il rischio e gli infortuni sul lavoro e le malattie

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il rischio e gli infortuni sul lavoro e le malattie
IL RISCHIO E GLI INFORTUNI SUL LAVORO E LE MALATTIE
PROFESSIONALI
Sommario: 1. Premessa: un richiamo storico – 2. La nozione di rischio di infortunio e malattia professionale – 3.
La tutela del lavoratore: gli obblighi e le azioni per la sicurezza e l’igiene sui posti di lavoro nella Costituzione e
nei Codici – 4. Rischio professionale e la legislazione di sicurezza ed igiene del lavoro – 5. Prospettive di riforma
e Codice in materia di igiene e sicurezza del lavoro – 6. Rischio professionale – Risarcimento – Indennizzo
Assicurativo – 7. Rischio e Assicurazione obbligatoria contro infortuni e malattie professionali – 8. Rischio
professionale, lavorazioni, soggetti assicurati – 9. Conclusione: attualità di un discorso sul rischio.
1. PREMESSA: UN RICHIAMO STORICO
Il fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, nella definizione che poi daremo nel
successivo paragrafo, è ancora un tema centrale sul piano economico e sociale, con un rilievo che ne trascende le
dimensioni, certamente non paragonabili a quelle degli incidenti della circolazione stradale, degli infortuni della
casa, delle patologie da inquinamento ambientale oggi di viva attualità. Il rilievo è collegato al valore che la società
attribuisce al lavoro quale fattore di crescita della società stessa e di valorizzazione della persona umana, come
riconosciuto dalla nostra Costituzione che fonda proprio sul lavoro la Repubblica. Il valore trascende, cioè, la
rilevanza intrinseca che il fenomeno possa assumere, se valutata comparativamente con quella di altri fattori di
rischio, appunto perché la coscienza sociale continua a considerare di particolare gravità – in certa misura
inaccettabili - gli eventi lesivi occorsi a persone che lavorano e perché lavorano.
Questa concezione, profondamente radicata nella coscienza sociale al di là del fondamento giuridico ed
economico della relativa tutela, si è sviluppata nel corso dei secoli, a partire da un diverso apprezzamento in
epoche antiche nelle quali era assorbente – in una visione che trova interessante eco nelle più moderne
concezione della sanità pubblica e del suo ruolo – l’esigenza di tutelare la salute a prescindere dalla fonte delle
malattie, con particolare attenzione a quei fattori di rischio riconducibili ad epidemie ed endemie1. Del resto, nel
mondo antico difficilmente avrebbe potuto affermarsi una strategia di attenzione specifica per gli infortuni del
lavoro, tenuto conto che il lavoro restava, soprattutto per le componenti più pericolose, mestiere degli schiavi e
che, in ogni caso, ripugnava una qualsivoglia forma di valutazione economica della vita e della persona umana.
Bisogna arrivare all’epoca medievale per uno specifico apprezzamento dell’infortunio sul lavoro come
fonte di danno risarcibile: nell’editto di Rotari del 22 novembre 643, infatti, si prevedeva il risarcimento del
danno subito, fra l’altro, dal lavoratore edile, con un chiaro accollo del relativo onere al datore di lavoro,
variamente identificato nell’editto quale responsabile civile dell’evento lesivo. Queste prime indicazioni – riprese
da altre legislazioni barbariche – trovarono poi un più organico sviluppo nel XVII secolo sia in Inghilterra che in
Francia, parallelo con l’affermarsi di forme di mutualità “corporativa” per le malattie e per il sostegno per
lavoratori in età avanzata. L’esplodere, poi, della questione sociale nel XVIII secolo determinò una più matura
consapevolezza della necessità di promuovere forme di salvaguardia della salute dei lavoratori, con interventi che
oggi definiremmo di legislazione sociale, rivolto innanzi tutto alle categorie più deboli e cioè al lavoro dei fanciulli
e delle donne.
Con il progredire della consapevolezza della gravità dei rischi professionali, la relativa tutela usciva, così,
dall’assistenza caritativa e dalla beneficenza pubblica per collocarsi al centro della attenzione dei legislatori, dei
politici e delle dottrine sociali - di ispirazione cattolica e laica, con crescente eco a livello internazionale nell’opera
dell’O.I.L. particolarmente attenta, con il suo Bureau, al problema del risarcimento degli infortuni e malattie
professionali.
A partire, insomma, dalla rivoluzione industriale e dalla conseguente migrazione di imponenti masse
contadine verso i centri urbani e nuovi mestieri2 di pericolosità non paragonabile a quella dei tradizionali processi
In un contesto più ampio di riforma della previdenza sociale in ottica di sicurezza sociale, è stata a suo tempo prospettata l’esigenza di
superare la considerazione specifica dei rischi del lavoro per privilegiare un intervento pubblico e sociale che rimuova tutte le condizioni di
rischio per la salute dei cittadini e ad intervenire all’insorgere di un bisogno di cure o di assistenza in relazione alla gravità del bisogno,
indipendentemente dall’origine professionale o meno di esso. In senso critico sul punto v. G. Ferrari – G. Ferrari, Infortuni sul lavoro e
malattie professionali, Padova, 2004, pp. 48 e ss..
2 La rivoluzione industriale si affermò in Europa anche grazie alla disponibilità di notevoli masse di contadini resa possibile dalla
contemporanea rivoluzione delle coltivazioni agricole, con l’abbandono del maggese per migliori rendimenti con impiego di meno risorse
umane. Da ciò, appunto, un imponente movimento di migrazione territoriale e professionale, non accompagnato certamente da un
percorso di formazione dei contadini operai con riflessi in termini infortunistici facilmente comprensibili.
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lavoro, l’attenzione ed il confronto politico salirono nettamente di livello, quale componente essenziale del
patrimonio di bisogni, da un lato, di rivendicazioni, dall’altro, della classe lavoratrice.
Sia in Italia che in Europa – ed anche a livello mondiale – l’attenzione per il tema si è sviluppata da una
duplice prospettiva che può costituire il filo conduttore della sommaria ricostruzione del sistema che intendiamo
proporre. Sicuramente, cioè, il primo impegno, a livello politico e sociale, fu quello di garantire un ristoro
adeguato ai lavoratori ed alle loro famiglie nell’eventualità di un infortunio sul lavoro; e non è un caso che
l’attenzione fosse tradotta pressoché contemporaneamente in legislazioni che introducevano forme di
assicurazione, volontarie prima obbligatorie poi, per detta garanzia.
Di fronte al fenomeno infortunistico, però, le iniziative per garantire adeguata protezione agli infortunati
e loro famiglie sono state ben presto accompagnate da un impegno, crescente nel tempo, per la prevenzione, che
ha finito per prendere da ultimo il sopravvento nell’opinione pubblica e fra le forze politiche e sociali.
In Italia, soprattutto all’indomani della Costituzione la storia e la cronaca del sistema di sicurezza sociale
sono state caratterizzate dal confronto fra quanti intendevano ed intendono privilegiare in modo assoluto la
prevenzione, quale interesse primario ed anzi esclusivo dello Stato, e chi privilegiava la tutela per la situazione di
bisogno conseguente all’infortunio.
Si tratta, insomma, del confronto continuo – polarizzato sugli artt. 32 e 38 Cost. - fra la prevenzione e
l’assicurazione, che è stata vista a lungo come la più raffinata forma di monetizzazione 3 del rischio, da
“abbattere” proprio per evitare che con un massiccio assorbimento di risorse finanziarie essa renda vano ogni
tentativo di organiche politiche per la sicurezza e l’igiene del lavoro4.
Negli ultimi anni il rapporto fra i due sistemi sembra essersi riequilibrato in un’ ottica di integrazione,
poichè alla crescente attenzione per la sicurezza e l’igiene del lavoro corrisponde un recupero di attenzione per i
profili assicurativo/indennitari. L’obiettivo di azzeramento degli infortuni resta, infatti, doveroso e prioritario; ma
chiaramente in termini tendenziali sicché continua ad essere indispensabile la funzione dell’assicurazione sociale
per i rischi professionali. Una assicurazione, del resto, che, nata alla fine dell’800’ si è evoluta per oltre mezzo
secolo ed anche oltre grazie a ripetuti e coerenti interventi del legislatore ed all’opera della dottrina e di una
giurisprudenza capace di cogliere la duttilità delle nozioni base dell’assicurazioni infortuni nel continuo adeguarsi
all’evoluzione della coscienza sociale e giuridica.
Con questo breve excursus storico 5 possiamo passare ad una schematica trattazione del rischio di
infortunio e malattia professionale quale potenziale fonte di danno per il lavoratore e la sua famiglia, per valutare,
poi, gli strumenti per eliminarlo o ridimensionarlo, nonché quelli che l’ordinamento appresta per il lavoratore al
verificarsi poi dell’infortunio od al manifestarsi della malattia professionale.
2. LA NOZIONE DI RISCHIO DI INFORTUNIO SUL LAVORO E MALATTIA PROFESSIONALE
Quale possibilità/probabilità 6 del verificarsi di un evento lesivo di origine professionale, questa figura di
rischio trova la sua qualificazione nel riferimento alla nozioni di infortunio sul lavoro e di malattia professionale
rilevanti nell’ordinamento giuridico ed ancor prima a livello scientifico e tecnico. A tal fine, date le obiettive
difficoltà di individuare una nozione “naturalistica” valida per le diverse prospettive costituisce utile punto di
riferimento la normativa del Testo unico, secondo il quale l’assicurazione copre i casi di infortunio avvenuto per
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lungo il rischio di infortunio o malattia professionale è stato considerato un quid ineluttabile, rispetto al quale, però, il lavoratore aveva
diritto già in base alla contrattazione collettiva a corrispettivi, quali integratori della retribuzione per condizioni di pericolo, sotto svariate
forme di indennità di rischio.
4 Per cogliere questo profilo è interessante il confronto scientifico e politico che si sviluppò fra le due guerre mondiali attorno al tema della
malaria: se fosse o non qualificabile come infortunio sul lavoro con tutte le conseguenze del caso. Ed è significativo che ci si opponeva alla
estensione dell’assicurazione infortuni alla malaria nel timore che la previsione di un indennizzo assicurativo avrebbe potuto comportare
un abbassamento della tensione, sociale ed individuale, per la rimozione a monte del rischio, tramite la bonifica ed il risanamento dell’agro
pontino.
5 Per una esauriente ricognizione dei precedenti storici e del dibattito scientifico e politico che è alla base della tutela infortunistica nella
sua attuale configurazione, cfr. G. Cataldi, L’INAIL - Testimonianza di un secolo, Roma, 1983, pp. 1 e ss., ed ivi ampi richiami alla dottrina
che ha diffusamente trattato dei precedenti storici della assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
6 Gran parte del dibattito scientifico, con eco in giurisprudenza, circa il campo di applicazione soggettivo della tutela si è incentrato
proprio sulla circostanza che da parte di taluni si riteneva che il rischio fosse apprezzabile per la probabilità del verificarsi dell’evento
piuttosto che per la semplice possibilità. Nel campo della tutela sociale questa impostazione è superata nel senso che la probabilità può
misurare l’intensità del rischio e, quindi, l’incidenza del premio ma non può condizionare il diritto del soggetto alla prevenzione, prima,
all’indennizzo, poi, in forme e modi adeguati e congrui. Il superamento sostanziale, peraltro, non è completato da una coerente
riformulazione del testo di legge, sicché la compiutezza della tutela per il versante soggettivo resta legata all’incessante opera interpretativa
di dottrina e giurisprudenza con tutti i limiti derivanti dalla mancata riforma generale del sistema. Sul fatto che già all’epoca del T.U. la
riforma avrebbe potuto essere effettuata sicché il Testo può considerarsi una “occasione mancata” v. G. Ferrari – G. Ferrari, op.cit., p. 13.
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causa violenta in occasione di lavoro, da cui siano derivate la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta
o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per almeno tre giorni.
La definizione – a ben guardare una “non definizione”, come quella di malattia professionale –
corrisponde al comune sentire e può essere utilizzata per ricostruire il percorso del rischio professionale a fini
risarcitori/indennitari ed anche in ottica di prevenzione, purchè si sconti la novità del danno biologico e si
prescinda dalla limitazione ai soli casi con inabilità temporanea assoluta superiore a tre giorni che, valida per le
obbligazioni dell’assicuratore, è fuorviante se assunta per valutare il fenomeno.
In questi termini può ritenersi che nel nostro ordinamento assuma rilievo il rischio del verificarsi di
eventi che, determinati dal fattore lavoro, possano provocare al lavoratore una lesione dell’integrità psico fisica
riconducibile all’azione dell’anzidetto fattore in termini di causalità efficiente. Il rischio assume rilevanza, come
vedremo, quale oggetto dell’omonima assicurazione sociale, ma prima ancora del dovere di sicurezza
dell’imprenditore, degli obblighi contrattuali a questi facenti capo, nonché delle normative specifiche di sicurezza
ed igiene del lavoro. Riguarda, quindi, ormai tutti coloro che traggano dal “lavoro” la fonte di reddito, siano essi
lavoratori autonomi o dipendenti ovvero soggetti che partecipano di connotati di entrambe le categorie sicché
coglie meglio l’evoluzione del sistema l’idea che il rischio riguardi quanti svolgano una attività produttiva in modo
professionale, quale che sia la figura contrattuale utilizzata ed il relativo corrispettivo.
D’altra parte, li riferimento alle situazioni di rischio che si traducano in un danno alla persona del
lavoratore consente di escludere, ai nostri fini, il “rischio professionale” riferito alle situazioni di rischio collegate
all’esercizio della “professione” o “mestiere” lavorativo, nonché quelle particolari situazioni di danno che
possano emergere nel rapporto di lavoro senza peraltro tradursi in una lesione alla integrità della persona.
Così circoscritto, il fenomeno mantiene una dimensione che, pur non paragonabile come si è detto per
intensità e gravità ad altri rischi, è significativa nei valori assoluti e nella dinamica storica che accompagna
l’evoluzione dei sistemi economici e produttivi, del mercato del lavoro, delle concezioni politiche e sociali.
Prendendo a base i dati dell’’INAIL che restano il più agevole – ed omogeneo nel tempo – punto di riferimento,
nel 2003 sono stati denuniati 977.803 infortuni (71-098 – 881- 676 – 25029) (dei quali 1.263 mortali7 e circa
73.000 casi di infortuni in itinere, di cui 309 mortali). Il numero dei casi indennizzati è di circa un terzo inferiore
ma il dato iniziale relativo alle denunce resta significativo – specialmente in ottica di prevenzione – poiché in ogni
caso esprime l’apprezzamento da parte del lavoratore, e del datore di lavoro, della riconducibilità dell’evento alla
rischiosità del posto di lavoro.
L’andamento è certo preoccupante oltretutto perché i dati sono sottostimati per il lavoro in nero. Negli
ultimi anni, però, si va consolidando un’inversione di tendenza, che si ritiene legata al miglioramento della
sicurezza ed igiene con a monte la trasformazione degli stessi sistemi di produzione. Così nel 2003 si è registrato
una riduzione dell’1,3%, con un calo confermato dall’analisi tendenziale di medio periodo (1999-2003) che nel
2002 è stato del 3%. La tendenza è ancor più marcata qualora si consideri il contestuale aumento
dell’occupazione che porta gli indici di incidenza (frutto del rapporto fra numero di infortuni e numero di
esposti) a – 0.6 del 2000, - 0,8 nel 2001, - 4.4 nel 2002, - 2,6 del 20038.
All’inversione di tendenza per i numeri assoluti e relativi e per la stessa gravità delle conseguenze lesive
corrisponde una crescente diversificazione delle fonti di rischio, sempre più legate a fattori organizzativi ed alla
carente formazione/informazione dei lavoratori prima ancora che alla oggettiva condizione di pericolosità dello
specifico agente materiale, chimico, biologico ecc.
Cresce, cioè, la consapevolezza che nel rapporto di interdipendenza fra l’uomo, l’organizzazione della
produzione e gli agenti pericolosi, è insufficiente agire solo su questi ultimi: proprio di recente l’Agenzia di Bilbao
per la prevenzione ha ribadito che oltre il 60% degli infortuni derivano da fattori organizzativi e dalla scarsa
informazione e formazione del lavoratore e del datore di lavoro, sempre più spesso egli stesso esposto al rischio.
E’ necessaria, quindi, una diversa attenzione alla rete di relazione interne all’azienda sulle quali la
produzione poggia per orientare quest’ultima al contrasto dei rischi professionali. In questo modo la prevenzione,
lungi dal costituire un costo, diviene fattore di successo, essenziale per stare su un mercato sempre più
Nella valutazione del rischio di infortunio e malattia professionale occorre considerare l’inclusione degli infortuni in itinere, in logica
assicurativa, fra gli eventi indennizzabili di recente consolidata con legge. Essa comporta, infatti, una valutazione non puntuale del rischio
del “lavoro” in senso stretto, imputabile cioè allo svolgimento dell’attività professionale, poiché il notevole numero di infortuni in itinere
sarebbero da riferire in effetti alle statistiche del rischio della strada, pur se aggravato dalla motivazione per la quale lo si affronta.
8 Anche a livello europeo si registra un lento ma continuo ridimensionamento del numero di infortuni, con una tendenza che peraltro va
apprezzata nelle indicazioni specifiche per aingoli Paesi e settore produttivo, con prudenza tenuto conto delle disarmonie fra le rilevazioni
statistiche dei vari Stati, persistenti pur se in via di superamento per l’opera di organismi internazionali per la quale si v. Rapporto INAIL
2002, p. 21. Ben diverso è il quadro a livello mondiale dove i dati generale, pur privi della solidità statistica delle rilevazioni europee,
denunciano un quadro molto grave sintetizzato nel Rapporto ora citato in un infortunio l’anno ogni otto lavoratori con un infortunio
mortale l’anno ogni 6.000 lavoratori.
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competitivo, ove le imprese migliori per vincere la concorrenza devono puntare sulla valorizzazione della
Responsabilità Sociale di Impresa.
Pertanto si tratta di valorizzare l’insieme di fattori che dimostrano come l’azienda, senza rinunciare al
profitto, persegua obiettivi di qualità nei rapporti con i clienti e con le professionalità interne, che si riflettono in
termini di qualità del prodotto e del servizio. In questo quadro costituisce un momento essenziale della
Rendicontazione sociale la dimostrazione della qualità delle misure di prevenzione a tutela della salute ed integrità
fisica dei lavoratori, con l’ulteriore obiettivo di ridimensionare i costi sociali e finanziari del fenomeno.
In proposito, da tempo a livello internazionale ed anche in Italia si è impegnati nella stima dei costi dei
rischi professionali per le aziende e per l’intera collettività, con risultati che nel 1996 valutavano in circa 55.000
miliardi di lire detto costo, di cui un quarto relativo ad oneri per prevenzione, un altro quarto per oneri
assicurativi, la metà per oneri indiretti a carico dell’azienda, oneri rimasti a carico della vittima, spese per servizi
sociali.
Senza entrare nel merito dei dati, la maturazione nel frattempo intervenuta nell’approccio alla sicurezza
ed igiene del lavoro sembra imporre una correzione che superi l’evidenza di quanto la collettività risparmierebbe
se non ci fossero infortuni, poiché è molto più corretto ed utile – considerando la prevenzione un investimento e
non un costo – tenere fuori dal conteggio le spese per sicurezza ed igiene del lavoro, essenziali per contenere il
fenomeno e le sue ricadute, con un risultato comunque significativo delle dimensioni del fenomeno.
Sotto altro profilo, l’accenno alla Responsabilità sociale di impresa consente di mettere ulteriormente a
fuoco il rischio professionale di cui ci stiamo occupando rispetto alla tendenza sempre più forte a confonderlo
con rischi di altra fonte, con i quali quello professionale può confondersi in alcuni casi.
La grande industria, infatti, con la fabbrica luogo simbolo di un lavoro separato fisicamente e
culturalmente dai luoghi di vita, di svago ecc. rendeva agevole la differenziazione del rischio prodotto
dall’ambiente di lavoro e nell’ambiente di lavoro, dai rischi provenienti dagli ambienti di vita e spesso da questi
prodotto. Né la diversificazione era estranea al mondo agricolo laddove, al di là da improbabili visioni bucoliche,
il bracciante agricolo andava a giornata in un campo altrui.
Con il tramonto della grande industria ed il prevalere, nel nostro Paese della piccola ed a volte
piccolissima impresa9, accompagnata dalla crescita del lavoro autonomo e dei settori terziario e dei servizi, la
diversificazione tende ad attenuarsi ed a scomparire con promiscuità di ambienti, moltiplicarsi delle patologie
multifattoriali e degli infortuni della strada (in itinere o legati agli spostamenti delle persone da un posto all’altro
di lavoro).
Ulteriori elementi di complessità derivano da un triplice ordine di fattori, che spesso si intersecano fra
loro: il lavoro nero, il lavoro degli extracomunitari, la trasformazione in atto nella tipologia dei rapporti di lavoro
con una nuova logica di flessibilità 10.
Infatti, l’azione di questi fattori, non accompagnata da interventi di sostegno strutturati, è destinata ad
aggravare le condizioni di rischio legate all’organizzazione del lavoro e della produzione. La informazione e la
formazione, inoltre, possono essere garantite con maggiori difficoltà per lavoratori operanti nell’azienda solo
temporaneamente/saltuariamente, ovvero per soggetti con diversa formazione culturale e professionale di base.
Da ciò l’esigenza di spostare l’attenzione dalla rischiosità delle fonti di rischio, dei singoli agenti a quella
determinata dall’organizzazione del lavoro e dalla carenza di un adeguato livello di informazione formazione dei
lavoratori – ma anche dei datori di lavoro - rispetto al mestiere e rispetto alle modalità con le quali il mestiere
stesso può inserirsi nell’organizzazione produttiva della singola azienda.
La stessa Relazione allo schema di D.lgs. per il Codice della Sicurezza ed igiene del lavoro riferisce che su 1.100.000 aziende, in Italia, il
98% sono con meno di 50 dipendenti, mentre l’87% ha addirittura meno di 10 dipendenti.
10 Il Rapporto INAIL 2003, a questo proposito riporta che:
- per gli infortuni degli extra comunitari si è passati dai circa 73.000 casi del 2001 ai circa 107.000 casi del 2003 con 157 infortuni mortali in
quest’ultimo anno a fronte degli iniziali 121 (dal 7,9% all’11,4%). L’andamento corrisponde alla crescita degli extra comunitari ed all’alto
numero di regolarizzazioni intervenute ma resta molto preoccupante sol che si consideri che l’incidenza per gli extracomunitari è di 57 casi
per 1000 esposti a fronte dei 44 casi della media generale;
- per i parasubordinati, il numero di infortuni denunciati – pari a 7.500 casi di cui 14 mortali – se posto a confronto di un dato
occupazionale stimato per detto anno (con larghissima approssimazione) in 420.000 unità porta ad una incidenza di 20 infortuni per 1000
esposti che non appare incongruo con la tipologia di lavoratori e di attività ad essi riferibili;
- per gli interinali, gli infortuni sono stati 12.500 nel 2003, con una decina di casi mortali, a fronte di un’occupazione stimabile con
larghissima approssimazione in 170.000 unità, con un indice di incidenza molto più elevato di quello dei parasubordinati, per un
fenomeno che, avverte lo stesso Rapporto, deve essere compiutamente analizzato al di là della prima “impressione” circa il maggior
potenziale di rischio derivante dalla flessibilità del lavoro.
Sempre con riferimento agli andamenti statistici è interessante rilevare come nel settore agricolo sia marcato il calo degli infortuni, sia in
termini assoluti sia in termini di incidenza.
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La centralità dell’organizzazione del lavoro conferma l’attualità delle considerazioni formulate oltre 100
anni fa dal Fusinato secondo il quale “gli infortuni sono accessorio inevitabile dell’industria che regolarmente si
riproducono. E’ l’industria stessa che in sé inevitabilmente racchiude una causa perenne di pericolo,
indipendentemente da ogni misura di prudenza o prevenzione che dall’operaio o dal padrone si possa
ragionevolmente pretendere”.
Questi discorsi valgono a maggior ragione per le malattie professionali, per le quali la correlazione fra
sistema produttivo, fonti di rischio è salute del lavoratore è ancor più pregnante poiché per la malattia
professionale il lavoro è causa del rischio e dello stesso manifestazione lesiva.
Il fenomeno delle tecnopatie ha certamente dimensioni che appaiono contenute nei numeri, ma non nel
rilievo economico e sociale delle conseguenze lesive. Nel quinquennio 1999 – 2003 è rimasto costante (circa
24.000) il numero delle malattie che sono denunciate all’INAIL, di cui più dei due terzi sono malattie non
gabellate, malattie cioè non comprese nella tabella allegata al Testo unico e per le quali gli interessati, come
vedremo, devono dimostrare l’origine professionale.
Resta, inoltre, la forte differenza fra il numero delle malattie denunciate all’INAIL e quello delle malattie
indennizzate: circa 2.500 indennizzi, ad esempio, nel 2002 a fronte di circa 25.000 denunce. La situazione deve
essere valutata, inoltre, considerando che per le malattie correlate al lavoro persiste un forte divario fra il numero
di malattie denunciate e quello delle malattie che pur note in ambienti scientifici ed in letture epidemiologiche,
vanno “perdute” per carenza di informazioni da parte degli interessati e dei medici11. Per la natura stessa delle
patologie da lavoro – con tempi di latenza che a volte superano i venti anni - occorre considerare, infine, la vasta
zona grigia costituita dalle malattie di cui in un determinato momento è (ancora) sconosciuta l’eziologia
professionale.
Per il rischio di malattia professionale, insomma, è pressoché impossibile ipotizzare quella riduzione a
zero del fenomeno tendenzialmente proponibile per gli infortuni. Si tratta, infatti, di fenomeno in continua
evoluzione, con la scomparsa di fattori inquinanti nel frattempo rimossi, e con la contemporanea comparsa di
patologie risalenti ad esposizione a rischi preesistenti (classico è l’esempio dell’amianto per le manifestazioni
neoplastiche), “scoperte” o “valutate” come patologie collegate con il lavoro solo a partire da un certo momento.
Si spiega così come in tutta l’Europa il numero di malattie professionali denunciate risulti in calo
(esaminato nel lungo termine ed in un quinquennio ravvicinato (1999-2003)) senza che il dato sia confortante,
considerato che il calo numerico è in parte “sintomo evidente”, appunto, “della divaricazione tra la dimensione
reale del fenomeno e la sua immagine rappresentata dai dati statistici disponibili, nonché come il segno della
difficoltà tecnica e culturale di ricollegare i sintomi con l’attività lavorativa”12.
Per restare al tema in trattazione, quindi, mentre per l’infortunio il rischio lega la responsabilità della
singola impresa con il diritto del lavoratore per tutto il tempo (e solo per esso) della prestazione, per le malattie
professionali questo rapporto può venir meno, poiché a fronte di un rischio immanente nell’occupazione
morbigena, la patologia invalidante si manifesta anche successivamente, a prescindere dal collegamento con i
rischi dell’azienda ove l’interessato al momento operi, frutto dell’accumulo nel tempo di esposizioni rischiose.
E’ ugualmente significativo, inoltre, come ad una diminuzione pur lenta dell’andamento infortunistico si
accompagni una crescita accelerata delle malattie di cui si discute/afferma l’eziologia professionale per fattori
diversi dalla classica azione di sostanza od agenti nocivi. Il rilievo assunto dal rischio derivante da malattie da
stress, da postura incongrua – muscolo scheletriche in generale – consente, così, di comprendere meglio quanto
affermato in linea di principio circa la rilevanza dell’ambente di lavoro organizzato quale fattore patologico: come
vera e propria causa per le malattie professionale, come occasione per l’infortunio.
3. LA TUTELA DEL LAVORATORE : GLI OBBLIGHI E LE AZIONI PER
L’IGIENE SUI POSTI DI LAVORO NELLA COSTITUZIONE E NEI CODICI
LA SICUREZZA E
Si è accennato come l’ordinamento giuridico abbia da tempo approntato misure volte a contrastare
l’azione lesiva delle fonti di rischio già in termini di obbligazioni ed obblighi a carico del datore di lavoro con
norme che, per stare ai giorni nostri, trovano un essenziale punto di riferimento nel Codice civile ed in quello
Penale, in termini ripresi ad un più elevato livello dalla stessa Carta costituzionale.
La diversificazione si registra fra i dati della epidemiologia e medicina del lavoro, che attraverso rilevazioni, analisi e studi – di cui non è
certamente in discussione l’attendibilità – stimano che in certe zone o settori produttivi le condizioni di lavoro inducono a preveder
l’insorgere di numerose tecnopatie di un certo tipo, alla quale però non fa riscontro un corrispondente numero di malattie quanto meno
denunciate.
12 Rapporto INAIL 2002, p. 16.
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Quest’ultima, infatti, partendo dal riconoscimento del lavoro quale fondamento della Repubblica: colloca
la salute fra i diritti fondamentali dell’individuo ed interesse della collettività (art. 32); demanda alla legge la
definizione della durata massima della giornata lavorativa; riconosce il diritto irrinunciabile a riposi e ferie (art.
36); prevede una particolare tutela per donne lavoratrici e lavoro dei minori (art. 37); riconosce il diritto dei
lavoratori a particolari provvidenze in caso, fra l’altro, di infortunio (art. 38); vincola l’iniziativa privata ad uno
svolgimento che non contrasti con l’utilità sociale o sia dannosa per la sicurezza, la liberta, la dignità umana (art.
41).
In questo modo riprende, elevandole di rango, le previsioni del Codice civile e del Codice penale poste a
tutela contro i rischi professionali. Il Codice penale, infatti, agli artt. 437 e 451 punisce tutti coloro che in vario
modo omettano misure di prevenzione contro gli infortuni, con ciò contribuendo ad aggravare il rischio relativo,
già insito nelle lavorazioni in concreto svolte. Agli artt. 589 e 590 punisce, poi, con pene aggravate l’omicidio e la
lesione personale colposa se commessi con violazione di norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Il Codice civile riconduce all’esercizio dell’impresa l’adozione delle misure che secondo la particolarità
del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori
di lavoro, quale obbligo dell’imprenditore piuttosto che del datore di lavoro. Così dispone l’art. 2087, da leggere
in relazione con altre norme dello stesso Codice13 con un’impostazione che ha trovato poi compiuta declinazione
in specifiche normative a tutela della sicurezza ed igiene del lavoro.
Fra esse l’art. 2087 è tuttora la norma cardine del sistema di tutela rispetto alle situazioni di pericolo, che
completa la normativa tecnica e consente di valutare la responsabilità del datore di lavoro. Secondo la dottrina
ancor oggi prevalente questa responsabilità è ricostruita in termini contrattualistici, nel senso che sussisterebbe
una vera e propria obbligazione a carico del datore di lavoro; secondo altri si tratterebbe di responsabilità
extracontrattuale basata, appunto, direttamente sul disposto dell’art. 2087.
La diversità di impostazione si è attenuata grazie ad una più matura consapevolezza del diritto
all’integrità psico fisica quale interesse anche della collettività che trova positiva collocazione in fonti diverse –
costituzionali, legislative, contrattuali – che traducono un dovere di sicurezza che preesiste allo stesso art. 2087,
quale condizione per il legittimo esercizio dell’impresa. Così argomenta la Corte costituzionale, che in questo
modo sviluppa quella premessa che vede nella salute un bene primario, diritto fondamentale della persona con
piena tutela in ambito pubblicistico e privatistico 14, non senza richiamare l’insegnamento della Cassazione
secondo il quale l’art. 2087, come tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente
dell’ordinamento alla sottostante realtà socio economica: funzione sussidiaria rispetto alla normativa tecnica
specifica di adeguamento al caso concreto”.
L’obbligo di tutela preventiva volta ad eliminare o ridimensionare il rischio professionale, quindi, già
immanente nella condizione di imprenditore, assume forza modulare con il contratto di lavoro, sicché il dovere
di sicurezza finisce per avere diverse dimensioni con riferimento al rapporto che lega all’imprenditore vari
soggetti (lavoratore subordinato, tirocinante appaltante, interinale ecc.) che hanno tutti diritto alla tutela
preventiva dell’art. 2087 rispetto a certi rischi. I confini di questo obbligo di tutela scaturente dall’art. 2087
costituiscono da tempo oggetto di confronto dottrinario ed anche giurisprudenziale, con netta prevalenza della
tesi che vede in detto articolo l’espressione del criterio della massima sicurezza tecnologicamente possibile.
L’imprenditore, cioè, è impegnato – secondo i criteri di diligenza qualificata del richiamato art. 1176,
comma 2 – a rimuovere le condizioni di rischio adottando tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica e
la personalità morale del lavoratore individuabili secondo i parametri della particolarità del lavoro, dell’esperienza
e della tecnica. Il rischio – da rimuovere con interventi che prescindono da valutazioni di fattibilità - acquista così
una dimensione più ampia, chiamando in causa come sua fonte l’organizzazione del lavoro, l’ambiente di lavoro,
al di là dunque del rischio collegato con singole apparecchiature, strumenti di lavoro o sostanze pericolose. La
rigidità di questa interpretazione è stata temperata dalla Corte costituzionale che ha: confermato la potenzialità
evolutiva dell’art. 2087 quale norma elastica di adeguamento; ribadito che l’imprenditore è impegnato a rispettare
i migliori canoni anche incidendo sull’organizzazione dell’azienda per rimuovere i rischi; precisato, però, che tale
azione trova un limite oggettivo nella verifica in concreto se la misura di prevenzione astrattamente possibile sia
accolta fra gli standard di produzione industriale ovvero specificamente prescritta.
L’art. 2060, che prevede che il lavoro è tutelato in tutte le sue forme; l’art. 2050, che prevede l’obbligo di risarcimento a carico di
chiunque cagioni danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, qualora non
provi di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno; l’art. 1176 che definisce la diligenza del datore di lavoro nel prevenire i
rischi prevedendo che “nell’adempimento degli obblighi inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con
riguardo alla natura dell’attività esercitata”.
14 Così Corte cost. 20 dicembre 1996 n. 399, secondo la quale considerato il carattere di diritto fondamentale della personale, se si profila
un’incompatibilità tra i diritto alla tutela della salute ed i liberi comportamenti che non hanno una diretta copertura costituzionale, deve
prevalere il primo. Su questi temi e sul sistema di prevenzione in generale v. M. Lai, La sicurezza del lavoro tra legge e contrattazione collettiva,
Torino, 2002.
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6
4. RISCHIO PROFESSIONALE E LEGISLAZIONE DI SICUREZZA ED IGIENE DEL LAVORO
L’esistenza, accanto a quello del singolo lavoratore, di un ulteriore e più elevato interesse della collettività
alla tutela contro i rischi professionali trova concreta espressione nel complesso della normativa di legislazione
sociale: l’insieme delle norme, cioè, poste a tutela del lavoratore in termini diretti, di sicurezza ed igiene del
lavoro, ed in termini indiretti, di disciplina delle modalità, e dei limiti della stessa prestazione lavorativa.
Si tratta di un sistema frutto di un’azione ormai secolare, a livello di legislazione nazionale, ma anche
internazionale e comunitario, a conferma dell’attenta considerazione sociale ed economica del fenomeno
infortunistico, alla quale non è estranea la necessità di garantire condizioni di parità fra le aziende sul mercato in
relazione all’osservanza degli obblighi di prevenzione, agevolmente traducibili in costi (o in mancati costi) di
produzione.
In questo panorama un posto centrale è occupato dal D.lgs. 19 settembre 1994 n. 626 che, senza
abrogare le preesistenti normative tecniche 15 e senza mettere in discussione il diritto riconosciuto alle associazioni
sindacali di promuovere, a tutela di un interesse collettivo, verifiche della qualità dell’organizzazione della
sicurezza in azienda (art. 9 dello Statuto dei diritti dei lavoratori), ha conferito organicità al sistema di
prevenzione con significative novità mutuate dalla normativa comunitaria di riferimento.
I passaggi salienti riguardano il campo di applicazione, la necessità di programmare la prevenzione a
partire dalla redazione del documento di valutazione dei rischi, la conferma del principio della massima sicurezza
tecnicamente possibile, i diritti del lavoratore in caso di pericolo immediato, la partecipazione dei lavoratori e loro
rappresentanti alla gestione della sicurezza, il diritto dei lavoratori alla formazione, informazione, la previsione di
fondamentali figure di tecnici responsabili, quali appunto il responsabile della sicurezza ed il medico competente.
Più in particolare il decreto:
- trae forza dal ruolo dell’art. 2087, confermata norma di salvaguardia con potenzialità espansiva
correlata al principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile”;
- prevede una gerarchia fra le misure di tutela, ordinate secondo la priorità dell’intervento da effettuare,
ad esempio anteponendo a tutte le altre misure la valutazione dei rischi;
- non differenzia in modo significativo diritti ed obblighi con riferimento alle dimensioni aziendali e
tipologie di lavoratori;
- prevede, come si è detto, il coinvolgimento dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali sul piano
organizzativo ed operativo, senza riconoscere però all’autonomia collettiva un ruolo specifico nella definizione,
dei contenuti degli obblighi di sicurezza.
Nonostante queste innovazioni, il decreto è stato ritenuto inadeguato dalla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea (CGE 7 febbraio 2002) rispetto al recepimento della direttiva CEE 391/89 che impone di valutare i
rischi non solo nella loro specificità (come fa il D.lgs. 626) ma anche nell’insieme nella dinamicità evolutiva. A
livello comunitario si ripropone così il tema del rischio professionale, la cui fonte principale è nelle “azioni
pericolose” (connesse ad una organizzazione del lavoro inadeguata ed allo scorretto operare dei lavoratori non
perfettamente informati e formati dall’azienda). E ciò conferma così la modernità dell’intuizione di quanti agli
albori del sistema assicurativo ponevano a fondamento di esso, come abbiamo visto, la responsabilità di impresa
per l’organizzazione produttiva complessivamente considerata.
5. PROSPETTIVE
DI RIFORMA: IL
CODICE
IN MATERIA DI IGIENE E SICUREZZA DEL
LAVORO
I progressi che si registrano negli andamenti infortunistici sono senz’altro frutto delle azioni di contrasto
delle condizioni pericolose già a monte, nella fase cioè di costruzione ed impianto delle apparecchiature e
sostanze potenzialmente rischiose.
Proprio con riferimento all’intuizione iniziale, però, un ulteriore salto di qualità può scaturire solo
dall’effettiva attuazione di un sistema compiuto ed organizzato di tutela per la sicurezza ed igiene del lavoro,
Si ricordano, fra le altre, il D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547 sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro ed il D.P.R. n. 303 del 1955
sull’igiene del lavoro; l’art. 9 dello Statuto dei lavoratori;il D.lgs. n. 277 del 1991 di attuazione di direttive comunitarie, fra le quali amianto,
piombo e rumore; la L. n. 833 del 1978 di riforma sanitaria, in materia fra l’altro di assetto organizzativo e responsabilità istituzionale in
materia di prevenzione. Di queste norme - cui si aggiungevano leggi specifiche, normative internazionali e comunitarie - il D.lgs. n. 626 del
1994 (integrato dal D.lgs. 19 marzo 1996 n. 242) non superava il valore sostanziale e formale, anche per lo specifico riferimento ad alcune
direttive comunitarie richiamate nel titolo: “Attuazione delle direttive CEE 89/391 (direttiva quadro), 89/654, 89/655,89/656, 90/262,
90/270, 90/394, 90/679, 93/88, 95/63,97/42, 98/24, 99/38”.
15
7
prendendo le mosse dal D.lgs. n. 626 del 1994 di cui è nota la scarsa applicazione soprattutto nelle piccole e
medie imprese, il che è come dire quasi ovunque, per l’assoluta preponderanza di dette imprese.
Da più parti, dunque, la mancata attuazione è attribuita proprio ad un difetto d’impianto del D.lgs. n. 626
del 1994 che, se da un lato è criticato anche in sede comunitaria per la mancata considerazione del rischio da
“organizzazione del lavoro”, dall’altro è contestato per la burocratizzazione del sistema, per gli adempimenti
insostenibili per le aziende, per la persistente indeterminatezza dei confini degli obblighi correlata alla congerie di
norme, al criterio di massima sicurezza tecnologicamente possibile non sempre letti nei termini di ragionevolezza
prima richiamati.
Già il “Libro Bianco” sul mercato del lavoro rilevava tali criticità ed il Parlamento ha infatti approvato
una delega per il compiuto riordino dell’intera normativa, per attuare la quale il Governo ha predisposto uno
schema di decreto delegato per un T.U. della sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro, attualmente all’esame del
Parlamento, che terrà conto del dibattito in corso in campo politico e sindacale, ove si contesta l’impostazione
del Codice, secondo alcuni riduttiva degli attuali livelli di tutela.
Il primo punto di contestazione riguarda il superamento del criterio della massima sicurezza
tecnicamente possibile che si fa discendere già dall’art. 2087, come abbiamo visto, e che creerebbe a detta di
molti – con considerazioni riprese dalla Relazione al Codice – una situazione di obiettiva incertezza nei datori di
lavoro circa la qualità del sistema di sicurezza messo in piedi. Lo schema di decreto è esplicito poiché – forte di
una interpretazione indubbiamente restrittiva della sentenza della Corte costituzionale prima ricordata - richiama
più volte criteri e principi di ragionevolezza e sostenibilità, con riferimento a misure tecniche, organizzative e
procedurali generalmente praticate nel settore di attività dell’azienda o dell’unità produttiva ed a misure
concretamente attuabili nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni in quanto generalmente utilizzate;
riferimento completato dalla precisazione che “l’osservanza delle prescrizioni del presente decreto legislativo…
costituisce attuazione dell’art. 2087 c.c. che perde così la sua caratteristica funzione di norma “elastica”.
L’affermazione generale è accompagnata, poi, dall’esplicita abrogazione della normativa preesistente al
D.lgs. n. 626 del 1994, in parte riproposta nel Codice ed in parte trasformata in norme di buona tecnica o buone
prassi, nonché da articoli che:
- semplificano il Documento di valutazione dei rischi con criteri di redazione, scelti dall’imprenditore,
ulteriormente semplificabile per imprese fino a 50 dipendenti su indicazioni degli Enti bilaterali;
- generalizzano il campo di applicazione soggettivo, inserendo lavoratori autonomi, familiari, lavoratori a
domicilio ed atipici;
- prevedono la possibilità nelle piccole imprese che il datore di lavoro svolga direttamente – in termini
criticati per la tendenziale deresponsabilizzazione che esprimerebbero - i compiti di responsabile per la sicurezza;
- ridimensionano i poteri dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
- valorizzano il ruolo degli enti bilaterali - espressione delle parti sociali – per compiti di diretta gestione e
promozione che secondo alcuni dovrebbero trovare una più marcata collocazione pubblicistica;
- confermano l’attribuzione a vari enti di funzioni di informazione, consulenza e assistenza, in particolare
per le piccole e medie imprese e le imprese artigiane.
Questi sommari richiami confermano il sicuro cambiamento di prospettiva nella strategia di intervento
che risulta incentrata sulla valorizzare del livello di responsabilità aziendale, anche attraverso gli enti bilaterali e
sullo snellimento di procedure ed adempimenti burocratici per passare da una “sicurezza per adempimenti” ad
una “sicurezza per obiettivi” agevolata, fra l’altro, dalla possibilità di modulare gli interventi rispetto alle
dimensioni ed alla tipologia delle aziende.
Nel momento in cui concludiamo queste note, lo schema è oggetto di esame parlamentare e di serrato
confronto politico e sociale con critiche che, come abbiamo anticipato, riguardano essenzialmente la validità
dell’art. 2087, il sistema di vigilanza ed il ruolo di Regioni e ASL, che risulterebbe sminuito pur a fronte di una
prossima riforma costituzionale che conferma la competenza esclusiva regionale per la sicurezza del lavoro), il
documento di valutazione dei rischi, il ruolo stesso degli enti bilaterali.
Quale che sia la formulazione finale del Codice – di cui tutti auspicano l’approvazione per razionalizzare
il sistema – è comunque chiaro che anche per questa via si rafforza la centralità del ruolo dell’impresa nella
creazione, prima, e nel superamento, poi, dei rischi professionali.
La valorizzazione di un ruolo attivo del datore di lavoro ed anche del lavoratore come “operatori e
realizzatori della prevenzione”, con al loro servizio tutti gli altri soggetti provati e pubblici, consentirebbe cioè di
spostare l’attenzione dagli oggetti fonte di rischio (e quindi dalle modalità di costruzione, assemblaggio,
funzionamento ecc.) all’ambiente di lavoro complessivamente considerato, sintesi di macchine d apparati ma
anche e soprattutto di organizzazione dei processi produttivi, di relazioni fra lavoratori, ritmi produttivi ecc..
Per questa via – e con le integrazioni e modifiche proposte dal Parlamento – si potrà migliorare
l’effettività del sistema, soprattutto per i livelli di partecipazione delle aziende, dei lavoratori e dei loro
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rappresentanti che con il D.lgs. n. 626 del 1994, massimi sulla carta, sono poi risultati minimi nella realtà
quotidiana delle piccole e medie imprese a prescindere dalle isolate esperienze delle grandi aziende.
La valorizzazione dell’azienda come fonte del rischio professionale e dell’imprenditore come
responsabile della connessa situazione di pericolo , ci consente, d’altra parte, di richiamare senza soluzione di
continuità nel successivo paragrafo, i principi del sistema di tutele apprestato dall’ordinamento per l’eventualità
del verificarsi dell’infortunio, in termini di responsabilità dell’imprenditore e di assicurazione sociale.
6. RISCHIO PROFESSIONALE - RISARCIMENTO – INDENNIZZO ASSICURATIVO
Lo strumento di tutela sociale di maggiore evidenza per gli infortuni e malattie professionali è senza
dubbio l’omonima assicurazione sociale obbligatoria consacrata dalla Costituzione come forma specifica di
intervento pubblico di cui con l’evolversi della sicurezza sociale si aprrezza sempre più la funzione di garanzia.
Il richiamo agli enti predisposti o integrati dallo Stato dell’art.38, infatti, se letto alla luce delle ricorrenti
perplessità circa il monopolio pubblico della gestione assicurativa, deve essere interpretato nel senso che la scelta
dello strumento “rendere il servizio” non può mai porre in discussione il diritto alla tutela e la corrispondente
obbligazione dello Stato per tutti gli interventi finanziari ed organizzativi necessari od utili per renderla al meglio
rispetto alla specificità ed eziologia del bisogno in questione.
Non è proponibile, cioè, per l’assicurazione infortuni un’impostazione analoga a quella affermatasi per il
Servizio sanitario nazionale nel senso che il SSN tenuto ad erogare i servizi possibili in coerenza con le
disponibilità finanziarie ad esso assegnate.
Questa funzione specifica – fortemente sentita nella prima metà dello scorso secolo – verso la metà del
‘900 è entrata in un cono d’ombra, mano a mano che il sistema di sicurezza sociale cresceva con forme articolate
e sufficienti di tutela per lo stesso “fatto” (lesione invalidante in via temporanea od anche permanente, con
bisogno di cure pronte ed adeguate): la pensione di invalidità, l’assistenza sanitaria, le provvidenze del sistema
pensionistico di invalidità civile, varie provvidenze assistenziali, una rete di norme di contrattazione collettiva che
prevedono trattamenti integrativi a carico delle aziende per i casi di infortunio o malattia professionale.
Si trattava, insomma, di una rete di protezione saldamente ancorata, oltre tutto, ad un sistema di garanzie
altrettanto ampie circa la continuità e stabilità dei rapporti di lavoro ed il riconoscimento del diritto alla
conservazione del posto di lavoro in caso di infortunio per tutto il tempo della invalidità temporanea.
Di recente il sistema è stato messo in discussione nella sua legittimazione a dare comunque risposta
esaustiva ai bisogni degli infortunati - già con la crisi del SSN e da ultimo con le nuove forme di flessibilità del
lavoro – sicché occorre ripensare il ruolo della specifica assicurazione sociale, da valorizzare per il rischio di cui è
espressione anche in ottica prevenzionale. Lo stesso schema di decreto delegato per la prevenzione conferma,
come abbiamo visto, le funzioni di informazione – formazione – consulenza per la prevenzione, già affidate agli
enti assicuratori dal D.lgs. n. 626 del 1994 e successive integrazioni.
La riflessione, però, non può certamente tradursi in una meccanica riproposizione dei concetti di rischio,
danno, responsabilità di impresa che agli inizi del ‘900 hanno agevolato la costruzione del sistema assicurativo,
senza tener conto dei mutamenti intervenuti nella coscienza sociale e giuridica che rendono molto più pregnante
la responsabilità dell’imprenditore a monte del verificarsi dell’evento lesivo.
A fronte della richiamata complessità del mutamento, in queste sommarie note ci si può limitare ad
alcuni punti di attenzione che consentano di completare la nozione di rischio professionale prendendo spunto dai
connotati dell’evento la cui possibilità di verificarsi sostanzia detta nozione: innanzi tutto da un pur sommario
accenno all’evoluzione della nozioni di danno, patrimoniale e non.
Nel sistema del T.U., infatti, che ancor oggi disciplina l’assicurazione sociale contro i rischi professionali
l’infortunio si identifica per la causa violenta, l’occasione di lavoro, la lesione: tre requisiti che l’identificano in
assoluto già negli ordinari rapporti giuridici fra soggetto leso e soggetto chi ne deve rispondere.
Cambia, peraltro, proprio in relazione all’elemento della lesione, che nell’ambito dei rapporti privati può
assumere connotati più ampi di quelli che assume nell’ambito del rapporto di assicurazione sociale.
Nei rapporti privati, infatti, il rischio professionale corrisponde al rischio del verificarsi di un evento che
lede un ampia gamma di valori della persona, in termini di danno biologico, danno esistenziale, danno
patrimoniale, danno morale. Una serie di figure che dottrina e giurisprudenza hanno via via elaborato e che oggi
si tende a ricondurre alle due sole categorie del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale.
In altra prospettiva, quindi, il lavoratore, all’atto dell’assunzione è esposto al rischio di un infortunio
lesivo della sua integrità psico fisica, morale, esistenziale, patrimoniale. Al “concretizzarsi” del rischio il datore di
lavoro, se responsabile secondo gli ordinari canoni civilistici, deve provvedere all’integrale risarcimento per le
anzidette voci di danno, salvo l’interferenza con l’assicurazione infortuni.
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Lo stesso rischio, infatti, è preso in considerazione da quest’ultima, che garantisce al lavoratore un
indennizzo per danno biologico e danno patrimoniale, in corrispondenza del quale il datore di lavoro è esonerato
dalla responsabilità civile per dette voci di danno, a certe condizioni.
In caso di infortunio, quindi, il lavoratore, qualora sussistano le condizioni, ha diritto: all’indennizzo per
danno biologico e per danno patrimoniale a carico dell’assicuratore; al risarcimento del danno esistenziale e del
danno morale a carico del datore di lavoro, che deve altresì risarcire il danno patrimoniale “differenziale”
(rispetto all’indennizzo assicurativo) qualora venga meno l’esonero.
Questo complesso equilibrio di valori ed istanze individuali e sociali è interessante ai nostri fini poiché
conferma come il rischio di rimanere vittima di eventi lesivi in ragione del proprio lavoro (in questo senso
professionale) assuma contorni in continua evoluzione in corrispondenza con l’affinarsi della coscienza sociale e
giuridica.
Si tratta, cioè, di un fondamentale passaggio lungo il percorso che, partendo dalla limitazione del
risarcimento al danno patrimoniale – ed a quello morale nelle ipotesi di reato - ha poi superato detti confini
ampliando la sfera dei danni meritevoli di risarcimento, attraverso un’evoluzione che da ultimo ha portato la
Cassazione a sganciare l’applicabilità dell’art. 2059 c.c. dal necessitato collegamento ad un’ipotesi di reato,
riferendola così a qualsiasi ipotesi di danno – morale, biologico, esistenziale – derivante da una lesione ingiusta di
valori inerenti alla persona.
Trova eco, così, il corrispondente percorso evolutivo del sistema di prevenzione con riferimento a valori
relativi alla salute psichica e fisica, alla dignità della persona del lavoratore, con impegno, codificato per il datore
di lavoro, di promuovere tutte le azioni positive possibili e congrue per rimuovere dette condizioni di rischio.
L’infortunio quindi (ed ovviamente la malattia professionale) con i suoi connotati di evento ingiusto o
comunque dannoso, qualifica il rischio professionale assunto negli anzidetti termini: evento lesivo ed ingiusto a
fini civilistici, poiché per essi è essenziale tale connotato unitamente alla responsabilità del datore di lavoro o di
un terzo 16; evento lesivo nel sistema assicurativo pubblico, ove non rileva per l’indennizzo l’ingiustizia
dell’evento, ma solo la riconduzione di esso al lavoro in termini di occasionalità, salvo comportamenti che
sostanzino un rischio elettivo.
Si conferma, così, la centralità del rischio di infortunio che il soggetto assume all’atto dell’inserimento
nell’organizzazione produttiva che nel sistema di tutela sociale rileva, appunto, in quanto tale, come espressione
del lavoro posto a fondamento del nostro Stato.
7. RISCHIO
E
PROFESSIONALI
ASSICURAZIONE
OBBLIGATORIA CONTRO INFORTUNI E MALATTIE
Con questo excursus del panorama dei diritti del lavoratore esposto al rischio, corrispondenti a specifici
obblighi di protezione del datore di lavoro e, poi, di risarcimento civilistico è possibile, da ultimo, inquadrare
detto rischio nella lettura operata dalla specifica assicurazione sociale.
Il richiamo è essenziale per completare il quadro della rilevanza del rischio professionale nel nostro
ordinamento e perché le nozioni di rischio ed evento poste a base dell’assicurazione sociale costituiscono il punto
di riferimento per macro valutazioni circa gli andamenti infortunistici utilizzate per la prevenzione. L’intero
sistema informativo sui rischi professionali, di recente consolidato come fonte primaria di conoscenza in un
accordo fra INAIL, ISPESL e Regioni17, nasce anzi e si arricchisce quale “sottoprodotto” della gestione
assicurativa, come abbiamo anticipato nei precedenti paragrafi per definizioni comunque essenziali per
ragionamenti sulle dimensioni quali quantitative dei fenomeni oggetto di esame.
L’oggettiva rilevanza del sistema informativo dell’assicurazione si arricchisce del fondamentale
contributo di altre linee di rilevazione, basate su osservazioni sul campo, indagini epidemiologiche,
approfondimenti delle cause e circostanze curati a livello scientifico ovvero da operatori specializzati del settore.
La complessità del sistema delle responsabilità che ruota attorno all’infortunio è resa dal fatto che l’infortunio può innanzi tutto
ricondursi alla responsabilità civile dello stesso datore di lavoro, nelle ipotesi in cui secondo gli artt. 10 ed 11 T.U. viene meno l’esonero da
detta responsabilità ovvero alla responsabilità di un terzo che innesca un complesso rapporto fra danneggiante, da un lato, assicuratore (in
surroga) e lavoratore dall’altro. Giova considerare, altresì, che le prestazioni infortunistiche sono a carico del Servizio sanitario nazionale
per la componente, appunto, delle cure, sicché sono ricorrenti i tentativi da parte di detto Servizio di impostare una sorta di azione di
recupero delle relative spese da parte degli Istituti assicuratori oltreché dei terzi danneggianti. Sul punto per tutti v. G. Ferrari – G. Ferrari,
op.cit, pp. 404 e ss..
17 Con l’Accordo si è riconosciuta la complessità del sistema di informazioni che devono essere raccolte, elaborate e rese disponibili per gli
operatori pubblici – le ASL, i servizi ministeriali territoriali, i servizi degli enti assicuratori – che più di altri sono vicini ad aziende e
lavoratori e possono svolgere un determinante ruolo di informazione, consulenza e formazione proprio partendo dalla solida base
informativa costruita ed alimentata sistematicamente con l’Accordo.
16
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E’ quindi determinante l’apporto delle informazioni assicurative la cui significatività è arricchita – rispetto alla
prima metà del ‘900 – con il progressivo ampliamento del campo di applicazione soggettivo con il quale dottrina
e giurisprudenza hanno colmato il distacco fra la situazione degli esposti al rischio ed i dati prodotti dall’INAIL,
per i soli lavoratori assicurati con detto ente18.
Per questo è essenziale conoscere gli esatti confini del rischio assicurato: quali infortuni e quali malattie,
cioè, possano considerarsi, nel T.U., professionali e per quali lavorazioni il relativo rischio assume rilievo
giuridico. In via preliminare, però, nell’economia del presente lavoro è doveroso un richiamo al ruolo svolto dalla
“Teoria del rischio professionale” per l’avvio della tutela assicurativa e, successivamente, quale fondamento della
tutela stessa.
Dall’affermazione del Fusinato circa la responsabilità dell’impresa per i rischi da essa prodotti si è
dedotto che il legislatore considerava certamente, all’inizio dell’assicurazione il rischio professionale come rischio
proprio dell’azienda, che il datore di lavoro trasferisce all’assicuratore dietro pagamento del premio. Lo stesso
obiettivo primario di tutela del lavoratore – sarebbe così realizzato attraverso l’accollo ad un altro soggetto di un
obbligo di garanzia assicurativa contro detto rischio.
La tesi è stata oggetto di serrata critica all’indomani della Costituzione, punto di riferimento primario del
diritto del lavoratore, sicché il principio del rischio professionale è stato ricondotto ad una funzione
ridimensionata, di fondamento dell’accollo al datore di lavoro dell’integrale onere contributivo19. Se letto nella sua
dimensione storica, certamente occorre riconoscere che il principio del rischio professionale come rischio
d’impresa ha svolto un ruolo “culturale” essenziale nel sottolineare la responsabilità dell’impresa, della sua
organizzazione produttiva, nel determinismo dell’infortunio, anche allorché questo sia imputabile a colpa del
lavoratore. E’ fuori discussione, d’altra parte, che con l’art. 38 Cost. sia venuto meno il valore qualificante di
detto rischio, di là dall’ eco che se ne continua a rinvenire nel T.U. con l’iniziale richiamo alle lavorazioni (rispetto
alle quali le aziende debbano assicurarsi) e poi ai soggetti assicurati.
Occorre, però, riconoscere che già all’epoca del suo primo affermarsi esso non era convincente, come
sottolineato in dottrina da chi ha ritenuto preferibile un diverso fondamento della tutela, individuato nella
ragionevolezza del sistema giuridico insita nell’equilibrio che la stessa riesce a dare in un certo momento agli
interessi contrapposti dei lavoratori e dei datori di lavoro20. A maggior ragione non è proponibile dopo
l’assunzione a rango costituzionale del diritto alla tutela per gli infortuni sul lavoro, anche se le più recenti
riflessioni in materia di responsabilità d’impresa, ben al di là dell’ambito assicurativo, potrebbero giustificare un
ulteriore approfondimento sul punto, per una ricostruzione del sistema assicurativo senza soluzione di continuità
con quella del sistema di prevenzione.
Ai nostri fini ricostruttivi resta definitivamente acquisito il riferimento diretto del fondamento della tutela
al lavoratore, senza però che l’abbandono della teoria del rischio professionale escluda la possibilità di fondare il
sistema assicurativo sul rischio che il lavoratore subisce in ragione della sua attività professionale, variamente
dimensionato dal legislatore. Il tema si riallaccia a quello del rapporto assicurativo, che la dottrina tradizionale
costruiva come trilaterale con ad oggetto il rischio, e che più di recente viene invece scomposto da autorevoli
autori in due distinti rapporti: uno contributivo, fra assicuratore e contribuente; uno previdenziale, fra
assicuratore e titolare del diritto alle prestazioni, che sorgerebbe solo al verificarsi dell’evento lesivo. In proposito,
se da un lato è convincente la scomposizione del rapporto, mancando l’essenziale elemento della sinallagmaticità
fra le due componenti, dall’altro non può condividersi la conclusione che se ne trae nel senso di escludere che il
rapporto previdenziale sorga, come noi riteniamo, all’atto dell’assunzione,momento qualificante della esposizione
al rischio professionale.
La nascita di questo rapporto, cioè, è un prius rispetto a vicende infortunistiche che possono anche non
subentrare mai senza che venga meno il bene fondamentale della “garanzia assicurativa” che il rapporto con
l’assicuratore realizza rispetto al rischio professionale, al pari di quanto avviene in definitiva nell’assicurazione
privata. Questa ricostruzione, oltretutto, è coerente con l’evoluzione del sistema di tutela contro i rischi da
lavoro, che valorizza il ruolo dello stesso assicuratore in un’ottica di prevenzione nei rapporti con le aziende e nei
rapporti con i lavoratori. Spiega, altresì, perché il D.lgs. 23 febbraio 2000 n. 38 ha ritenuto di prevedere, dopo un
secolo dall’inizio dell’assicurazione, l’obbligo di denuncia degli “assicurati” all’atto dell’ esposizione al rischio.
Anche in questa prospettiva, peraltro, il rischio resta definito dalla nozione di infortunio e di malattia
professionale che concretizzano la possibilità da esso espressa, mentre la definizione giuridica di persona
Continua a rilevare negativamente il meccanismo previsto dal T.U. per l’individuazione del campo di applicazione soggettivo della tutela
la cui mancata riforma – che prenda atto dell’evoluzione nel frattempo registratasi, complica ulteriormente il raccordo fra momenti di
prevenzione e di assicurazione.
19 Per questo aspetto v. Persiani M., La tutela del rischio professionale nel quadro della previdenza sociale, in Riv. Inf. Mal. Prof., 1986, I, p. 709.
20 In tal senso v. G. Ferrari – G. Ferrari, Op.cit, p. 27, al quale si rinvia per la ricostruzione del dibattito sviluppatosi sul tema del
fondamento giuridico dell’assicurazione infortuni.
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assicurata, con i connotati previsti dal T.U., ne individua l’estensione. La nozione di infortunio, in particolare, è
data dall’art. 2 del T.U., nella lettura costantemente evolutiva della dottrina e giurisprudenza, attraverso i requisiti
della lesione, della causa violenta, della occasione di lavoro.
La lesione riguarda la “conseguenza” dell’accadimento violento (la causa) che è preso in considerazione
dall’ordinamento solo se provoca una conseguenza apprezzabile per l’organismo del lavoratore al punto da
produrre un’invalidità al lavoro con prognosi superiore a tre giorni. Esula dalle finalità della presente nota
l’approfondimento dei concetti di lesione e di invalidità, modificati dal D.lgs. n. 38 del 2000 che con
l’indennizzabilità del danno biologico consacra la rilevanza della “semplice” lesione all’integrità psico fisica,
indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di lavoro. E’ preferibile, quindi una lettura più ampia della
nozione (al di là del limite dei tre giorni) poiché, del resto, nello stesso T.U. l’infortunio con prognosi inferiore ai
quattro giorni dà comunque diritto a prestazione sia pure a carico del’azienda21.
La causa violenta identifica il fatto come infortunio distinguendolo dalla malattia professionale ma,
soprattutto, attribuendo all’accadimento specifico l’efficienza rilevante per l’indennizzabilità secondo i canoni
generali dell’ermeneutica consolidati nel nostro sistema in tema di efficienza della causa, di equivalenza
nell’ipotesi di fattori concorrenti, ecc. Il rischio professionale, così, è il rischio di una lesione dell’organismo
provocata da una causa che agisca in modo efficiente e dall’esterno anche in termini di contrasto, come per lo
sforzo, con un’azione rapida e concentrata nel tempo, senza che si tratti di evento abnorme, accidentale,
imprevedibile.
Giurisprudenza e dottrina hanno identificato nel tempo varie figure di “causa violenta” (di origine
meccanica, termica, ecc.) accomunate dalla violenza dell’azione lesiva più che dalla violenza delle conseguenze
che possono subentrare anche a distanza di tempo22. Fra esse riteniamo interessante, per una migliore riflessione
sul rischio professionale, richiamare l’attenzione su due fattori che si pongono a cavaliere fra il mondo degli
infortuni e quello delle malattie professionali: le lesioni da agente biologico e le lesioni da stress.
Le prime si configurano nel comune sentire – ed anche a livello scientifico per aspetti specifici – come
“malattie” di origine microbica, virale batterica ecc. senza per questo doverle annoverate fra le malattie
professionali a fini assicurativi proprio in ragione della violenza della causa, che rende possibile un più agevole
indennizzo incentrato sul ruolo in questi casi della presunzione semplice 23. Le seconde costituiscono una delle
nuove frontiere dei rischi professionali con potenzialità evolutive ben maggiori di altre malattie che, non tabellate,
possano essere dimostrate come professionali quali le malattie muscolo scheletriche da postura incongrua.
L’occasione di lavoro identifica il rischio professionale rispetto al rischio generico, un concetto chiave
che esprime la ragion d’essere di una tutela riservata al lavoratore non per il suo status ma per l’eziologia
professionale dell’evento. Per questo è oggetto di una incessante opera interpretativa alla stregua della quale per
l’indennizzabilità dell’infortunio è sufficiente ormai che il rischio non sia estraneo all’attività lavorativa o a ciò che
a questa è connesso o accessorio e che l’evento lesivo sia occasionato dal lavoro nel senso di avere con esso un
rapporto non solo marginale. Si apprezza, così, l’affermazione secondo cui il lavoro è causa del rischio ed
occasione dell’infortunio, che conferma la rilevanza del rischio nell’assicurazione sociale.
Risulta in questo modo superata la tradizionale differenziazione fra rischio generico, specifico e generico
aggravato secondo la quale si riteneva che l’infortuno fosse indennizzabile qualora il lavoro avesse determinato
l’esposizione al rischio specifico ovvero concorresse ad aggravare un rischio generico, come nel caso di scuola
costituito dall’infortunio da folgorazione.
L’occasione di lavoro, insomma, “racchiude in sé la rilevanza di ogni esposizione a rischio collegabile allo
svolgimento dell’attività in modo diretto o indiretto , per attività principali accessorie o strumentali, con
esclusione del solo rischio elettivo”24. Con ciò si conferma anche in campo assicurativo l’idea che fonte primaria
del rischio è la costrittività organizzativa che impone di esporsi a quei rischi occasionati dal lavoro, siano essi
specifici o generici, ai quali il lavoratore non può sottrarsi in ragione della sua attività. Su queste basi trova
collocazione assicurativa il rischio elettivo, da non confondersi con la colpa, che non esclude, a differenza del
primo, l’indennizzabilità del caso. E’ chiaro, altresì, che la mancata contiguità con il luogo di lavoro non è
Con una sorta di franchigia che, per quanto accennato nel testo, impropriamente si riferisce al diritto del lavoratore, al quale spetta
comunque un trattamento sostitutivo della retribuzione, mentre più proprio appare il riferimento alla responsabilità, e relativo esonero, del
datore di lavoro.
22 La puntualizzazione è essenziale, fra l’altro, per i riflessi in termini di prescrizione, il cui termine decorre non già dall’evento lesivo né da
una lesione comunque manifestatasi ma dal momento in cui la lesione si evolva in termini apprezzabili ai fini del maturarsi del diritto alle
prestazioni assicurative.
23 Il meccanismo della presunzione semplice comporta che “non occorra che fra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta
ed esclusiva necessità ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile da quello noto come conseguenza ragionevolmente possibile
secondo un criterio di normalità: Cass. 27 giugno 1998 n. 6390, in Riv. Inf. Mal. Prof., 1998, II, p. 70.
24 Cass. 7 luglio 2002 n. 6511, in Riv. Inf. Mal. Prof., 2002, II , p. 71.
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sufficiente per escludere la indennizzabilità, come l’accadimento dell’evento durante il lavoro e sul luogo di
lavoro non è per sé sufficiente per l’indennizzabilità.
L’evoluzione dell’originario concetto di occasione di lavoro ha consentito, inoltre, di indennizzare
l’infortunio in itinere 25 in termini assunti da ultimo a livello legislativo con soluzione che prende atto del
collegamento esistente, già nella coscienza sociale fra il lavoro e le attività in vario modo riconducibili ad esso,
quale appunto il percorrere la “strada” per andare e tornare dal luogo di lavoro26.
Un corrispondente percorso evolutivo, frutto dell’azione combinata di giurisprudenza e dottrina, ha
consentito di generalizzare a tutti i lavoratori subordinati la tutela inizialmente delimitata da requisiti soggettivi
(l’essere prestatore di opera manuale) ed oggettivi (l’adibizione a certe lavorazioni da ultimo identificate dall’art. 1
T.U.)27. Consente, con riferimento a detto requisito oggettivo, di non considerarlo rilevante ai fini della nozione
di rischio assicurato, che altrimenti dovrebbe definirsi come infortunio occorso per causa violenta in occasione di
una delle lavorazioni di cui all’art. 1 T.U.
Il problema, risolto nei fatti con il riconoscimento sostanziale del diritto alla tutela per tutti i lavoratori, è
irrisolto sul piano sistematico per la mancata riforma degli artt. 1 e 4 – e non solo – del T.U. Il ritardo della
riforma, da tutti auspicato, costringe ancora ad una doppia valutazione: una per individuare un collegamento
anche esile 28 fra l’occupazione del soggetto e le lavorazioni dell’art. 1; l’altra per verificare che l’infortunio sia
avvenuto in occasione di lavoro, anche se la lavorazione al momento svolta non fosse quella considerata per
l’obbligo assicurativo.
Si tratta di una delle conseguenze, appunto, della mancata riforma complessiva del T.U. che, del resto,
per restare al tema del rischio, continua a subordinare la rilevanza dell’altro rischio – la malattia professionale –
alla circostanza che il lavoratore sia assicurato già per gli infortuni. Certamente la limitazione ha perso ormai, per
le considerazioni ora richiamate, valore sostanziale per la generalizzazione di fatto della tutela per gli infortuni
professionali. Resta grave sul piano dei principi rispetto ad un rischio che assume sempre maggiore rilievo nella
patologia professionale tanto da meritare una specifica e particolare attenzione.
Nel sistema del T.U. la malattia professionale è definita quale malattia contratta nell’esercizio ed a causa
di una lavorazione morbigena, con una definizione che riecheggia i caratteri classici della tecnopatia nel senso che
il lavoro è non solo occasione ma anche causa diretta dell’evento (oltre che del rischio, come per l’infortunio) e la
causalità della patologia è “lenta”, da accumulo dell’azione lesiva, piuttosto che violenta come per l’infortunio.
L’applicazione della norma era semplificata nell’originaria impostazione del T.U. che adottava il sistema a
lista rigida, nel senso che tutelate erano le malattie individuate in un’apposita tabella, contratte nell’esercizio di
una lavorazione anch’essa individuata in apposito elenco, manifestatesi durante l’esercizio di detta lavorazione o
entro un termine massimo dall’abbandono della lavorazione morbigena.
In questo modo dall’iniziale rilevanza di detto rischio solo nelle ipotesi di strada particolare o percorsa con mezzo particolare in ragione
del lavoro, si è giunti ad un indennizzo per tutte le ipotesi di percorso ordinario, con esclusione del solo utilizzo dell’automezzo,
considerato rilevante solo se necessitato dalla prestazione di lavoro nei termini via via affinati dalla dottrina e giurisprudenza, per le quali si
v. per tutti G. Ferrari – G. Ferrari, op.cit., p. 174. Il richiamo al concetto di “necessitato”, che il legislatore del D.lgs. n. 38 del 2000 che ha
codificato la tutela dell’infortunio in itinere utilizza anche per la deviazione dal normale percorso, conferma in ogni caso che la
codificazione stessa non fa certo venire meno l’impegno giurisprudenziale di interpretazioni “adeguativi” riferita al valore dell’avverbio
“necessitato”.
26 L’avvertita necessità di un intervento legislativo conferma la difficoltà che si rinviene nel ricondurre un infortunio che avviene in ogni
caso fuori dalla prestazione, dal luogo, dall’orario di lavoro all’occasione di lavoro e non piuttosto ad una più generica causa di servizio.
Proprio questa difficoltà concettuale, d’altra parte, può spiegare come per l’infortunio in itinere il D.lgs. n. 38 del 2000 preveda quali cause
di esclusione dalla tutela situazioni riconducibili chiaramente a “colpa” del lavoratore, senz’altro nettamente irrilevanti invece nel caso di
“ordinario” infortunio rispetto al quale l’unica causa di esclusione resta il rischio elettivo, che si riscontra “quando il lavoratore con un atto
volontario e per soddisfare esigenze meramente personali affronta un rischio diverso da quello al quale si sarebbe esposto per esigenze
lavorative”: così G. Ferrari – G. Ferrari, op. cit., p. 172 ed ivi ampio richiamo di casistica giurisprudenziale in materia, appunto, di rischio
elettivo.
27 La generalizzazione della tutela a tutti i lavoratori subordinati, oltreché ad altre categorie di soggetti ad essi assimilati supera, infatti, la
necessità di richiamare nella nozione di rischio assicurato il complesso di lavorazioni ed attività solo in presenta delle quali l’originario
sistema, riprodotto nell’art. 1 T.U., subordinava la qualifica di assicurato concorrendo così a qualificare, sia pur indirettamente il rischio
coperto dall’assicurazione: l’infortunio cioè occorse per causa violenta in occasione del “lavoro identificato appunto dall’art. 1. Si tratta,
però, di un risultato realizzato di fatto dalla giurisprudenza in presenza di una normativa che mantiene la sua validità formale, prevedendo
che il rischio assicurato è quello prodotto da macchina od apparati pericolosi, dall’ambiente in cui essi si utilizzano, da lavori
complementari od accessori, da lavorazioni – infine – considerate di per sé pericolose, a prescindere dalla presenza di apparati o macchine
28 Rispetto al complesso sistema, richiamato alla nota precedente, di individuazione dei requisiti per l’insorgere dell’obbligo assicurativo
per le imprese – ed in particolare con riferimento alle lavorazioni compiute con utilizzo di apparati elettrici – è stato sostenuto che
l’obbligo dovesse venir meno di fronte alla dimostrazione del fatto che per determinati apparati mossi da basso voltaggio elettrico il
rischio sia pari a zero. Di fronte a questo chiaro tentativo di riproporre un percorso di tutela a partire dalla responsabilità di impresa per
giungere alla tutela dell’assicurato, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel considerare irrilevante l’assenza “sostanziale” di rischio con
motivazioni che lasciano trasparire però il disagio di fronte ad un sistema che, come abbiamo visto ha perso la sua indispensabile logicità
intrinseca. E’ comprensibile, quindi, che la Cassazione nel motivare la sua conclusione ritenga che in ogni caso non può astrattamente
escludersi la pericolosità dell’apparato elettrico in questione.
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In questo modo si intendeva risolvere il problema dell’onerosità della prova della eziologia professionale
della patologia, anche se la genericità di molte delle dizioni delle tabelle comportavano la necessità di rinviare la
valutazione a parametri tecnico scientifici di medicina del lavoro e legale. Il sistema è stato oggetto di forti
critiche nel tempo poiché non consentiva di dimostrare l’origine professionale di malattie non comprese nella
tabella, anche se lo stesso T.U. prevedeva un meccanismo di aggiornamento continuo delle tabelle con decreto
che, qualora avesse funzionato con continuità avrebbe certamente ovviato in gran parte al problema.
La Corte costituzionale, dopo ripetute sollecitazioni al legislatore per l’adozione di correttivi è
intervenuta con sentenze che hanno dichiarato la incostituzionalità della nozione del T.U. nella parte in cui non
consentiva detta dimostrazione, introducendo così direttamente il sistema c.d. misto. Fermo restando, cioè, il
valore della Tabella, nei termini ormai consolidati, il lavoratore ha il diritto di dimostrare l’origine professionale di
una malattia non tabellata o contratta per lavorazione non tabellata o manifestatasi dopo il periodo di
indennizzabilità fissato dal T.U.. La dimostrazione è certo impegnativa - e per questo legislatore ed Istituto
assicuratore hanno inteso agevolarla con vari strumenti 29 - ma il punto di maggiore criticità appare sempre più
quello della causalità efficiente: l’esigenza, cioè, di mantenere fermi i principi generali in tema di equivalenza delle
cause a fronte dell’espandersi dell’area della multifattorialità nel determinismo della malattia professionale. Tipico
è il campo delle patologie respiratore, sulle quali si concentrano, quali fattori di rischio, l’ambiente di lavoro e
l’ambiente di vita, l’inquinamento atmosferico – per questo – e quello da tabagismo anche passivo. Parimenti
critico è tutto il campo delle sordità da rumori, con il crescente impatto dell’inquinamento acustico generale che
va ad aggiungersi e spesso a sovrapporsi a quello degli ambienti professionali.
Proprio con riferimento al fenomeno della multifattorialità diventa ancor più essenziale il ruolo di
supporto dell’assicuratore per una guida che agevoli la dimostrazione dell”efficiente” nesso causale fra rischio ed
evento, anche se non si registra perfetta sintonia fra dottrina medico legale, ferma nel richiedere una causalità
adeguata, e giurisprudenza, orientata ad utilizzare il principio di equivalenza della causa, senza escludere di
considerare il ruolo delle leggi scientifiche in materia.
8. RISCHIO PROFESSIONALE, LAVORAZIONI, SOGGETTI ASSICURATI
Le considerazioni dei precedenti paragrafi meritano un arricchimento per cogliere con maggiore
puntualità l’evoluzione del sistema di assicurazione sociale, parallela rispetto a quella del sistema di igiene e
sicurezza del lavoro.
L’originaria impostazione limitava la tutela agli addetti alle lavorazioni dell’art. 1 ed a condizione che
l’adibizione fosse connaturata alla “manualità” della prestazione del lavoratore, assunta come sinonimo di “lavoro
operaio”. Da ciò, fra l’altro, l’esclusione dalla tutela dei lavoratori statali, “impiegati” per definizione, a differenza
di quanto accadeva per i dipendenti dello Stato con qualifica di operaio. La delimitazione è stata nel tempo
superata, tanto che il requisito della manualità si identifica con quello di adibizione ed entrambi servono solo a
chiarire che il soggetto deve trovarsi in una condizione lavorativa che lo esponga al particolare rischio, ferma
restando poi l’applicazione del doppio criterio, utilizzabile rispettivamente per l’obbligo assicurativo e per
l’indennizzabilità dell’evento lesivo.
Nell’impiego statale, però, l’evoluzione non è compiutamente metabolizzata, anche perché la particolare
modalità per conto con la quale si gestiscono gli infortuni degli statali (l’INAIL eroga le prestazioni e lo Stato
rimborsa le spese annualmente sostenute) non fa maturare una adeguata consapevolezza da parte dei Ministeri
circa la ricorrenza dell’obbligo assicurativo. La vicenda è analoga e parallela a quella della prevenzione negli uffici
statali: prevenzione che a fronte di una generica affermazione di applicabilità, risulta infatti subordinata a vari
meccanismi di differenziazione, esonero parziale ecc. E’, in ogni caso, fuori discussione il diritto alla tutela dei
lavoratori interessati, grazie anche all’affermarsi delle nuove tecnologie che hanno diffuso l’uso nell’ambito di
uffici e scuole di strumenti alimentati da energia elettrica e quindi fonte di per sé di rischio. Ed in questo quadro,
ci si augura che possa essere risolto il problema della tutela assicurativa dei militari di carriera – prendendo anche
spunto dall’abolizione del servizio di leva – senza ricorrere ad interventi legislativi ma già utilizzando gli strumenti
interpretativi di cui si dispone.
Lo stesso D.lgs. n. 38 del 2000 a questo proposito, ha confermato il meccanismo di aggiornamento periodico previsto dal Testo unico
arricchendolo con la previsione a monte di: - un obbligo per i medici curanti di segnalare tutte le malattie di sospetta origine professionale,
come tali indicate in una apposito elenco di malattie di probabile o possibile origine professionale; una Banca dati di dette segnalazioni,
gestita presso l’INAIL; una Commissione tecnica incaricata di vagliare il flusso informativo così realizzato per proporre, in continuità,
aggiornamenti delle tabelle delle malattie di origine professionale. L’Istituto assicuratore, d’altra parte, consapevole della complessità della
prova delle malattie non gabellate ha impostato un sistema tecnico .- amministrativo di supporto per il lavoratore onde facilitargli,
appunto, la ricerca e dimostrazione della eziologia professionale.
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Contigua alla categoria dei dipendenti statali, in particolare degli insegnanti, è quella degli studenti degli
istituti di istruzione (anche privati) che per espressa previsione del T.U. sono tutelati rispetto ai rischi connessi
con le “esercitazioni tecnico pratiche” da essi svolte; una nozione molto ampia già nell’interpretazione
amministrativa, che include da ultimo le esercitazioni nella scuola dell’obbligo di informatica e di lingua straniera.
Altre categorie di assicurati presentano caratteristiche specifiche rispetto alla nozione base di lavoratore
dipendente che non vanno ad incidere, però, sulla nozione di rischio assicurato, mentre da questo punto di vista
una evidenza specifica assume il rischio della casa per i soggetti considerati dalla legge istitutiva a fine 1999 della
assicurazione per “le casalinghe”: in tale ipotesi, infatti, il rischio si identifica piuttosto in quello riconducibile alle
attività di servizio per la cura della famiglia e della casa, purché svolte nell’ambito della “casa” stessa.
9. CONCLUSIONE: ATTUALITÀ DI UN DISCORSO SUL RISCHIO
Si è visto nei paragrafi precedenti come l’evoluzione dell’assicurazione infortuni sia stata vissuta, dal
dopoguerra, all’insegna del superamento del rischio e della connessa funzione assicurativa di questa forma di
tutela, da ricondurre nel sistema di previdenza sociale, con esclusione di qualsivoglia funzione risarcitola del suo
intervento, al quale al più potrebbe attribuirsi un ruolo “indennitario”. La posizione, già richiamata in precedente
paragrafo, resta diffusa in dottrina ed ha trovato eco nel dibattito che si è svolto attorno alla vertenza proposta in
sede comunitaria circa la legittimità del monopolio assicurativo30, confermata sulla base, fra l’altro, del
riconoscimento della natura previdenziale e solidaristica dell’assicurazione infortuni. Senza entrare nel merito di
quest’impostazione – che ha ritenuto di identificare nel richiamo al rischio la delimitazione dell’area dei soggetti
protetti31 – gli scenari attuali del welfare e del “lavoro che cambia” ci inducono a recuperare e valorizzare la
funzione “risarcitoria” dell’assicurazione infortuni, senza che sia a ciò di ostacolo il riferimento delle prestazioni
all”indennizzo”, categoria che partecipa in ogni caso della anzidetta funzione risarcitoria.
Infatti, nel momento in cui si pone in discussione l’intero assetto del welfare - in Italia, in Europa, negli
Stati Uniti – per ricondurlo in un quadro di sostenibilità economica e di integrazione pubblico/privato, occorre
ribadire che in coerenza con gli scenari della sicurezza ed igiene del lavoro, il lavoratore continua ad avere diritto
ad un indennizzo sociale adeguato (nel quadro di un risarcimento globale congruo e che non a caso si arricchisce
sempre più di nuove figure di danno) per un danno da rimuovere in forma specifica e/o per equivalente.
Riteniamo, cioè, che non si possano condividere – in un quadro di “risorse definite” per il welfare – confusioni
fra il diritto che il cittadino ha per determinate situazioni di bisogno in quanto lavoratore (e quindi anche tenuto
conto di quanto versato ovvero, nel caso della sanità, di quanto sostenibile) con il diritto che ha in quanto
lavoratore che subisce un danno in ragione del proprio lavoro. Un danno, giova aggiungere, che la coscienza
sociale ed ancor più quella giuridica, ritengono ingiusto in relazione al ruolo giocato dalla “costrittività
organizzativa” e che si tende ad ampliare progressivamente per la sfera di interessi da tutelare, in termini di danno
biologico, patrimoniale, morale, esistenziale.
In questo senso il richiamo iniziale a precedenti storici – che ha spesso il sapore di una clausola di stile –
assume significato, poiché conferma che nei momenti in cui si è riconosciuta la dignità della persona del
lavoratore, non più schiavo, si è dato per scontato che delle lesioni da lui subite in ragione del lavoro si dovesse
rispondere, a carico della collettività e prima ancora a carico di chi del frutto del lavoro beneficiava.
Pertanto, sarebbe incongruo che all’indomani dell’emanazione di un Codice della sicurezza ed igiene del
lavoro, ricco di attenzioni e protezione con chiari riferimenti alla responsabilità dell’imprenditore, il lavoratore
finisse per essere ingabbiato, proprio nei momenti di più evidente bisogno, in meccanismi analoghi a quelli del
S.S.N. o del sistema pensionistico, vanificando quel principio di responsabilità di impresa e della collettività già
per la prevenzione che resta cardine dell’intero progetto governativo di Codice.
L’intero sistema di “nuovo lavoro”, di flessibilità come strumento di recupero della competitività delle
aziende e delle opportunità di lavoro, inoltre, deve poggiare su un adeguato sostegno attraverso un sistema
pensionistico riformato, nuovi ammortizzatori sociali e, riteniamo di poter aggiungere, una tutela per i rischi
professionali che preveda, a valle delle misure di prevenzione, interventi di pronto intervento, recupero fisico,
sostegno economico la cui certezza per il lavoratore deve fondarsi su sicuri presupposti di “garanzia” assicurativa.
Altrimenti, il rischio in questione - ridimensionato dalla eccellenza della prevenzione, ma sicuramente aggravato
CGE 22 gennaio 2002 in Dir. Lav, 2002, II, p. 115, con nota di A. Rossi, Normativa comunitaria sulla concorrenza ed estraneità dell’INAIL dalla
nozione di impresa. A conclusioni analoghe sempre con riferimento alla legittimità del monopolio pubblico dell’assicurazione infortuni era
pervenuta altresì la Corte cost. 7 febbraio 2000 n. 36, in Foro It., I, p. 697.
31 Tesi che se è condivisibile qualora limitata al riferimento alla Teoria del rischio professionale pirma richiamata non riteniamo possa
condividersi in relazione al rischio come oggetto del rapporto che lega il lavoratore all’assicuratore.
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dalla “precarietà” del lavoro flessibile – si scaricherà in modo diretto ma confuso sulle aziende, ovviamente con
tutte le disparità di trattamento fra lavoratori che solo un sistema pubblicistico riesce a superare32.
Pasquale Acconcia
Direttore della Rivista degli infortuni sul lavoro
e delle malattie professionali
Per la valorizzazione del rischio e della funzione risarcitoria dell’assicurazione infortuni cfr. P. Acconcia, L’assicurazione infortuni fra
conferme e rinnovamento di fronte al lavoro che cambia, Supplemento al mensile Impegno dell’ANMIL, n. 2 del 2004. Sul tema, per le opere generali, v.
anche M. Persiani, Diritto della previdenza sociale, Padova, 2002, p. 41; De Matteis, l’Assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le
malattie professionali, Torino 1996 e, per una lettura all’indomani dell’emanazione del T.U., successivamente aggiornata Alibrandi, Infortuni sul
lavoro e malattie professionali, Milano, 1994. Cfr. anche Trattato di previdenza Sociale diretto da Bussi e Persiani, Vol. IV, Padova, 1981,
interamente dedicato all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
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