Educare con le fiabe

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Educare con le fiabe
Educare con le fiabe
Come leggere un testo ai propri alunni: leggere in classe le fiabe di Andersen
Firenze, 6 ottobre 2012
Prof. Roberto Filippetti
www.filippetti.eu
PRIMA PARTE:
L’uomo di neve
- Come mi sento crepitare con questo bel freddo! - disse un uomo di neve. – E’ proprio vero che il vento,
quando morde, fa resuscitare i morti! Ma guarda quello laggiù, come mi sta fissando! -voleva dire il sole;
stava per tramontare. - Ma non riuscirà a farmi batter ciglio, saprò tenere le tegole bene aperte!
Erano per l’appunto due pezzetti di tegola che aveva per occhi; la bocca era fatta con un vecchio rastrello
rotto, perciò aveva i denti.
Era nato tra le grida d'evviva dei ragazzi; salve di campanelli e schiocchi di frusta dalle slitte l'avevano
salutato.
Il sole tramontava e la luna sorgeva grande, rotonda, chiara e bella, nell’aria azzurra.
- Eccolo che rispunta da un'altra parte! - disse l'uomo di neve. Credeva che fosse di nuovo il sole che
appariva un’altra volta.
- Gli ho fatto perdere l'abitudine di fissare! adesso sta lì con una luce che basta appena a lasciarmi vedere i
piedi. Se soltanto fossi capace di andare in un altro luogo! Se sapessi muovermi, scivolerei sul ghiaccio
come quei ragazzi che ho visto! Ma non so come si fa a correre.
- Vai! Vai! - abbaiò il vecchio cane attaccato alla catena; era un po' rauco da quando non era più il cucciolo
di casa che stava sempre sotto la stufa. - Te lo insegnerà il sole a correre! l'ho visto io quello che c'era
prima di te, e quello ancora prima! Vai! Vai! e se ne sono andati tutti!
- Non ti capisco, amico! - disse l'uomo di neve. - Quello lassù m'insegnerà a correre? - intendeva la luna. E’ vero che è corso via, prima, quando l'ho guardato fisso, ma adesso è sbucato fuori da un'altra parte!
- Tu non sai niente! - disse il cane alla catena. - E’ anche vero però che ti hanno impastato da poco!
Quello che vedi si chiama luna, quello che è andato via era il sole, tornerà domani e t’insegnerà a
scivolare lungo il fosso. Tra poco il tempo cambierà, me ne accorgo dalla mia gamba sinistra
posteriore; mi dà certi dolori! Cambia tempo!
- Mica lo capisco! - disse l'uomo di neve. - Ma ho il presentimento che dica cose sgradevoli. Quello che
mi fissava e che se ne è andato e che lui chiama sole, neanche quello mi è amico, lo sento!
- Vai! Vai! - abbaiava il cane alla catena, si girò intorno tre volte e andò a stendersi nella cuccetta per
dormire.
Vi fu proprio un cambiamento di tempo. Una nebbia umida e fina si stese nelle prime ore del mattino
sopra tutto il paese; all'alba cominciò a tirar vento; era un vento così gelato che il ghiaccio fece subito presa.
Ma che spettacolo quando sorse il sole! Tutti gli alberi e i cespugli erano pieni di brina; era come un grande
bosco di perle bianche, era come se tutti i rami fossero sovraccarichi di fiori lucenti. Quei piccoli rami sottili
e fitti fitti che d'estate non si vedono mai perché sono rivestiti di tante foglie, adesso si scorgevano tutti, uno
per uno. Era un ricamo, e così bianco e squillante come se da ogni ramo sgorgassero brillanti bianchi. La
betulla piangente si divincolava nel vento, c’era una vita lì dentro come in tutti gli alberi nel tempo
dell'estate; era una bellezza incomparabile! E quando brillò il sole, allora sì che tutto scintillò come se ogni
cosa fosse cosparsa di polvere lucente e sulla distesa di neve brillarono grandi diamanti; oppure si poteva
anche pensare che lucessero innumerevoli candele piccole piccole, più bianche ancora della neve.
- E’ una bellezza unica al mondo! - disse una fanciulla che era scesa nel giardino insieme a un ragazzo; si
fermarono proprio vicino all'uomo di neve e si misero a guardare gli alberi lucenti; - l'estate non abbiamo
mai uno spettacolo così bello! - disse e le brillarono gli occhi.
- E un tipo come quello d'estate non si trova! - disse il ragazzo indicando l'uomo di neve: - E’ bellissimo!
La fanciulla rise, fece una riverenza all'uomo di neve e ballò col suo amico sulla neve che scricchiolava
come se fosse celluloide.
- Chi erano quei due? - chiese l'uomo di neve al cane che stava alla catena. - Tu che vivi qui da tanto
tempo, li conosci?
- Certo che li conosco! - disse il cane alla catena. - Lei mi ha fatto una carezza e lui mi ha dato un
bell'osso; quelli non li mordo.
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- Ma che rappresentano qui? - domandò l'uomo di neve.
- Innamor-r-r-rati! - disse il cane alla catena, - andranno ad abitare in un canile tutti e due insieme, e
rosicchieranno insieme gli ossi; vai! vai!
- Due come loro sono importanti come me e come te? - chiese l’uomo di neve.
- Loro appartengono alla classe dei padroni, - disse il cane alla catena; - non capisce proprio niente
uno che è nato ieri; me ne accorgo da te! io sono vecchio e ci ho esperienza, li conosco tutti quelli di
casa e c'è stato un tempo che non ero qui al freddo e alla catena; vai! vai!
- Il freddo è bellissimo! - disse 1'uomo di neve. - Ma racconta racconta! non trascinare, però, quella
catena, perché mi sento scricchiolare dentro.
- Vai! Vai! - abbaiava il cane alla catena. - Sono stato cucciolo un tempo; piccolo e grazioso, dicevano
loro, stavo sempre in una poltrona di velluto proprio dentro la casa, il più importante dei padroni mi
prendeva in grembo; mi baciavano tutti sulla gola e mi asciugavano le zampette con un fazzoletto
ricamato; mi chiamavano “amore mio” e “tesoro caro”; poi diventai troppo grande per loro; e mi
consegnarono alla governante; così andai a finire al pianterreno! Lì, da dove stai, si può vedere! Puoi
vedere la cameretta dove facevo da padrone; poiché stavo con la governante. Certo, era uno spazio più
ristretto che al piano di sopra, ma ci si stava molto meglio; non c'erano i bambini che mi tastavano e
mi trascinavano dappertutto, come al piano di sopra; mangiavo bene come prima e anche meglio!
avevo un cuscino tutto per me e poi c'era una stufa che in una stagione come questa è la cosa più bella
del mondo! mi raggomitolavo lì sotto e non mi vedevano più. Oh! ancora me la sogno quella stufa! Vai!
Vai!
- E’ tanto bella una stufa? - chiese l'uomo di neve. - Mi somiglia?
- E’ proprio il contrario di te! è nera come il carbone; ha un collo lungo e uno sportelletto d'ottone;
divora tanti pezzi di legno che le esce il fuoco dalla bocca; ma bisogna starci accanto, proprio vicino
vicino, anche sotto, che delizia! Tu, da dove sei puoi vederla attraverso la finestra.
E l'uomo di neve guardò e vide veramente un oggetto nero, lucido, con un cancelletto d'ottone; lì intorno,
il pavimento era tutto illuminato. L'uomo di neve si sentì strano, era una sensazione che non sapeva spiegarsi
e gli venne in CUORE una nostalgia che non conosceva, ma che tutti gli uomini conoscono se non sono fatti di
neve.
- E perché l'hai lasciata? - chiese l'uomo di neve. Sentiva che doveva essere una creatura femminile. Come hai potuto abbandonare un luogo come quello?
- Fui costretto! - disse il cane alla catena, - mi buttarono fuori e mi misero attaccato qui; avevo dato
un morso al polpaccio del padrone più giovane perché lui aveva dato un calcio all’osso che io stavo
rosicchiando; e, osso per osso! io pensai; ma loro se la sono presa a male e da allora vivo qui
incatenato, e la mia bella voce chiara è scomparsa; senti come sono rauco: vai! vai! e così finì la mia
bella vita.
L'uomo di neve non ascoltava più; guardava fisso nella stanza della governante dove c'era la stufa piantata
su quattro zampe; sembrava su per giù alta come lui.
- Che strana sensazione provo dentro di me! - disse. - Non mi riuscirà mai di arrivare da lei? E’ un
desiderio innocente questo, e quando i nostri desideri sono innocenti, debbono avverarsi. E’ il mio desiderio
più grande, il mio unico desiderio, e sarebbe quasi ingiusto che non venisse appagato. Devo entrare, devo
arrampicarmi da lei anche a costo di spezzare i vetri!
- Sì, non ci entrerai mai! - disse il cane alla catena, - e se arrivi vicino alla stufa, allora te ne vai,
capisci? te ne vai!
- Sono bell’e andato! - disse l'uomo di neve, - mi sento una voglia di vomitare!
Per tutto il giorno l'uomo di neve rimase a guardare attraverso la finestra; nella penombra del crepuscolo la
stanza si fece ancora più accogliente; la stufa spandeva un bagliore così dolce, come non è dolce quello della
luna e neppure quello del sole, dolce come può essere soltanto il bagliore di una stufa, quando c'è qualcosa
dentro. Se qualcuno apriva la porticina, lei tirava fuori una fiammata, era un’abitudine che aveva; quella
fiamma illuminò proprio a fuoco la figura bianca dell'uomo di neve, l’illuminò fino al petto.
- Non resisto più, - disse. - Come le dona tirar fuori la lingua!
Quella notte fu molto lunga, ma non per l'uomo di neve, egli era assorto nei suoi dolci pensieri che gelando
scricchiolavano.
All'alba i vetri delle finestre erano completamente gelati, ed erano ricoperti dei più splendidi fiori di
ghiaccio che un uomo di neve possa desiderare; ma nascondevano la stufa. Il ghiaccio sulla finestra non
voleva sciogliersi e lui non la poteva vedere.
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Si sentiva un crepitio, uno scricchiolio tutt'intorno, era un tempo di gelo che doveva proprio far piacere a
un uomo di neve, ma lui non era contento; poteva essere veramente felice; ma non era felice, aveva nostalgia
della stufa.
- E’ una brutta malattia per un uomo di neve! - disse il cane alla catena, - anch’io ho sofferto di quella
malattia ma l’ho superata; vai! Vai! tra poco cambia tempo!
Infatti l’aria cambiò improvvisamente e sciolse la neve.
Il vento caldo aumentava e l’uomo di neve diminuiva. Non disse niente, non si lamentò e questo è proprio
il segno della fine. Una mattina crollò. Al suo posto rimase qualcosa che somigliava a un manico di scopa
dritto nell'aria: i ragazzi ce l'avevano impastato intorno.
- Adesso capisco la sua nostalgia! - disse il cane alla catena, - quell'uomo di neve aveva un raschiatoio
di stufa in corpo! è quello che lo turbava tanto, ma adesso tutto è finito; vai! vai!
E tra poco anche l'inverno sarebbe andato.
- Vai! Vai! - abbaiava il cane alla catena, ma le bambine in giardino cantavano:
Affrettati, mughetto, bello e fresco,
getta i rametti, o salice.
Venite, cuculi, ALLODOLE, cantate!
C'è già primavera alla fine di febbraio!
Io canto con voi, cuculi, cucù!
Vieni, caro sole, esci anche tu!
Nessuno pensava più all’uomo di neve.1
ANDERSEN Il rospo
Il pozzo era profondo: perciò bisognava che la corda fosse lunga; e non era poca fatica il girare la
ruota sin tanto che la secchia piena venisse su all'orlo del pozzo. Benché l'acqua fosse chiara, il sole non
guardava mai abbastanza in fondo al pozzo, da specchiarvisi; sin dove però i suoi raggi arrivavano, cresceva
per tutto un po' di verde tra le commessure delle pietre.
Giù, in fondo, abitava una famiglia di rospi. Veramente, erano andati a stabilirvisi a precipizio,
arrivando nel pozzo a capofitto, nella persona della vecchia mamma, tuttora vivente. I ranocchini verdi, che
ci abitavano da lungo tempo, e nuotavano qua e là per l'acqua, li riconobbero, sì, per cugini, ma li
chiamavano «Ospiti carissimi». I nuovi venuti, però, sembravano ben risoluti a rimanere dov'erano, perché
trovavano molto piacere a vivere «all'asciutto», come chiamavano le pietre bagnate.
Mamma Ranocchia, una volta, aveva fatto un viaggio. Le era avvenuto di trovarsi per caso nella
secchia quando la tiravano su: la luce però era troppo intensa per lei, e si era buscata il mal d'occhi.
Fortunatamente, era riuscita a scappare fuor della secchia; ma cadendo nell'acqua aveva preso una così
terribile spiaccicata, che le era poi toccato starsene malata tre giorni, coi dolori alla schiena. Certo, non
poteva raccontare gran che delle cose di lassù; ma questo almeno sapeva, ed anche tutti i ranocchi lo
sapevano: che il pozzo non era tutto il mondo. Mamma Rospo avrebbe pur potuto dire questo e dell'altro, se
avesse voluto; ma siccome non rispondeva mai alle domande, finirono per non domandarle più nulla.
«È grossa, grassa e brutta,» — dicevano le giovani ranocchie verdi: «ed i suoi figliuoli saranno per
l'appunto come lei.»
«Può anche darsi,» — ribatteva mamma Rospo: «ma uno di essi ha un gioiello nel capo; o se no, il
gioiello, l'ho io.»
Le rane giovani ascoltavano e sbarravano tanto d'occhi fuori del capo; e siccome a loro questa novità
poco garbava, facevano le boccacce e si tuffavano sott'acqua. Ma i piccoli rospi tiravano calci all'aria con le
zampe di dietro, per pura superbia, perché ciascuno di essi si credeva di avere il gioiello; poi, si mettevano a
sedere, e tenevano il capo fermo fermo. Una volta, però, domandarono di che avessero ad andare tanto
superbi, e che roba fosse veramente un gioiello.
«Oh, è cosa tanto splendida e preziosa, che non posso descriverla!» disse mamma Rospo: «È un
oggetto che si porta in giro per proprio piacere, e che fa arrabbiare gli altri. Ma non fatemi altre domande,
perchè non vi risponderei.»
«Bene, quanto a me, non ho gioielli di certo!» — disse il rospo più vicino, ch'era una femminetta,
brutta, ma brutta, quanto mai può essere una rospina: «Che me ne farei di una cosa tanto preziosa? E se
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HANS CHRISTIAN ANDERSEN, Fiabe Einaudi, Torino 1970, pp. 223-226.
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facesse arrabbiare gli altri, non potrebbe dare a me alcun piacere. No, io non desidero altro, se non di
arrivar su, sino all'orlo del pozzo e di potermi affacciare a guardar fuori: dev'essere tanto bello
lassù!...»
«FARAI MEGLIO A RIMANERE DOVE SEI,» — DISSE LA VECCHIA, «PERCHÉ QUI CONOSCI TUTTI E PUOI
DIRE ANCHE TU LA TUA. Guardati dalla secchia, piuttosto; altrimenti ti spiaccicherà ed anche se arrivi ad
andarci dentro sana e salva, puoi ricader fuori: non è da tutti il cadere con tanta abilità quanta ne ho avuta io,
che ne ho saputo riportare le ossa e le uova sane ed intatte.
«Quak!» — fece Rospina, proprio come se uno di noi dicesse: «Ahimè!»
Aveva immenso desiderio di giungere all'orlo del pozzo, e di guardare al di là: sentiva una
struggente nostalgia di vedere il verde, il verde di lassù... E la mattina dopo, quando avvenne che la
secchia, già riempita, si fermasse un momento proprio rimpetto alla pietra sulla quale stava il piccolo rospo,
il cuore dell'animaluccio diede un balzo, e la nostra Rospina ne diede un altro, dentro alla secchia, — la
quale fu subito tirata su, e vuotata.
«Uh, che bestiaccia!» — disse l'uomo che vuotava la secchia, quando scorse il rospo. «In vita mia,
non ho mai veduto una bruttura simile!» E col pesante zoccolo di legno fece per calpestare il rospo, il quale
fu appena in tempo a scansarsi, per non essere sfracellato, e andò a rifugiarsi in mezzo alle ortiche, che
crescevano alte intorno al pozzo. Le esaminò minutamente a stelo a stelo; ma guardò anche in su, verso
l'alto: il sole brillava attraverso le foglie, ed essa provò l'impressione che suscita in una persona l'entrare ad
un tratto in una grande foresta, dove il sole faccia capolino tra il fogliame.
«Ah, è molto più bello qui, che giù nel pozzo! Mi piacerebbe star qui tutta la vita!» — disse Rospina.
E lì stette per un'ora, anzi per due ore. «Chi sa che cosa ci sarà poi, lassù? Da che sono venuta sin qui,
tant'è che vada ancora un po' più innanzi!» E così strisciò, più presto che poté, e arrivò sulla strada maestra,
dove il sole splendeva sopra il suo capo, e la polvere la incipriò tutta appena fece per traversare la strada.
«Qui sì, che sono arrivata per davvero all'asciutto! Qui, non c'è da sbagliare!» disse Rospina. «Si sta
sin troppo bene, se mai! Questa polvere fa un certo solletico...»
Arrivò al fossato: là crescevano i non-ti-scordar-di-me e i rosolacci; e lungo il fossato correva una
siepe di biancospino, e più là cespugli di sambuco e convolvoli e viluppi di piante d'ogni sorta. Ah, che bei
colori! E una farfalla svolazzava lì vicino. Rospina la credette un fiore, che si fosse liberato dallo stelo, per
guardarsi meglio attorno nel mondo, — voglia ben naturale, del resto, in un fiore.
«Ah, poter viaggiare con la rapidità di quel fiore!...» — disse Rospina: «Quak! che bellezza
sarebbe!»
Per otto giorni e per otto notti, rimase nelle vicinanze del fossato; né mai ebbe penuria di
provvigioni. Il nono giorno pensò: «Avanti! sempre avanti!» Ma che cosa avrebbe mai potuto trovare di
più bello, di più incantevole? Forse, un piccolo rospo o qualche ranocchino verde... Durante la scorsa notte,
infatti, la brezza aveva portato certi suoni, come se nel vicinato si trovasse qualche famiglia di cugini suoi.
«Ah, è bello vivere! È bello uscire dal pozzo, e starsene in mezzo alle ortiche, e strisciare sulla
polvere della strada maestra, e riposare sul margine umido e freddo del fossato! Ma avanti, avanti ancora,
sempre avanti! sin che troveremo qualche rana od un piccolo rospo. Non possiamo farne senza: la sola
natura non basta!» E proseguì il suo viaggio.
Giunse nell'aperta campagna, presso ad un grande stagno, intorno al quale crescevano i giunchi
flessibili, di un bel verde tenero; e tra quelli entrò per continuare le sue ricerche.
«Sarà troppo umido per voi qui», — dissero i ranocchi: «ma siate il benvenuto! Siete un signor
Rospo od una signorina Rospina? Ma non fa nulla: sarete ugualmente gradito.»
E fu invitata al concerto che si dava la sera — concerto di famiglia: grandi entusiasmi e vocine esili:
conosco questa sorta di roba. Non fu servito rinfresco; ma da bere ce n'era quanto si voleva, perchè tutto lo
stagno era a disposizione!
«Bisogna che riprenda il mio viaggio!» — disse Rospina; perché dentro aveva sempre una
specie di struggimento, per qualche cosa di meglio.
Vedeva le stelle che scintillavano, così grandi e lucenti; vedeva raggiare la luna, spandendo il suo
bianco chiarore; vedeva il sole sorgere, e levarsi sempre più alto, sempre più alto.
«Ma forse, sono sempre in un pozzo; soltanto, ch'è un pozzo più grande, ecco tutto. Bisogna che
vada ancora più su: provo una grande inquietudine, uno struggimento...» E quando la luna divenne
rotonda e piena, la povera bestiola pensò: «Chi sa che non sia quella la secchia, che han da calare, e nella
quale debbo ficcarmi per poter andare più su? O forse che la secchia grande sarà il sole? Com'è grande! E
com'è ben tenuta, lucida che par d'oro! Quella può raccoglierci tutti addirittura. Bisogna che stia attenta,
per non perdere la buona occasione di saltarci dentro. Oh, come sembra splendermi sul capo! Non credo
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che il gioiello possa brillare di più. Tanto, il gioiello, io non ce l'ho. Non che mi disperi per questo... No,
debbo andare più su, nello splendore e nella gioia! Mi sento così piena di fiducia, e pure una strana
paura mi coglie, una specie di angoscia... È una risoluzione difficile da prendere, eppure bisogna
decidersi. Avanti, dunque, avanti diritta, per la strada maestra!»
E risolutamente riprese a camminare, come può camminare un povero animaletto strisciante, e si
trovò ben presto in una strada che passava tra l'abitato: là c'erano giardini fioriti ed orti; e presso una
cavolaia per l'appunto si fermò, per riposare.
«Che infinità di creature c'è al mondo, creature tutte differenti, di cui nemmeno sospettavo
l'esistenza! E com'è bello il mondo, e com'è grande! Ma bisogna guardarsi attorno, e non rimanere sempre
fermi in un posto.» E saltò dentro all'orto: «Com'è tutto verde qui! Com'è bello!»
«Lo so bene!» — disse il bruco dalla sua foglia di cavolo: «LA MIA FOGLIA È LA PIÙ GRANDE TRA
TUTTE QUANTE SONO QUI. MI NASCONDE UNA BUONA METÀ DEL MONDO: MA POCO M'IMPORTA DEL
MONDO.»
«Chiò! Chiò!» — e vennero alcune galline, che gironzolavano per la cavolaia. Quella che marciava
innanzi a tutte era prèsbite, e per ciò aveva la vista lunga, e vide subito il bruco sulla foglia verde; lo beccò,
ed il bruco cadde a terra, e là rimase a contorcersi ed a raggomitolarsi.
La gallina lo guardò, prima con un occhio e poi con l'altro, perché non capiva proprio cosa potesse
nascere da quei contorcimenti.
«Non li fa mica a fin di bene, veh!» — pensò la gallina; e alzò il capo per beccarsi il bruco.
Rospina ne ebbe tanto orrore, che venne strisciando difilato contro la gallina.
«Ah ah! ci sono anche gli alleati!» — osservò questa: «Guarda un po' quel brutto coso che striscia!»
E la gallina si voltò per andarsene. «Che m'importa di quel bocconcino verde? Mi farebbe prudere la gola.»
Le altre galline giudicarono la cosa dal medesimo punto di vista, e tutte se ne andarono insieme.
«A forza di contorcermi, son riuscito a liberarmi!» — disse il bruco: «Gran buona cosa la presenza di
spirito! Ma il più riman da fare, ed è il tornarmene sulla mia foglia. Dov'è ora?»
Rospina gli si avvicinò e gli espresse la propria simpatia. Era ben contenta che la sua bruttezza
avesse spaventato le galline.
«CHE INTENDETE DIRE CON CIÒ?» — GRIDÒ IL BRUCO: «IO MI SON CONTORTO, IO, DA ME SOLO, SIN
TANTO CHE M'È RIUSCITO DI LIBERARMI DALLA GALLINA. E voi siete davvero orribile a vedere. Che non si
possa mai lasciarmi in pace nella mia proprietà? Sento odor di cavolo: la mia foglia dev'essere vicina. NON
C'È NULLA DI BELLO COME IL PROPRIO PODERE. Ma debbo salire più su...»
«Sì, più su!» disse Rospina: «Più su! Prova anch'esso quel che provo io; ma non è di buon
umore oggi, povero bruco! Sarà effetto della paura. Già; tutti si desidera di salire più su.» E guardò in
alto fin dove poteva.
Papà Cicogna stava nel suo nido, sul tetto della fattoria: batteva il becco, e mamma Cicogna faceva
altrettanto.
«Com'è alto lassù, dove abitano loro!» — pensò il rospo: «Ah, poter andare alti a quel modo!...»
Nella fattoria vivevano due giovani studiosi; l'uno era poeta, l'altro era scienziato, e frugava i segreti
della natura. L'uno cantava e scriveva lietamente di tutte le cose create da Dio, e del modo in cui si
rispecchiavano dentro al suo cuore. Cantava il suo canto limpido, breve, armonioso, in versi bene sonanti,
mentre l'altro sviscerava la stessa materia creata, e la squarciava, e la sminuzzava, persino, se ce n'era
bisogno. Il giovane naturalista considerava la creazione di Dio come un grande totale aritmetico; sottraeva,
moltiplicava, provava e riprovava, per conoscerlo dentro e di fuori, e per poterne parlare dottamente. Si
trattava di pura dottrina, infatti; ed egli parlava dottamente e serenamente. Erano buoni giovanotti, in fondo,
e allegri tutti e due.
«Ecco un buon tipo di rospo!» — disse il naturalista: «Bisogna che lo metta in un vaso di spirito.»
«Ne hai già due!» — disse il poeta: «Lascia che quella povera bestia si goda in pace la vita!»
«Ma è così meravigliosamente brutto...» — insistette il primo.
«Sì, se potessimo trovargli la gemma nel capo,» — disse il poeta, «anch'io ci starei, e ti aiuterei, anzi,
a farlo a pezzi!»
«La gemma!» — esclamò il naturalista: «Davvero sembri saperne molto in fatto di storia naturale!»
«Eppure, c'è molta poesia nella credenza popolare che giusto il rospo, il più brutto degli animali,
debba spesso avere nel capo la gemma più preziosa! Non accade forse lo stesso per gli uomini? Che gemma
era quella di Esopo, e, meglio ancora, quella di Socrate!»
Rospina non udì altro, e nemmeno comprese, del resto, la metà di quel che aveva udito. I due amici
si allontanarono passeggiando, e così essa sfuggì alla sorte di finire in un barattolo di spirito.
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«Anche quei due lì parlavano della pietra preziosa!» — disse tra sé: «Fortuna che non ce l'ho! Se no,
avrei potuto trovarmi a mal partito.»
Si sentì un gran batter di becchi sul tetto della fattoria.
Papà Cicogna teneva un discorso alla famiglia, e tutti guardavan giù ai due giovanotti, che
passeggiavano nell'orto.
«L'uomo è l'animale più presuntuoso,» — diceva papà Cicogna: «Sentite come battono il becco, eh?
E con tutto ciò, non sanno nemmeno arrotarlo come si deve. Si vantano della loro eloquenza e della loro
lingua! Sì, bella lingua davvero! Ma se cambia ad ogni giornata del nostro viaggio, e l'uno più non intende
l'altro! Noi, almeno, possiamo parlare la nostra lingua in tutta la terra — su, in Danimarca, come in Italia od
in Egitto. E poi, gli uomini non sanno volare. Quand'hanno fretta, CORRONO A PRECIPIZIO PER MEZZO D'UN
RITROVATO, CHE CHIAMANO FERROVIA; MA TANTE VOLTE, POI, CON QUELLA SI ROMPONO IL COLLO. MI
SENTO VENIRE IL BECCO FREDDO A PENSARCI. Il mondo potrebbe perfettamente tirare innanzi senza uomini.
Quanto a noi, potremmo farne senza benissimo, sin che ci saranno ranocchi e bruchi.»
«Ecco un discorso magistrale!» — pensò Rospina: «Che personaggio è mai quello, e in che
posizione elevata! Non ho ancora mai veduto alcuno tanto in alto. E come nuota!» esclamò, quando la
Cicogna volò via per l'aria ad ali spiegate.
Mamma Cicogna, nel nido, incominciò a sua volta a parlare: raccontò dell'Egitto, e delle acque del
Nilo, e di quell'impareggiabile fango, unico al mondo, che si trova in quello strano paese; e tutto ciò suonava
nuovo ed incantevole al piccolo rospo.
«Bisogna che vada anch'io in Egitto!» — disse «Pur che babbo Cicogna od uno dei cicognini mi ci
volesse portare... In cambio potrei offrirgli i miei servigi per il giorno delle nozze. Sì, arriverò sino in Egitto,
perché mi sento così felice... Tutti i desideri ed i piaceri che provo, sono ben più che avere una gemma nel
capo!»
Ed invece la gemma l'aveva proprio lei. La gemma era quello struggente desiderio, quell'eterna
aspirazione a salire, a salire sempre più in alto. Brillava nel suo capo, splendeva nella sua gioia,
raggiava vivida dalla sua nostalgia.
A un tratto, capitò la cicogna. Aveva veduto il rospo tra l'erba, e calò a terra, ed afferrò la bestiola
tutt'altro che garbatamente. Il becco della cicogna la feriva, il vento fischiava: veramente era ben poco
piacevole; ma si sentiva andar su, su verso l'Egitto; lo sapeva, ed ecco perché gli occhi le brillavano, sì
che una scintilla parve uscirne per l'aria a volo.
«Quak!... Ah!»
Il corpo era morto; il rospo ucciso! Ma la scintilla che gli era uscita dagli occhi? Che cosa n'era
avvenuto, di quella?
Il raggio del sole la raccolse; il raggio del sole portò via la gemma dal capo del rospo. Ma dove
la portò?
Non lo domandare al naturalista: domandalo piuttosto al poeta. Egli te lo dirà in forma di
fiaba; ed il bruco sulla foglia di cavolo, e la famiglia delle cicogne, fanno parte anch'essi della fiaba.
Pensa! Il bruco si trasforma e diventa una magnifica farfalla; la famiglia delle cicogne vola al di là dei
mari, al di là dei monti, sino alla remota Africa; e sa poi trovare la via più breve per tornare allo stesso
paese, anzi allo stesso tetto. Ebbene: tutto ciò sembra una novella sin troppo inverosimile; eppure è
vero. Puoi domandarlo al naturalista, ed egli dovrà ammetterlo; e poi, lo sai anche tu, perché l'hai
veduto.
Ma la gemma nel capo del rospo?
Cercala nel sole, e fa' di vederla se ti riesce.
Lo splendore là è troppo abbagliante. I occhi nostri non sono ancora capaci di penetrare in quella
gloria creata da Dio, ma un giorno li avremo, e sarà la fiaba più bella di tutte, perché ci saremo dentro
anche noi2.
2
H.C. ANDERSEN, op. cit., pp. 275-280. Il questo volume è la fiaba posta in chiusura della sezione Storie di animali. Nell'antico volume
delle 40 novelle questa era la quarantesima ed ultima. Ha pertanto un riconosciuto valore di epilogo e di sintesi della creatività di Andersen.
A quella lontana traduzione di Maria Pezzé-Pascolato, che conobbe all'epoca gli elogi di Giosue Carducci, ci siamo qui in parte attenuti. Le
40 Novelle sono scaricabili dalla biblioteca di www.liberliber.it
6
SECONDA PARTE:
Il brutto anatroccolo
La fiaba è scandita in quattro macrosequenze, corrispondenti alle quattro stagioni. Tutto comincia d’estate
con un caleidoscopico sguardo sulla “meravigliosa bellezza” della campagna, bagnata dal sole estivo:
«Com’era bello, fuori, in campagna! Era estate! Il grano era giallo, l’avena verde, il fieno era stato raccolto
in mucchi nei prati, dove la cicogna passeggiava con le sue lunghe zampe rosse biascicando egiziano, la
lingua che le aveva insegnato la madre». Una giovane anatra stava covando la propria nidiata in un luogo
selvaggio, «sotto le grandi piante di farfaraccio». Quando le uova si schiusero, gli anatroccoli cominciarono
a sguazzare e «si guardavano intorno sotto le foglie verdi, e la mamma lasciava che guardassero quanto
volevano perché il verde fa bene agli occhi».
Il neonato anatroccolo “brutto e grigio”, viene scambiato dapprima per un pulcino di tacchina, poi
riconosciuto come figlio (i tacchini non sanno nuotare) e condotto nel pollaio-stanza delle torture. Andersen
ci consegna qui un grande affresco della condizione umana come esilio, estraneità, drammatica percezione
della propria finitezza: tutto il pollaio morde, prende a spinte, becca e deride la creatura brutta; l’anatra che
l’ha covato – colei che vedendolo nuotare l’aveva trovato persino bello – ora gli dice: «come ti vorrei
lontano!». Allora l’anatroccolo fugge: è una corsa disperata, tra gli enormi cani da caccia dagli occhi
fiammeggianti e il sibilo dei proiettili. Quando trova rifugio in una capannuccia, il moralismo saccente della
gallina e del gatto gli risulta insopportabile. Riprende così a peregrinare. E arriva l’autunno, tempo di
migrazioni…
(…) Una sera che il sole calava più bello che mai, sbucò dai cespugli UNO STORMO di grandi uccelli,
STUPENDI; mai l'anatroccolo aveva visto uccelli così belli. Erano d'un BIANCO abbagliante, con lunghi
colli flessuosi; erano CIGNI. Essi mandarono un grido bizzarro, aprirono le stupende ali, e dalla fredda
regione si allontanarono a volo verso paesi più caldi, verso il libero mare! Si alzarono alti, altissimi, e il
piccolo, brutto anatroccolo sentì una strana nostalgia nel CUORE, cominciò a rotolare nell'acqua come una
ruota, tese il collo in aria verso di loro e mandò un grido così acuto e strano che ne ebbe paura lui stesso.
Ah! non riusciva a dimenticare i begli uccelli! quegli uccelli felici! E quando non li vide più si immerse nel
fondo dell'acqua, e tornato alla superficie, era come fuori di sé. Non sapeva che nome avessero quegli
uccelli, né dove volassero, eppure li amava come non aveva mai amato nessuno; non li invidiava per nulla,
come poteva sognarsi di desiderare una tale bellezza! Se soltanto le anatre lo avessero tollerato tra loro,
sarebbe stato molto contento! Povera creatura brutta!
L'inverno fu molto, molto rigido; l’anatroccolo doveva muoversi di continuo nell'acqua, perché l'acqua non
gelasse del tutto; ma ogni notte che passava, lo spazio in cui nuotava si faceva sempre più stretto; faceva così
freddo che lo spessore di ghiaccio scricchiolava; l’anatroccolo doveva agitare di continuo le zampe, perché il
cerchio d'acqua non gli si chiudesse intorno; infine fu esausto, rimase fermo e restò preso nel ghiaccio. Al
mattino presto arrivò un contadino, lo scorse, venne a spezzare il ghiaccio col suo zoccolo di legno, e lo
portò a casa da sua moglie. Lo fecero rinvenire.
I bambini volevano giocare con lui, ma l'anatroccolo credeva che volessero fargli del male, e dalla paura
andò a cadere dentro il secchio del latte, e il latte schizzò nella stanza; la donna si mise a gridare e agitare le
braccia, lui allora volò nel mastello del burro, e di lì nel barile della farina, e poi fuori di nuovo; Dio! come si
era ridotto! La donna gridava e l'inseguiva con le molle del camino, i bambini si urtavano l'un l'altro per
acchiapparlo, e ridevano e strillavano; meno male che la porta era aperta, l’anatroccolo volò fuori tra i
cespugli, in mezzo alla neve caduta di fresco e lì restò, mezzo stordito. Sarebbe troppo triste raccontare tutte
le miserie che dovette sopportare nel duro inverno. Si trovava nella palude, in mezzo alle canne, allorché il
sole ricominciò a splendere caldo; le ALLODOLE cantavano, era venuta la bella primavera!
Allora sollevò di colpo le ali, che frusciarono forte in modo insolito e lo sostennero con vigore; senza
nemmeno accorgersene, si trovò in un grande giardino, dove i meli erano in fiore e i cespugli di lillà
odoravano e piegavano i lunghi rami verdi fino all'acqua del canale serpeggiante. Che bel luogo, e che
frescura primaverile! Dal folto delle piante, proprio davanti a lui, sbucarono TRE STUPENDI CIGNI
BIANCHI; con un frullo di piume galleggiavano dolcemente sull'acqua. L'anatroccolo riconobbe i
magnifici uccelli e si sentì invadere da una strana tristezza.
– Io voglio andare da quegli uccelli reali! Ah! mi uccideranno a forza di beccate, perché brutto come sono
oso avvicinarmi ad essi! ma non importa! meglio essere ucciso da loro che essere morso dalle anatre, beccato
dalle galline, pestato dalla ragazza che bada al pollaio, o soffrire le pene dell'inverno! –
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E volò nell'acqua, dirigendosi a nuoto verso i magnifici cigni; questi lo scorsero e filarono con un frullo di
piume incontro a lui. – Uccidetemi pure! – disse la povera bestia, e abbassò il collo sull'acqua aspettando
la morte. Ma cosa vide mai nell'acqua chiara! Vide sotto di sé la sua immagine, e non era più l'uccello di
una volta, grigio e sgraziato, brutto e sgradevole, era anche lui un cigno. Che importa se siamo nati in un
pollaio, quando siamo usciti da un uovo di cigno? In fondo era contento d'aver patito tante miserie e
avversità; poteva meglio apprezzare, adesso, la felicità e la bellezza che lo salutavano. I grandi cigni gli
nuotavano intorno e l’accarezzavano col becco.
Nel giardino vennero dei bambini, che gettarono pane e grano nell’acqua; il più piccolo gridò: – Ce n’è uno
nuovo! – e anche gli altri bambini gridarono dalla gioia: – E’ vero, è arrivato un cigno nuovo! – E battevano
le mani e saltavano, poi andarono a chiamare il padre e la madre; nell'acqua arrivarono pane e dolci e tutti
dicevano: – Com’è giovane e superbo il nuovo venuto! E’ il più bello di tutti! – E i vecchi cigni si
inchinarono davanti a lui.
Allora si sentì timidissimo, nascose la testa sotto l'ala, non sapeva bene cosa avesse! Era troppo felice, ma
non superbo, perché un CUORE buono non diventa mai superbo! Ricordava com'era stato schernito e
perseguitato, e ora invece sentiva dire che era il più bello di tutti gli uccelli. I lillà piegavano i rami fino
all'acqua, il sole splendeva caldo e dolcissimo, lui allora, con un frullo di piume, eresse il collo flessuoso,
esultò nel cuore: – Tanta felicità non l’ho mai sognata, quand'ero un brutto anatroccolo!
Il lino
Il lino era in fiore; i suoi fiori sono azzurri e bellissimi, delicati come le ali di una falena, e anche
più. Il sole splendeva sul lino e le nuvole di pioggia l'innaffiavano, e questo per il lino era bello
come, per un bambino piccolo, esser lavato e, subito dopo, baciato dalla mamma; così diventa
molto più bello; e anche il lino diventava più bello.
- La gente dice che sto benissimo! - diceva il lino, - che mi faccio alto e bello, che diventerò una
belle pezza di tela! Ah! come sono felice! Non c'è nessuno più felice di me! Io sto bene e andrò
lontano! Come mi rallegra il sole, e che buon sapore ha la pioggia, come ristora! Sono
straordinariamente felice, più felice di me non c'è nessuno!
- Sì, sì! - fecero le assi dello steccato. - Tu non conosci il mondo, ma noi lo conosciamo, ci son
venuti i nodi dalle tribolazioni! - e cigolavano da far pietà:
Snip! Snap! Snurre!
Basselurre,
la storia è finita!
- Non è vero per niente! - disse il lino. - Domani splende il sole, la pioggia fa molto bene, io mi
sento crescere, mi sento tutto in fiore! sono l'essere più felice del mondo!
Ma un giorno arrivò della gente che, afferrato il lino per il ciuffo, lo strappò con tutte le radici, che
male faceva! Poi lo misero nell'acqua, come se volessero affogarlo, poi lo misero sul fuoco, come se
volessero arrostirlo, che atroce dolore!
- Non si può mica stare sempre bene! - disse il lino. - Chi non prova, non sa!
Ma andò sempre peggio. Il lino venne spezzato, tritato, battuto, diliscato o chissà come si dice! Poi
arrivò alla conocchia e snurre, snurre, era impossibile raccogliere i propri pensieri!
“Sono stato straordinariamente felice! - pensava nella sua sofferenza. - Devo essere contento per le
cose belle che ho avuto. Contento! Contento! Ah!”. Disse lo stesso anche quando fu sul telaio.
Infine diventò una bellissima pezza di tela. Tutto il lino, fino all'ultima fibra, si trasformò in
un'unica pezza.
- Ma è straordinario! Non l'avrei mai pensato! La fortuna mi accompagna! Ah, sì! Quelle assi dello
steccato credevano di saperla lunga quando dicevano:
Snip! Snap! Snurre!
Basselurre,
la storia è finita!
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- La storia non è finita per nulla! E' cominciata appena! E' straordinario! Ho sofferto un poco, non lo
nego, in compenso però son diventata qualcosa! Sono l’essere più felice del mondo! Sono forte,
morbida, sono bianca e grande! Sono ben altro che una semplice pianta, sia pure in fiore! Allora
nessuno aveva cura di me, acqua ne avevo solo quando pioveva! Adesso sono servita a puntino: la
domestica ogni mattina mi rivolta, e ogni sera mi fanno la doccia con l'annaffiatoio; perfino la
moglie del pastore ha fatto i miei elogi, ha detto che sono la pezza più bella del villaggio! Non
potrei esser più felice di così!
La tela fu portata in casa, fu messa sotto le forbici. Come tagliavano, come squarciavano, e l'ago
come pungeva, perché arrivò anche lui! Non si provava nessun piacere! Ma la tela si tramutò in
dodici capi di biancheria, della specie che nessuno osa nominare, ma che tutti gli uomini debbono
portare, dodici capi di quella specie, dunque.
- Adesso finalmente son diventata qualcosa! Era questo dunque il mio destino! Un destino
benedetto davvero! Ora sono utile al mondo; e dev'esser così, la vera felicità consiste proprio in
questo. Ora siamo dodici capi, ma siam pur sempre tutti una cosa sola, siamo una dozzina! Grande è
la mia fortuna!
Passarono gli anni; infine non ce la fecero più.
- Vuoi o non vuoi, si arriva sempre a una fine! - disse ogni capo. - Avrei voluto resistere ancora, ma
non si può pretendere l'impossibile! - Furono strappati a brandelli; pensarono che fosse tutto finito,
poiché furono tritati, macerati, bolliti e altro ancora che neppur loro sapevano, poi diventarono una
bella carta bianca, finissima.
- Oh! Che sorpresa! Che bella sorpresa! - diceva la carta. Adesso son più fine di prima, si può
scrivere su di me! chissà cosa scriveranno! E' una bella fortuna la mia! - Ci scrissero sopra le storie
più belle del mondo, e la gente stava attenta a sentire perché eran tutte vere e belle, e rendevano gli
uomini più saggi e migliori; quelle parole erano scese come una benedizione sulla carta!
- E' più di quanto sognavo quando ero un piccolo fiore del campo! Come potevo immaginare che un
giorno sarei arrivata a diffondere gioia e sapere tra gli uomini! Non riesco neppure a capirlo! Ma è
proprio così! Il Signore sa bene che io non ho fatto nulla, salvo quel che ero costretta a fare con le
mie umili capacità, per esistere! Egli invece mi conduce da una gioia all'altra, da un onore all’altro;
ogni volta che penso: “La storia e finita!”, mi succede per l'appunto di passare a un'esistenza più
elevata e migliore; certo adesso mi faranno viaggiare, mi faranno girare tutto il mondo, perché tutti
gli uomini possano leggermi! Nulla di più probabile! Un tempo avevo fiori azzurri, oggi, per ogni
fiore, ho i pensieri più belli Non c'è nessuno più felice di me in questo mondo!
Ma la carta non fu mandata per il mondo, bensì in tipografia, dove tutto quello che c’era scritto
sopra fu stampato e raccolto in un libro, anzi, in molte centinaia di libri, perché innumerevoli
persone potessero trarne utilità e diletto; se invece si fosse messa a girare per il mondo quell'unica
carta che possedeva lo scritto, si sarebbe logorata già tutta a metà strada.
“Senza dubbio e la decisione più saggia! - pensava la carta scritta. - Non mi era venuto in mente!
Così io resto a casa riverita come una vecchia nonna! Scrissero su di me, su me la penna lasciò
cadere le parole. Io resto qui e i libri vanno in giro! Adesso la macchina comincia a girare!”
Ne fecero un pacco e lo riposero sullo scaffale. - E' molto utile sostare a contemplare il proprio
operato! - disse la carta. - Ed è molto giusto che ci si raccolga a meditare su quel che sta racchiuso
nella nostra anima! Solo adesso vedo chiaramente dentro di me! Il vero progresso consiste nel
conoscere se stessi! Chissà cosa avverrà adesso? Ci sarà forse un altro passo avanti, perché si va
sempre avanti!
Un bel giorno tutta la carta fu messa nel camino a bruciare, dato che non si poteva vendere al
droghiere per avvolgervi zucchero e burro. Tutti i bambini di casa erano accorsi perché volevano
vederla mentre prendeva fuoco, volevano vedere le scintille rosse in mezzo alla cenere, che
sembrano fuggire lontano, e inaspettatamente poi si spengono una per una, sono i bambini che
escono da scuola, e l'ultima scintilla è il maestro; loro credono sempre che sia già andato via, e
invece eccolo che arriva un po' dopo gli altri.
Tutta la carta stava arrotolata sul fuoco. Uh! come arse subito!
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- Uh! - fece, e in un baleno fu tutta una fiamma, guizzò altissima dove mai la pianta di lino era
giunta coi suoi fiorellini azzurri, e risplendette come neppure la bianca tela aveva saputo
risplendere; tutte le lettere scritte diventarono rosse di colpo, e tutte le parole e tutti i pensieri
s'incendiarono.
- Ora vado dritta nel sole! - disse una voce nella fiamma, ed era come se mille voci lo dicessero
insieme, e attraverso il camino la fiamma uscì all'aria aperta, e lì, completamente invisibili agli
occhi degli uomini, perché più eterei della fiamma stessa, esseri minuscoli fluttuarono nell'aria,
tanti, quanti erano stati i fiori sulla pianta di lino. Erano più lievi della fiamma che li aveva
generati e quando si spensero e altro non restò se non la cenere scura, danzarono ancora una volta
prima di posarsi, poi si videro soltanto le loro orme, le rosse scintille.
I bambini sono usciti da scuola e in coda c'era il maestro. Era divertente guardare, e i bambini della
casa stavano lì a cantare intorno alla cenere spenta:
Snip! Snap! Snurre!
Basselurre,
la storia è finita!
Ma ciascuno dei minuscoli esseri invisibili diceva: - La storia non finisce mai! E' questa la cosa più
bella! Io lo so, e perciò sono l'essere più felice del mondo!
I bambini, però, non vedevano e non capivano, e del resto era giusto, perché i bambini non devono
mica sapere tutto.
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