Questa storia inizia quasi un anno fa quando

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Questa storia inizia quasi un anno fa quando
Questa storia inizia quasi un anno fa quando durante uno dei tanti viaggi decido che è arrivato il
momento di fermarsi in qualche modo e quale miglior modo di fermarsi se non scrivendo? Non
ricordo più nemmeno perché avevo comprato quel quaderno lilla. Forse solo perché mi piaceva
molto l’idea. Era un peso in più nella mia borsa sempre troppo piena e pesante. Portavo in giro
alcune cose a prendere aria perché il loro scopo principale era di riempire la borsa e il senso di
colpa che mi portavo dietro insieme a loro. Mi dicevo: “chissà, magari mi verrà voglia di scrivere”.
Un giorno però, quasi per magia, ho deciso che avrei iniziato a riempirlo quel quaderno e subito, di
fronte al primo foglio bianco, mi sono posta una domandina trascurabile: “ Di cosa scrivere?”. Non
è arrivata una risposta immediata, ferma e solida, come avrei voluto ma solo un leggerissimo soffio
che mi ha portato a dire a me stessa: “ Facciamo che scriverò una pagina al giorno e che il
contenuto, per il momento, resterà una cosa trascurabile”. Così è iniziato questo strano rapporto.
Ogni giorno prendevo una penna in mano e anche nelle giornate più buie riuscivo a riempire quella
benedetta pagina. Spesso mi ritrovavo davanti pagine già scritte in cui ripetevo e ripetevo le
preoccupazioni, le paure e le difficoltà di questa mia piccola vita. E quanto mi assaliva la noia.
Riuscire a scrivere mi sembrava incredibile e quando arrivavo alla fine della pagina giornaliera mi
sentivo come di aver messo un nuovo pezzo del gigantesco puzzle di fronte cui mi trovavo. A volte
ho anche arrogantemente pensato di riuscire ad intravederne il disegno ma ogni tentativo in realtà
è sempre stato vano dato che proprio quel tentativo era il frutto di illusioni, desideri e
immaginazione. Tornando però alla concretezza di quello che scrivevo inizio ad accorgermi non so
da quando, dove né perché che questo unico soggetto( anche se la parola “unico” non mi
dovrebbe essere concesso usarla dato che ci troviamo di fronte ad un personaggio “Centomila o
Nessuno” più che “Uno”) di cui mi ritrovo a parlare ero sempre “io”: io che faccio, che dico, che
sento, che non sento, che soffro, soffro e soffro e che cerco di immettere nei miei bui processi
mentali un po’ di coraggio. Da quello che scrivo inizio a vedermi come un chimico che con il
contagocce cerca di realizzare una pozione non esplosiva. Cercavo di riempire il serbatoio del
coraggio, completamente svuotato e dimenticato. Mi vedo lì, con carta e penna come contagocce
che spingo fuori quello che in realtà sto stillando dentro. Questo era uno solo degli aspetti visibili
che notavo nello scrivere. La noia di me e di tutte le solite piccolezze umane che mi portavo dietro
e che non si allontanavano mai un momento dai miei monotoni giorni era una bomba che cercavo
di evitare ma che più sfuggivo e più mi ritrovavo davanti. Come avrei dovuto fare per seminare
questa noia mortale che mi prendeva al petto, alla gola e alla testa? Non ho ancora trovato la
soluzione anche se so che ci sguazzo dentro come se fosse il più bel lago mai “penetrato” da corpo
umano. Pensavo a volte che di fronte alla noia che provavo mi sarei dovuta fermare e non sputare
parole solo per il gusto di sputarle ma ormai il gioco era stabilito. Non potevo tirarmi indietro da
quell’esercizio giornaliero che stava ridettando delle regole mute al mio spirito. Ho continuato così
a riempire le pagine di parole buttate lì, di frustrazioni ma anche di particolari toccanti che mi
passavano accanto. Scrivevo un po’ per autocompiacimento e per lusinga e quando mi resi conto
che quella pagina non serviva che ad accrescere un ego già abbastanza prepotente( anche se senza
meriti) mi fermai. E riassestai il tiro, mi feci una bella risata “alla gran bella faccia mia” e ricominciai
l’esercizio che non mi era permesso interrompere. Scoprire che l’autocompiacimento e
l’autocommiserazione si trovavano frammisti intrisi mischiati anche nello scrivere, travestiti da
parole vaghe e poco direzionate, mi stupì. Non avevo gli strumenti per cambiare modo di
scrivere( visto che forse lo strumento che cercavo era anche il processo in cui mi trovavo) ma
potevo sempre continuare ad osservare questa buffa creatura che ogni giorno scoprivo di “essere”.
La scrittura diventava il modo per notare le bizzarrie e le scemenze della persona che mi trovavo ad
essere. Presto però una domanda, anche questa abbastanza trascurabile, arrivò a bussare alle mie
porte chiuse: “ Fino a che punto sei disposta ad osservare?”. Naturalmente il punto era un punto
ben visibile, conosciuto, già esplorato, non c’era nient’altro da osservare che non avessi già
osservato. “ Mi sto già osservando da tutti i punti di vista..” mi dicevo. Ma nelle pagine continuavo
a stillare( oltre alle gocce di coraggio che avevano colori sempre più vivaci) preghiere di salvezza.
Domandavo di riuscire a notare qualche altro particolare recondito della mia “anima”( per quanto
le parole siano portatrici di senso penso che bisognerebbe essere disposti a volte a non aggiungere
il proprio senso ma cercare di indovinare e interpretare il senso che l’altro vuole dare alle sue
parole. Tutto questo per dire che la parola “anima” ha per me un senso simbolico e nient’altro.),
speravo che mi venisse svelato o che un’intuizione me ne mettesse davanti delle manifestazioni da
interpretare. Come è facile immaginare tutto questo non poteva in nessun modo accadere. E fu
così che arrivai a notare un’altra lieve caratteristica alla quale si intrecciavano visceralmente due
pessimi compagni di viaggio: la pigrizia, la contraddizione e l’arroganza. Non avevo per niente
voglia di mettermi a sgobbare dietro alle mie preghiere. Mi bastava l’idea di averle verbalizzate per
farmi sentire a posto con la grande assente, la coscienza. Perché avrei dovuto impegnarmi a
cercare di osservare diversamente le cose quando potevo continuare a dormire dolcemente nella
mia noia mortale e nei sogni melmosi? Mi scoprivo disonesta in primo luogo di fronte a me stessa.
Stavo davvero pregando un dio anelato mentre facevo l’occhiolino al suo più grande nemico. E,
naturalmente, pretendevo che le preghiere offerte a quel dio invisibile si avverassero come se tutto
fosse e fosse sempre stato al proprio posto, nella giusta via e nella corretta direzione. Non vedevo
che tutto era falso in me e che la bella persona che credevo di essere in realtà era un’informe
ammasso di cacche di pollo. Mi sentivo proprio come una montagnetta di cacche spazzate via dal
pollaio, pronte per essere buttate via. C’è una storia che non molto tempo fa mi sono ritrovata a
leggere su un libro per bambini e questa storia aveva un ritornello, sorta di filastrocca centrale, che
faceva così: “ non si può passare sopra, non si può passare sotto, bisogna passarci in mezzo..”.
Avevo cattivi compagni in questo percorso ma non potevo più ignorarli e sapevo ormai che l’unico
modo per togliere loro potere era conoscerli uno ad uno. Iniziò, o forse continuò, quella ricerca e
quell’esercizio che ogni giorno mi faceva impugnare la penna. Scoprii così di quanto davvero pigra
potesse essere la mia mente, di quanto pavido potesse essere il mio cuore, di quanto cieca potessi
essere “Io”. Inoltre mi resi conto di quanto comoda fosse la mia vita per me. Mi trovavo
esattamente nel posto in cui dovevo essere, il posto che avevo “costruito” e che beffa della vita
ritrovarsi poi a non volerci più stare, a volere scappare proprio dal posto che ci eravamo
scelti( parlo al plurale perché immagino di non essere l’unica a trovarsi in questa situazione). E
continuando nella strada ombrosa nella quale mi portava la scrittura mi accorgevo che sempre più
la mia ricerca passava attraverso di lei e che senza di lei tutto si sarebbe perso per strada. Era la
mia mappa. Sentivo che comunque fosse andata lei, la scrittura, mi avrebbe accompagnata. Così è
successo che mi sono accorta della reciprocità di questa azione e che tutto era proporzionale a
quello che ero disposta a dare. La tela prendeva forma e ognuno dei cattivi compagni di viaggio
fino a lì incontrati avevano solo bisogno del loro opposto per essere smorzati. Mi misi ad
alimentare un fuoco che credevo spento( e che infatti era quasi diventato cenere) e, con un
qualcosa di cui non conosco il nome, iniziai a lottare contro me stessa: alla pigrizia opposi
l’operosità, all’arroganza l’umiltà. Iniziò così una grande battaglia. Pochi cavalieri valorosi furono
schierati contro orrendi esseri minacciosi e sono ancora li, a combattere senza sapere chi riuscirà a
vincere questa guerra. Lunghi sono i processi interni e ancora di più lo sono per chi ha sempre
mentito a se stesso.
Questo viaggio è iniziato in un modo che non avrei mai saputo immaginare e, se riuscirò a lasciarmi
andare, chissà dove potrà ancora condurmi, che eremi esplorerò, che terre e che paesaggi
potranno succhiare i miei occhi, chissà che temperature potranno ancora avvolgere il mio corpo. E
chissà che aria respirerò. Resto convinta che il gioco sta tutto qua, nell’essere disposti a starci fino
in fondo. La scrittura finora è stato il mio delicato strumento. Ha bussato alla mia porta senza la
minima invadenza, mi ha chiesto di farla entrare e non ho potuto rifiutare una così dolce richiesta.
Senza nessuna promessa si è seduta di fronte a me con un sorriso impercettibile sulle
labbra( invisibili) ed ha iniziato a sussurrarmi suoni incomprensibili ma che presto ho riconosciuto
come onde del mare. Tante strade ho anche percorso senza comprendere che il viaggio era già
cominciato. Aspettavo un segno che mi facesse capire che si, ero in viaggio. Ma anche se il segno
era già lì non riuscivo a vederlo perché cercavo quello che pensavo dovesse essere IL segno. “Il
segno” però era una mia costruzione, una mia idea, e, come sappiamo, non a tutti gli uomini è
dato avere delle costruzioni che rispecchino davvero la realtà. Sono una dei tanti esseri umani a cui
non è dato conoscerla davvero. E quando mi sono resa conto che anche in questo mi trovavo nella
mia stessa trappola ho deciso di diventare fiume e di lasciarmi andare a questo percorso
movimentato chiamato vita.
La voce di un bambino mi riporta davanti a questo computer che tocco da ore ma che aveva perso
il suo carattere materiale diventato solo lo strumento di espressione di questi pensieri. Il vento
leggero che entra dalla finestra aperta di questa biblioteca sembra suggerirmi parole di speranza e
mi lascio prendere dall’aria frizzante per scambiare qualche parola con il mio vicino di tavolo.
Chissà che non si finisca per prendersi per mano ed iniziare un nuovo viaggio.