-4e0e-98be-17e2ecd55e5a.html
- http://www.imolaoggi.it/2015/11/29/clima-boldrini-no-accordo-al-ribasso-si-miliardiallonu-e-alle-lobby/
- http://www.ilmessaggero.it/primo_piano/cronaca/roma_marcia_clima_corteo_boldrin
i-1389574.html
- http://www.improntaunika.it/2015/11/marcia-per-il-clima-a-roma-ore-17-00-via-deifori-imperiali-concerto-per-il-clima-segui-la-diretta/
- http://www.meteoweb.eu/2015/11/clima-greenpeace-alla-marcia-per-il-clima-di-roma-20-000-persone-chiedono-un-futuro-100-rinnovabile/545988/
- http://www.lastampa.it/2015/11/29/scienza/ambiente/il-caso/clima-a-roma-inchiedono-un-futuro-rinnovabile-19OC7LRiCTsNd7l6L2PxFM/pagina.html
- http://www.meteoweb.eu/2015/11/cop21-marcia-per-il-clima-a-roma-siamo-20-milafoto/545885/
- http://www.dire.it/29-11-2015/26973-la-marcia-per-il-clima-in-tutto-il-mondo-a-romasfilano-in-20mila/
- http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/La-marcia-globale-in-50-citta-del-mondo1fe5d424-3e63-45d3-b660-afe1440d2f7b.html
- http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Clima-Cop21-Roma-ff399725-9199-44618cf3-5d0aaf8eaf8d.html
- http://www.romadailynews.it/primo-piano/in-marcia-per-il-clima-migliaia-in-piazza-aroma-0271252
- http://www.unionesarda.it/articolo/cronaca/2015/11/29/clima_al_via_marcia_a_roma
_in_testa_corteo_boldrini_e_colonna-68-448370.html
- http://www.ansa.it/canale_ambiente/notizie/clima/2015/11/29/a-roma-marcia-percop21-ora-accordo-vincolante_9b52f3be-f9c0-447f-9d6f-3a70a886df08.html
- http://magazine.greenplanner.it/2015/11/30/marcia-per-il-clima-roma/
- http://www.alternativasostenibile.it/articolo/ambiente-luca-abete-alla-marcia-per-ilclima-di-roma-.html
- http://www.agoravox.it/Non-c-e-un-pianeta-B-In-ventimila.html
- http://www.lapresse.it/cronaca/clima-mondo-in-marcia-per-salvare-la-terra-inmigliaia-in-150-paesi-1.802127
- http://www.askanews.it/cop-21/fassina-si-su-clima-basta-giri-a-vuoto-emergenzadrammatica_711675511.htm
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Del 30/11/2015, pag. 6
Pochi, divisi e irrilevanti ambientalisti italiani
in crisi
Boom di comitati contro le sigle tradizionali
Giuseppe Salvaggiulo
Frammentati, litigiosi, irrilevanti. Ecco l’album di famiglia degli ambientalisti italiani mentre
il mondo guarda al vertice di Parigi. Alla marcia di ieri a Roma in prima fila la presidente
Boldrini, il sindacalista Barbagallo, quelli di Pd e Sinistra Italiana, chi-si-rivede Pecoraro
Scanio. In tutto ventimila persone, secondo stime generose. Nel maggio scorso, a
Lanciano, al corteo promosso dal «Comitato No Ombrina» contro le ricerche petrolifere in
Adriatico, erano tre volte tanto. Senza partiti e parlamentari. Il catalogo è questo: crisi
strutturale a livello partitico e associativo, vitalità molecolare testimoniata dalla
proliferazione di comitati di base. In giro per l’Italia se ne contano migliaia. Denunciano la
crisi delle organizzazioni tradizionali, ma non possono né vogliono sostituirsi.
Sono passati trent’anni da quando i Verdi presentarono le prime liste con il bellissimo
simbolo del sole che ride donato da Marco Pannella. Alle Europee del 1989 oltre 2 milioni
di voti (6,2%); alle Europee del 2014 appena 250 mila, lo 0,9%. I Verdi non eleggono
parlamentari dal 2006, quando Pecoraro Scanio diventò anche ministro dell’Ambiente.
L’ennesimo flop alle Regionali 2015 (1,1% in Campania; 1% in Veneto con Sel; 0,4% in
Puglia nonostante l’effetto Ilva) li ha indotti, nel congresso di Chianciano Terme due
settimane fa, a eleggere come portavoce-testimonial l’attore comico Giobbe Covatta,
confidando in una qualche visibilità mediatica.
Non che la corrente «ecodem», gli ambientalisti del Pd, se la passi meglio. Gode di una
discreta pattuglia di parlamentari (guidati da Ermete Realacci, renzianissimo ex presidente
di Legambiente), ma con scarso peso politico. L’ultimo appuntamento segnalato sul sito
ufficiale risale a luglio; del prossimo non c’è traccia. Rappresentano l’ambientalismo
riformista contro quello i «professionisti del no». Secondo i detrattori, l’ambientalismo «di
sistema».
Della crisi dei Verdi e della sinistra ambientalista ha beneficiato il Movimento 5 Stelle, in
cui sono confluiti migliaia di militanti dei comitati civici nati su vertenze territoriali. Ma negli
ultimi tempi il M5S ha ridotto il piglio ambientalista.
Anche il panorama associativo è depresso. Le sigle storiche si sono burocratizzate e
«romanizzate», vivono il disagio di tutti i corpi intermedi. Il Wwf è alle prese con una
pesante ristrutturazione tra crisi di iscrizioni (in un decennio da quasi 300 mila a meno di
100 mila) e tagli di personale. Il Fai si occupa prevalentemente di gestione e recupero di
ville e palazzi storici. Italia Nostra langue nelle divisioni interne, paga una crisi
generazionale, comunica male. Alcuni tra i dirigenti più autorevoli paventano una
scissione. Legambiente resta la più forte, ma paga la contiguità culturale col Pd.
Nel tempo della disintermediazione, bisogna guardare altrove. Il Forum dell’acqua,
stravinto il referendum del 2011, s’è afflosciato. Neanche il Forum Salviamo il Paesaggio,
nato quattro anni fa da Slow Food come collettore tra associazioni e un migliaio di comitati
territoriali, è decollato. Ma almeno è un punto di riferimento su internet, come eddyburg.it
dell’urbanista Edoardo Salzano sul paesaggio, patrimoniosos.it sui beni culturali,
domenicofiniguerra.it creato dal primo sindaco «cemento zero»,
gruppodinterventogiuridicoweb.com in Sardegna. Realtà contornate da un pulviscolo di
ambientalismo battagliero sui social network, recentemente monitorato nel rapporto
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#NO2.0. Quattro milioni di account e oltre centomila fra forum, blog e siti che hanno
superato la logica ristretta del «not in my backyard» (non nel mio giardino).
Pare di assistere allo «scioglimento nel sociale» cui anelava Alex Langer. Manca ancora la
pars costruens, la società che organizza la politica.
del 20/11/15, pag. 4
Dai fondi di 5 e 8 per mille «dirottati» 2,3
miliardi
I contributi non sono stati assegnati ai beneficiari
Nella famiglia dei “per mille” si preparano novità. Come annunciato qualche giorno fa dal
premier Matteo Renzi, il 5 per mille alla cultura diventa un 2 per mille, ma con procedure
diverse, che dovrebbero farlo decollare. Finora il 5 per mille indirizzato alla tutela e
valorizzazione del patrimonio ha avuto - complice la scarsa pubblicità e soprattutto il
meccanismo di ripartizione - scarso successo. Pochi i soldi raccolti. Ma è l’intera famiglia
dei “per mille” ad avere più di un problema. Basti pensare che un terzo degli importi decisi
dai contribuenti attraverso l’8 e il 5 per mille non è mai arrivato a destinazione. Su 6,6
miliardi di euro resi disponibili dalle scelte dei cittadini - 2,6 miliardi accumulati negli oltre
vent’anni di vita dell’8 per mille e poco più di 4 generati dal 5 per mille a partire dal 2006,
anno del debutto - nelle tasche dei beneficiari sono finiti 4,3 miliardi. Gli altri 2,3 miliardi si
sono persi in mille rivoli, conseguenza dei tagli per far fronte a varie esigenze del bilancio
statale. Tradendo in questo modo la scelta dei contribuenti.
A soffrirne di più è stata la quota di competenza statale dell’8 per mille. Secondo la legge
quei 2,6 miliardi avrebbero dovuto finanziare i progetti contro la fame nel mondo, per
aiutare i territori colpiti da calamità naturali, il restauro del patrimonio culturale, l’assistenza
ai rifugiati e (settore ultimo arrivato) l’edilizia scolastica. In realtà, i destinatari hanno visto,
complessivamente, 819 milioni. Rispetto all’importo totale di 2,6 miliardi, due terzi - ovvero
quasi 1,8 miliardi - hanno preso altre strade, costretti dalle urgenze della finanza pubblica.
Discorso analogo per il 5 per mille, di cui beneficia un’ampia platea di destinatari: dal non
profit alla ricerca scientifica, dalla salvaguardia dei beni culturali allo sport. Un elenco
lungo 50mila nomi. In questo caso all’appello mancano “solo” 500 milioni su un totale di 4
miliardi e pure questa volta hanno pesato i tagli imposti dal Governo di turno.
E la storia non è finita. Almeno per l’8 per mille: nella legge di Stabilità, infatti, è prevista, a
partire dall’anno prossimo, un’ulteriore sforbiciata di 10 milioni della quota di competenza
statale. Si tratterà di vedere se in futuro i beneficiari dell’8 per mille destinato allo Stato
riusciranno a portare a casa almeno i 33,5 milioni, riferiti al 2014, che stanno per essere
ripartiti. I relativi decreti sono all’esame del Parlamento (la Camera ha già dato il via libera,
mentre il Senato ha chiesto una proroga) e prevedono che a ognuno dei cinque settori
vadano 6,7 milioni, che sono comunque pochi, dato che si riesce a finanziare solo 70 dei
2.508 progetti presentati.
E se questa volta il 5 per mille viene graziato, a finire nella tagliola della Stabilità è, invece,
il più giovane dei “per mille”, quello destinato, dopo l’abolizione del finanziamento pubblico,
a dare ossigeno alle casse dei partiti politici. Il 2 per mille vede ridursi i tetti: nel 2016 il
limite complessivo erogabile sarebbe dovuto essere di 27,7 milioni e passa a 17,7, mentre
per il 2017 la decurtazione è ancora più pesante, perché dai 45,1 milioni si scende a 25,1.
In buona sostanza, se dalle dichiarazioni dei redditi arriveranno contributi superiori a quei
tetti, li terrà lo Stato. Eventualità, comunque, assai remota, almeno se si guarda al bilancio
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dell’anno scorso, primo anno di applicazione del 2 per mille: era previsto un tetto di 7,7
milioni, ma i contribuenti hanno scelto di dare complessivamente ai partiti solo 325mila
euro.
Un sistema, quello dei “per mille”, di recente oggetto dell’attenzione della Corte dei conti,
che ha messo sotto la lente i meccanismi dei due contributi più rodati, il 5 e l’8 per mille.
Per quanto riguarda quest’ultimo, i giudici contabili hanno rilevato diversi punti di criticità.
Per esempio, la mancanza di verifiche sull’utilizzo dei fondi ricevuti dalle confessioni
religiose. L’8 per mille di competenza statale, poi, è stato abbandonato a se stesso, senza
che lo Stato ne promuova in alcun modo la raccolta, anzi trattenendo per sé una parte
consistente degli importi. Tagli che, secondo la Corte, devono finire, perché ledono i
princìpi di lealtà e di buona fede, facendo venir meno il patto con i contribuenti.
Inoltre, ci deve essere maggiore trasparenza sulle scelte dei cittadini, impossibilitati a
controllare se il Caf trasmette al Fisco l’opzione esercitata. Stesso problema per il 5 per
mille, su cui pesa anche l’estesa platea dei beneficiari. «È improcrastinabile una più
rigorosa selezione», afferma la Corte dei conti, in modo da «non disperdere risorse per fini
impropri».
Antonello Cherchi
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ESTERI
del 30/11/15, pag. 1/21
L’ANALISI
L’Europa senza passione
BERNARDO VALLI
PARIGI
LA PRESENZA di centocinquanta capi di Stato e di governo, in queste ore a Parigi, è un
segno di solidarietà.
UN SEGNO che non può lasciare insensibile la Francia orgogliosa. Per una tragica
coincidenza la programmata conferenza per combattere la minaccia del clima avviene nel
Paese sorpreso appena due settimane fa, il 13 novembre, da un’ondata di terrorismo
senza precedenti in Europa. È come se il rammarico per le centotrenta vittime e il
desiderio di migliorare la vita sul pianeta si fossero dati appuntamento. Il dolore locale,
nazionale, e la speranza planetaria si incontrano, mentre la ferita non è ancora
cicatrizzata, il conflitto è irrisolto, la sepoltura dei morti è tutt’ora in corso, e il destino della
Terra resta da precisare. Dopo la strage del venerdì sera il numero dei partecipanti alla
conferenza sul clima è aumentato. L’emozione è stata forte in tante contrade. Non pochi
capi di Stato o di governo hanno voluto cogliere l’occasione per condividere il cordoglio
che verrà espresso oggi, all’inizio dei lavori. Ed è inevitabile leggere nel gesto di tanti
uomini di governo, dall’americano Obama al cinese Xi J., dall’indiano Modi al russo Putin,
una dimostrazione di condanna al terrorismo. E di rispetto per la Francia.
Nel folto gruppo degli ospiti di François Hollande ci sono ovviamente gli europei, che quasi
si perdono in quella folla di responsabili politici affluiti dai più remoti angoli della Terra.
Dalla Bolivia alla Cambogia. I partner del nostro Vecchio Continente sono quasi irreperibili
in quell’assemblea. Sono come parenti smarriti nella calca.
Non è un’impressione dovuta tanto alle immagini della conferenza che comincia con un
abbraccio di solidarietà alla Francia in lutto, ma piuttosto al comportamento dell’Europa nei
giorni successivi alla strage, quando si identificavano ancora i morti e François Hollande
andava da Washington a Mosca in cerca di concreti segni di amicizia. E in Europa, tra i
membri dell’Unione, raccoglieva espressioni di indubbia solidarietà, ed anche di
disponibilità a offrire un certo tipo di aiuti: ma il tutto in un clima in cui abbracci e promesse
mancavano di un sentimento essenziale: la passione.
Senza passione non si fa nulla di grande. Né si possono vincere le passioni tristi o nefaste
senza opporre passioni positive. Tanti filosofi,da Spinoza a Hegel, l’hanno ripetuto. E quei
principi sono ricordati in un saggio del grande politologo Pierre Hassner ( La revanche des
passions). Spesso sul piano internazionale i problemi sono bloccati da interessi e da
strutture di potere statali o no, oppure da particolarismi difensivi o conquistatori, fanatici e
rivali. E, di fronte, gli avvocati della tolleranza e della cooperazione possono opporre
considerazioni razionali o morali, alle quali mancano spesso il fervore e il vigore delle
passioni.
Di fronte alle passioni rivali e fanatiche del terrorismo, l’Europa si è presentata unita da
opportunismi comuni ma disarticolata nell’azione. La Francia è una nazione
essenzialmente sovranista, come si dice a Parigi. Non ha mai voluto creare una difesa
comune, una politica estera comune, un’intelligence comune. È una vecchia nazione ed è
immobilizzata da un crampo quando deve cedere spezzoni di sovranità. Ferita, ha chiesto,
com’era legittimo e normale, la solidarietà dei partner e l’ha ottenuta con slancio. Ma la
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solidarietà non è andata molto oltre. Del resto Hollande non ha neppure pensato,
probabilmente, di affidarsi alle magre istituzioni europee che riguardano la difesa. Non
erano adeguate ma non era neppure pensabile, per lui, che potessero sovrapporsi a
quelle nazionali, francesi. Hollande ha sollecitato aiuti bilaterali, dichiarando di essere «in
guerra», ma nessun Paese europeo (forse con l’eccezione belga) ha ripreso quella parola.
Per la prima volta, nell’arco delle nostre generazioni, l’Europa ha al centro una grande
potenza industriale e commerciale che rifiuta la guerra. Una Germania che non è né
nazionalista né espansionista stupirebbe i nostri nonni. Altrettanto bizzarra può apparire
un’Inghilterra che esita a rianimare di slancio l’entente cordiale con la Francia. In quanto
all’Italia prudente, quasi fiduciosa in una protezione vaticana, nel senso che i fanatici
religiosi potrebbero esitare prima di colpire una terra in cui risiede uno dei massimi capi
spirituali, si culla forse in un’illusione. Ci si può mettere al riparo dietro le illusioni. Servono
fin che non svaniscono. Lo erano anche la Linea Maginot e il Vallo atlantico.
Le passioni di cui parlano Hegel e Spinoza non hanno nulla a che fare con l’uso delle armi.
Da Angela Merkel il presidente francese non ha ottenuto caccia bombardieri per colpire le
basi di Daesh, ispiratore degli assassini del Bataclan. È probabile che si sia ben guardato
dal chiederli. Ha però ricevuto il sostegno di ricognitori e di aerei rifornitori di carburante.
La cancelliera non ha parlato di guerra. Anche il presidente italiano se ne è ben guardato.
Lui ha potuto vantare i Tornado italiani da ricognizione già sul posto e si sarebbe detto
pronto a mandare un centinaio di uomini in più nel Libano, affinché la Francia possa usare
i suoi soldati in servizi per la sicurezza interna. In quanto all’intelligence, strumento
essenziale contro il terrorismo, la Francia ha chiesto un più efficiente scambio di
informazioni, ma si è rivolta soprattutto ai five eyes, l’organismo in cui i Paesi anglosassoni
(Usa, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda) riversano le loro informazioni.
L’Europa riserva le sue passioni ai problemi monetari e al tentativo di arginare l’ondata di
migranti. L’invito a usarle in modo più appropriato e in certi momenti più nobile non
significa esortarla ad affiancare nei bombardamenti la Francia ferita, che vuole
neutralizzare e punire gli assassini del 13 novembre. Le passioni vanno usate in uno
sforzo comune teso a integrare le masse musulmane nel continente; nel combattere la
terribile miscela fanatismo- tecnologia che avvelena l’informazione e seduce i giovani delle
periferie segregate e disastrate; nel combattere il mercato delle armi che ha le sue origini
nei nostri Paesi; nel contrastare le fonti finanziarie dei terroristi; nel fornire aiuti economici
e tecnici alle società colpite; nel partecipare con intelligenza e impegno all’azione politica e
diplomatica. Le passioni europee dovrebbero insomma impedire ai governi di trincerarsi in
un antiquato nazionalismo, o in un ambiguo neutralismo, nella speranza di sfuggire agli
attentati. A Parigi, in queste ore, sembra che l’Europa si sia dispersa, perduta nella folla di
governanti accorsi anche per rendere omaggio alle vittime del venerdì sera di sangue.
del 30/11/15, pag. 1/21
STEFANO FOLLI
Matteo, l’Eni e la Casa Bianca
È NOTO che la “risposta muscolare” al cosiddetto Stato islamico non piace al governo
italiano.
RENZI si sforza di ribadire il punto quasi ogni giorno: evita l’allarmismo e garantisce che il
contributo italiano alla causa comune consisterà nel controllo degli strumenti elettronici,
web, cellulari e playstation. Tutto quello che il premier riunisce nella definizione di « cyber
security ». Vero è che combattere il terrorismo dovrebbe essere questione di scelte
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politiche, prima che di tecniche informatiche. Tuttavia l’Italia ha deciso di percorrere questo
sentiero, abbassando il profilo della sua iniziativa.
Non è la prima volta che accade. Negli anni Sessanta, Amintore Fanfani, uno dei due
“cavalli di razza” della Dc (l’altro era Moro), non nascondeva la sua diffidenza verso il
protagonismo di De Gaulle. E si sforzava di tutelare gli interessi italiani nel Mediterraneo
soprattutto in due modi: affidandosi, come ha ricordato ieri Eugenio Scalfari, allo strumento
privilegiato dell’Eni di Mattei, all’interno di una politica estera nel segno della mediazione,
talvolta dell’ambiguità. Oggi lo scenario è molto diverso, ma non tanto da cancellare
alcune analogie. Il terrorismo suicida dell’Is è una tragica novità del nostro tempo e in
Francia ha costretto anche un presidente timido come il socialista Hollande a interpretare
con fermezza lo “spirito repubblicano”, richiamandosi a una grande tradizione nazionale.
Non sappiamo ancora se dalla guerra contro l’estremismo islamista emergerà un’Europa
più unita; ovvero se avverrà il contrario, il ritorno più o meno contraddittorio agli Statinazione. Quel che è certo, l’eccidio di Parigi coincide con un tornante della storia.
Rispetto a ciò, l’Italia di Renzi si è messa in una posizione di attesa. Nei giorni scorsi
bastava leggere i titoli de l’Unità, foglio quasi ufficiale di Palazzo Chigi: “Il coraggio di non
andare in guerra” oppure “Non ci metteremo l’elmetto”. Certo, ci sono i soldati promessi
per il Libano. Ma dietro le quinte riaffiora la vecchia inquietudine verso le fughe in avanti
della Francia, sempre più legata in Siria all’asse con Putin. E come Fanfani, anche Renzi
mette l’Eni al centro della sua politica mediterranea. L’Eni di Descalzi che in Libia offre
garanzie maggiori dei mediatori dell’Onu. O che al largo delle coste egiziane scopre un
giacimento in grado di influenzare gli assetti geopolitici nell’area. È la stessa Eni
protagonista di una penetrazione in Africa capace di offrire inedite opportunità
all’economia italiana. In altre parole, la prudenza di Renzi è in parte un tentativo di
proteggere interessi italiani che non coincidono con quelli francesi o del resto d’Europa.
Non a caso il premier si preoccupa della Libia e quasi solo della Libia: primo, perché
brucia ancora il ricordo del 2011, la guerra di Sarkozy contro Gheddafi; secondo, perché le
nostre coste sono le più esposte alle conseguenze del caos fra Tripoli e Tobruk. C’è poi
una ragione più generale e riguarda l’inesperienza del presidente del Consiglio che si
muove con qualche impaccio sullo scenario planetario. Un conto è creare slogan di facile
presa, tipo “l’Europa cambia verso”, e un conto è riuscirci sul serio. Per cui, davanti alle
trappole del Medio Oriente, Renzi ha deciso di tenersi stretto a Obama, condividendo
traiettorie e limiti di un presidente degli Stati Uniti giunto agli ultimi mesi di mandato.
Eni e Casa Bianca: ecco i riferimenti del renzismo mediterraneo. C’è però un terzo fattore
da non sottovalutare. È la convinzione che evocare la guerra distrugge il consenso interno.
Non a caso l’unico bellicoso è Salvini. Berlusconi stavolta è vicino a Palazzo Chigi. E i
5Stelle, i veri concorrenti del Pd, tengono un profilo ancora più basso del governo. In
Francia il tricolore sventola e Hollande ritrova una sintonia con i cittadini elettori grazie allo
spirito repubblicano. In Italia è il contrario.
del 30/11/15, pag. 6
Tre miliardi alla Turchia è l’aiuto Ue per i
migranti Renzi: no frasi muscolari
Ma l’Italia vuole chiarezza sui due giornalisti arrestati da Ankara. E
sull’Is: decisiva una diplomazia forte
ALBERTO D’ARGENIO
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DAL NOSTRO INVIATO
BRUXELLES.
.Sono in pochi a dire quello che tutti pensano, a criticare, seppure non con energia tale da
far saltare il tavolo, l’atteggiamento sempre più autoritario di Erdogan. Così il vertice UeTurchia scorre senza scossoni e in tre ore mantiene le promesse. I leader europei firmano
la dichiarazione grazie alla quale ad Ankara andranno tre miliardi per aiutare ad ospitare i
2,2 milioni di rifugiati siriani diretti in l’Europa. C’è l’impegno a liberalizzare i visti per i
turchi che vorranno viaggiare nel Vecchio Continente e c’è la ripartenza del negoziato di
adesione all’Ue. In cambio i turchi promettono di chiudere le frontiere, di non permettere
più che centinaia di migliaia di migranti salpino verso le coste greche per poi incolonnarsi
sulla rotta balcanica e arrivare in Nord Europa. Richiesta fondamentale per Angela Merkel
e per le istituzioni di fronte a una crisi, quella dei migranti, che sta minando la coesione
europea e indebolisce la leadership di diversi capi di governo. Ieri Erdogan però non si è
presentato a Bruxelles, ha mandato il premier Davutoglu. Gli europei, dal canto loro, non
hanno ancora deciso chi metterà i soldi: la Commissione propone di pagare 500 milioni
chiedendo che gli altri 2,5 miliardi vengano sborsati dai governi, che però non ne vogliono
sapere. Quando alla riapertura dei negoziati di adesione, viene indicato un solo capitolo
(politica economica) mentre vengono stralciati gli altri cinque su richiesta di Cipro e Grecia
che non vogliono promettere troppo ai turchi. Sul tavolo anche l’impegno europeo di
prendersi carico di parte dei rifugiati accolti in Turchia in cambio della chiusura delle rotte
migratorie. La Merkel ha riunito i leader di Austria, Svezia, Finlandia, Olanda, Belgio,
Lussemburgo e Grecia e la stampa tedesca ha parlato di un numero tra i 100 e i 400mila
richiedenti asilo che verrebbero redistribuiti tra i Ventotto. Il premier olandese Mark Rutte
ha però smentito la cifra. Visto il ritardo con il quale i governi stanno procedendo allo
smistamento di 160mila siriani sbarcati in Italia e Grecia, a Bruxelles ci si aspetta che i
numeri finali saranno ben più contenuti.
Nella dichiarazione finale non vengono stigmatizzati i diritti umani violati, l’ambiguità della
politica di Erdogan in Siria, la libertà di stampa sotto pressione e la tensione con Putin.
Gli europei però sperano che la riattivazione dei rapporti politici con Ankara possa
addolcire Erdogan. Le critiche al Sultano vengono poste solo da alcuni leader e dall’Alto
rappresentante Federica Mogherini. Arrivando a Bruxelles Renzi premette: «Teniamo alta
l’asticella sui diritti umani». Nel vertice afferma di avere con sé la lettera ai leader Ue dei
due giornalisti turchi imprigionati da Erdogan per avere scavato sui rapporti tra Ankara e
Daesh: «Non possiamo far finta che non ci sia così come non è possibile far finta di nulla
sulla questione curda». Renzi con la stampa parla anche di Siria, difendendo la scelta di
non bombardare senza prima avere una strategia politica: «La posizione italiana è la più
forte in prospettiva, le grandi crisi non si risolvono con qualche dichiarazione muscolare, ci
vuole la diplomazia».
del 30/11/15, pag. 6
Un accordo firmato sotto il ricatto di Erdogan
sui rifugiati
ANDREA BONANNI
IL RETROSCENA
BRUXELLES. Negoziare su tutto, non dire mai di no, guadagnare tempo, evitare temi
controversi: messi sotto ricatto dalla Turchia, che controlla il rubinetto dei rifugiati, gli
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europei hanno applicato le regole base di qualsiasi buon negoziatore in una presa di
ostaggi. Il primo vertice euro-turco si è concluso ieri a Bruxelles con l’adozione di un
«action plan» che contiene molte promesse, tutte da verificare, in cambio dell’impegno
turco a frenare l’afflusso di migranti irregolari verso le coste europee, anche quello tutto da
verificare. Raramente, nella storia pur non lineare della diplomazia europea, la distanza tra
le cose dette e le cose veramente pensate è stata più grande.
Gli europei promettono di dare tre miliardi ai turchi per aiutarli nell’accoglimento dei due
milioni di rifugiati siriani. Ma chi dovrà mettere i soldi, come e quando, non è ancora
definito. Altra promessa europea è la liberalizzazione del sistema dei visti di ingresso, che
dovrebbe scattare a ottobre. Ma si tratterà solo di visti turistici per tre mesi. E, secondo il
premier bulgaro Borisov, la liberalizzazione potrebbe essere ristretta solo ad alcune
categorie professionali, come imprenditori o studenti turchi che vogliono venire in Europa.
Infine Bruxelles si impegna a riaprire una serie di capitoli nel negoziato di adesione della
Turchia alla Ue, bloccati da anni per il veto franco-tedesco. Ma, anche qui, la distanza tra
l’apertura di un negoziato e la sua chiusura resta grande sopratutto se, come dice Renzi,
«bisogna mantenere alta l’asticella » degli standard europei.
Non è che ai turchi queste reticenze ed ambiguità europee siano sfuggite. Ma il solo fatto
di aver costretto i ventotto capi di governo dell’Ue a venire in questo vertice per dimostrare
la loro volontà di ristabilire relazioni privilegiate con Ankara è una vittoria politica per il
regime di Tayyp Erdogan, che si trova in questo momento sotto il fuoco di riflettori ben
poco amichevoli. L’abbattimento dell’aereo russo, la condanna di due giornalisti che
avevano rivelato le complicità turche con Dae- sh, l’uccisione dell’avvocato dei curdi,
definita da Ankara «un incidente», pongono in questo momento la Turchia ai margini
dell’Occidente e della coalizione internazionale che si sta delineando per combattare l’Is. Il
vertice di ieri, evitando di sollevare tutti questi problemi, ha ridato ad Erdogan una patina di
rispettabilità internazionale di cui il presidente turco ha, in questo momento,
disperatamente bisogno. Non tutti, però, hanno fatto finta di niente. Ieri al tavolo del
Consiglio europeo Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera della Ue,
ha puntualmente sollevato, sia pure in modo diplomatico, le molte questioni che in questo
momento avvelenano i rapporti con la Turchia. «Tutti noi sappiamo che, al di là
dell’incontro di oggi, viviamo in tempi molto duri e dobbiamo lavorare con la Turchia su
questioni difficili ma molto importanti per tutti noi: dalla Siria alla situazione interna turca»,
ha detto Mogherini, citando, tra l’altro, «i diritti umani, la libertà di stampa e la necessità di
riavviare il processo di pace con i curdi».
Questi temi, comunque, ieri sono rimasti fuori dalle conclusioni finali. Quello che resta è il
riconoscimento da parte europea che la questione turca non può più essere ignorata. E
che, come ha detto ieri il premier turco Ahmet Davutoglu, «tutti i Paesi sono d’accordo sul
fatto che la Turchia e la Ue hanno un destino comune». Poco importa se questo
riconoscimento è stato ottenuto da Ankara con la minaccia di aprire il rubinetto dei rifugiati
diretti in Europa. Poco importa se, al fondo, le perplessità degli europei nei confronti di
Erdogan restano intatte e, come ha detto ieri Angela Merkel, «ancora molto resta da fare
». D’ora in poi, Turchia e Ue terranno un vertice ogni sei mesi. Bruxelles cercherà di usare
questo dialogo rafforzato per riportare il governo turco a rispettare standard accettabili di
democrazia e a risolvere la questione curda. Ankara tenterà di ottenere il sostegno
europeo al suo disegno strategico nella partita mediorientale. Nessuno dei due,
verosimilmente, otterrà quello che vuole. Il vero negoziato su due milioni di rifugiatiostaggio è solo alle sue battute iniziali.
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del 30/11/15, pag. 7
Caso etichette ira Netanyahu su Bruxelles
“Stop relazioni”
Contestato il marchio messo sui prodotti dei Territori Alt alle gite per
paura attentati
FABIO SCUTO
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME.
Il premier israeliano Benjamin Netanyhau sbatte la porta in faccia all’Europa, annuncia il
congelamento delle relazioni con l’Ue, promette di rivedere il suo ruolo nelle trattative di
pace con i palestinesi. Tre settimane dopo l’avvio dell’etichettatura dei prodotti israeliani
provenienti dalle colonie nella Cisgiordania occupata, alla vigilia del suo viaggio a Parigi
per la Conferenza sul Clima, il premier israeliano lancia nuove bordate contro la decisione
di Bruxelles. Misure roboanti ma prive di sostanza. La mossa di Netanyahu era stata già
annunciata lo scorso 11 novembre e comunicata in un brusco incontro al ministero degli
Esteri con il rappresentante europeo Lars Faaborg Andersen che in quella occasione
difese la scelta dell’etichettatura definendola «tecnica e non politica ». Ora la reazione è
stata formalizzata da Netanyahu che fra gli otto “interim” che ha tenuto per sé in previsione
di allargare la sua traballante maggioranza ha anche quello di ministro degli Esteri. Ma il
portavoce del ministero Emmanuel Nahshon si è affrettato però ieri sera a precisare che
«Israele continua a mantenere contatti diplomatici con i singoli Paesi europei come
Germania, Francia e Gran Bretagna, ma non con le istituzioni europee ». Una posizione
“simbolica”, che riflette anche un senso di frustrazione del governo che sente di dover
affrontare altre emergenze come l’ondata di violenze che scuote Israele e la Cisgiordania
da due mesi e le strette misure di sicurezza non riescono a fermare i “pugnalatori
palestinesi” Tutti i giornali israeliani si chiedono quale effetto possa avere la decisione di
Netanyahu, vista la mancanza da quasi quattro anni di una qualsiasi segnale positivo
verso una trattativa di pace tra le parti. Perplessità anche sui giornali della destra che
sostengono Netanyahu. Scrive Dan Margalit, columnist del filogovernativo Israel Ha Yom,
che con la decisione di oggi il governo di Israele sembra «aver perso la bussola».
Sostanzialmente la decisione della Ue di etichettare diversamente i prodotti degli
insediamenti nella Cisgiordania occupata non ha nessun riflesso sull’economia israeliana.
Per stessa ammissione dei responsabili del ministero dell’Economia, la decisione della Ue
— i prodotti non potranno più avere la dizione “Made in Israel” ma “Made in Cisgiordania,
prodotti israeliani” — riguarda una parte infinitesimale del scambio commerciale fra Unione
europea e Israele, meno dello 0,7%. Gli ultimi dati disponibili indicano in 14 miliardi di euro
lo scambio globale Ue-Israele (che gode degli stessi benefici di un Paese europeo) e in
soli 50 milioni di euro i prodotti provenienti dalle colonie della Cisgiordania. Il significato
per Israele è quindi “politico” perché potrebbe segnare l’inizio di un più vasto movimento
internazionale di boicottaggio dei suoi prodotti. E’ solo per la tutela del consumatore
europeo, ribattono da Bruxelles, che ha diritto di sapere esattamente da dove viene il
prodotto che consuma.
Nel timore di nuovi attentati il ministero israeliano dell’istruzione sconsiglia vivamente alle
scolaresche di recarsi in visita nelle maggiori capitali europee. Una eccezione viene fatta
per la Polonia, dove proseguono le visite nelle località dove si è compiuto lo sterminio di
ebrei nella Seconda Guerra Mondiale.
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Del 30/11/2015, pag. 5
L’offensiva su Raqqa rischia di “trasferire” il
Califfato in Libia
Sbarcato a Sirte un gruppo di colonnelli fedelissimi di al-Baghdadi
Maurizio Molinari
Duecentoquaranta km di costa, oltre duemila uomini armati, i colonnelli del Califfo arrivati
via mare, tribunali islamici, decapitazioni pubbliche, pane gratis e lo slogan «non saremo
meno di Raqqa»: lo Stato Islamico rafforza il controllo di Sirte, in Libia, facendo temere
all’Egitto che Abu Bakr al-Baghdadi abbia deciso di trasferire qui il proprio quartier
generale se dovesse trovarsi obbligato a lasciare la propria «capitale» in Siria.
L’allarme egiziano
È stato il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, ad esprimere questi timori in
conversazioni telefoniche con più leader europei avvenute negli ultimi giorni, illustrando gli
elementi raccolti dalla propria intelligence. Il campanello d’allarme è stato l’arrivo a Sirte di
Abu Nabil al-Anbari, l’ex colonnello delle forze irachene di Saddam Hussein divenuto uno
dei leader di «Al Qaeda in Iraq», veterano delle battaglia di Falluja e Ramadi contro gli
americani, a cui il Califfo ha affidato il potenziamento dell’enclave di Sirte. Il Pentagono
assicura di averlo ucciso con un blitz dei droni lo scorso 13 novembre ma Isis non ne ha
confermato la morte, Il Cairo non esclude che sia ancora in circolazione e comunque
assieme a lui sono arrivati - sempre via nave - altri colonnelli di Isis.
L’insediamento a Sirte di questo gruppo di iracheni ha coinciso con una maggiore efficacia
delle unità di Isis nel Golfo della Sirte, riuscendo a estendere il controllo dalla città di
Abugrein a quella di Nawfaliya con il conseguente ritiro delle tribù di Misurata che finora
avevano ostacolato i jihadisti, fino a tentare di cacciarli da Sirte. Il Pentagono ritiene che
Isis abbia come obiettivo Ajdabiya, più a Est, per controllare un crocevia strategico per
l’export di petrolio dai pozzi a Sud della città.
Le informazioni raccolte dagli egiziani descrivono inoltre un consolidamento di Isis dentro
Sirte con tribunali islamici, curriculum scolastici scelti dal Califfato, pattugliamenti religiosi,
distribuzione del cibo, imposizione del chador alle donne, del divieto del fumo e della
musica come dell’obbligo di chiudere i negozi durante le preghiere. Vi sarebbero state
almeno quattro crocefissioni e due decapitazioni - in ottobre - di uomini accusati di
stregoneria. Senza contare l’insediamento di un Emiro, espressione del Califfo, e di un
Wali, amministratore di origine saudita.
«La determinazione con cui Isis controlla Sirte ricorda quanto fatto a Tikrit in Iraq - spiega
Aymenn Jawad Al-Tamimi, l’arabista dell’Università di Oxford che segue da vicino il
Califfato - perché impossessandosi delle ex aree natali dei dittatori, Gheddafi come
Saddam, punta a legittimarsi come erede naturale nell’esercizio del potere». Da Tikrit i
jihadisti hanno dovuto fuggire in maggio a causa di un’offensiva irachena sostenuta dai
raid Usa e poiché ora la pressione della coalizione occidentale si concentra su Raqqa si
apre lo scenario di un possibile trasferimento della sede del Califfato a Sirte.
L’intelligence americana
Patrick Prior, capo analista del contro-terrorismo della «Defense Intelligence Agency»
americana, spiega al «New York Times» che «le cellule di Isis in Libia sono quelle che ci
preoccupano di più perché sono il loro hub nel Nord Africa». «Isis vuole insediarsi a Sirte aggiunge Ismail Shukry, capo dell’intelligence libica al “Wall Street Journal” - perché
l’intento è attaccare Roma». Washington e Londra hanno inviato truppe speciali per
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raccogliere informazioni e selezionare obiettivi, preparandosi a una possibile campagna
aerea, assieme ad Egitto ed Emirati. D’altra parte nella Storia dell’Islam a cui al-Baghdadi
fa riferimento il trasferimento del Califfato è già avvenuto in passato: basta guardare la
carta geografica delle operazioni di Isis per accorgersi del cambiamento di equilibrio i atto.
Nel teatro siriano-iracheno gli ultimi successi risalgono alla primavera con la cattura di
Ramadi e Palmira, mentre di recente hanno perso Tal Abyad e Sinjar, a fronte di
rafforzamento in Egitto, soprattutto nel Sinai, a Sirte e nel triangolo a Sud della Tunisia. È
proprio il timore della genesi di un Califfato maghrebino che ha spinto la Tunisia a reagire
all’attacco al bus di guardie presidenziali ordinando la chiusura delle frontiere con la Libia
per 15 giorni. Sono tutte carte che Al-Sisi ha giocato, in privato, con i leader europei per
far percepire alla Nato la necessità di procedere contro Isis considerando il rischio che una
massiccia offensiva su Raqqa anziché sconfiggere il Califfato si limiti a causarne il
trasloco.
del 30/11/15, pag. 12
Siria, bombe russe su un mercato Strage di
civili: «Almeno 40 morti»
L’aviazione di Putin continua a colpire le aree in mano ai ribelli filooccidentali
MOSCA Un bombardamento improvviso, mentre il mercato di Ariha era in piena attività,
con la gente accorsa per comprare quello che arriva dalla Turchia, distante una
cinquantina di chilometri. «Improvvisamente abbiamo sentito il rumore di aerei e in un
secondo i jet hanno colpito con un frastuono infernale seguito da un grande silenzio», ha
raccontato alla Reuters Mohamed, che lavora con la Difesa Civile della città. «C’era gente
scaraventata in mezzo alla strada, corpi e bambini che urlavano cercando i genitori». La
cittadina, che si trova sulla strada principale che da Aleppo porta a Latakia, sarebbe stata
colpita da Sukhoi russi che hanno lasciato sul terreno almeno quaranta morti e decine di
feriti, secondo quanto affermano fonti dei ribelli. Tutti civili.
Il governo russo non ha commentato le notizie che arrivano dalla Siria ma sappiamo che
questa è proprio la zona a ridosso della frontiera che Mosca sta colpendo con particolare
intensità da quando un suo apparecchio è stato abbattuto dai turchi (ieri hanno recuperato
la salma del pilota trucidato da ribelli turkmeni dopo essere stato colpito in volo). Assieme
agli alleati siriani, a combattenti iraniani e hezbollah libanesi, il Cremlino sta cercando di
ristabilire un corridoio proprio lungo il confine per unire la città di Aleppo alla costa del
Mediterraneo dove si trovano la base navale di Tartus e quella aerea di Latakia.
Nell’incontro della settimana scorsa con Hollande, Putin ha promesso di indirizzare gli
sforzi dei suoi militari contro le roccaforti dello Stato Islamico. Ma, secondo quanto
riferiscono le fonti sul terreno, stanno invece continuando le incursioni nel nord della Siria
dove si trovano altri gruppi ribelli, tra i quali anche quelli sostenuti da occidentali e Turchia.
Ariha, importante nodo stradale, è stata al centro di violenti combattimenti tra l’esercito di
Assad e l’opposizione dall’inizio della rivolta nel 2011. A maggio è stata riconquistata dai
ribelli del Jaish-al-Fatah che comprende anche gruppi che si richiamano alle formazioni
islamiche più estremiste, come il fronte Al Nusra affiliato ad Al Qaeda.
In tutta la zona operano poi formazioni costituite da volontari asiatici, in parte provenienti
da repubbliche ex sovietiche. È chiaro che la situazione estremamente fluida consente al
Cremlino di definire tutte queste organizzazioni «terroristiche». In più, l’esigenza di sigillare
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la frontiera con la Turchia, attraverso la quale viene contrabbandato di tutto, è stata
riconosciuta nell’incontro di Mosca anche dal presidente francese. Si spiegano in questo
modo anche gli altri bombardamenti che, secondo i ribelli, sarebbero stati effettuati sempre
ieri dai russi: uffici del Partito Islamico del Turkestan, un ospedale a Idlib, a 15 chilometri
dal mercato di Ariha.
A differenza di altre forze aeree, i russi usano spesso bombardamenti tradizionali (con
ordigni a caduta libera e a grappolo) che, ovviamente, sono molto imprecisi, come si è
visto durante la guerra in Cecenia e, più recentemente, negli scontri che hanno
insanguinato l’Ucraina sudorientale. Nel Donbass a farla da padrone sono state le
artiglierie che hanno provocato ingentissimi «danni collaterali» tra i civili.
Fabrizio Dragosei
Del 30/11/2015, pag. 2
“Io per le strade di Damasco due anni dopo il
rapimento”
Il nostro inviato prigioniero per 152 giorni nel 2013 è tornato in Siria
“Hezbollah mi ha mostrato la foto del mio carceriere: l’hanno ucciso”
Domenico Quirico
Basse colline di gialla roccia bruciata, che pesantemente si appiattano, macchiate qua e là
di punti scuri, i punti scuri dei pini e degli arbusti. Una fenditura attraversa quella
estensione di siccità dove corre la strada, una fenditura appena di chiara roccia rossastra,
piuttosto torrente che strada. E sopra tutto l’azzurro, aspro cielo alcalino del levante.
«Ecco! Sei in Siria» mi annuncia l’amico Talal che ha lavorato, duramente, per riportarmi
qui, dopo due anni: due anni dopo la Siria da prigioniero, quella degli islamisti-banditi, un
transito di dannazione. Torno nell’altra Siria, capovolta, quella che non ho mai visitato
prima: perché il tempo mi restituisca i suoi giorni e le sue notti terribili, che mi lasci ancora
viva la sua preda, il passato. Senza dimenticare il presente. Ho la follia di chiedere a Dio di
uccidere il tempo.
Soldati, eroi e Brad Pitt
In alto, sulle colline, piccoli villaggi di case nuove tutte eguali dipinti di colori vivaci già
appassiti dal sole, accoccolati alla rinfusa, pronti a dissolversi, polvere che torna alla
polvere come le mille civiltà che questa terra nasconde.
Ma la Siria è già iniziata prima, a Beirut, a Bashoura, uno dei quartieri nido di Hezbollah, il
partito-esercito sciita che si batte accanto a Bashar Al Assad. Mi fermo a un caffè
aspettando l’ora dell’appuntamento. Alla parete, vicino al televisore che trasmette un film
di spionaggio con Brad Pitt, ritratti, fotografie: tante. Giovani in uniforme, lo sguardo
baldanzoso di chi vuole agguantare la vita, o riflessivo di chi forse ha già capito, mi
interrogano: sono i morti del quartiere, i caduti di Hezbollah sul fronte siriano. Centinaia
ormai da quando due anni fa il Partito di dio è accorso per impedire che Bashar,
indispensabile alleato, crollasse sotto i colpi dei suoi nemici, interni ed esterni.
Anche Beirut è Siria. La sua tragedia si è allargata qui. Nel prolungamento violento della
città, disarmonico, la ricostruzione di Hariri, senza quiete e senza misura, che non ha
anima né presente né remota, spolpata, quando scende il buio e si chiudono le banche e
le boutique, percorsa da reticolati e pattuglie di gendarmi in attesa dell’attentato. Per
cercare il mio uomo devo andare nei vecchi quartieri sopravvissuti, palazzi gialli e grigi,
donne vestite di nero e moschee, vecchie muraglie tappezzate da finestroni dai vetri
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sporchi, grigi, lungo le strade come castelli sfasciati.
«Questo l’abbiamo ucciso»
L’uomo che era venuto a cercarmi in Siria si chiama Abou Hassan, comandava la
sicurezza di Hezbollah nella zona del Kalamoun, dove mi sapevano prigioniero. Lo
incontro in una stanza che dà sulla strada, sembra un negozio qualunque in una casa
decrepita. Una scrivania, divani decrepiti, il kalashnikov appoggiato al muro, bandiere di
Hezbollah e ritratti di Alì il santo. La televisione mostra i bombardamenti dei russi su, a
Nord: meteore di guerra con colori stupendi, purpuree turchine, il fronte vicino a Latakia:
una festa terribile si celebra lassù. Una parete intera è coperta di altri schermi: le
telecamere con cui controlla tutto il quartiere. Parla con assoluta freddezza, come se le
parole gli uscissero di bocca come ghiaccio: «Avevo dato l’ordine di cercarti, ma quando
siamo arrivati là, dove ti avevano sequestrato, nella città riconquistata, i prigionieri ci
hanno detto che ti avevano già portato via... ».
Poi mi mostra sul telefonino delle facce di uomini. Scorrono, sono i miei carcerieri:
«Questo lo abbiamo ucciso... ».
Eliminare intorno molte cose, bisogna lentamente lasciar rivivere e riapparire e schiarirsi
quello che è rimasto, e ciò che è nato di nuovo. Il panorama può restare terribile per una
serie di mali di adesso, relativi, sopportabili. Non è facile avere un vento costante che
tenga il cielo sereno, soprattutto dopo una gran tempesta. Non è facile arrivare a dire:
qualunque cosa accada, ormai sono in salvo.
Jalal guida svelto lungo i tornanti che scendono alla Bekaa e poi al confine (sui cartelloni
ritratti di modelle mezze nude che propagandano calze e santi sciiti). Le acque di questi
torrenti del Libano hanno dissetato tutti gli eserciti venuti dal Nord. Montagne così diverse
queste dalle nostre, con gli strati netti e regolari: qui vi sono candidi profili di paesaggio
lunare, filoni basaltici simili a torri diroccate di città morte da mille secoli. Jalal è siriano, ha
mandato la figlia e il padre in Germania, lungo la rotta balcanica: stanno bene, la bimba
studia il tedesco.
Al posto di frontiera di quando in quando, in mezzo a un silenzio sbigottito, si ode il lento
boato del cannone che si perde nelle spelonche dei monti come un gemito profondo.
«Viene da Zabatani - mi dicono - oltre la montagna, città assediata dall’esercito e da
Hezbollah e tenuta dai fondamentalisti». La guerra protende il suo lungo collo mostruoso
fino a qui. Non si sazia mai la sua ira assurda. Uomini grossi parlano in continuazione al
telefonino, offrono passaggi, cambio di denaro favorevole, cose. Una immensa Chevrolet
bianca scarica un ragazzo e una ragazza che tenendosi per mano vanno all’ufficio dei
visti, tra gli omaggi dei poliziotti libanesi.
Tonfi nella memoria
Il posto di frontiera siriano, dove un tempo c’erano file innumerevoli, è deserto. Una
giovane donna velata culla, nel silenzio, il suo bimbo come se si preparasse ad attese
infinite. Nel comando delle guardie, lustre divise nere aquile d’oro sulle spalline, quando
digitano il mio nome sul computer, compare, sinistramente lampeggiante, una scritta
rossa. Gli sguardi dei soldati si fanno di colpo scuri, ostili. Un tonfo sanguigno della
memoria, come quando un gesto, un oggetto sommerso nelle alghe del passato, riappare
nella sua verità di forme e paura. Lunghe telefonate, poi, provvisorio, cade il tampone
liberatore sul passaporto.
Tra la frontiera e Damasco ci sono appena 45 chilometri. Ad ogni lampione hanno appeso,
per chilometri, lo stesso manifesto colorato, gigantesco, un bambino che fa correre nel
cielo un aquilone con i colori della bandiera siriana. Poi cominciano i ritratti di Assad.
Innumerevoli: in divisa, in borghese, in nero grisaglia, giacche tinte pastello, solo, con il
padre, con il fratello, che saluta o ha le braccia incrociate o indica la via o rassicura. I suoi
occhi non ti lasciano mai, si ficcano addosso non appena esci in strada, piccoli o cubitali,
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disegnati, incisi laccati fosforescenti. Adesso capisco perché dall’altra parte, due anni fa,
c’era l’ossessione di calpestarli, gettarli in strada, sforacchiarli di proiettili questi ritratti.
C’è una costante volontà di riaffermare: siamo qui e non ce ne andremo. Penso alla
diplomazia occidentale che disegna arzigogolati scenari: Bashar che accetta di non
ricandidarsi, va in esilio volontario, che si fa da parte, compie come diciamo noi «un passo
indietro». Come se qui equivalesse a lasciar una poltrona o un incarico... Quel volto, quel
nome è un mondo un sistema una storia di mezzo secolo.
Damasco e la tragedia
Dall’ultima collina ecco Damasco, la città più antica del mondo, già vecchia quando
Abramo vi passò per andare a liberare Lot. Sembra di guardare giù una carta orografica,
un modello finto. Damasco è un lago immenso, bianco, di abitazioni e stabilimenti,
laborioso e malinconico. Giro, giro per Damasco, ormai più radi i posti di blocco, meno che
a Beirut forse, il traffico tranquillo, i vigili che danno la caccia alle infrazioni: giro dietro al
bisogno accanito di scoperta e di coscienza della città, non più di me. Sto dentro a
Damasco come dentro all’incarnazione di cemento della tragedia siriana. Damasco città
santa, città limite, estrema, senza equilibrio e senza pausa, senza alcuna antitesi esplicita
al contatto tra pace e guerra. In un caffè, un locale moderno, semplice, ben illuminato, un
gruppo di giovani donne si fa servire fette di torta. Non riesco a dimenticare che non c’è
niente di crudele, folle, spaventoso che non abbiano visto, è forse questo che le rende
così stranamente tranquille.
Il silenzio del mondo
«Due anni, i primi, sono stati terribili, le autobombe, i razzi che cadevano, i bambini
avevano imparato a riconoscere le bombe, le nostre e le loro. Ora è molto meglio almeno
qui. Siamo sicuri di noi stessi, non possiamo cambiare, dobbiamo conservare le abitudini,
quello che siamo. Ci ha salvati la speranza di salvare quello che abbiamo creato. Prima
sentivamo il silenzio del mondo l’isolamento, ora il mondo ci ascolta... È bene».
L’abitudine di resistere
Eppure anche qui: il rumore del cannone, attutito ma regolare, arriva da Duma, una città
satellite in mano a un capo jihadista, siriano figlio di un famoso predicatore radicale che
vive in Arabia Saudita, l’Esercito dell’Islam, il braccio saudita in questa guerra di fanatici.
Comincio a capire la strana natura di Damasco, la guerra a un chilometro dalla normalità,
il lavoro il caffè... Hanno passato così cinque anni: sai che passeranno settimane mesi ma
basta resistere, aspettare. Ecco che si è costruiti una normalità nel bel mezzo di quel
luogo diventato estraneo. Alle abitudini ci si abbandona come al piacere.
Sento l’eco di ciò che ho provato anche io: essere immobile ad aspettare un annuncio di
liberazione, del cibo, qualcosa, qualcuno. Aspettare, vedere; destino. Questa società
conserva dentro di sé quel momento iniziale che si rinnova e ricomincia ogni giorno, il suo
seme anche quando è diventato una complicatissima pianta. Fissare quel seme per non
perdersi. «Alle sventure forse si deve la propria scoperta mi dice una ragazza - se non
fossi stata rinchiusa in tutto questo non mi sarei trovata con la mia coscienza, non mi sarei
incontrata né conosciuta».
Alla televisione Al Ekbaria, «le notizie», hanno preparato un albero di Natale. Accanto alle
palline colorate, piccole icone con i volti dei loro giornalisti morti in questi anni. C’è anche
l’ovale di una bella ragazza bruna. Il direttore Imaf Sara racconta: quando è arrivata la
notizia che era morta uccisa da un cecchino non sapevo che fare, come dirlo ai genitori.
Lei non era un soldato, le avevo dato il consenso per la prima linea perché lo voleva a tutti
i costi, minacciava di licenziarsi. Il padre è venuto, siamo scoppiati a piangere… mi
aspettavo che mi maledisse. È rimasto in silenzio».
I fronti e le bandiere non importano, si scopre di nuovo la grandiosità del coraggio umano
di fronte al dolore, si impara sempre il significato dell’umiltà.
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Sopravvissuti al naufragio
La sera nel quartier di Baab Touma, la porta di San Tommaso. Al ristorante Naranj, uno
dei più famosi di Damasco, di fronte al patriarcato tavoli di coppie giovani, eleganti. La
borghesia che è rimasta, che non è fuggita verso l’Europa. Lungo quella che era il «cardo»
della città romana, luci pallide, poche auto, solo voci e fruscii scopro il rumore della
Damasco di oggi: il riso di una ragazza, un soldato che bacia, stringendola forte, la sua
ragazza, un piccolo caffè fitto di adolescenti che discutono e lavorano sui loro telefonini, e
sopra l’ingresso un grande poster di un soldato caduto. Sdraiati sui monconi delle colonne
romane altri soldati spaccano una cassetta per riscaldare il turno di guardia di notte, ti
sfilano accanto i fruscii delle biciclette.
In un negozietto il venditore di vini con gioia mi mostra le sue bottiglie, la data di
quest’anno, vengono dal Golan druso, Sweda la marca, ha quasi le lacrime agli occhi,
perché la terra scura ha fatto il suo dovere nonostante la guerra. Dal quartiere di Jobar,
inizia appena in fondo alla strada, dopo la porta dell’Est, arriva lenta l’eco di colpi di
mortaio. I sopravvissuti di un naufragio.
La paura, l’amore del vivere respingono ai margini dove l’ideologia è un fuoco fatuo, uno
sdegno o un ricordo. Domani andrò a vedere l’altra Damasco, che combatte e muore.
1 – continua
Da Internazionale del 30/11/15, pag. 38
La strategia del jihad
Adam Shatz, London Review of Books, Regno Unito
Il gruppo Stato islamico ha sfruttato le debolezze dell’Europa e del
Medio Oriente. E rispecchia tutti gli errori che abbiamo commesso
Prima della guerra civile in Libano, Beirut era nota come la Parigi del Medio Oriente. Oggi
Parigi somiglia sempre di più a una Beirut dell’Europa occidentale, una città con tensioni
etniche sul punto di esplodere, dove c’è il rischio di inire ostaggi o di essere vittime di
attentati suicidi. I parigini sono tornati per le strade e nei cafè, con la stessa
determinazione a condurre una vita normale dimostrata dai libanesi in dalla metà degli
anni settanta. “Même pas peur”, non ci fate paura, hanno dichiarato sui poster e sui muri di
place de la République. Ma la paura è pervasiva, e non si limita alla Francia. Nelle ultime
settimane il gruppo Stato islamico (Is) ha compiuto massacri a Baghdad, Ankara e Beirut,
e ha abbattuto un aereo russo con 224 passeggeri a bordo. Inoltre ha minacciato altri
attentati, come se non volesse altro che provocare una reazione violenta. Già
traumatizzata dalle stragi di gennaio, la Francia sembra pronta ad accontentarlo. “Siamo in
guerra”, ha dichiarato il presidente François Hollande, che ora sta cercando di prolungare
lo stato di emergenza attraverso una modifica della costituzione. Meno di 48 ore dopo gli
attentati del 13 novembre sono state compiute nuove incursioni aeree sulla città siriana di
Raqqa, in coordinamento con la Russia. Con una serie di attentati compiuti in una sola
notte, l’Is è riuscito a ottenere l’ammissione che è in corso una guerra e non una
campagna contro dei “criminali”. Anche se è un’ipotesi improbabile, inviando truppe di
terra contro la Siria, la Francia fornirebbe ai jihadisti l’occasione tanto attesa: lo scontro
con i soldati “crociati” sul loro territorio. L’ammissione che c’è una guerra in corso non è
l’unica conquista strategica ottenuta dallo Stato islamico. Il gruppo ha anche diffuso il
panico e spinto la Francia sulla strada che porta al conflitto civile. La carneicina è stata
una rappresaglia per i raid aerei francesi contro le postazioni dell’Is, ma c’erano altri motivi
per colpire la Francia. Parigi è un simbolo della civiltà irreligiosa che i miliziani detestano,
un covo di “vizio e prostituzione”, come si legge nel comunicato che rivendica la
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responsabilità degli attentati. La Francia non è semplicemente un’ex potenza coloniale nel
Nordafrica e nel Medio Oriente. Con l’accordo Sykes-Picot del 1916 ha contributo, insieme
all’impero britannico, a issare i conini che l’Is ha spianato dopo la conquista di Mosul, nel
nord dell’Iraq. Inoltre ha una percentuale di cittadini di origine musulmana più alta di tutti
gli altri paesi europei, rappresentata soprattutto da persone originarie delle ex colonie. La
classe media musulmana è in crescita e molti musulmani si sposano senza tener conto del
credo religioso. Ma una minoranza consistente vive tuttora in periferie squallide e isolate,
con alti livelli di disoccupazione. Ora che il tasso di crescita è allo 0,3 per cento, le porte
del sogno francese sono state chiuse agli abitanti delle banlieues. Il senso di esclusione è
stato accentuato dalla discriminazione, dalla brutalità della polizia e dal culto della laicità,
che molti avvertono come un modo per tenere i musulmani al loro posto. Non c’è da
sorprendersi se più di mille musulmani francesi sono andati in cerca di gloria sui campi di
battaglia in Siria e in Iraq. La maggior parte di questi giovani jihadisti si è radicalizzata su
internet, non nelle moschee. Alcuni hanno una lunga storia di arresti e detenzioni. E si
calcola che circa il 25 per cento dei francesi reclutati dallo Stato islamico sia composto da
convertiti all’islam. Ciò che sembra accomunare la maggior parte dei jihadisti è l’assenza
di una formazione religiosa approfondita: molti studi dimostrano che c’è una relazione
inversa tra la devozione religiosa e l’attrazione nei confronti del jihad. Come ha detto di
recente Olivier Roy, autore di diversi libri sull’islam politico, “questa non è tanto la
radicalizzazione dell’islam, quanto l’islamizzazione del radicalismo”. Mandando un gruppo
di cittadini francesi (e belgi) a massacrare i parigini nei loro luoghi di svago, l’Is ha voluto
provocare un’ondata di ostilità che finirà per intensificare il malcontento dei giovani
musulmani. A differenza del massacro nella redazione di Charlie Hebdo, gli attentati del 13
novembre sono stati condannati da tutti. Le vittime erano di origini diverse, sono state
uccise senza alcun criterio e nel dipartimento di Seine-Saint-Denis, dove si trova lo Stade
de France, uno dei luoghi colpiti dagli attentati, vivono molti musulmani. Questa tragedia
avrebbe potuto unire le coscienze. Invece sono soprattutto i musulmani a subire le misure
di emergenza e la nuova retorica dell’autodifesa nazionalista. Fayçal Riyad, un francese
con genitori algerini che insegna in un liceo nel dipartimento di Seine-Saint-Denis, ha
evidenziato il cambiamento: “Nel discorso tenuto a gennaio Hollande aveva ribadito
chiaramente la differenza tra islam e terrorismo. Invece questa volta ha parlato della
necessità di chiudere le frontiere, insinuando che gli attentatori fossero stranieri, e
soprattutto ha ripetuto la proposta avanzata dal Front national di togliere il passaporto
francese a chi ha la doppia cittadinanza e viene riconosciuto colpevole di azioni contrarie
agli interessi del paese. Questo accentua la nostra paura”. Il sentimento antimusulmano
non si limita all’estrema destra: nei circoli del centrodestra si parla di una quinta colonna
musulmana e una figura chiave del partito di Nicolas Sarkozy ha proposto di rinchiudere
quattromila estremisti islamici sospetti in “campi di raccolta”. Il gruppo Stato islamico ha
raggiunto un altro obiettivo strategico mettendo in relazione il massacro con la crisi dei
profughi. Il ricordo di Aylan Kurdi, il bimbo di tre anni di Kobane trovato morto su una
spiaggia turca, è stato offuscato da un passaporto ritrovato vicino al cadavere di uno degli
attentatori. Il fatto che l’uomo sia arrivato in Francia passando dalla Grecia con un
documento intestato a un combattente siriano morto fa pensare a un’accorta
pianificazione. Lo scopo non è solo punire i siriani che fuggono dal califfato, ma anche
attenuare la solidarietà degli europei per i profughi, già messa a dura prova dalla
disoccupazione e dalla crescita di partiti di destra ostili agli immigrati. Se l’occidente
volterà le spalle ai profughi siriani, rafforzerà il loro senso di abbandono, un’altra
conseguenza positiva per lo Stato islamico.
Ricorso alle armi
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È difficile non sentirsi vicini ai quartieri di Parigi attaccati dai jihadisti. In una città che ha
accentuato la gentrificazione, le differenze di classe e l’esclusione, questi quartieri sono
ancora abbastanza eterogenei, a buon mercato e accoglienti. La stampa francese ha
celebrato il loro fascino, come se gli attacchi fossero rivolti soprattutto allo stile di vita bobo
(borghese e bohémien). “Hanno le armi. Chi se ne frega. Noi abbiamo lo champagne”,
titolava in prima pagina Charlie Hebdo dopo gli attentati. Ma il giornalista Thomas Legrand
ha risposto sulla radio France Inter: “La realtà è che noi abbiamo lo champagne... e pure
le armi”. Negli ultimi anni la Francia ha usato queste armi con una frequenza e
un’aggressività sempre maggiori. Il passaggio a un atteggiamento più interventista nel
mondo musulmano è cominciato sotto Sarkozy e si è accentuato con Hollande. È stata la
Francia il primo paese a correre in aiuto dei ribelli in Libia. Quell’avventura ha liberato il
paese da Gheddafi, grazie al coinvolgimento degli Stati Uniti, ma l’ha lasciato nelle mani di
milizie armate e dei trafficanti di armi, che hanno tra i loro clienti anche gruppi come l’Is. La
Francia di Hollande ha intensificato le relazioni con il regno saudita, che ha esportato la
dottrina wahabita e favorito così la diffusione dell’ideologia jihadista. Sfruttando la loro
irritazione per l’avvicinamento tra Washington e Teheran, la Francia si è allineata con i
sauditi sul programma nucleare iraniano e sulla Siria, e ora è in concorrenza con gli Stati
Uniti per diventare il loro primo fornitore di tecnologia bellica avanzata. In una delle sue
ultime interviste, lo storico britannico Tony Judt affermava: “Quando George W. Bush ha
detto che stavamo combattendo i terroristi ‘là’ per non doverli combattere ‘qua’, ha fatto
una mossa politica tipicamente statunitense. Di sicuro non ha senso in Europa perché, se
si comincia una guerra tra i valori occidentali e il fondamentalismo islamico, il conflitto non
si fermerà a Baghdad. Si riprodurrà anche a trenta chilometri dalla torre Eiffel”.
Situazione paradossale
Il governo francese rifiuta di accettare considerazioni del genere. Gran parte dei parigini è
stata sconvolta dai fatti del 13 novembre, ma non chi studiava l’Is. Alcune settimane prima
Marc Trévidic, un magistrato specializzato in casi di terrorismo, aveva dichiarato al
settimanale Paris Match che la Francia era diventata “il nemico numero uno” dei jihadisti
per i suoi interventi in Medio Oriente. “È sempre la stessa storia”, ha detto dopo gli
attentati. “Lasciamo che un gruppo terroristico cresca fino a diventare un mostro, e poi ci
meravigliamo quando ci attacca. E siamo amici di paesi che hanno diffuso questa
ideologia, come l’Arabia Saudita. È una situazione paradossale”. Falchi liberal hanno
invocato un’offensiva terrestre ma, dopo l’Afghanistan e l’Iraq, nessun leader occidentale
ha voglia di avventurarsi nell’impresa (né ha un bacino elettorale per sostenerla). La
sinistra chiede di porre fine alla guerra con i droni, di rompere le relazioni con l’Arabia
Saudita e di creare uno stato palestinese. La rabbia per le politiche occidentali è uno degli
elementi usati dai gruppi jihadisti per avvicinare nuove reclute. Ma l’Is non è
un’organizzazione che reagisce e basta: è un movimento millenarista con un programma
votato all’apocalisse. Come sottolinea Elias Sanbar, ambasciatore palestinese presso
l’Unesco a Parigi, “una delle cose che colpisce di più dello Stato islamico è che non
avanza richieste. Il suo obiettivo è eliminare i confini tracciati dall’accordo Sykes-Picot”.
Sul New York Times Olivier Roy ha scritto che gli attentati di Parigi sono un sintomo di
disperazione più che di forza. “Il raggio di azione dell’Is è limitato: non ci sono altre aree in
cui si può espandere, con la pretesa di ergersi a difensore delle popolazioni sunnite. A
nord ci sono i curdi, a est gli sciiti iracheni, a ovest gli alauiti, protetti dai russi. E tutti
combattono i jihadisti. A sud né i libanesi, preoccupati per il lusso dei profughi dalla Siria,
né i giordani, ancora sconvolti dall’esecuzione di uno dei loro piloti, né i palestinesi si sono
fatti sedurre dal califfato. Bloccato nel Medio Oriente, l’Is si sta buttando a capofitto nel
terrorismo globalizzato”. È un’argomentazione attraente, quasi rassicurante: lo Stato
islamico sembra in marcia, ma in realtà è in agonia, dopo le perdite subite a Kobane e
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Sinjar. Ma non è un’argomentazione nuova. Dopo l’11 settembre, molti sostenevano che
Al Qaeda avesse attaccato “il nemico lontano” in occidente perché non era riuscita a
sconfiggere “il nemico vicino”, i regimi mediorientali. Oggi questa ipotesi sembra meno
credibile. Al Qaeda è risorta in quell’area, soprattutto a causa della guerra in Iraq. Mentre
per l’Is, una propaggine di Al Qaeda in Iraq, la distinzione tra nemici vicini e lontani è
labile: tutti gli infedeli sono nemici. Pur avendo conquistato molti territori, la sua forza si
basa solo in parte sul califfato. Ci tiene molto a conquistare anche territori virtuali. Attinge
a un bacino crescente di reclute, che hanno scoperto l’Is – ma anche l’islam – su internet,
in chat e in forum che annullano le distanze. L’intuizione geniale dell’Is è stata superare la
distanza che esisteva tra due crisi di cittadinanza molto diverse tra loro, legandole in
un’unica narrazione sulla delegittimazione dei sunniti: l’emarginazione dei giovani
musulmani in Europa e quella dei sunniti in Siria e Iraq. Olivier Roy ha ragione quando
dice che l’Is non può “vincere” nel senso convenzionale, ma l’organizzazione non ha
neanche bisogno di espandere il califfato per restare in attività. Nella società globale dello
spettacolo, va a gonfie vele. L’assalto al Bataclan fa più paura degli attacchi di Al Qaeda a
Madrid e Londra. Le bombe sui treni, dato che chi le fa esplodere resta invisibile e la morte
è improvvisa come in un terremoto, sembrano meno difficili da accettare rispetto alle
uccisioni commesse da uomini con il passamontagna, armati di kalashnikov, che
rimproverano le loro vittime prima di falciarle in modo sistematico. Il messaggio sembra
essere: ecco come ci si sente a Baghdad e ad Aleppo, quando si è assolutamente inermi,
ecco come ci si sente in guerra. Hollande può parlare di una guerra per distruggere il
gruppo Stato islamico, ma le sue opzioni sono limitate e spiacevoli. Arresti di massa,
interrogatori e sorveglianza potrebbero rendere la Francia più sicura nel breve periodo,
con il risultato però di spingere un’altra generazione di giovani emarginati nelle braccia dei
jihadisti. Lo stato di emergenza potrebbe ritorcersi contro il presidente francese,
rafforzando in quelli che vivono nelle banlieues l’impressione di essere una popolazione
colonizzata all’interno della Francia. Il compito principale dello stato francese è di
combattere le radici del terrorismo jihadista sul territorio nazionale, dove un nome di
origine musulmana pesa ancora come una zavorra. I cittadini di origine nordafricana di
terza o quarta generazione sono ancora definiti “immigrati” e i loro quartieri sono stati
chiamati “i territori perduti della repubblica”. Un progetto a lungo termine per porre fine alla
discriminazione e garantire la partecipazione dei musulmani alla vita civile e alla politica
ridurrebbe le tentazioni dell’islamismo radicale. Sarebbe utile anche considerare il fatto
che il 70 per cento dei detenuti nelle prigioni francesi sono musulmani. Ma coraggio e
lungimiranza scarseggiano tra i politici del paese, e il terrorismo e l’austerità economica
possono solo peggiorare la situazione.
I danni peggiori
Le incursioni aeree francesi in Siria possono fornire all’opinione pubblica il gusto di una
vendetta, ma difficilmente metteranno la popolazione locale contro chi è al potere, anzi
spesso generano la reazione contraria. Fare questi raid in coordinamento con la Russia
potrebbe volgersi a favore dell’Is: i siriani sunniti detestano il leader russo Vladimir Putin,
perciò un conflitto aereo pianificato con Mosca e in tacita intesa con Assad alimenterebbe
l’astio sunnita, spianando la strada alla propaganda jihadista. Il presidente statunitense
Barack Obama ha descritto il gruppo Stato islamico come un figlio della guerra in Iraq. È
vero che se l’Iraq non fosse stato smantellato e sostituito da un sistema settario dominato
dagli sciiti forse l’Is non esisterebbe. E nella sua guerra contro i confini issati nell’accordo
Sykes-Picot i jihadisti hanno reso un singolare omaggio ai neoconservatori, che hanno
sempre considerato le frontiere nate dopo la caduta dell’impero ottomano come costrutti
artificiosi, da ridisegnare con il sangue, sostituendo gli stati multiconfessionali con staterelli
deboli, incentrati su singole etnie: libanesi cristiani, curdi e sciiti. Ma la guerra in Libia e
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l’intesa tra Obama e il regime egiziano di Abdel Fattah al Sisi hanno favorito l’espansione
dell’Is ben oltre l’Iraq. Forse l’incoerente politica statunitense in Siria ha causato i danni
peggiori. Quando Obama ha chiesto ad Assad di dimettersi ha alimentato le aspettative
dell’opposizione. Ma gli Stati Uniti non avevano intenzione di inviare truppe o di imporre
una zona d’interdizione aerea. Allora i gruppi ribelli, sempre più frammentati, hanno
cercato armi e aiuti in Turchia, in Qatar, in Arabia Saudita e dagli sceicchi e dagli
imprenditori del Golfo. Il sostegno è arrivato, ma con delle condizioni: una guida ideologica
e un orientamento antisciita sempre più marcato. Grazie all’irresponsabilità del presidente
turco Recep Tayyip Erdoğan e del Qatar vari gruppi jihadisti si sono impossessati della
rivoluzione. L’occidente ha chiuso un occhio, finché non è stato costretto a creare i suoi
ribelli “moderati”, che non hanno speranza contro i jihadisti. Pretendendo le dimissioni di
Assad come passo preliminare per qualunque transizione, Washington ha prolungato la
guerra e reso inevitabile la crisi dei profughi. Tutti gli attori presenti nel calderone siriano –
gli stati del Golfo, la Turchia, Hezbollah, i russi, gli statunitensi – hanno contribuito alla
creazione di questo mostro, ma nessuno sembra volerlo combattere, a parte i curdi. La
divergenza di opinioni sul destino di Assad ha impedito la formazione di un fronte unico
russo-statunitense contro i jihadisti. Le forze del presidente siriano e i loro alleati, compresi
Hezbollah e i Guardiani della rivoluzione in Iran, hanno concentrato i loro attacchi sui ribelli
siriani che, a differenza dell’Is, hanno sfidato apertamente il regime. Gli stati del Golfo, i cui
imam hanno delle responsabilità nell’espansione dell’estremismo jihadista, sono troppo
turbati dal programma nucleare iraniano e dall’avanzata dei ribelli sciiti houthi nello Yemen
per alzare un dito, soprattutto se le loro azioni possono rafforzare Assad. La maggiore
preoccupazione di Erdoğan non è l’Is, sono i ribelli curdi. Fino all’anno scorso statunitensi
e francesi si consolavano credendo che l’Is fosse una forza locale, che difficilmente poteva
colpire gli interessi dell’occidente. Oggi lo Stato islamico non ha rivali tra i gruppi jihadisti,
e qualunque azione rischia di essere insufficiente e tardiva. È vero che l’Is non è in grado
di sostenere uno scontro militare con l’occidente. Gli attentati del 13 novembre hanno
seguito la tradizione anarchica della “propaganda d’azione” e non dovremmo farci
ingannare: l’ordine sociale in Europa non è in pericolo. D’altro canto, sarebbe un errore
anche sottovalutare il problema. Il gruppo è riuscito a incunearsi tra due dei conflitti più
complessi del nostro tempo: il rapporto delle società europee con i musulmani che vivono
al loro interno, e le lotte per il potere tra le varie confessioni che hanno travolto l’Iraq e la
Siria dal 2003. In passato questi conflitti avrebbero potuto rimanere separati, ma ora sono
connessi grazie ai dispositivi che sono il simbolo della globalizzazione, gli smartphone e i
computer portatili. Non ha più senso parlare di “vicino” e “lontano”, e neanche di
“contraccolpo”. Il teatro del conflitto non ha confini delimitati. Ha tante cause, che si
sovrappongono e sono radicate in storie di rabbia postcoloniale e nel crollo degli stati
assistiti dall’occidente. Gli attentati di Parigi non riflettono uno scontro di civiltà, ma il fatto
che viviamo in un mondo unico, anche se ingiusto, dove le sofferenze di una regione
ricadono inevitabilmente su un’altra, dove tutto si lega, a volte con conseguenze
drammatiche. Con il suo oscurantismo, il califfato rispecchia il mondo che abbiamo
costruito, non solo a Raqqa e Mosul, ma a Parigi, Mosca e Washington.
del 30/11/15, pag. 9
L’Occidente non può combattere Daesh e nello stesso tempo stringere
la mano a Riad. Il jihadismo cresce grazie alla propaganda voluta dai
regnanti wahabiti
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C’è uno Stato Islamico che ha già vinto:
l’Arabia Saudita
KAMEL DAOUD
Daesh nero, Daesh bianco. Il primo taglia le gole, uccide, lapida, taglia le mani, distrugge il
patrimonio dell’umanità e disprezza l’archeologia, le donne e i non musulmani. Il secondo
è vestito meglio ma fa le stesse cose. Lo Stato Islamico; l’Arabia Saudita. Nella sua lotta al
terrorismo, l’Occidente fa la guerra con una mano e stringe le mani con l’altra. Questo è un
meccanismo di negazione, che ha un prezzo: conservare la famosa alleanza strategica
con l’Arabia Saudita rischiando di dimenticare che anche il Regno degli Emirati poggia su
un’alleanza con il clero che produce, legittima, diffonde, predica e difende il wahabismo, la
forma ultra-puritana dell’Islam a cui Daesh si ispira.
Il wahabismo, un radicalismo messianico nato nel Diciottesimo secolo, spera di ristabilire
un fantomatico califfato basato sul deserto, un libro sacro e due luoghi santi, Mecca e
Medina. Nato nel massacro e nel sangue, si caratterizza per un rapporto surreale con la
donna, la preclusione dei territori sacri ai non musulmani e leggi religiose spietate. Ciò si
traduce nell’odio ossessivo contro l’immagine e la rappresentazione, quindi l’arte, ma
anche il corpo, la nudità e la libertà. L’Arabia Saudita è un Daesh riuscito. Colpisce come
l’Occidente lo neghi: saluta la teocrazia come suo alleato, ma fa finta di non notare che è il
principale sponsor ideologico della cultura islamica. Le generazioni estremiste più giovani
del cosiddetto mondo arabo non erano nate come jihadiste. Erano incubate nella Fatwa
Valley, una sorta di Vaticano islamico con un’industria immensa che produce teologi, leggi
religiose, libri, politiche editoriali e campagne media aggressive.
Si potrebbe ribattere: l’Arabia Saudita stessa non è un possibile bersaglio di Daesh? Sì,
focalizzarsi su questo significherebbe trascurare la forza dei legami tra la famiglia
regnante e il clero da cui dipende la sua stabilità — e anche, sempre di più, la sua
precarietà. I reali sauditi sono costretti in una trappola perfetta: indeboliti dalle leggi di
successione che incoraggiano il ricambio, si aggrappano a legami ancestrali tra il re e i
predicatori. Il clero saudita produce l’islamismo che minaccia il Paese legittimando al
contempo il regime. Bisogna vivere nel mondo arabo per capire l’immenso potere dei
canali televisivi religiosi di trasformare la società raggiungendo i suoi anelli più vulnerabili:
famiglie, donne, aree rurali. La cultura islamica è diffusa in molti Paesi — Algeria,
Marocco, Tunisia, Libia, Egitto, Mali, Mauritania. Ci sono migliaia di giornali islamici e
autorità religiose che impongono una visione unitaria del mondo, le tradizioni e
l’abbigliamento in pubblico, le leggi statali e i costumi sociali che ritengono contaminati.
Vale la pena leggere certi giornali islamici per constatare le loro reazioni agli attacchi di
Parigi. L’Occidente è rappresentato come una terra di “infedeli”. Gli attacchi sono il
risultato dei massacri contro l’islam. I musulmani e gli arabi sono diventati i nemici dei
secolari e degli ebrei. La questione palestinese è associata alla devastazione dell’Iraq e al
ricordo del trauma coloniale, ed è confezionata in un discorso messianico volto a sedurre
la massa. Quei discorsi vengono diffusi all’interno della società mentre, esternamente, i
leader politici mandano le loro condoglianze alla Francia e denunciano un crimine contro
l’umanità. Questa situazione totalmente schizofrenica si accompagna alla negazione delle
aree oscure dell’Arabia Saudita da parte dell’Occidente.
Questo ci fa diffidare delle altisonanti dichiarazioni delle democrazie occidentali sulla
necessità di combattere il terrorismo. La loro guerra non può che essere miope, in quanto
mira all’effetto piuttosto che alla causa. Dato che Daesh è anzitutto una cultura, non una
milizia, come si fa a evitare che le generazioni future si uniscano al jihadismo se rimane
intatta l’influenza della Fatwa Valley e del suo clero, della sua cultura e della sua immensa
industria editoriale?
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La cura della malattia è dunque semplice? È difficile. L’Arabia Saudita rimane un alleato
dell’Occidente in numerosi scacchieri mediorientali. È preferita all’Iran, a quel triste Daesh.
Ed è qui la trappola. La negazione crea l’illusione dell’equilibrio. Il jihadismo è denunciato
come il flagello del secolo senza considerare cosa l’abbia creato o sostenuto. In questo
modo si salvano le facce ma non le vite.
Daesh ha una madre: l’invasione dell’Iraq. Ma anche un padre: l’Arabia Saudita e il suo
apparato religioso- industriale. Finché non si comprende questo, si possono vincere le
battaglie, ma si perderà la guerra. I jihadisti saranno uccisi, solo per rinascere nelle
generazioni future e crescere sugli stessi libri. Gli attacchi di Parigi hanno nuovamente
evidenziato questa contraddizione, ma questa, come è accaduto dopo l’11 settembre,
rischia di essere cancellata dalle nostre analisi e coscienze.
del 30/11/15, pag. 13
Gruppi di teste di cuoio americani e britannici sarebbero già stati
mandati nel Paese per esaminare la minaccia. I rapporti non sarebbero
confortanti
Le mani dell’Isis sulla costa libica
I volontari del Califfo estendono il loro potere da Sirte. Qui potrebbero
trovare riparo i terroristi in fuga dalla Siria
L’ Isis si fa sempre più forte e aggressivo in Libia. Tanto che dal suo quartier generale a
Sirte minaccia ora la città di Misurata, si allarga verso Bengasi e dalla costa guarda
all’Italia, poche centinaia di chilometri di mare aperto più a nord. I suoi militanti si sentono
talmente sicuri nelle nuove basi libiche che potrebbero persino attirare alcune delle loro
formazioni in questo momento in gravi difficoltà sotto i bombardamenti russi e della
coalizione a guida Usa sulla zona di Raqqa in Siria e nelle province irachene sunnite.
L’informazione in realtà non è del tutto nuova. Da tempo i tagliagole del Califfato
approfittano del caos imperante in Libia per allargare la loro presenza.
Un caos che è persino peggiorato con il recente fallimento della missione pacificatrice
volta alla creazione di un governo di unità nazionale tra le milizie rivali basate a Tobruk e
Tripoli del mediatore dell’Onu Bernardino Leon, che il 16 novembre ha dovuto lasciare
l’incarico al tedesco Martin Kobler. Ma ora l’incubo minaccioso e violento dell’Isis torna
all’ordine del giorno dopo che due quotidiani rilevanti come il New York Times e il Wall
Street Journal , citando per lo più fonti dell’intelligence Usa e testimoni in Libia, segnalano
con preoccupazione il suo nuovo radicamento nelle stesse regioni che sino alle rivolte del
2011 erano le più fedeli all’ex colonnello Gheddafi.
Già un anno fa gli abitanti di Sirte avevano segnalato con paura l’arrivo dei volontari
stranieri dell’Isis, sempre più forti, più numerosi, più aggressivi. «Questa mattina sono
venuti nelle nostre case, hanno effettuato alcuni arresti arbitrari e adesso quattro nostri
concittadini pendono crocefissi a una struttura di legno e ferro alle porte della città», ci
aveva detto al telefono allora una 34enne della famiglia di Gheddafi, intrappolata nei
quartieri del centro. Quindi era giunto l’obbligo per le donne di indossare il velo fuori dalle
loro case assieme a nuovi programmi integralisti per gli studenti nelle scuole. Sembrava
più che altro il tentativo maldestro di piccoli gruppi di esaltati desiderosi di apparire più
potenti di quanto fossero in realtà presentandosi come rappresentanti locali del Califfato
trionfante allora a Mosul e nel Nordest siriano. Ma poi erano stati diffusi i video delle
decapitazioni degli ostaggi copti, le brigate con la bandiera nera si erano fatte vedere
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verso i terminali e i centri petroliferi di Ajdabia (solo 100 chilometri a ovest di Bengasi), le
loro pattuglie si erano aggiunte al fronte delle milizie islamiche che verso le Montagne
Verdi, specie nelle cittadine di Al Badya e Derna, dettano legge e lasciano spazio ai
miliziani islamici più oltranzisti. Ora stanno dando filo da torcere ai soldati legati al
generale Khalifa Haftar, l’ex generale del corpo di spedizione di Gheddafi nella guerra del
Ciad, una trentina d’anni fa, che adesso è ministro della Difesa del governo di Tobruk. È
da aprile che Haftar proclama la vittoria sulle milizie fondamentaliste a Bengasi, ma ogni
volta viene smentito dai fatti sul campo di battaglia.
«L’intero gruppo dirigente dell’Isis a Sirte viene dall’estero», dice al New York Times il
responsabile di una nota compagnia di traporti a Misurata. Si chiama Nuri al Mangush,
ammette che ormai le strade sono controllate dai «barbuti in nero», il Paese è diviso in
due, con le grandi arterie di comunicazione che attraverso il deserto portano all’Africa sub
sahariana a rischio rapimenti e attacchi di ogni tipo. Si calcola siano almeno 2.000 i
volontari dell’Isis oggi presenti in Libia. Un numero destinato a crescere. A Mosul sin dal
giugno 2014 una delle brigate più note che si occupò di perseguitare la popolazione
cristiana è appunto di origine libica: i suoi militanti tengono contatti e scambi continui con
Sirte. Pare inoltre che uno degli ex ufficiali dell’esercito di Saddam Hussein, noto ora come
Abu Ali al Anbari e attivo tra i leader militari di Isis, sia di recente giunto a Sirte via mare
con il compito di studiare nuove strategie operative. A Washington gli esperti
dell’antiterrorismo non nascondono più l’opinione per cui l’Isis, oggi sotto assedio e in
difficoltà in Siria e Iraq, potrebbe rilanciare proprio la Libia quale centro di irradiazione
verso l’Africa e l’Europa. Piccoli gruppi di teste di cuoio americani e britannici sarebbero
già stati mandati nel Paese per esaminare la minaccia e i primi rapporti si rivelerebbero
tutt’altro che rassicuranti .
Lorenzo Cremonesi
Da Internazionale del 30/11/15, pag. 34
Il grande bazar delle armi
Christian Oliver e Duncan Robinson, Financial Times, Regno Unito.
Molti dei più gravi attacchi terroristici compiuti negli ultimi tempi in
Europa hanno dei legami con il mercato nero delle armi in Belgio
Il 21 agosto Ayoub el Khazani è uscito dalla toilette di un treno ad alta velocità in viaggio
da Amsterdam a Parigi con un kalashnikov e una pistola 9 millimetri in mano. La strage è
stata evitata grazie all’intervento di alcuni passeggeri (tra cui dei militari statunitensi fuori
servizio) che lo hanno bloccato e tramortito con il calcio del suo kalashnikov. Il fatto che El
Khazani fosse salito sul treno a Bruxelles non ha stupito nessuno. Secondo molti esperti di
sicurezza, infatti, il Belgio è diventato la principale rampa di lancio in Europa per gli
attentati dei jihadisti e il paese che conta più armi contrabbandate dai Balcani. L’avvocato
di El Khazani ha cercato di spiegare quanto fosse facile procurarsi un Ak-47 nella capitale
belga, sostenendo che il suo cliente aveva trovato il kalashnikov in una valigia, in un parco
vicino alla stazione Bruxelles- Midi. L’avvocato ha poi precisato che El Khazani voleva
prendere in ostaggio i passeggeri, non ucciderli. Anche se gli esperti della sicurezza non
credono alla storia della valigia, non c’è dubbio che l’uomo ha preso le armi a Bruxelles.
Gli attentati del 13 novembre a Parigi in cui sono morte 130 persone hanno di nuovo
portato al centro dell’attenzione la capitale belga e il quartiere di Molenbeek, meta dei
jihadisti pronti a mettere in pratica le tecniche di combattimento imparate in Iraq e in Siria.
In rapporto al numero di abitanti, dal Belgio sono partiti per questi due paesi più cittadini
che da tutti gli altri paesi europei Dopo gli attentati del 13 novembre il presidente francese
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François Hollande ha pronunciato parole dure nei confronti del Belgio: “Questi atti di
guerra sono stati decisi e pianiicati in Siria, organizzati in Belgio e condotti sul nostro
territorio con complici francesi”. Altri paesi europei ospitano moschee radicali, cellule
terroristiche attive e giovani emarginati che possono essere facilmente reclutati da gruppi
jihadisti, ma il Belgio, spiegano gli analisti, ha una lunga storia di leggi permissive sulle
armi e di industrie che producono armi. Nils Duquet, esperto di armi del Flemish peace
institute, sottolinea che ino al 2006 in Belgio per acquistare armi bastava mostrare un
documento d’identità. Il governo ha introdotto nuovi limiti all’acquisto di armi solo dopo che
Hans Van Themsche, uno skinhead di 18 anni, ha ucciso due persone ad Anversa spinto
dall’odio razziale. Il problema è che in quel momento in Belgio circolava già un’enorme
quantità di armi. I jihadisti hanno approittato di questa miscela esplosiva. François Molins,
procuratore di Parigi, ha afermato che le auto usate a Parigi dagli attentatori erano state
noleggiate in Belgio. In almeno una delle auto erano nascosti fucili mitragliatori, che
facevano parte di quello che Molins ha deinito “un vero e proprio arsenale”. Le autorità
belghe non hanno commentato l’ipotesi che queste armi siano state acquistate in Belgio,
ma se così fosse sarebbe la conferma di un fatto ricorrente. Oltre all’attentato fallito di El
Khazani, la maggior parte dei più gravi attacchi terroristici compiuti in Europa negli ultimi
tempi hanno legami con il mercato delle armi belga. A gennaio Metin Karasular, residente
a Charleroi, in Belgio, indagato per traffico di armi, si è consegnato alla polizia dopo aver
visto le foto di due degli uomini coinvolti negli attentati in cui erano state uccise 17
persone, undici delle quali lavo ravano per il settimanale satirico Charlie Hebdo. Karasular
ha negato di aver venduto armi ad Amedy Coulibaly, il terrorista che il 9 gennaio aveva
fatto irruzione in un supermercato kosher di Parigi, due giorni dopo l’assalto alla redazione
di Charlie Hebdo, sostenendo di aver solo aiutato qualcuno ad acquistare un’auto di
proprietà della ragazza di Coulibaly. L’avvocato di Karasular ha dichiarato che il suo
cliente si era presentato volontariamente agli agenti per evitare qualsiasi equivoco dopo
aver visto in tv le foto di Coulibaly e della sua ragazza, Hayat Boumeddiene, che sarebbe
fuggita in Siria. Alcuni funzionari delle forze di sicurezza hanno rivelato che El Khazani
faceva parte della stessa cellula di Mehdi Nemmouche, un francoalgerino che il 24 maggio
del 2014 ha ucciso quattro persone a colpi di kalashnikov in un attacco al museo ebraico
di Bruxelles. Gli stessi funzionari hanno affermato che nel gennaio del 2015 questa cellula
è stata coinvolta in uno scontro a fuoco nella città belga di Verviers, costato la vita a due
jihadisti. Secondo le autorità belghe i due, che si pensa fossero legati ad Abdelhamid
Abaaoud, sospettato di essere la mente degli attacchi di Parigi del 13 novembre, avevano
molti kalashnikov, oltre a pistole e all’attrezzatura per fabbricare delle bombe. Abaaoud è
stato ucciso durante il blitz della polizia a Saint-Denis. Claude Moniquet, ex agente dei
servizi segreti francesi e cofondatore dell’European strategic intelligence and security
center, è convinto che il mercato delle armi belga, un tempo riservato ai criminali comuni,
si sia esteso anche ai jihadisti. Secondo lui il mercato nero delle armi ha registrato un forte
aumento dei prezzi perché è diventato più rischioso. Pochi anni fa un Ak-47 con 400
proiettili inclusi costava 400 euro. Oggi, spiega Moniquet, il prezzo arriva a duemila euro.
“Vendere armi ai criminali è un conto, fare afari con i terroristi è un altro. Se vendi armi a
un criminale comune vieni condannato a non più di tre anni di carcere, ma se vendi a un
terrorista rischi vent’anni”. Il lusso di armi di contrabbando in Belgio è cominciato all’inizio
degli anni novanta, durante le guerre balcaniche e il crollo dell’Unione Sovietica. Secondo
Moniquet in quegli anni le armi circolavano liberamente tra quello che era rimasto della
Jugoslavia, e gli ex funzionari comunisti svendevano il loro ricco arsenale. L’ex agente
sostiene che il 90 per cento delle armi che circolano in Belgio proviene dai Balcani. “Ci
sono montagne di kalashnikov che vengono da Bosnia, Serbia e Croazia. Quando accogli
le persone prendi anche il loro bagaglio. Il contrabbando è una tradizione per questa
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gente”. La polizia olandese riferisce che i narcotraicanti locali usano i kalashnikov al posto
delle tradizionali pistole perché in Belgio sono facilmente reperibili. Oltre alle armi delle
guerre balcaniche, gli esperti della sicurezza dicono che continuano ad arrivare piccole
quantità di armi provenienti dall’Europa sudorientale. Poco prima degli attacchi di Parigi, le
autorità tedesche hanno riferito di aver fermato un’auto proveniente dal Montenegro con a
bordo otto Ak-47. Secondo Ivan Zverzhanovski, capo del Centro dell’Europa sudorientale
e orientale per il controllo delle armi leggere e di piccolo calibro (Seesac), molte persone
nella regione amano tenere armi da fuoco in casa. Per alcuni montenegrini “una casa non
è una casa senza una pistola”. Secondo le stime in Serbia le armi da fuoco non registrate
sono più di 200mila (per alcune fonti uiciali potrebbero essere 900mila). Trasportare e
vendere a nord queste armi può essere molto redditizio. “Dal 2010 abbiamo registrato una
tendenza sempre più forte al micro contrabbando”, spiega Zverzhanovski. “Nei Balcani i
piccoli criminali possono comprare un Ak-47 a 300 euro, nasconderlo in auto e portarlo in
Belgio o in Svezia e rivenderlo a quattromila euro”. Una volta che le armi sono arrivate in
Belgio i terroristi possono eludere facilmente i controlli spostandosi nelle varie giurisdizioni
gestite da diversi servizi di sicurezza, spiega Duquet, del Flemish peace institute. “Non è
un problema che colpisce solo il Belgio. A Parigi, Marsiglia, Berlino e in qualsiasi città con
un alto tasso di criminalità c’è un commercio iorente di armi, ma il Belgio è un paese di
transito ed è diicile per la polizia intervenire”. Le autorità belghe non riescono a controllare
a fondo quartieri poveri come Molenbeek, popolato da una grande comunità di persone
d’origine nordafricana. Le cellule militanti usano case sicure, dove le armi vengono
conservate in attesa del ritorno dei combattenti dall’estero. Le consegne sono diicili da
intercettare. Il ruolo del Belgio come centro del contrabbando ha guadagnato le prime
pagine dei giornali a luglio, quando la polizia ha smantellato un’organizzazione per la
vendita di pistole a Charleroi e ha coniscato decine di piccole armi da fuoco. I
contrabbandieri avevano falsiicato sui documenti d’importazione la irma del presidente
della regione Vallonia, una delle tre regioni del Belgio.
Temporaneamente disabilitate
Nelle settimane successive all’operazione di Charleroi il ministro della giustizia Koen
Geens ha annunciato che il Belgio avrebbe aumentato gli sforzi per fermare il
contrabbando e ha imposto la riattivazione del “comitato per il coordinamento
interdipartimentale sui trasferimenti illegali di armi da fuoco”, un’istituzione che era stata
sostanzialmente dismessa dal 2003. Questo provvedimento ha migliorato lo scambio di
informazioni tra i dipartimenti dell’amministrazione belga. Il coordinamento tra le istituzioni
è diicile in Belgio, un paese diviso da conini linguistici e con governi regionali e federali.
Solo Bruxelles ha sei dipartimenti di polizia e questo complica lo scambio di informazioni.
Una delle preoccupazioni principali è legata alle armi disabilitate provenienti dalle enormi
discariche dell’era sovietica. Tecnicamente le armi disabilitate possono essere usate solo
come oggetto da collezione o di scena, ma i paesi del blocco orientale hanno criteri molto
variabili per deinire il concetto di “disabilitazione”. Molte armi possono essere facilmente
riattivate. In diversi paesi queste riserve sono state saccheggiate, a cominciare
dall’Albania, dove si pensa siano state rubate centomila armi disabilitate. Geens è
convinto che il Belgio possa combattere il traico di armi solo attraverso uno sforzo europeo
per la condivisione delle informazioni. I belgi da soli non potranno mai comandare il gioco.
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del 30/11/15, pag. 4
Mercenari di tutto il mondo, unitevi
di Salvatore Cannavò
C’è chi sostiene che gli eserciti più grandi al mondo non siano quelli degli Stati ma quelli
privati. A giudicare dai numeri del colosso del settore, la G4S, l’affermazione è fondata:
6,8 miliardi il fatturato annuo, 620 mila i dipendenti globali. Nella propria presentazione,
l’azienda inglese si descrive come il “principale gruppo di sicurezza integrata, specializzato
nella fornitura di prodotti per la sicurezza, servizi e soluzioni”. Sicurezza a tutto campo,
quindi: da quella interna al paese, fino a quella, molto redditizia, all’esterno, dove la difesa
viene “esternalizzata” in settori in cui la sicurezza e il rischio sono considerati una
minaccia strategica.
La liberalizzazione del mercato della guerra risale al tempo di Bush jr. e ha avuto il suo
punto di svolta con la guerra in Iraq, nel 2003. Non è un caso se proprio in quella
occasione vennero a galla i primi contractors italiani con la morte di Fabrizio Quattrocchi
(si veda l’intervista a Salvatore Stefio a pagina 6). La crescita della “minaccia esterna” da
un lato, la volontà di ridurre l’esposizione al rischio dei propri militari, peraltro ridotti
progressivamente, ha comportato lo sviluppo dell’outsourcing come si chiama
l’esternalizzazione dei servizi.
L’11 settembre negli Usa e, presumibilmente, il 13 novembre francese, hanno già prodotto
un incremento della privatizzazione della sicurezza. Laura Dickinson, dell’università
dell’Arizona, l’ha definita, nel suo Outsourcing War and Peace, “la privatizzazione della
politica estera americana”. Secondo quanto riporta Bruno Ballardini nel suo Il Marketing
dell’Apocalisse, nel 2013, in Afghanistan, il 62% delle forze impiegate erano già
contractors privati. Dal 2001 in poi la cifra impiegata per contratti con forze di sicurezza
private ruota attorno ai 200 miliardi di dollari l’anno. Le prime dieci società al mondo
cumulano tra i 30 e i 40 miliardi di fatturato annui. Dentro ci sono le attività di sicurezza
interne – guardie private – quelle relative alle attività di imprese in paesi rischiosi –
piantagioni agricole in Sudamerica, oleodotti in Medioriente – le scorte e le attività militari o
di intelligence. Tutte voci che fruiscono del clima internazionale. “Studi indipendenti” si
legge nel bilancio 2014 della G4S, “indicano che la domanda globale di sicurezza è
prevista in una crescita del 7% annuo dal 2013 al 2023 quando raggiungerà la cifra di 210
miliardi”. Risorse che hanno permesso di costituire, come scrive Ballardini, “eserciti
addestratissimi, virtualmente di stanza in tutto il mondo a disposizione di governo riluttanti
a impegnare le proprie truppe”.
Ancora la G4S,, impiega il grosso dei suoi 620 mila dipendenti in Asia (264 mila) mentre
125 mila sono stanziati in Africa. Poi ci sono i 57 mila che lavorano negli Usa e i 64 mila
nella Ue, mentre solo 37 mila sono collocati nel Regno unito. Il 25% del fatturato è
generato dai servizi ai “governi” mentre solo il 5% viene direttamente dai “consumatori”. La
quota principale, il 29%, proviene dai servizi alle grandi multinazionali e alle compagnie
private, mercato anch’esso in rapida evoluzione soprattutto quando si tratta di sedi
collocate in paesi a rischio.
Recentemente la multinazionale inglese ha vinto un contratto da 100 milioni di sterline
(140 milioni di euro) per proteggere i militari del British Foreign e Commonwealth Office in
Afghanistan e assicurare un giacimento di gas in Iraq. Il contratto è il secondo di grande
rilievo nel corso del 2015 dopo la gestione della sicurezza per il centro di detenzione per
minori di Kent, in Gran Bretagna, dall’importo di 50 milioni di sterline.
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La gestione delle carceri e il suo intreccio con le politiche dei vari governi è così
complessa da aver prodotto una vicenda emblematica. Il Labour Party di Jeremy Corbin,
ad esempio, ha appena deciso che non utilizzerà più i servizi di sicurezza della G4S per le
sue conferenze. La decisione, presa a maggioranza, giunge dopo le proteste della
Palestine Solidarity Campaign sull’impiego di personale G4S nelle prigioni israeliane. Un
boicottaggio analogo si è verificato lo scorso aprile in Sud Africa dove 20 compagnie
private avevano messo fine ai servizi della G4S proprio per i suoi rapporti con la gestione
delle prigioni di Tel Aviv. Al di là del merito, la vicenda ha messo in evidenza l’intreccio di
legami e di interessi delle compagnie private di sicurezza. Tali da poter essere considerate
alla stregua di una entità politica.
Quanto avvenuto alla più nota compagnia di mercenari, la Blackwater, è altrettanto
indicativo. Fondata da Erik Prince nel 1997 diventa la società privata di riferimento della
guerra in Iraq. L’uccisione di suoi 4 contractors a Falluja, nel 2004, è il pretesto per
scatenare una violenta offensiva statunitense. Fino al 2007, quando è la Blackwater a
uccidere 17 iracheni, di cui molti civili, e a scatenare una dura polemica che sfocerà anche
in un dibattito al Congresso. I contratti vengono rivisti così come le regole di ingaggio da
parte del governo Usa. La Blackwater cambia nome, si fonde e si scompone fino ad
assumere la denominazione di Academi.
Erik Prince ha venduto le sue quote ma secondo il New York Times è suo il piano con il
quale gli Emirati Arabi Uniti hanno ingaggiato militari mercenari per andare a combattere in
Yemen. Secondo il quotidiano statunitense “gli Emirati arabi inviano segretamente
mercenari colombiani per combattere in Yemen”. Sarebbe, sempre secondo il NyT, il
primo dispiegamento di forze straniere da parte degli Emirati e l’utilizzo di soldati
latinoamericani aiuta a comprendere l’ampiezza internazionale del mercato dei mercenari.
Secondo il giornale newyorchese, inoltre, ci sarebbero “centinaia di altri mercenari –
sudanesi, eritrei – che stanno andando in Yemen”.
La vicenda Academi si interseca al comparto, misterioso per definizione, dei servizi segreti
privati. Il progetto di Bush jr di istituire un’unità segreta con il compito di uccidere i membri
di al-Qaeda fu affidato proprio alla Blackwater che otteneva l’appalto di una missione di
killeraggio di Stato.
A parlarne ufficialmente fu, nel 2009, l’ex direttore della Cia Leon Panetta nel corso
dell’amministrazione Obama. La vicenda sembrò mettere la parola fine all’ipotesi di servizi
segreti privati che, invece, da allora, si sono moltiplicati. La lista delle altre sigle che
“affollano questo nuovo ricchissimo mercato” la produce ancora Ballardino: “In testa ci
sono le agenzie statunitense come Gk Sierra, Kroll Inc, Smith Brandon International Inc.,
Stratfor, Booz Allen Hamilton, Pinkerton National Detective Agency, poi le inglesi Aegis,
Control Risks Group, Hakluyt&Company, e infine la francese Geos e la spagnola Aics”. Il
mercato, anche in questo caso, è globale.
del 30/11/15, pag. 5
Ottomila euro al mese ma in Italia è vietato
di Gianluca Roselli
Sono circa duecento i mercenari italiani che ogni anno operano in zone di guerra o ad alto
rischio. Ma nessuno li chiama più così. Oggi si definiscono contractors. Più che ai soldati,
quelli che partono dal nostro Paese si possono equiparare ai bodyguards o ai vigilantes
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privati. Il codice penale, infatti, vieta l’arruolamento di personale italiano al servizio di uno
Stato straniero.
In Italia operano diverse agenzie che organizzano servizi di protezione e “gestione del
rischio” per aziende, compagnie e Ong. Oppure per difendere le navi dai pirati nei mari
africani. In qualche caso anche per la protezione di personalità o politici locali.
Funziona così: se un’azienda deve operare in un territorio difficile, come Africa del Nord,
Medio Oriente o America centrale (le aree considerate più pericolose al mondo), si rivolge
alle società di security che gli fanno una sorta di business plan dei rischi. Poi solo una
parte degli operatori va sul campo. Spesso si fanno joint venture con agenzie locali. “Per i
servizi di protezione noi mandiamo due persone al massimo, per un totale di una
quarantina l’anno. Per il resto utilizziamo personale locale”, racconta Carlo Biffani, Ceo di
Security Consulting Group, una delle maggiori agenzie italiane. “Su internet se ne trovano
a decine, ma a lavorare davvero in tutto il mondo in Italia siamo solo in tre o quattro”,
aggiunge.
Alla sua società arrivano 120 curricula al mese, per la maggior parte da ex poliziotti o ex
appartenenti a forze speciali. Segno che la morte di Fabrizio Quattrocchi, nell’aprile del
2004 in Iraq, non ha scoraggiato gli aspiranti mercenari. “Ne prendiamo pochissimi,
perché, anche se molti hanno una formazione militare, un buon contractor deve avere altre
doti come intuito, capacità di analisi e sangue freddo”, racconta Biffani.
Nella sede della sua società si fanno corsi di addestramento e formazione. E il prossimo
12 dicembre ci sarà un seminario aperto a tutti. Il settore, però, non è più in espansione
come una volta. Il boom si è registrato tra il 2002 e il 2008, poi è iniziato il calo. “Oggi con
l’aumentare di azioni terroristiche e rapimenti sono sempre meno le aziende che scelgono
di operare in Paesi a rischio. E lo stesso vale per le Ong. Così per noi c’è meno lavoro”,
rivela il Ceo di Scg, il cui fatturato è sceso del 30 per cento negli ultimi cinque anni. Anche
i guadagni dei mercenari si sono ridotti, pur restando molto alti: prima si andava da 8 a 10
mila euro al mese, oggi da 4 a 8 mila, secondo il tipo di missione.
Ma entro quali limiti può operare un contactor? “I parametri sono quelli della legittima
difesa: gli operatori sono autorizzati a fare fuoco solo in caso di estrema necessità e per
difesa”, spiega Biffani. Nel corso degli anni le regole si sono fatte sempre più rigide. Anche
sull’abbigliamento. Non ci si può vestire da Rambo e imbracciare il fucile come un
guerrigliero: le armi spesso devono restare nascoste e, in alcuni casi, bisogna nascondere
eventuali tatuaggi: ogni dettaglio in una situazione di rischio può fare da detonatore.
Ma ci sono anche italiani, almeno altre duecento persone, che si rivolgono a società
estere. In questo caso, però, tutto cambia perché, a parte le grandi agenzie inglesi,
francesi e americane, lì si entra in un territorio border line, dove non manca anche il
fanatismo destrorso.
In Usa, per esempio, i contractor possono essere utilizzati per affiancare le missioni
dell’esercito regolare. “In Italia è severamente vietato. Gli unici civili utilizzati dal nostro
esercito sono il personale logistico – tipo cuochi o addetti alle pulizie – che prendiamo in
loco. Con queste agenzie di security privata non abbiamo alcun contatto”, spiega un
funzionario dello Stato maggiore della Difesa. I due settori, almeno in Italia, restano
dunque distinti. Ma da altre parti il confine è più labile.
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del 30/11/15, pag. 1/11
QUELL’APPELLO AL CUORE DELLE
PERIFERIE
AGOSTINO GIOVAGNOLI
RICOMINCIARE dalle periferie. Non è rivolto solo alla Chiesa cattolica il messaggio che
scaturisce dal coraggioso viaggio di Francesco in Africa. Aprendo la Porta santa nella
cattedrale di Bangui, infatti, il papa ha trasformato questa poco nota città africana nella
«capitale spirituale del mondo» e dato inizio qui ad un Anno santo della misericordia che,
nelle sue intenzioni, riguarda tutta l’umanità. Ma esponendosi personalmente ai rischi del
conflitto in cui oggi si contrappongono cristiani e musulmani nella Repubblica
Centrafricana, ha anche voluto tenacemente testimoniare che le religioni non sono un
ostacolo bensì una risorsa per la pace. È un messaggio importante anche per un’Europa
spaventata dalla violenza delle sue periferie.
Con la battuta sulla sua paura delle zanzare più che dei terroristi, Francesco ha fatto
capire che non teme gli uomini, neppure i più pericolosi. Ma a chi gli ha chiesto se ci
potesse essere una giustificazione religiosa dei tragici eventi di Parigi ha risposto che
tanta violenza «non è umana». Contro un terrorismo che si alimenta anzitutto «di paura e
povertà », il dialogo interreligioso deve puntare sulla comune umanità che unisce tutti. La
sua tenace volontà di portare fino a Bangui questo messaggio — contro le
raccomandazioni di tanti — non è rimasta senza risposta. La presidente Samba Panza ha
confessato «tutto il male che è stato fatto nella Repubblica centrafricana nel corso della
storia» e chiesto «perdono a nome di tutti coloro che hanno contribuito alla discesa agli
inferi» di questo paese. E l’imam Oumar Kobime Layama ha condannato le violenze
perpetrate dai miliziani musulmani di Seleka, sconfessando il loro richiamo alla fede
islamica. Al Papa verrà inoltre consegnato un inatteso accordo tra le due principali fazioni
in lotta. Il Centrafrica spera intensamente che la visita di Francesco segni un nuovo inizio,
aprendo la via della pace e riportando cristiani e musulmani a ritessere legami di
«appartenenza e convivenza».
Dagli “inferi” di Bangui il messaggio di Francesco rimbalza nelle periferie europee, dove il
malessere di molti giovani — non solo immigrati — genera un radicalismo che si incontra
con l’ideologia fondamentalista e la violenza estrema del Daesh. I tragici eventi di Parigi
hanno fatto crescere in Europa tensioni, contrasti e pregiudizi tra non musulmani e
musulmani. Ma contro il terrorismo ci sono state anche dichiarazioni di imam e leader
islamici europei, manifestazioni pubbliche di musulmani, presenze di uomini e donne di
fede islamica nei talk-show. Sono voci di chi non è mai stato favorevole al terrorismo e non
aveva il dovere di dissociarsi, ma ha capito che non basta più astenersi dalla violenza e
rispettare le leggi. È una novità importante. Secondo molti, però, sono ancora pochi i
musulmani che scendono in piazza e permangono in loro incertezze e ambiguità. Per
questi critici manca il riconoscimento che la violenza scaturisce dalle radici stesse
dell’Islam. Insomma, il dialogo non sarebbe solo inutile, ma anche impossibile e persino
sbagliato. In questo clima, qualche settimana fa l’invito ufficiale in Italia di al-Tayyeb,
rettore di Al Azhar e più alta autorità islamica che abbia preso esplicitamente posizione
contro lo stato islamico, è stato bruscamente annullato. Ma pretendere immediata e totale
identità di vedute su tutto ciò di cui si discute significa rinunciare alla convergenza di tanti
in una comune opposizione alla violenza del Daesh.
L’esigenza del confronto culturale — e del dialogo interreligioso — appare sempre più
forte. Subito dopo gli eventi di Parigi è risuonato il grido “siamo in guerra”. C’è chi ha
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parlato di 11 settembre europeo, è riapparso lo scontro di civiltà, è stata rievocata Oriana
Fallaci. Ma poi sono sopravvenuti altri ricordi: la guerra in Afghanistan, quella in Iraq e
l’intervento in Libia. Ricordi, cioè, di successi militari che si sono poi rivelati fallimenti
politici, con un “dopo” almeno in parte peggiore del “prima”. Tony Blair ha riconosciuto
l’errore commesso. Il vuoto che si è creato dopo Saddam Hussein è stato infatti riempito
dallo “Stato islamico” e ha innestato un aspro scontro tra sunniti e sciiti.
«Occorre resistere alla tentazione di ripiegarsi su se stessi» e «di dare addosso al nemico
interno», ha ammonito Habermas, richiamando l’attentato di Utoya compiuto da un
fondamentalista cristiano, Breivik. Non è l’Islam a scatenare il radicalismo, è il radicalismo
dei giovani nelle periferie europee a cercare l’ideologia fondamentalista. In una partita che
si gioca in gran parte sul terreno della propaganda e attraverso strumenti mediatici, sul
web prima che nei campi di battaglia, coinvolgere i musulmani contro la violenza è
cruciale: sono loro che più di altri possono oggi raggiungere quanti si stanno trasformando
in foreign fighters.
del 30/11/15, pag. 6
Regionali francesi, la nuova coppia Le Pen si
prepara al trionfo
Marine e la nipote favorite alle elezioni di domenica
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI Messo ai margini un Le Pen, i francesi stanno per ritrovarsene due alla testa di
regioni importanti: la leader del partito Marine Le Pen al Nord (Nord-Pas-de-CalaisPicardie), la sua giovane nipote Marion Maréchal Le Pen al Sud (Provence-Alpes-Côte
d’Azur). Il sondaggio Ifop per il Journal du Dimanche di ieri conferma che c’è un solo
leader nazionale in crescita, ed è Marine Le Pen; e un solo personaggio emergente a
livello locale, ed è Marion, parte della stessa famiglia.
Il Front National vive l’ennesimo momento di grazia. Da mesi tutto — anche il 13
novembre — finisce per portare consensi al partito fondato da Jean-Marie Le Pen. E la
dolorosa estromissione del capostipite, tra drammi famigliari e liti in pubblico, sembra non
costare un voto. Anzi.
Domenica prossima i francesi sono chiamati a votare per il primo turno delle elezioni
regionali, un momento cruciale del ritorno alla vita politica, messa in sospensione per
qualche giorno dagli attentati e dall’effimero clima di unione nazionale che ne è seguito. La
popolarità di François Hollande — pessima da tre anni a questa parte — è migliorata, il
presidente ha guadagnato sette punti perché i francesi hanno apprezzato i toni empatici e
sobri allo stesso tempo, e la sua capacità di reagire in modo veloce e determinato, con la
proclamazione immediata dello stato di emergenza e l’intensificazione dei bombardamenti
contro lo Stato islamico.
L’uomo piace di più, ma la Francia che lui ha costruito, o meglio che si è contentato di
amministrare, no. Il partito socialista deve quindi attendersi l’ennesima batosta.
L’astensione è prevista al 54 per cento, un tasso enorme che colpirà soprattutto il Ps. La
Francia si conferma un partito sempre più a destra, con un presidente e un governo di
sinistra: i candidati estranei alla gauche raggiungono il 61%.
Il Front National raggiunge il 28% delle intenzioni di voto, guadagnando il 2% rispetto al
precedente sondaggio che risale a prima degli attentati. La coalizione dei Républicains (il
partito di Nicolas Sarkozy) con i centristi del Modem e dell’Udi arriva anch’essa al 28%,
51
perdendo il 3%. Lontano dal testa a testa, il partito socialista si ferma al 22%, mentre
l’insieme della sinistra radicale del Front de Gauche e degli ecologisti non supera il 12 per
cento. In totale, la sinistra perde il 6% rispetto all’era pre-attentati.
Venerdì scorso Marine e Marion Le Pen si sono presentate insieme in un grande comizio
a Nizza, con l’atteggiamento spavaldo ormai proprio del Front National. Dopo Nicolas
Sarkozy, persino il presidente socialista François Hollande e il premier Manuel Valls sono
accusati nel loro stesso campo di capitolazione di fronte alle idee del Front National,
dall’improvvisa passione per il tricolore allo stato di emergenza alla durezza con i migranti.
«Il Front National ha un programma realistico e serio, ormai fonte di ispirazione persino
per François Hollande», dice ridendo Marine Le Pen. La presidenza di Regione, e
l’ulteriore legittimazione come leader politica credibile, si avvicinano.
Stefano Montefiori
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INTERNI
del 30/11/15, pag. 1/14
Il fondatore terzo nel gradimento della base, battuto anche da Di
Battista: è la fine del partito personale. Intanto il M5S cresce ancora e
otto su dieci elettori, a differenza del 2013, si dicono interessati a
Palazzo Chigi. Due anni fa gli bastava solo protestare
La mutazione genetica del Movimento di
Grillo Di Maio ora è il leader “Con lui
governeremo”
ILVO DIAMANTI
IL M5s non si sfalderà da solo, come ritenevano (auspicavano?) molti osservatori e attori
politici. Non imploderà, frustrato da un inseguimento senza speranza. E da un’opposizione
senza alternativa. Il M5s va preso sul serio perché, dalle elezioni del 2013, è il secondo
partito, dietro al Pd. Senza soluzione di continuità. Secondo alcuni, anzi, perfino il primo.
Negli ultimi mesi, infatti, ha continuato a crescere, mentre il Pd è calato. E, dopo l’estate,
la distanza fra i due primi partiti, Pd e M5s, si è ridotta (secondo l’Atlante Politico di
Demos) intorno a 4-5 punti: 31,6% a 27,4% . Confermata, in caso di ballottaggio: 52 a 48.
Il M5s, in altri termini, potrebbe vincere le elezioni. Anzi, secondo il CI-SE di Roberto
D’Alimonte, che ne ha scritto ieri sul Sole 24 Ore, vincerebbe. Anche se di misura. I
sondaggi, ovviamente. Sono sondaggi. Non elezioni. Non servono a “prevedere”, ma,
certamente, aiutano a cogliere le tendenze e i rapporti di forza, in ambito elettorale. E a
comprenderne il significato, le ragioni. D’altronde, i primi a crederci, oggi, sono gli elettori
stessi del M5s. In caso di successo elettorale, 8 su 10, fra loro, si dicono decisi a
governare. Nel 2013 era avvenuto il contrario. Perché 7 su 10, allora, avevano spiegato la
loro scelta come un voto di protesta. Oggi non è più così. Per questo il M5s va preso sul
serio. E per questo conviene chiedersi cosa sia cambiato nel corso del tempo. Se si
confronta il profilo della base elettorale oggi rispetto al recente passato, emerge una
sostanziale continuità. Ma con due importanti differenze. La prima: si allarga la distanza
generazionale. Il M5s, infatti, ha aumentato il suo peso elettorale soprattutto fra i giovani e,
parallelamente, fra gli studenti. Al di sotto dei 30 anni, infatti, ha ormai raggiunto il 34%. E
fra gli studenti sale oltre il 36%. Mentre sul piano territoriale si è maggiormente
“meridionalizzato”. È, dunque, divenuto un vettore della “domanda di cambiamento”,
maturata – e alimentata – dalla spinta dei giovani e degli studenti. Al tempo stesso, ha
canalizzato le tensioni che agitano la società. L’insoddisfazione economica e l’insofferenza
politica che agitano, in particolare, il Mezzogiorno. In bilico fra protesta e richieste di
assistenza. Fra protesta e consenso. Il M5s, in altri termini, non è più, da tempo, un
Movimento fondato (principalmente) sulla Rete. Sulla “Cittadinanza online” (come recita un
recente saggio di Luigi Ceccarini pubblicato per i tipi del Mulino). Ma un Movimento- partito
ibrido (per riprendere un altro saggio di Bordignon e Ceccarini, per Journal of Modern
Italian Studies). Che miscela diversi tipi di organizzazione. Vecchi, nuovi e post- nuovi.
Ma la novità più importante e significativa è, probabilmente, costituita dalla leadership. Da
molti anni e per molti anni, fino a ieri, il M5s è apparso un partito personalizzato. Anzi,
quasi “personale”. Perché fondato da Grillo e su Grillo. Legalmente titolare del marchio.
Specchio e amplificatore di un MoVimento, peraltro, frammentato e disperso. Beppe Grillo:
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gli ha dato visibilità e, anzitutto, unità. Ne è stato il volto, la voce. E, insieme a Roberto
Casaleggio, lo stratega. Fino a ieri. Ma, oggi, molto è cambiato. Certo, fra gli elettori,
Beppe Grillo resta il più popolare, il più “amato”. E non potrebbe essere diversamente.
Perché è ancora lui l’attore – politico e non solo – protagonista. Ma altri leader crescono,
intorno a lui. Per quanto popolare, anzi: il più popolare, dentro e fuori il M5s, infatti, Beppe
Grillo, non è più il “leader preferito”. Le indicazioni (spontanee) degli elettori del M5s,
infatti, mostrano al proposito un cambiamento profondo, nel corso del tempo (sondaggi
Demos). Nel marzo 2013, all’indomani del voto, c’era, effettivamente, solo Grillo (77%).
Intorno a lui: nessuno. Ma, oggi, solo il 10% degli elettori pentastellati lo vorrebbe leader.
Mentre la scelta di gran lunga più condivisa si orienta su Luigi Di Maio. Perfino Alessandro
Di Battista ottiene un sostegno – leggermente – più ampio: 13%.
La base, dunque, continua a riconoscere Grillo, come bandiera e come uomo-immagine.
Ma, come guida, preferisce altri. Per primo Di Maio. Il M5s non è più un partito-personale.
Identificato dalla/nella figura di Grillo. Il quale, peraltro, ha fatto togliere il proprio nome dal
simbolo. A differenza degli altri partiti personali (non solo Forza Italia, ma, per esempio,
IdV e Scelta Civica, scomparsi, insieme a Di Pietro e Monti), il M5s sopravviverebbe
all’inventore. Non solo, ma sembra già disposto e intenzionato ad andare oltre. E ciò,
paradossalmente, lo rende più simile ai partiti “tradizionali”, che non sono sussidiari di un
leader. Ma agiscono, semmai, al suo servizio, dopo averlo scelto. E per questo hanno
possibilità di riprodursi e di durare a lungo. D’altronde, il M5s è, ormai, presente nelle
istituzioni e nei governi locali. Fra il 2014 e il 2015 si è dotato di una struttura di
“mediazione” con la società e i cittadini. Attraverso il cosiddetto Direttorio. Ed è presente –
e organizzato - nella società e sul territorio. Dove ha continuato a utilizzare la “disintermediazione “- ad ogni livello – come uno dei principi fondativi.
Per questo, anche per questo il M5s va preso sul serio. Perché non intercetta più solo – e
soprattutto – la “sfiducia” – democratica. Non esercita solo la “contro democrazia”
(tematizzata da Pierre Rosanvallon), la “democrazia della sorveglianza”. Il controllo
democratico. Ma è spinto dalla domanda – e dalla ricerca – di governo, espressa da gran
parte dei suoi elettori. Che puntano, per questo, su leader cresciuti “ nel” partito. Pardon:
nel Non-Partito. Oggi: il “Partito del M5s”. Rappresentato dai Di Maio, i Di Battista. E da
altri “Cittadini”, ancora poco noti.
Per questo oggi - anche se non da oggi - conviene prendere sul serio il M5s. E i suoi
attivisti, i suoi elettori, i suoi leader: non chiamateli più “grillini”.
Del 30/11/2015, pag. 10
Consulta, il premier vuole vincere tre giudici a
zero
Renzi punta a eleggere un pacchetto e blindare l’Italicum Ma questo
rende arduo il voto di domani in aula, specie su Pitruzzella
Ugo Magri
Se Renzi si accontentasse di un pari, o di vincere senza esagerare, domani il Parlamento
metterebbe la parola fine al tormentone della Consulta, e non rischieremmo la fumata nera
numero 29 sui tre giudici ancora da eleggere. Per evitarla, basterebbe che il premier
venisse a patti coi Cinque Stelle, i quali stavolta sembrano disposti ad aggiungere i loro
130 voti in cambio di qualche compromesso. Darebbero certamente l’ok nel caso in cui,
per esempio, al posto di Augusto Barbera il Pd proponesse il costituzionalista Massimo
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Luciani (che molto piace alla minoranza bersaniana e, per questo, un po’ meno al
premier). Idem i grillini ci starebbero se Forza Italia spingesse avanti il referendario
Giovanni Guzzetta anziché Francesco Paolo Sisto. Il quale nell’ottica pentastellata ha
l’handicap di aver difeso da avvocato, insieme con innocenti e fior di delinquenti, un
«babau» come Verdini. Per parte loro i grillini vorrebbero il professor Franco Modugno, su
cui domani potrebbe convergere Sel. Ma, a quanto risulta, Renzi non intende
minimamente venire a patti.
La vera posta
Il premier ha urgenza di mettere in sicurezza la Corte costituzionale, dove presto si
discuterà di «Italicum», e nessuno sa quale sarebbe la sorte di questa legge così
fondamentale nella strategia del premier se alla Corte venissero elette figure del tutto prive
di cordone ombelicale. L’esito sarebbe incerto perfino nel caso in cui Renzi si limitasse a
vincere per 2 a 1, due nuovi giudici disposti a votare la costituzionalità della riforma, e uno
solo contrario (Modugno). Ecco perché Renzi tenterà quella che dal suo punto di vista è
una mossa quasi obbligata: prosciugare l’area del dissenso parlamentare e portare a casa
i tre nomi già bocciati nella scorsa votazione. In base ai riscontri di Palazzo Chigi, tanto
Barbera quanto Sisto sono pro «Italicum» alla pari del candidato centrista Pitruzzella.
Dunque meritevoli di riprovarci anche a costo di fare fiasco daccapo.
Giorno sfortunato
Peccato che domani sia la data meno adatta per tentare l’affondo, in quanto tra 4 giorni a
Catania il Gip deciderà se rinviare o meno a giudizio Pitruzzella (è una vicenda su cui i pm
avevano già chiesto l’archiviazione). Con questa spada di Damocle, è improbabile che
l’attuale presidente dell’Antitrust possa farcela: già gli mancavano 79 voti per superare la
soglia dei due terzi, figurarsi adesso. Per poterci riprovare, Pitruzzella avrebbe bisogno
prima di essere scagionato, dunque di attendere il suo verdetto. Ma siccome la votazione
sulla Consulta è fissata per le 13 di domani, è possibile che i sostenitori di Pitruzzella si
astengano sugli altri due candidati per non farlo restare indietro da solo. Magari saranno
qualche decina al massimo, ma rischiano di essere letali anche per Barbera e per Sisto.
Mix micidiale
Il gap verrebbe forse colmato se la Lega scendesse in campo e sostenesse i tre. In
cambio il Carroccio chiede la nomina dell’ex senatore Leo alla Corte dei conti. Sono in
corso trattative «ad hoc». I renziani tentano di riportare all’ovile pure quella cinquantina di
parlamentari che hanno sostenuto Piepoli in parte per protesta (nessuno li aveva
consultati), in parte perché vorrebbero in cambio una poltrona di governo. Anche qui, le
trattative sono brutali. Ma Brunetta, capogruppo «azzurro», si stupisce «dello stupore che
manifestano le anime belle. In tempi di compromesso furono eletti alla Consulta anche
personaggi che non ne avevano titolo. Nei tempi grami attuali, tutto diventa più
complicato...».
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WELFARE E SOCIETA’
del 30/11/15, pag. 19
Milano capitale delle buste paga Al Sud
stipendi più bassi del 30%
Nella provincia lombarda 2.500 euro lordi al mese, nel Medio Campidano
appena 1600
RAFFAELE RICCIARDI
La graduatoria delle retribuzioni lorde nell’ultima ricerca JobPricing-Repubblica.it
La Milano rinfrancata nell’immagine dall’Expo è la provincia che paga meglio i dipendenti
del settore privato. La Madonnina svetta con una retribuzione annua lorda media di 34.508
euro (circa 2.575 al mese) e scava un solco dalla seconda in classifica, Bolzano che si
ferma a 32.897 euro. Gli assegni più poveri si trovano nel medio-campidano: si scende
sotto 22.500 euro (poco meno di 1700 euro al mese), per una sforbiciata di un terzo
dell’assegno meneghino. E’ il risultato dell’Osservatorio
JobPricing e Repubblica. it, da oggi consultabile integralmente sul sito, costruito attraverso
140mila rilevazioni su 350mila utenti. Un’analisi dei redditi dei dipendenti del settore
privato, registrati nel luogo della loro produzione. E’ di fatto un’indicazione per chi, in cerca
di lavoro, vuole capire dove indirizzarsi per spuntare condizioni migliori. L’Istat, invece,
quando parla di redditi delle famiglie considera più fonti di guadagno (da lavoro
dipendente, da pensione, da attività in proprio, da rendite), per poi suddividerli per i
componenti della famiglia. Roma si trova all’undicesimo posto, con assegni da 30.126
euro. La capitale risolleva le sorti dell’intero Lazio, con un valore molto alto rispetto alle
altre province. Per trovarle, bisogna scendere nella seconda metà della classifica: Latina
al 52esimo posto, con 27.258 euro, poi Viterbo al 63esimo, Frosinone al 73esimo e Rieti al
79esimo. Nel complesso delle Regioni non stupisce il trio di testa: per 100 euro
guadagnati in media (dove il reddito annuo lordo in Italia è di 28.653 euro), in Lombardia si
sale a 108,8, in Trentino Alto Adige a 107,5 e in Emilia Romagna a 104,3. In Calabria,
fanalino di coda, non si arriva a 82 euro. D’altra parte, a testimoniare la frattura Nord-Sud
ci pensano anche i dati forniti recentemente dall’Istat nell’approfondimento sui Conti
economici territoriali del 2014. Numeri che corroborano il nesso tra remunerazione dei
lavoratori e produttività tanto che il Nord-ovest è l’area con il Prodotto interno lordo (che
considera la ricchezza di tutti i soggetti economici) per abitante più elevato: con 32.500
euro, già l’anno scorso ha segnato una leggera risalita rispetto al 2013, anticipando la
timida ripresa che si sarebbe manifestata a livello nazionale solo quest’anno.
Il divario con il Mezzogiorno è impressionante: il Sud si ferma a 17.600 euro, poco più
della metà della parte settentrionale del Paese. Se si parla di valore aggiunto per abitante,
cioè la cifra che sintetizza la crescita del sistema economico in termini di nuovi beni e
servizi messi a disposizione della comunità, Milano svetta ancora con 45mila euro, seguita
da Bolzano e Bologna. Al fondo di quest’altra classifica gli ormai soliti noti: Medio
Campidano, Barletta-Andria- Trani, Carbonia-Iglesias, Vibo Valentia e Agrigento, con circa
13mila euro per abitante, contro i 23.900 a livello nazionale. Non è un caso che proprio le
regioni meridionali, lo scorso anno, abbiano patito anche il maggior calo di occupazione e
consumi.
Per Mario Vavassori, professore aggiunto al Mip – Politecnico di Milano – e responsabile
dell’Osservatorio JobPricing, «L’Italia dei campanili emerge anche da questi dati». Va
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ricordato che «c’è una correlazione anche tra il reddito e il costo della vita: il caro-vita del
Nord Italia, maggiore di quello del Centro- Sud, rispecchia in parte questa differenza delle
retribuzioni, soprattutto per i dipendenti del settore privato». Ma si aprono anche altre
questioni, si pensi all’uscita del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, di pensionare il
concetto di “ora-lavoro”, stroncata da molti.
Il giudizio di Vavassori riapre la riflessione: «Si fa sempre più strada una concezione del
lavoro ‘individuale’. Resta da verificare se i sistemi di tutela rappresentati dai contratti
nazionali siano ancora lo strumento migliore per comprendere e valorizzare questa
realtà».
del 30/11/15, pag. 5
Reddito minimo, le Regioni giocano
d’anticipo
Nove leggi già approvate con differenti beneficiari, soglie e durata - Ancora poche le
risorse stanziate
A livello nazionale se ne parla da anni, ma intanto sette Regioni e le due Province
autonome hanno già introdotto il reddito minimo, anche se con regole diversificate e
risorse ancora limitate.
Chiamato, a seconda dei casi, «reddito minimo di inserimento» o «reddito di garanzia» o
«di dignità», è un contributo mensile che presenta soglie d’accesso molto variabili (Isee da
3mila a 18mila euro), così come gli importi mensili (da 300 a 950 euro) e la platea dei
possibili beneficiari (lavoratori usciti dalla cassa integrazione in deroga, famiglie numerose,
nuclei con persone non autosufficienti).
Il tratto comune è che questo assegno, destinato alle famiglie in disagio economico, è
generalmente abbinato a un percorso di inclusione sociale e lavorativa dei beneficiari.
Condizioni e beneficiari
Anche lo stato di attuazione è differenziato: mentre a Bolzano e a Trento il reddito minimo
esiste già da anni, la Basilicata l’ha previsto nel 2014 e ha individuato in questi ultimi mesi
la platea degli 8mila beneficiari. Il Friuli- Venezia Giulia sta procedendo con i bandi e la
Giunta della Puglia ha iniziato il percorso ai primi di novembre con l’approvazione di un
Ddl.
La Lombardia ha abbinato il «reddito di autonomia» a cinque interventi diversi: il contributo
per il reinserimento lavorativo di disoccupati da oltre 36 mesi con Isee fino a 18mila euro,
già titolari della dote unica lavoro (Dul); l’abolizione del superticket sanitario per le famiglie
con reddito fino a 18mila euro; il bonus bebè per i secondogeniti e terzogeniti a famiglie
con Isee fino a 30mila euro; il bonus affitti una tantum da 800 euro per i residenti nei
Comuni ad alta tensione abitativa; l’assegno di autonomia (400 euro al mese) per un anno
a favore di persone anziane o disabili con Isee fino a 10mila euro. Un insieme di misure
che sono state avviate da ottobre per le quali «la Regione ha stanziato 50 milioni nel 2015
e 200 milioni nel 2016», come spiega l’assessore al Reddito di autonomia e inclusione
sociale, Giulio Gallera.
Quasi sempre, la concessione del reddito minimo è subordinata all’impegno per il
reinserimento lavorativo del beneficiario e a un collegamento con i servizi di politiche attive
del lavoro. Questo ne fa una misura diversa dal “reddito di ultima istanza”, che si inserisce
invece nelle politiche di lotta alla povertà e prescinde dalla possibilità di reinserire al lavoro
il beneficiario, ad esempio perché anziano o impossibilitato a svolgere un’occupazione.
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Le risorse
In quasi tutte le Regioni il finanziamento del reddito minimo avviene grazie alle risorse del
Fondo sociale europeo (la Basilicata aggiungerà 40 milioni incassati dalle royalties per
l’estrazione del petrolio, che prima erano destinati a un bonus carburante da 100 euro
l’anno per 300mila automobilisti).
Le Regioni che per ora hanno attivato il reddito minimo destinano complessivamente a
questa misura 138 milioni di euro in un anno: una cifra esigua rispetto ai 7,1 miliardi che,
secondo l’Alleanza contro la povertà in Italia, sarebbero necessari per finanziare il reddito
di inclusione sociale (Reis) a favore dei circa 4 milioni di individui che vivono in povertà
assoluta, indipendentemente dal profilo anagrafico. Ma questo presupporrebbe un
intervento statale su larga scala. Che dovrebbe arrivare con il Piano nazionale per la lotta
alla povertà finanziato dal Ddl di Stabilità 2016.
Valentina Melis
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
del 30/11/15, pag. 27
Natale, la Cgil difende il preside E lui: «Non
ho vietato la festa»
Un presidio per il dirigente. Oggi Salvini alla scuola di Rozzano con un
presepe
Olivia Manola
Rozzano (milano) «Mentre sui media si discute di Adeste Fideles e Tu scendi dalle stelle ,
la scuola cade a pezzi. Il tetto è crollato e i bagni sono inagibili. Non abbiamo bisogno di
canti religiosi ma di risorse economiche». Davide Susani — uno dei papà che ieri mattina
hanno manifestato per solidarizzare con il preside Marco Parma davanti all’Istituto
Garofani nel quartiere popolare Aler di Rozzano, periferia sud di Milano — sintetizza così il
pensiero di molti genitori sul caso della festa di Natale cancellata e trasformata in «festa
dell’Inverno» in nome della laicità.
Un presidio a cui hanno partecipato una cinquantina di persone, comprese alcune
insegnanti che hanno sfilato reggendo uno striscione con la scritta «Io sto con Parma». E
mentre il premier Matteo Renzi ha attaccato il preside definendo un errore il tentativo di
«affogare le identità in un politicamente corretto indistinto e scipito» e ribadendo che «il
Natale è molto più importante di un preside in cerca di provocazioni», ieri il dirigente ha
incassato il sostegno del sindacato. Caterina Spina, segretaria generale della Flc Cgil di
Milano, si è schierata contro una «strumentalizzazione che punta a scambiare l’attenzione
per le sensibilità e le culture in ostilità per le feste, il lavoro quotidiano per costruire un
comune sentimento di appartenenza in pregiudizio e intolleranza».
Parma, già candidato sindaco a Rozzano per un Movimento 5 Stelle ancora in fieri , dopo
l’abbuffata mediatica di venerdì, si è eclissato. Unica breccia nel muro di silenzio, la
circolare intitolata forse non senza ironia «Natale e dintorni» e pubblicata sabato sera sul
sito del Garofani. «Non ho rimandato né cancellato nessun concerto natalizio né altre
iniziative programmate dal collegio docenti e dal Consiglio d’istituto; mi sono adoperato
per sostenerle» scrive il preside Parma che conclude dicendosi pronto alle dimissioni. Il
dirigente aveva scritto sabato al provveditore Delia Campanelli dando la sua disponibilità a
farsi da parte. La risposta pubblica del provveditore si è concentrata sul «dialogo
interculturale» e sull’«integrazione», percorsi che devono iniziare nelle scuole, «dalla
padronanza della lingua alla formazione del personale scolastico».
Ma come si è arrivati a questo punto? Riavvolgendo il nastro del «caso Rozzano», il punto
di rottura arriva a metà novembre, quando due mamme si sono proposte per insegnare i
canti religiosi natalizi ai bambini durante la mensa. Il secco «no» del dirigente ha
scatenato le reazioni dei genitori che già negli anni precedenti si erano lamentati per
l’assenza del repertorio sacro nei concerti scolastici. Lo conferma lo stesso Parma: «È
l’unico diniego che ho opposto. E continuo a considerare la cosa inopportuna». Per lui,
una festa con canti religiosi avrebbe potuto costituire una «provocazione pericolosa» dopo
gli attentati terroristici di Parigi e urtare la sensibilità delle famiglie che professano altre
fedi.
Dichiarazioni che hanno scatenato una bufera mediatica e politica. Dal premier Renzi,
appunto, a Stefano Buffagni del M5S Lombardia che ha preso le distanze dall’ex collega, a
Matteo Salvini che oggi arriverà a Rozzano per donare un presepe ai bambini del Garofani
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con la coordinatrice lombarda di Forza Italia, Mariastella Gelmini, e altri esponenti di FI e
di Fratelli d’Italia.
del 30/11/15, pag. 22
Dal presepe vietato a quello imposto per decreto Il dibattito sui simboli
cristiani nella nuova società interculturale chiama in causa i valori
dell’identità e dell’integrazione E spesso la politica interviene a gamba
tesa
Il Natale multietnico
LAURA MONTANARI
CHI si limita all’albero, chi fa anche il presepe «ma senza insistere sull’aspetto religioso»,
chi se la cava con gli addobbi della neve alle finestre, chi ritiene che anche l’albero però
«uhmmm, non sia poi così laico». Chi prova a spegnerne le luci con una circolare, chi
soppianta il 25 dicembre con la festa dell’inverno e chi fa tutto secondo tradizione, ”Tu
scendi dalle stelle” compreso. Il Natale al tempo della scuola multietnica è materia da
maneggiare con cura. Ne sa qualcosa Marco Parma, il preside della scuola Garofani di
Rozzano, nell’hinterland milanese, finito nella bufera proprio per aver cancellato le feste di
Natale e oggi convocato dall’ufficio scolastico della Lombardia che chiede spiegazioni.
Resta il fatto che non c’è una linea, né una geografia precisa o un manuale cui attenersi:
da una classe all’altra, la festa può essere declinata con differenze anche abissali. E la
matematica non c’entra: poco importa se in una classe i bambini stranieri sono uno o 15, il
metro della didattica si chiama sensibilità, attenzione per tutti, perché nessuno si senta
un’isola. «Noi in certe sezioni arriviamo al 60% di bambini non italiani» spiega Osvaldo Di
Cuffa, preside di un istituto comprensivo che si trova in una terra di frontiera, di quelle che
trasformano le scuole in laboratori avanzati. Periferia di Firenze, San Donnino, area ad
alta densità di fabbriche cinesi, pelletteria e accessori moda: 1600 iscritti, 500 dei quali
stranieri, in larga maggioranza cinesi «ma contiamo 26 etnie». «La nostra scuola è
intitolata a La Pira, un uomo che ha fatto della pace e del dialogo una missione di vita. Da
noi si fanno presepe e albero, ma del Natale sottolineiamo i valori universali di fratellanza
e accoglienza».
La “questione Natale” spesso approda sulle colonne dei giornali per le proteste dei
genitori, che segnalano la sparizione del presepe: è successo di recente in una scuola
materna in provincia di Padova, in un asilo nido di Pietrasanta, nel lucchese, e appunto
alla Garofani. Qui il preside ha dato appuntamento ai bambini delle elementari
direttamente il 21 gennaio per un Concerto d’Inverno in cui “Tu scendi dalle stelle” sarà
soppiantata da canzoni di Sergio Endrigo e filastrocche di Rodari. A Pietrasanta, a
scendere in campo è stato il sindaco forzista Massimo Mallegni, che ha ripristinato albero
e presepe in tutte le scuole con una lettera alla cooperativa che gestisce il servizio. La
motivazione? Non per «una crociata nei confronti di una religione», ma «per tutelare i
valori di una comunità: la nostra ». Storie simili si ripetono con quasi monontona regolarità,
dalla Toscana al vicentino dove un anno fa fece discutere la decisione di una scuola
media di inserire nel concerto di Natale canti di tradizione araba e africana. Forse con
meno clamore di oggi perché, con le ferite di Parigi ancora fresche e le immagini dei
militanti dell’Isis che invadono i social network, l’affermazione identitaria torna in primo
piano anche nell’agenda politica. Non per niente sull’ultimo caso hanno detto la loro da
Renzi a Salvini, passando per ministri e presidenti di Regione. «La domanda che ci
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dobbiamo porre — sostiene Giovanni Biondi, al vertice dell’Indire, l’Istituto di ricerca e
innovazione della didattica del Miur — è: celebrare il Natale offende qualcuno? Il
carnevale cinese offende qualcuno? Perché il dilemma “Natale sì, Natale no?” a scuola ce
lo poniamo solo adesso, quando da decenni nelle aule ci sono bambini ebrei e cinesi?».
Izzedin Elzir, presidente dell’Ucoii, l’Unione delle comuità islamiche d’Italia, risponde
indirettamente: «Non dobbiamo nascondere le diversità, ma conoscerle per avere un
terreno forte su cui costruire il ponte del dialogo. Non credo che un presepe a scuola
possa diventare un problema per un bambino musulmano. Il bambino musulmano sa di
vivere in un Paese in cui esce per stra- da e trova molte chiese». Renzo Gattegna,
presidente dell’Ucei, l’Unione delle comunità ebraiche italiane, argomenta che la questione
è una sola: «la comprensione delle diversità. La scuola dovrebbe dare spazio e voce alle
varie religioni, anche a quelle delle minoranze». Cosa che non sempre accade, «a
cominciare dall’ora di religione che non è paritaria per le varie fedi. Si può fare il presepe,
ma bisogna contestualizzarlo — aggiunge Gattegna — spiegare cosa rappresenta, come
è nato e cosa c’era intorno quando è nato».
Ci sono scuole che non sentono il bisogno di rinunciare a parlare del Natale perché,
durante l’anno, ricordano pure le altre feste religiose. Come la Regina Beatrice, istituto
comprensivo di Roma, Trastevere: «Lavoro qui da 8 anni — racconta Lucilla Musatti,
insegnante della primaria — In genere facciamo l’albero e non il presepe nel senso
classico, parliamo di intercultura. Quest’anno, per Natale, organizziamo una mostra coi
lavori delle classi, e invitiamo i genitori chiedendo una piccola donazione per un’adozione
a distanza o per finanziare progetti di beneficenza. È un messaggio di pace». Un
appuntamento che vuole essere spunto per un dialogo, una mano che ne stringe un’altra
sconosciuta.
A Milano, un anno fa, il Comune ha varato il progetto “Incontriamo le religioni del mondo”,
spiega Ida Morello, preside del comprensivo Scialoja, dove la presenza degli alunni
stranieri di prima e seconda alfabetizzazione arriva nelle classi anche al 50%: «Del Natale
sottolineiamo la tradizione, senza insistere sulla connotazione religiosa». Alberto Solesin,
il padre di Valeria, la giovane uccisa al Bataclan di Parigi, è preside al San Girolamo di
Venezia: «Nella mia scuola per Natale non abbiamo mai fatto rappresentazioni di tipo
religioso. Certo, ci sono saggi e recite che ci avvicinano alle vacanze del 25 dicembre, ma
sempre nel rispetto dei bambini e delle loro famiglie che possono avere fedi differenti. La
scuola è laica e gli insegnanti hanno grande rispetto ». Proprio a questi ultimi è affidato il
compito cruciale di far crescere gli studenti nel rispetto delle diversità: «Sì — riprende
Biondi — ma senza censure, spiegando perché certi luoghi hanno certe radici. La storia
d’Europa non si cancella».
Secondo Milena Santerini, docente di Pedagogia alla Cattolica di Milano e deputata del
Centro democratico, da anni impegnata nella scuola per i diritti dei bambini e per
l’inclusione di quelli di origine straniera, «bisogna fare attenzione a non depurare i simboli
religiosi, trasformandoli in una sintesi laica. E allo stesso tempo respingere tutti i
fondamentalismi per sottolineare i valori universali che ci legano. Il presepe può essere
letto anche come l’accoglienza di un bambino profugo». A proposito di laicità della scuola,
Adriano Fabris, docente di Filosofia delle Religioni dice che in Italia si oscilla fra due
riferimenti: «quello francese, che elimina dallo spazio pubblico ogni simbolo religioso, e
quello nordamericano, convinto invece che lo Stato sia un luogo in cui le diverse culture e
tendenze religiose vengono messe a confronto. E si possono manifestare, purché in un
quadro di regole che garantisca che ciascuna di queste non sia offensiva per le altre. In
Italia si oscilla fra un modello e l’altro perché non c’è mai stato un serio dibattito pubblico
sulla questione». E da qui probabilmente bisognerà ripartire.
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del 30/11/15, pag. 23
Solo una scuola davvero libera può educare
alla convivenza
MARIAPIA VELADIANO
PROIBIRE d’autorità i presepi a scuola è insensato tanto quanto imporli e infatti non c’è
circolare, programma ministeriale o linea guida del Miur che lo faccia.
Questo vuol dire che le scuole, sulle scelte didattiche che toccano situazioni sensibili in cui
sono in gioco le identità, le appartenenze, il mobile confine fra discriminazione e
accoglienza, sono, grazie alla nostra splendida Costituzione, libere. Proprio libere. Libere
di proporre e trovare insieme a tutte le componenti della scuola, cioè i ragazzi, i genitori, i
docenti, il modo più adatto a costruire la convivenza nelle scuole. Di fare il presepe oppure
no.
Quel che capita oggi nelle scuole è un miracolo perché malgrado i tagli di organico, per cui
da anni sono state annientate le compresenze necessarie non solo all’integrazione degli
alunni immigrati, ma anche al recupero degli italianissimi nostri studenti che arrivano da
situazione di svantaggio culturale e sociale, malgrado questo la scuola riesce ad essere
quell’ormai unico laboratorio di convivenza che impedisce alla società presente e futura di
esplodere.
Chi si è riconosciuto amico sui banchi di scuola non si fa la guerra a vent’anni o trent’anni.
Bene, questo lavoro richiede sapienza, lettura della realtà concreta delle classi, dei
genitori, alleanza con il territorio (Comuni, sindaci e servizi). Questo lavoro la scuola lo fa
ogni giorno, un miracolo di intrecci e alleanze che non sono buonismo ma sapienza e
anche buon senso. È un volare altissimo con mezzi limitati e professionalità infinita.
Nel mentre che un preside o due finiscono a luccicare per un momento sui blog, loro
malgrado o forse anche no, a combattere o sostenere il presepio a volte con motivazioni
sorprendentemente extrascolastiche, l’acrobatico miracolo di tenuta della scuola va avanti,
nella discrezione necessaria al dialogo.
È insensato pensare che un preside vada assunto o licenziato in funzione del suo essere
obbediente agli interessi politici di un assessore regionale di turno, o di un sindaco che
minaccia controlli sulle attività natalizie delle scuole. Un delirio che confonde competenze,
nasconde opportunismi politici tanto malinconici quanto pericolosi perché insabbiano lo
spirito critico, la paziente fatica di comprendere i fenomeni.
I presidi buoni sono quelli nelle cui scuole l’integrazione funziona attraverso scelte
pedagogiche nate dalle condizioni oggettive della realtà scolastica. Un quarto di quanti
cercano rifugio in Europa sono bambini, il 9% dei nostri studenti ha cittadinanza non
italiana, ma in molte scuole sono il 50%, e più. Non ci sono due classi uguali, due studenti
uguali, due situazioni uguali.
È sbagliato non permettere il presepio a scuola quando il presepio è parte integrante di un
percorso scolastico riconosciuto da genitori e bambini, fatto proprio grazie ad
appuntamenti negli anni attesi, con il corredo di canzoni e di doni scambiati con le famiglie,
il concerto organizzato dopo aver scelto canti e poesie con la prudenza di chi conosce
ambiente, persone, storia dei luoghi. E la prudenza non è debolezza, è forza che sa tenere
insieme quel che siamo e si apre a quel che riconosciamo diverso ma parte della nostra
comune umanità.
Di sicuro però sono altrettanto sbagliate e indecenti le maleparole pelose con cui ci si
appropria della profondità di una tradizione cristiana per usarla come una clava
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demagogica con cui nutrire i propri interessi politici e tentare di stordire la nostra
intelligenza.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 30/11/15, pag. 1/3
OBAMA, XI E MODI: LE SORTI DEL PIANETA
NELLE MANI DEI GRANDI INQUINATORI
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI
OCCHIO a quei tre. Oggi il primo giorno del vertice sul clima si gioca tra Stati Uniti, Cina,
India. Due vertici bilaterali, tra Barack Obama e Xi Jinping, poi tra Obama e Narendra
Modi, racchiudono il nucleo della sfida. Sono il nuovo club dei Grandi Inquinatori del
pianeta. Quel che si diranno è essenziale. Il summit ha rinunciato in anticipo alla strategia
– perdente – di Kyoto e Copenaghen, quella che inseguiva impegni vincolanti
giuridicamente, tetti alle emissioni di CO2 imposti dalla comunità internazionale ai singoli
paesi. Quell’opzione si è dimostrata irraggiungibile. Proprio per questo diventa essenziale
la volontà politica, l’approccio strategico che le singole superpotenze decidono di adottare.
Obama-Xi-Modi: il futuro della specie umana, dell’abitabilità del pianeta per noi, è nelle
loro mani. La Cina è la prima generatrice di emissioni carboniche; superò gli Stati Uniti
nella grande recessione occidentale nel 2008. L’India rincorre la Cina, quest’anno la
supera in velocità di crescita del Pil, i consumi energetici ne sono il riflesso. L’India è già
numero tre se l’Unione europea non si considera come un’entità singola. Gli americani
restano però i massimi inquinatori su base individuale. L’americano medio produce il triplo
di gas carbonici di un cinese e il decuplo di un indiano. L’anacronismo è evidente.
L’insostenibilità politica anche. La sfida riguarda il pianeta, il genere umano, gli oceani e i
ghiacciai, l’atmosfera e le temperature; cose che non conoscono confini nazionali. Ma
continuiamo a misurare le emissioni di CO2 su base nazionale. Nascono da qui i paragoni
inaccettabili: 315 milioni di americani si confrontano con 2,5 miliardi tra cinesi e indiani.
In queste misurazioni l’Europa finisce ai margini. Il Vecchio continente produce “solo” il 9%
di tutte le emissioni di CO2. Può nascerne un senso di impotenza: per quanto facciano gli
europei, pesano poco. Ma anche qui le illusioni ottiche distorcono la percezione. Quel 9%
di emissioni carboniche è il frutto della “decrescita” europea, così come il sorpasso CinaUsa avvenne quando l’economia americana si fermò. Se l’Europa dovesse ritrovare lo
sviluppo – cosa che si augurano i suoi giovani disoccupati – anche le sue emissioni
torneranno a salire. L’altra illusione ottica viene dalla deindustrializzazione. L’Europa ha
smesso di ospitare molte produzioni manifatturiere ad alta intensità di consumo
energetico. Ma ogni volta che un consumatore europeo compra un prodotto “made in
China” (o in Corea, Bangladesh, Vietnam) contribuisce alle emissioni carboniche che
l’Occidente ricco ha delegato alle economie emergenti.
La triangolazione Obama-Xi-Modi riassume i problemi reali, offre uno spaccato del mondo
com’è davvero. Il premier indiano Modi può irritare con il suo nazionalismo rivendicativo,
che ne ha fatto il leader del Sud del pianeta. Può disturbare un atteggiamento che
trasforma la sfida ambientale in una partita contabile: dimmi quanto mi paghi, e ti dirò
quanto sono disposto a fare. È il nodo dei trasferimenti Nord-Sud, i 100 miliardi di dollari
promessi alle nazioni emergenti per finanziare la loro riconversione a uno sviluppo
sostenibile; fondi insufficienti; e comunque stanziati solo in piccola parte. Questa partita
Nord-Sud è circondata di sospetti reciproci. Quanta parte di quei fondi serviranno a
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esportare tecnologie “made in Usa”, “made in China” o “made in Germany”? Quanta parte
finirà assorbita dalla corruzione di classi dirigenti predatrici?
C’è però dietro il dibattito Nord-Sud una realtà innegabile. Basta ricordare un esercizio che
i lettori di Repubblica conoscono, perché più volte è stato fatto su queste colonne: le
fotografie del pianeta scattate dai satelliti di notte. L’intensità delle luci artificiali riflette la
distribuzione della ricchezza. Chi sta meglio illumina meglio. Vaste zone della terra sono
sprofondate in un’oscurità quasi totale: gran parte dell’Africa, ed anche una porzione
consistente del subcontinente indiano. Quelle immagini vanno affiancate al discorso
rivendicativo di Modi. È un diritto umano basilare, avere una lampadina accesa la sera in
casa per fare i compiti e ripassare la lezione. Il problema è quando la lampadina in casa
serve per una nazione con 1,2 miliardi di abitanti. L’energia meno costosa per loro è il
carbone. La peggiore di tutte.
La Cina è già un passo più in avanti. La lampadina ce l’hanno quasi tutti, anche il frigo, la
lavatrice e l’auto. Il prezzo da pagare è un’aria così irrespirabile, che ormai l’élite cinese
compra seconde case in California non solo come status symbol ma come una polizza
assicurativa sulla propria salute. Perciò Xi ha deciso che la riconversione dell’economia
cinese è una priorità, non una concessione all’Occidente. Lui può operare queste svolte
senza i vincoli del consenso che ha Obama. In nessun altro paese al mondo è attiva una
furiosa campagna negazionista sul cambiamento climatico, come quella condotta dal
partito repubblicano. I suoi finanziatori della lobby fossile non arretrano davanti a nulla. La
multinazionale petrolifera Exxon falsificò per decenni le conclusioni dei suoi stessi
scienziati, che coincidevano con quelle della comunità scientifica mondiale. Esiste un altro
capitalismo americano, guidato da Bill Gates, che mette in campo vaste risorse per
finanziare l’innovazione sostenibile. È un passaggio importante: uno dei problemi delle
energie rinnovabili è che le sovvenzioni pubbliche, pur sacrosante, stanno rallentando il
ritmo del progresso tecnologico necessario per renderle più competitive, e risolvere
problemi come l’immagazzinamento dell’energia pulita. L’Onu definisce l’appuntamento di
oggi a Parigi come «la nostra ultima speranza». Di certo è l’occasione per i leader
mondiali di dimostrare che la sfida ci riguarda tutti, e chi pensa di lasciare ad altri le scelte
difficili non fa un investimento lungimirante neppure nell’ottica del suo interesse nazionale.
del 30/11/15, pag. 2
Protesta davanti all’altare per le vittime di venerdì 13 Violato il divieto di
manifestare, duecento arresti
Clima, scontri a Parigi profanato il memoriale
Hollande: “Scandalosi”
ANAIS GINORI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI.
«E’ una profanazione, qualcosa di indecente». Bertrand Boulet si occupa da giorni di
tenere pulito e in ordine il memoriale sotto alla statua di Marianne, in place de la
République. L’altare laico dedicato alle vittime degli attacchi del 13 novembre è stato
preso di mira da un piccolo gruppo di individui a volto coperto che ha usato candele,
cornici con messaggi e altri oggetti del memoriale come proiettili contro le forze dell’ordine.
«Con quale diritto sono venuti a sputare sui nostri morti?» domanda Boulet a cui tocca
adesso raccogliere nei sacchi della spazzatura quel che resta della battaglia sulla piazza
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simbolo di Parigi. Il quartiere colpito dagli attentati due settimane fa ha vissuto così una
nuova giornata di tensione, una violenza per molti incomprensibile che si è conclusa con il
fermo di oltre duecento persone. È l’epilogo di una domenica che doveva essere di
«speranza e solidarietà» come aveva auspicato François Hollande per l’apertura della
Conferenza mondiale sul Clima Cop21. Restano invece negli occhi il fumo dei lacrimogeni
e una città che continua a essere sotto assedio.
C’è il sole ed è mattina quando Emma Ruby Sachs sta poggiando a terra, insieme ad altri
volontari dell’Ong Avaaz, sandali, pantofole, stivali. Una distesa di scarpe in place de la
République. Dopo che la marcia delle associazioni è stata annullata dalla Prefettura, a
causa della minaccia terrorista che pesa ancora sulla capitale, i militanti ambientalisti
hanno voluto testimoniare così la loro mobilitazione per Cop21. «È il nostro modo di
rispondere presente» spiega Sachs. Ci sono anche un paio di scarpe di Papa Francesco,
di Ban Ki Moon e dell’attrice Marion Cotillard. Poche centinaia di metri più avanti, sul
boulevard Voltaire, un gruppo musicale delle Isole del Pacifico si esibisce in una danza
tribale in onore delle vittime del Bataclan. Lentamente una lunga catena umana si forma
lungo il viale con lo slogan “Stato di emergenza climatico”. E’ una sfida pacifica al divieto
di manifestare delle autorità.
Verso l’ora di pranzo la Prefettura segnala cinquemila persone radunate intorno alla
piazza, diecimila secondo gli organizzatori. Ma sempre in un’atmosfera festosa, mentre
raduni per la Cop21 si svolgono in altri paesi, compresa l’Italia. Nella capitale francese i
militanti sono circondati da decine di camion della polizia nelle strade e celerini che
guardavano con malcelata disapprovazione l’adunata. Quando il corteo improvvisato tra
place de la République e il Bataclan comincia a disperdersi all’ora di pranzo, un piccolo
gruppo di incappucciati marcia contro il cordone di agenti gridando: “Stato d’emergenza,
stato poliziesco”, “Poliziotti assassini, porci”.
La piazza è avvolta da una nuvola di fumo per i lacrimogeni lanciati dalla polizia mentre i
ragazzi incappucciati continuano a gettare oggetti raccolti sul selciato. Alcuni militanti
ambientalisti circondano la statua di Marianne, per impedire la devastazione. Il blocco nero
viene fischiato dai manifestanti pacifici. «Scegli in quale campo vuoi stare» urla un
ragazzo dal volto coperto a Laurène, 19 anni, che fa da scudo davanti al memoriale. Un
giovane impedisce a uno degli incappucciati di bruciare una bandiera francese.
«Sapevamo che ci sarebbero stati elementi violenti che non hanno nulla a che vedere con
i militanti ambientalisti” ha commentato François Hollande definendo gli scontri
“scandalosi”. Una protesta “indegna” secondo Manuel Valls. Il premier è venuto davanti al
Bataclan insieme al capo del governo canadese, Justin Trudeau. Altre delegazioni della
Cop21 hanno sfilato davanti al teatro e la Cop21 si è aperta ieri con un minuto di silenzio
per ricordare le 130 vittime. Agli scontri, durati poco più di un’ora, sono seguite le
polemiche. “Il blocco nero è fatto di meno di cento persone” sottolinea Julien Bayou,
portavoce dei Verdi.
«Se la manifestazione fosse stata autorizzata – continua le cose sarebbero andate
diversamente ». Alcuni militanti presenti accusano gli agenti di aver caricato senza motivo
in diversi punti della piazza. I nervi delle forze dell’ordine sono a fior di pelle. E lo stato di
emergenza dichiarato da Hollande, che sospende fino a febbraio alcuni diritti, rischia di
essere sempre più criticato.
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del 30/11/15, pag. 4
I big mondiali si sono già impegnati sul surriscaldamento Ma mancano
una tabella di marcia, un vincolo sui combustibili fossili e regole sui 100
miliardi promessi a chi rischia di più per i cambiamenti climatici
Al via due settimane di negoziati tra sostegno
ai paesi poveri e tagli alla produzione di CO
MAURIZIO RICCI
IL TRATTATO di Kyoto, pietra miliare nella lotta all’effetto serra, fu firmato da 35 paesi,
che rappresentavano il 12 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica.
L’accordo contro il riscaldamento globale che uscirà dalle due settimane di negoziati che si
aprono oggi a Parigi, sarà sottoscritto da almeno 167 paesi, responsabili del 94 per cento
delle emissioni. È la prova del lungo cammino che ha fatto il mondo, dal 1997 ad oggi, nel
riconoscere i pericoli del cambiamento climatico. In testa a quei 167 paesi ci sono Cina e
Stati Uniti, i due maggiori inquinatori mondiali, nel 2009 gli artefici del flop di Copenaghen,
dove abortì il tentativo di dare un seguito al protocollo di Kyoto, oggi i due principali motori
di un accordo. In questo senso, Parigi è un successo annunciato: un altro flop, del tutto
inaspettato, avrebbe conseguenze devastanti sugli sforzi per tenere sotto controllo il
riscaldamento del pianeta. Ma, anche nell’ipotesi migliore, è un successo con troppi buchi,
secondo la stragrande maggioranza di esperti e scienziati. Ecco una guida per prevedere
e valutare cosa succederà certamente in queste due settimane, cosa potrebbe succedere,
cosa non succederà di sicuro, su cosa c’è ancora da litigare, cosa aspettarsi dopo.
Soprattutto il dopo: i rischi più gravi, per l’accordo, si materializzeranno quando tutti
saranno partiti da Parigi e tornati a casa.
IL BUONO
L’ottimismo sul negoziato si spiega subito. La cosa più difficile — tagliare le emissioni — è
già stata decisa, ogni governo per suo conto. Dunque, Parigi deve solo ratificare gli
impegni al contenimento dell’anidride carbonica che variano, come entità e come
scadenza (al 2025 o al 2030), ma sono quasi tutti concreti e verificabili. Qualche paese
(l’India, l’Arabia saudita) si è lasciata aperta qualche scappatoia. Ma se il consenso
internazionale resta compatto come oggi, sarà difficile ad un singolo paese andare con
decisione controcorrente. La conversione della Cina alla lotta all’effetto serra mostra, del
resto, che la realtà spinge in un’unica direzione. I malumori restano e riesploderanno
durante i negoziati. Ma, questa volta, al contrario che a Copenaghen, sulla barca degli
impegni a contenere le emissioni ci sono tutti insieme, ricchi e poveri. Con la promessa
che non finisce qui e che ci si rivedrà, per valutare la situazione, fra qualche anno. E con
l’obiettivo dichiarato di arrivare a emissioni zero, almeno nel 2100 (o prima, questo è uno
degli spazi di trattativa ancora aperti).
IL BRUTTO
Il problema, subito indicato dagli scienziati, è che non basta. Gli impegni assunti in vista di
Parigi, anche se venissero rispettati alla lettera, sono insufficienti e arrivano troppo tardi.
Tutti sono d’accordo a contenere entro 2 gradi il riscaldamento del pianeta al 2100, ovvero
un grado in più di quanto già si sia verificato rispetto all’era preindustriale: oltre, dicono le
simulazioni dei modelli climatici, arrivano le catastrofi climatiche, dalla siccità alle
inondazioni agli uragani. Ma gli impegni presi in vista di Parigi assicurano solo un
riscaldamento entro 2,7 gradi, al di là della soglia di sicurezza. E, attenzione, 2,7 gradi se il
taglio delle emissioni continuerà, con la stessa intensità, anche dopo il 2025 o il 2030,
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quando scadono gli impegni assunti in questi mesi. Se si tornasse, invece, al “business as
usual”, lasciando che le emissioni riprendano il loro corso, il riscaldamento al 2100
arriverebbe a 3,6 gradi, in zona da allarme rosso. Ecco perché soprattutto gli europei
insistevano perché a Parigi si fissasse già una tabella di marcia, che prevedesse, entro
cinque anni, un nuovo giro di vite alle emissioni. Ma la tabella di marcia non ci sarà. La
Cina, d’accordo con India e Arabia saudita, si è dichiarata d’accordo solo per una generica
promessa di rivedersi, senza impegni precostituiti a nuovi interventi. I nodi politici più
intricati dei negoziati saranno, anzitutto, la data entro cui arrivare a emissioni zero: 2100 o
prima? Cruciale, anche se solo in termini di principi, il ruolo che il documento finale
assegnerà ai combustibili fossili, a cui risalgono poco meno dei due terzi delle emissioni e
che, secondo gli esperti, dovrebbero restare in massa sottoterra per evitare di sfondare il
tetto dei due gradi. L’altro capitolo ancora aperto è come finanziare la promessa di 100
miliardi di dollari l’anno che, dal 2020, i paesi ricchi dovrebbero girare ai paesi più poveri
per aiutarli a fronteggiare l’impatto già avvertibile del cambiamento climatico.
I CATTIVI
Il fulcro del riassestamento del mondo in chiave anti-effetto ser- ra è, oggi più che mai,
Obama. E, in questo senso, l’incognita dei negoziati che si aprono oggi non è a Parigi, ma
a Washington. I repubblicani che controllano il Congresso si stanno già adoperando per
sabotare le misure varate dalla Casa Bianca nel suo programma di taglio delle emissioni,
per segnalare al resto del mondo che gli impegni che Obama assume e assumerà non
sono credibili. E, se gli americani si sfilassero, niente di quello che sarà deciso e ratificato
in queste due settimane a Parigi resterà in piedi, compresi gran parte degli impegni di
contenimento dell’effetto serra presi da altri paesi, Cina per prima. L’insidia è, peraltro, a
più lunga scadenza. Quasi tutti i candidati repubblicani alla presidenza Usa sono
apertamente scettici sul clima e la vittoria di uno di loro alle elezioni del prossimo anno
sarebbe un grave colpo per qualsiasi accordo esca da Parigi. Su questo scoglio politico è
già caduto uno degli strumenti più efficaci che la conferenza avrebbe potuto varare, ma
che non sarà neanche discusso. Si tratta della creazione di un mercato globale delle
emissioni, con l’attribuzione di diritti prefissati a sputare CO2 nell’atmosfera, sul modello di
quanto avviene già in Europa e presto avverrà in Cina. Uno strumento imperfetto, ma che
avrebbe consentito di tenere sotto controllo il totale delle emissioni e di guidarne la
riduzione.
Da Internazionale del 20/11/15, pag. 59
La pace passa per il clima
Michael Klare, The Nation, Stati Uniti
Se troveranno un accordo per ridurre il riscaldamento globale, i leader mondiali faranno un
passo importante per evitare carestie e guerre La conferenza sul clima di Parigi non
dovrebbe essere considerata solo un vertice sul clima ma una conferenza di pace, e forse
la più importante della storia. Per capire perché, bisogna considerare gli ultimi studi
scientifici sui possibili effetti del riscaldamento globale, e in particolare il rapporto del 2014
del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc). Quando è stato pubblicato,
il documento ha attirato l’attenzione dei mezzi d’informazione di tutto il mondo. Il motivo è
semplice: i dati dimostrano che, se il cambiamento climatico continuerà incontrollato,
provocherà gravi siccità, piogge intense, ondate di caldo opprimente, insufficienza dei
raccolti e inondazioni delle zone costiere, causando carestie e morte. Ma il rapporto
afferma che il riscaldamento globale avrà effetti devastanti anche a livello sociale e
politico: declino economico, collasso degli stati, guerre civili, migrazioni di massa e guerre
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per il controllo delle risorse. A queste previsioni è stata dedicata molta meno attenzione,
anche se dovrebbe essere evidente a tutti che sono un rischio concreto, visto che anche le
istituzioni umane, come i sistemi naturali, risentono dei cambiamenti climatici. Quando
alcuni beni fondamentali per la sopravvivenza – come i cereali, il legno, il pesce e il
bestiame d’allevamento – diminuiranno o spariranno del tutto, le economie ne risentiranno.
Le società cominceranno a crollare sotto il peso delle crisi economiche e dei lussi migratori
di massa. Forse i conflitti armati non saranno la conseguenza immediata di questi
fenomeni, osserva l’Ipcc, ma se il cambiamento climatico andasse ad aggiungersi alla
povertà, alla fame, alla scarsità di risorse, all’incompetenza e alla corruzione dei governi e
ai contrasti etnici, religiosi e nazionali, finirebbe per causare aspri conflitti per il cibo,
l’acqua, le terre e altri beni primari.
Le probabilità di un conflitto
I mezzi necessari per la sopravvivenza sono già distribuiti in modo inuguale in tutto il
pianeta. Spesso la linea di separazione tra quelli che hanno risorse primarie a sufficienza
e quelli che non ne hanno coincide con antiche fratture a livello razziale, etnico, religioso o
linguistico. Per esempio, è vero che tra israeliani e palestinesi c’è una profonda ostilità di
tipo etnico e religioso, ma è anche vero che i due popoli non hanno le stesse possibilità di
accesso alle terre e all’acqua. Quando a queste situazioni si aggiungerà il cambiamento
climatico, prevedibilmente la tensione aumenterà ancora. Il cambiamento climatico
comporterà il degrado o la totale distruzione di molti sistemi naturali, spesso già indeboliti,
sui quali gli esseri umani contano per sopravvivere. Alcune zone destinate all’agricoltura o
all’allevamento di bestiame potrebbero diventare inabitabili o riuscire a sfamare
popolazioni molto più ridotte. Pensiamo per esempio alla regione meridionale del Sahara,
che a causa delle temperature in aumento e dei sempre più frequenti periodi di siccità si
sta già trasformando da zona erbosa in un arido deserto, costringendo i pastori nomadi ad
abbandonare le terre dei loro antenati. La stessa sorte toccherà a molte regioni agricole
dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente. I fiumi che un tempo garantivano acqua tutto
l’anno scorreranno solo in certi periodi o si prosciugheranno del tutto, lasciando ben poca
scelta alle popolazioni locali. Come fa notare il rapporto dell’Ipcc, gli stati con istituzioni
deboli saranno sottoposti a enormi pressioni per far fronte al cambiamento climatico e
aiutare quelli che hanno un disperato bisogno di cibo e di riparo. Le maggiori incertezze
sul futuro”, si legge sul documento, “potrebbero coincidere con una minore capacità degli
stati di introdurre contromisure adeguate, e questo farà aumentare le probabilità di conflitti
armati”. Un esempio di questo rischio lo abbiamo già visto con l’inizio della guerra civile in
Siria e il conseguente collasso del paese, che hanno prodotto una quantità di rifugiati
paragonabile a quella causata dalla seconda guerra mondiale. Tra il 2006 e il 2010 la Siria
è stata colpita da una siccità devastante, causata in parte dal cambiamento climatico, che
ha trasformato in deserto quasi il 60 per cento del paese. I raccolti sono stati scarsissimi e
quasi tutto il bestiame del paese è morto, riducendo in povertà milioni di contadini che,
presi dalla disperazione per non poter più vivere delle loro terre, sono andati a cercare
lavoro nelle grandi città, dove hanno dovuto affrontare l’ostilità delle ricche élite urbane. Se
il tirannico presidente siriano Bashar al Assad avesse reagito a questa situazione con un
programma di emergenza per garantire lavoro e alloggio a queste persone, forse il
conflitto avrebbe potuto essere evitato. Quello che ha fatto, invece, è stato tagliare i
sussidi alimentari e il carburante, aggravando le difficoltà dei migranti e soffiando sul fuoco
della rivolta. Secondo un articolo firmato da vari studiosi e pubblicato dalla rivista
scientifica statunitense Pnas, “Assad ha abbandonato le periferie urbane in rapida
espansione della Siria, caratterizzate dal sovraffollamento, dall’insufficienza delle
infrastrutture, dalla disoccupazione e dalla criminalità, e in seguito queste zone sono
diventate il cuore della rivolta”. Una situazione simile si è verificata anche nella regione
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africana del Sahel, dove una grave siccità è andata ad aggiungersi al deterioramento delle
condizioni ambientali e alla debolezza delle istituzioni fino a provocare episodi di violenza
armata. La regione ha già vissuto periodi simili in passato, ma oggi a causa del
cambiamento climatico avvengono molto più spesso. “Prima succedeva ogni dieci anni,
poi ogni cinque e ora ogni due”, afferma Robert Piper, il coordinatore degli interventi
umanitari delle Nazioni Unite nel Sahel. In Mali, uno dei molti paesi che confinano con
questa regione, il popolo nomade dei tuareg ha pagato il prezzo più alto, a causa della
desertificazione che ha colpito i terreni usati per i pascoli del bestiame. I tuareg subiscono
da tempo l’ostilità del governo di Bamako, un tempo controllato dai francesi e ora da
africani neri di fede cristiana o animista. Vedendo che il loro stile di vita tradizionale era in
pericolo e non ricevendo alcun aiuto dalla capitale, nel gennaio del 2012 i tuareg si sono
ribellati e hanno conquistato metà del paese prima di essere di nuovo respinti nel Sahara
dai francesi e da altre forze straniere. Quello che è successo in Siria e nel Mali è
probabilmente un’anticipazione di quello che succederà nel corso di questo secolo in
molte altre regioni. Con l’aumentare del riscaldamento globale, che provoca non solo la
desertificazione ma anche l’innalzamento del livello dei mari nelle zone costiere e ondate
di caldo sempre più devastanti in regioni già calde, le zone del pianeta inabitabili
aumenteranno e milioni di disperati saranno costretti a fuggire. Mentre i governi più ricchi e
più forti, soprattutto nelle zone con un clima temperato, saranno in grado di affrontare
questi problemi, è probabile che il numero di stati falliti aumenterà notevolmente,
provocando violenza e guerre per quel che resta del cibo e delle terre coltivabili. In altre
parole, ampie regioni del pianeta saranno nelle condizioni in cui si trovano oggi la Libia, la
Siria e lo Yemen. Una parte della popolazione rimarrà e lotterà per sopravvivere, altri
migreranno e molto probabilmente incontreranno una versione ancora più violenta
dell’ostilità che devono subire oggi i migranti e i rifugiati nei paesi in cui approdano.
L’inevitabile risultato sarà un’epidemia di guerre civili per le risorse e di violenze di ogni
tipo.
Fiumi contesi
La maggior parte di questi conflitti assumerà l’aspetto di guerre interne: clan contro clan,
tribù contro tribù, setta contro setta. In un pianeta dove il clima sta cambiando, tuttavia,
non possiamo escludere la possibilità di scontri tra nazioni per il controllo delle risorse
naturali, soprattutto dell’acqua. È già evidente che il riscaldamento globale ridurrà la
disponibilità di acqua in molte zone tropicali e subtropicali, mettendo in pericolo
l’agricoltura, la salute delle popolazioni, il funzionamento delle grandi città, e forse le basi
stesse della società. Il rischio delle “guerre per l’acqua” aumenterà quando due o più paesi
dipenderanno dalla stessa fonte di approvvigionamento – come nel caso dei fiumi Nilo,
Giordano, Eufrate e Mekong – e uno dei governi coinvolti cercherà di appropriarsi della
poca acqua rimasta. I tentativi di alcuni paesi di costruire dighe e deviare il lusso di quei
sistemi fluviali hanno già provocato tensioni e minacce di guerra, come quando la Turchia
e la Siria hanno costruito dighe sull’Eufrate. Un sistema che ha già sollevato particolari
preoccupazioni è quello del fiume Brahmaputra, che nasce in Tibet (dove è chiamato
Tsangpo Yarlung) e attraversa l’India e il Bangladesh per sfociare nell’oceano Indiano. La
Cina ha già eretto una diga su quel fiume e ha in progetto di costruirne altre, mettendo in
seria difficoltà l’India, che ha bisogno delle acque del Brahmaputra per sostenere
l’agricoltura. Naturalmente, anche se in futuro l’acqua diminuirà ancora, non è detto che
scoppieranno delle guerre. Forse gli stati interessati troveranno il modo di dividersi le
limitate risorse rimaste e cercheranno mezzi di sopravvivenza alternativi. Ma non c’è
dubbio che quando le risorse diminuiranno e milioni di persone cominceranno a morire di
sete e di fame, la tentazione di usare la forza aumenterà. In queste condizioni, la
sopravvivenza degli stati sarà in pericolo e forse saranno costretti a fare disperati tentativi
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per salvarsi. Indubbiamente ci sono molte cose che si potrebbero fare per ridurre il rischio
delle guerre per l’acqua, a cominciare dall’adozione di progetti di collaborazione per la sua
gestione, e dall’introduzione ovunque dell’uso dell’irrigazione a goccia e di altri metodi per
evitare gli sprechi. Ma naturalmente il modo migliore per evitare futuri conflitti legati al
cambiamento climatico è rallentare il ritmo del riscaldamento globale. Ogni frazione di
grado in meno che si otterrà a Parigi e nei prossimi vertici significherà meno sangue
versato nelle future guerre per le risorse. È per questo che il vertice di Parigi dovrebbe
essere considerato prima di tutto come una conferenza di pace.
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ECONOMIA E LAVORO
del 30/11/15, pag. 16
Un’incognita da due miliardi sulla manovra
Rischio tasse
Bonus su cultura e sicurezza coperti dalla flessibilità Ue, ma se
Bruxelles dirà di no possibili aumenti fiscali
VALENTINA CONTE
ROMA.
Una mina da due miliardi pende sulla legge di Stabilità appena arrivata alla Camera. L’uno
più uno che il premier Renzi vuole mettere su sicurezza e cultura, dopo gli attacchi di
Parigi, non solo è destinato a stravolgere il dibattito parlamentare da qui a Natale. Ma
corre sul filo della scommessa, appeso com’è al sì di Bruxelles previsto in primavera. E se
invece arrivasse un no o un sì parziale? Cosa ne sarebbe dei conti pubblici?
Rischieremmo nuove tasse? Nessuna risposta, per ora.
Alla Camera, dove nel frattempo gli emendamenti sono già oltre quota 5 mila, si guarda
con scetticismo al pacchetto di Palazzo Chigi (ancora da formulare, tra l’altro). I deputati di
sicuro si preparano a mettere in discussione quantomeno la logica del bonus: sia gli 80
euro alle forze dell’ordine che guadagnano sopra i 1.500 euro mensili, sia la card da 500
euro per i neo diciottenni. Se due miliardi devono essere, si può pensare di distribuirli in
modo più efficace, è il ragionamento. Sia in chiave di sicurezza pensando alle dotazioni,
ad esempio, più che alle buste paga. Sia in chiave di periferie da “rammendare”, di ricerca
e diritto allo studio da potenziare (anziché regalare biglietti per il cinema). Tra l’altro, si fa
notare, si tratta di misure una tantum. Valgono per il 2016 e poi stop.
E Bruxelles? Dopo lo sgarbo sulla cancellazione della Tasi- preferibile una riduzione del
costo del lavoro - queste una tantum potrebbero essere malviste. E non trovare piena
accoglienza nell’ambito dell’ex clausola migranti, ora diventata clausola sicurezza. L’Italia
aveva già messo in conto una richiesta di 3,3 miliardi per la gestione dei flussi migratori.
Una “circostanza eccezionale” ora destinata a inglobare i 2 miliardi per il rafforzamento
dell’intelligence e della difesa, per la cyber security, ma anche per la riqualificazione delle
periferie e il due per mille alle associazioni culturali. Di tutto un po’. D’altro canto, la
promessa è stata fatta. Gli architetti sono già in moto, entro dicembre depositano i progetti
per le città. I militari attendono rinforzi economici da gennaio.
In questo clima, le speranze di ritoccare la legge di Stabilità si riducono al lumicino. Dei
300 milioni a disposizione delle Camere per limare i saldi (la manovra vale 28,7 miliardi e
si arriva a 31,8 con la clausola fin qui chiamata migranti), un centinaio è stato usato dal
Senato. Il resto servirà per le piccole mediazioni politiche alla Camera. I temi sul tavolo
però sono molti. Il primo è il pacchetto per il Sud. Tutte le forze politiche vogliono
rafforzare la decontribuzione per i nuovi assunti (piena e per tre anni). Molte aggiungono
anche il credito di imposta e il super ammortamento al 160% anziché 140 (soluzione
preferita dal ministero dell’Economia perché poco costosa). Poi ci sono i giochi, dove il tutti
contro tutti è garantito: più o meno tasse, più o meno slot. E le Province che non riescono
a chiudere i bilanci e avrebbero bisogno di altri 200 milioni. Infine il pacchetto della
commissione Lavoro: estendere l’opzione donna, per aiutare altre 7 mila lavoratrici ad
andare in pensione (500 milioni extra), rifinanziare la Discoll per i precari, garantire la
Naspi agli stagionali anche per il 2016, anticipare la no tax area dei pensionati.
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Su tutto pendono le tre clausole chieste a Bruxelles: riforme, investimenti e migrantisicurezza. In tutto, 16 miliardi da escludere dal deficit e dunque usare per coprire la
manovra e finanziarne le poste, tutt’altro che scontati. E non solo sul fronte sicurezza.
Anche le riforme sono in bilico. «Dopo il Jobs Act, Bruxelles se ne aspetta altre in grado di
aumentare il Pil potenziale, dunque privatizzazioni, pubblica amministrazione, servizi
pubblici locali», osserva l’economista Giacomo Vaciago, docente alla Cattolica di Milano.
«Se così non sarà, saremo costretti ad aumentare le imposte nel momento sbagliato, con
una ripresa ancora fragile e timida».
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