N. 8 - 21 settembre 2004

Transcript

N. 8 - 21 settembre 2004
EPISTEME
Physis e Sophia nel III millennio
N. 8 - 21 settembre 2004
Quando due testi, due affermazioni, due idee si contrappongono, divertirsi a
conciliarle anziché annullarle una attraverso l'altra; ravvisare in esse due aspetti,
due stadi successivi dello stesso fatto, una realtà convincente appunto perché
complessa, umana perché multipla.
Marguerite Yourcenar
ISSN 1593-3482
EPISTEME
Physis e Sophia nel III millennio
An International Journal
of Science, History and Philosophy
N. 8 - 21 settembre 2004
Redazione ([email protected])
"Episteme"
c/o Dipartimento di Matematica e Informatica
Università degli Studi
Via Vanvitelli - 06100 Perugia
Direttore Responsabile
Euro Roscini (Supplemento semestrale ad: Arte in Foglio, Pubblicazione
registrata presso il Tribunale di Perugia, N. 36/1991)
http://www.robotics.it/episteme
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci
(per ottenere ~ tenere premuto Alt mentre si compone il numero 126 con i simboli numerici nella parte destra
della tastiera)
Numeri arretrati on line: http://itis.volta.alessandria.it/episteme
ISSN 1593-3482
EPISTEME
Physis e Sophia nel III millennio/Physis and Sophia in the III millennium
An International Journal of Science, History and Philosophy
N. 8 - 21 settembre 2004 / 21st Sep. 2004
[La diffusione via Internet di sezioni della rivista può avvenire anche prima della data indicata - Sections of
Episteme can be available in Internet even before the previous date]
Informazioni editoriali/Editorial Policy
Pubblicazioni e informazioni ricevute/Received books, journals and news
1 - Alberto Bolognesi: Cosmologia al bivio
2 - Rosario Vieni: Il Disco di Festo - Un calendario vecchio di 4000 anni?
(Con un'appendice su "Due brevi iscrizioni epigrafiche inedite")
3 - Sabato Scala: Un'antica sinagoga nel cuore paleocristiano di Cimitile?
4 - Lino Lista: I veli di marmo di Raimondo di Sangro, Principe di San Severo
5 - Bruno d'Ausser Berrau: De Mysteriis - Iniziazione virtuale ed iniziazione effettiva
6 - Magdalena Gajewska: La culture de l'incinération en Pologne
7 - Amrit Sorli, Ilaria K. Sorli: Scientific Basis for Development of Human Consciousness
7bis - "L'Arco e la Clava": Conoscenza e potenza
8 - Francesco Vitale: Jules Verne e l'astronautica
9 - Flavia Marcacci: La dimostrazione matematica pre-euclidea: tra costruzione e rigore
logico
10 - Jarosław Mrozek: The historical evolution of the concept of mathematical proof
11 - Luca Umena: Kurt Gödel, un relativista incompleto
12 - Umberto Bartocci: I paradossi di Zenone sul movimento e il dualismo spazio-tempo,
con un'appendice sulle definizioni matematiche di discreto e continuo
13 - Umberto Lucia: Analisi strutturale di un sistema scolastico in cambiamento - Un viaggio
nella scuola italiana
14 - Umberto Lucia: Elementi storici dell'insegnamento della matematica in Italia dal XVI al
XX secolo
15 - Alberto Bolognesi: L'altro Hubble - Un astronomo vero fra mito e realtà
Reprints
Un commento di Bruno d'Ausser Berrau a Paul Maury, Le secret de Virgile et
l'architecture des Bucoliques (pubblicato in Episteme N. 7, vol. II): Verba volant, scripta
latent - Architetture nascoste, testi sotto testi e parole sotto parole
Arturo Reghini e la sua opera dedicata alla matematica pitagorica (Un'introduzione di
Alfonso del Guercio, preceduta da una nota biobibliografica di Stefano Loretoni)
Rocco Ronchi: Le parole della filosofia per leggere l'attualità
Commenti ricevuti/Received Comments
Enrico Cernuschi: Hollywood s'en va-(t)-en guerre - Analisi semiseria di un preoccupante
fenomeno collettivo d'Oltreoceano
Roberto Germano: Silvano Fuso, divulgatore a modo suo
Lino Lista: A proposito della "Primavera" di Botticelli, perché Mercurio è Dante...
Antonio Ruggeri: A New Theory in Theoretical Dynamics - Based on the Existence of an
Ethereal Substance of Given Properties Called Energized Space Fabric
Amrit Sorli: Time is Change
Emilio Spedicato: 54 Theses for reconstructing Earth and human history during the
catastrophic period 9500 to 700 BC
Recensioni/Reviews
Piero Buscaroli: Beethoven (Giorgio Taboga)
Mario Liverani: Oltre la Bibbia - Storia antica di Israele (Lia Mangolini)
Goffredo Sebasti: Il caso Giuseppe da Copertino - indagine sulla vita e i prodigi del santo
che volava (Arcangelo Papi)
[Con un commento di Clelia Maria Canna, e uno dalla redazione di Episteme]
----Congedo, con una breve nota sui paradossi di Zenone...
Cinque anni di Episteme/Episteme's five years
INFORMAZIONI EDITORIALI
Episteme è soprattutto una rivista "non convenzionale" on-line, reperibile presso i seguenti
siti:
http://www.robotics.it/episteme
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci
(Numeri arretrati: http://itis.volta.alessandria.it/episteme).
Articoli, commenti e altro materiale sono benvenuti, e possono essere presentati per la
pubblicazione da parte di ciascuna persona interessata. La spedizione può essere effettuata
vuoi a mezzo Internet, a:
[email protected] ,
vuoi facendo pervenire un dischetto tramite posta ordinaria, all'indirizzo:
"Episteme"
Dipartimento di Matematica e Informatica
Università - Via Vanvitelli
06100 Perugia - Italy.
Inviare eventuali attachments soltanto in formato txt, o doc - si prega di non usare tex! - ed
eventuali figure, tabelle, etc. in formato jpg.
Respingendo ogni forma di "monopolio linguistico", Episteme intende mantenersi
plurilingue, pertanto i lavori potranno essere redatti in qualsiasi (quasi!) lingua, vale a dire
Francese, Inglese, Italiano, Spagnolo, Tedesco (etc.?!).
L'accettazione degli articoli è decisa dagli organizzatori - in base alla conformità con la linea
della rivista - che ne informeranno in modo tempestivo i proponenti, riservandosi
eventualmente di acquisire pareri di esperti (le opinioni ricevute saranno eventualmente rese
note agli interessati), e/o di chiedere agli autori chiarimenti o modifiche.
Il materiale ricevuto anche se non utilizzato non si restituisce.
- La diffusione via Internet di parti della rivista avviene in qualche caso prima della data
prevista per la pubblicazione ordinaria, dopo la quale però ogni correzione ai lavori messi a
disposizione in rete viene segnalata in un apposito Errata Corrige.
- Si fa notare che la versione on-line di Episteme è talora necessariamente "semplificata"
rispetto a quella a stampa (per esempio in presenza di caratteri o simboli speciali). Il file
originale in formato doc dei vari articoli (o dell'intero fascicolo) verrà inviato gratuitamente
dalla redazione (come attachment) a chiunque ne farà richiesta.
"Episteme" è più in generale un "progetto culturale", che non ha fini di lucro, e non è
finanziato da alcun ente, pubblico o privato. Gli organizzatori se ne ripartiscono le spese
secondo le personali momentanee disponibilità. Sovvenzioni per tenere in vita l'iniziativa
sono ovviamente ben gradite, e possono essere inviate via vaglia postale o assegno (intestati
ad Episteme) al sopra citato indirizzo.
Oltre alla diffusione on-line, si produce anche un certo numero di copie cartacee della rivista,
tra l'altro per distribuirle, a cura e spese degli organizzatori, presso Biblioteche, Istituzioni,
etc.. Tali copie potranno essere ottenute da singoli rivolgendone specifica richiesta agli
indirizzi sopra menzionati, a prezzo da convenire volta per volta.
EDITORIAL POLICY
Episteme is mostly an on-line publication, but it does produce even printed copies. In order to
obtain them, a request should be sent to the editor, at one of the addresses indicated below.
Episteme is interested in publishing papers which illustrate unconventional points of view that is to say, which do not usually appear in other academic journals - in Science, History
and Philosophy.
Since Episteme is thought of as a multi-linguistic journal, papers are accepted and possibly
published in Deutsch, French, English, Italian, Spanish (etc.?!).
Episteme will communicate to contributors as soon as possible whether submitted papers are
in agreement with the journal's criteria, or not.
Files of the papers, in doc or txt format (please avoid tex!), together with possible illustrations
in jpg format, should be sent either by attachment, to:
[email protected]
or by diskette, through ordinary mail, to:
"Episteme"
Dipartimento di Matematica e Informatica
Università - Via Vanvitelli
06100 Perugia - Italy.
Episteme can be found at the following web sites:
http://www.robotics.it/episteme
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci
(Back numbers: http://itis.volta.alessandria.it/episteme).
- Sections of this journal are available in Internet even before the publication of the printed
version; afterwards, any modification of the material made available in the web is registered
in a suitable Errata Corrige.
- The Internet version of Episteme can sometimes be defective, in presence for instance of
special characters or symbols. The original file in doc format of the various articles (or of the
journal's whole issue) will be sent free (as an attachment) from the editorial office to
everybody asking for it.
Pubblicazioni e informazioni ricevute/
Received books, journals and news
1 - Andre Koch Torres Assis and Julio Akashi Hernandes, The Electric Field Outside
Resistive Wires Carrying Steady Currents
Institute of Physics - State University of Campinas
13083-970 Campinas - SP - Brazil
E-mails: [email protected] - [email protected]
Homepage: http://www.ifi.unicamp.br/~assis
<<This book is dedicated to the memory of Wilhelm Eduard Weber (1804-1891) in the 200th
anniversary of his birth. He was one of the main pioneers in the subject developed here, the study of
surface charges in resistive conductors carrying steady currents. We hope this book will help to make
his fundamental work better known.>>
Contents
Acknowledgments
I Introduction
1 Main Questions and False Answers
1.1 Simple Questions
1.2 Charge Neutrality of the Resistive Wire
1.3 Magnetism as a Relativistic Effect
1.4 Weber's Electrodynamics
2 Reasons for the Existence of the External Electric Field
2.1 Bending a Wire
2.2 Continuity of the Tangential Component of the Electric Field
3 Experiments
3.1 First Order Electric Field
3.2 Second Order Electric Field
II Straight Conductors
4 General Theorem
5 Wire of Circular Cross Section
5.1 Geometry of the Problem
5.2 Force due to Electrostatic Induction
5.3 Force Proportional to the Current
5.4 Force Proportional to the Square of the Current
5.5 Radial Hall Effect
5.6 Discussion
6 Coaxial Cable
6.1 Introduction
6.2 Potentials and Fields
6.3 The Symmetrical Case
6.4 The Asymmetrical Case
6.5 Discussion
7 Transmission Line
7.1 Introduction
7.2 Two-Wire Transmission Line
7.3 Discussion
8 Resistive Plates
8.1 Introduction
8.2 Single Plate
8.3 Two Parallel Plates
8.4 Four Parallel Plates
8.4.1 Opposite Potentials
8.4.2 Perfect Conductor Plate
9 Resistive Strip
9.1 The Problem
9.2 The Solution
9.3 Discussion
III Curved Conductors
10 Resistive Cylindrical Shell with Azimuthal Current
10.1 Geometry of the Problem
10.2 Potential and Electric Field
10.3 Surface Charge Densities
10.4 Lumped Resistor
11 Resistive Toroidal Conductor with Azimuthal Current
11.1 Introduction
11.2 Description of the Problem
11.3 General Solution
11.4 Particular Solution for a Steady Azimuthal Current
11.5 Electric Field and Surface Charges
11.6 Thin Toroid Approximation
11.7 Charged Toroid Without Current
11.8 Discussion
IV Open Questions
12 Future Perspectives
Appendices
A Wilhelm Weber and Surface Charges
B Gustav Kirchhoff and Surface Charges
<<The goal of this book is to analyze the potential and electric field inside and outside resistive
conductors carrying steady currents. We also want to discuss the distribution of charges along the
surface of the conductors which generate this field. This is an important subject which unfortunately
has been neglected by most authors writing about electromagnetism. Our aim is to present the
solutions of the main simple cases which can be solved analytically in order to show the most
important properties of this remarkable phenomenon. It is written for undergraduate and graduate
students of the following courses: physics, electrical engineering, mathematics, history and philosophy
of science. We hope that it will be utilized as a complementary text in the courses of
electromagnetism, electrical circuits, mathematical methods of physics, history and philosophy of
science. Our intention is to help in the formation of a critical mind in the students and to deepen their
knowledge of this fundamental area of science. We begin showing that many important authors
maintained wrong points of view related to steady currents, not only in the past but also in recent
years. The list includes Maxwell, Feynman (Nobel prize winner) and many others. In a sense this first
topic may be considered the most important of the book. Not only does it show that classical
electrodynamics is a lively subject in which there is still much to be discovered, but it can also alert
the readers of the mistakes repeated in textbooks along the years related to the most simple questions.
By realizing this the readers should become more careful about the contents of many textbooks. How
many other mistakes or false statements can they contain? The readers can also enhance their critical
reasoning related to what they learn. Another goal is to show that electrostatics and steady currents are
intrinsically connected subjects. The electric fields inside and outside the conductors carrying dc
currents are due to distributions of charges along their surfaces, maintained by the batteries. This can
bring an unity in the treatments of textbooks related to the subject of electrostatics and steady currents,
contrary to what we find nowadays in most works. We begin considering in general straight
conductors of arbitrary cross-sections and a general theorem related with their surface charges. Next
we deal with a long straight conductor of circular cross section. Then we treat a coaxial cable and a
transmission line (twin lead). In the sequence we deal with conducting planes and a straight strip of
finite width. In the second part we consider a long cylindrical shell with azimuthal current and a
toroidal conductor with steady azimuthal current. Although much more complicated than the previous
cases, this last situation is extremely important as it can model a circuit bounded in a finite volume of
space carrying a closed dc current, like a resistive ring. By including the analytical solutions of all
these basic cases in a single work, our intention is that this material can be utilized in the
undergraduate and graduate courses described above. Although the mathematical treatments and
procedures are more or less the same in all cases, they are presented in detail in each geometry so that
the chapters can be studied independently from one another. It is then also easier to be incorporated in
standard textbooks dealing with electromagnetism and mathematical methods for scientists. Part of the
subject presented here was discussed in some textbooks and research papers previously. It seems to us
that the reason why it was not yet incorporated in most textbooks, which even present false statements
related to this topic, is that all these simple cases were never put together in a coherent way. We hope
to overcome this limitation with this book. At the end of this work we present open questions and
future perspectives. In an Appendix we discuss an important work by Wilhelm Weber where he
presented a calculation related to the surface charges in resistive conductors carrying a steady current,
a remarkable piece of work which unfortunately has been forgotten during all these years. We also
discuss Kirchhoff's works related to surface charges and the derivation by Weber and Kirchhoff of the
telegraphy equation. A great bibliography is included at the end of the book. In this work we utilize
the International System of Units MKSA. When we define a concept we utilize ≡ as a symbol of
definition. We represent by F ji the force exerted by body j on i. When we say that a body is
stationary or moving with velocity v , we are considering the laboratory as the frame of reference,
unless stated otherwise.>>
2 - Avallon, l'uomo e il sacro, N. 52, 2003
Apocalisse - Segni e presagi della fine
Il Cerchio Iniziative Editoriali
Via Dell'Allodola, 8 - 47900 Rimini
[email protected], http://www.ilcerchio.it
Nuccio D'Anna, Il Puer della IV egloga di Virgilio: il messianismo pagano alla fine della Repubblica
Paolo Urizzi, Il Salvatore escatologico in ambito islamico: l'Imam atteso e il Cristo della seconda
venuta
Enrico Comba, La fine del mondo e la fine del tempo: la Ghost Dance del 1890 tra gli Indiani Lakota
Dawud Sulayman Amar Ibn Al-Kahani, II ruolo dei Sabei nel kalâm islamico
Ezio Albrile, Gnosi in Kurdistan. Apocalittica e sincretismo iranico-mesopotamico tra gli Yezidi
Dan Evehema, La profezia degli indiani Hopi
Estratto del messaggio del capo spirituale all'umanità
<<Apocalisse, cioè rivelazione o disvelamento racconto di vicende umane che conducono la storia a
compimenti drammatici, a rese dei conti che sconfiggeranno il male del mondo, ristabilendo il
dominio divino sulla terra in una nuova era di letizia e concordia. Drammatico scenario di catastrofi e
flagelli che purificheranno l'umanità in una ordalía finale. Suggestiva e terribile narrazione di
rapimenti estatici, di visioni e profezie che interpretano segni e presagi, timori e desideri collettivi di
riscatto in una vertigine pervasa da angeli vendicatori in lotta contro le potenze demoniache.>>
3 - Avallon, l'uomo e il sacro, N. 53, 2004
L'Impero - L'anima profonda dell'Europa
Il Cerchio Iniziative Editoriali
Via Dell'Allodola, 8 - 47900 Rimini
[email protected], http://www.ilcerchio.it
Nuccio D'anna, Alle radici dell'Imperium: gens Iulia, Troiae lusus e sovranità
Cristian Guzzo, ROMA VICTRIX - La religiosità militare delle legioni dalla Repubblica all'Impero
Luigi G. De Anna, La vocazione imperiale del Toson d'Oro
Fabio Martelli, Ideologia imperiale e correnti messianiche alla vigilia della guerra dei Trent'anni
Marco Del Bene, Tradizione e modernità del sistema imperiale nel Giappone moderno
Omaggio a Marguerite Yourcenar (a c.d.R.) SAECULUM AUREUM - DISCIPLINA AUGUSTA
Maurizio Mecozzi, Federico II Imperatore
Otto Von Habsburg, "Europa Imperiale"
Nobushige Hozumi, La Casata imperiale nella Tradizione giapponese
<<Nella storia d'Europa e del resto del mondo l'impero è una idea che riunisce uomini e intenti sotto
un emblema sovranazionale che si estende su etnie, lingue e religioni diverse. L'impero ha i suoi
carismi, le proprie ritualità istituzionali, simboli di autorità e autorevolezza, riferimenti spirituali,
religiosi e mitici, insegne, vesti, ornamenti, araldica, luoghi sacri e templi. La sua retorica è palese e
intenzionale, facile da individuare e demitizzare: ma è altrettanto ammaliatrice e insidiosa e si
ripropone in nuovi imperi e in nuove propagande, spesso autoritarie ma non autorevoli, in ideologie di
dominio piuttosto che di governo, nella violenza piuttosto che nella forza.>>
4 - Antonino Drago, La riforma della dinamica secondo G.W. Leibniz - Testi originali e loro
interpretazione moderna
Hevelius Edizioni Scientifiche Italiane, Benevento, 2003
<<Si doveva cercare se i fenomeni naturali complessi non si potessero derivare da altri fenomeni noti
e studiati. È infatti inutile assumere cause possibili al posto di quelle vere, quando le cause vere e certe
ci stanno davanti agli occhi. Così io credo che sul mio esempio si potrebbero proporre alla ricerca cose
più intelligenti: che in futuro la filosofia naturale venga trattata senza ipotesi immaginarie, ma
presupponendo cause tali la cui realtà effettuale è ben accertata nella natura. Nessuno infatti, per quel
ch'io sappia, ha cercato di spiegare la congerie delle particolarità movendo da pochi fenomeni
generali; nel che peraltro consiste il vero procedimento dimostrativo della fisica.>> (G.W. Leibniz)
<<Per la prima volta viene offerta la traduzione in italiano di un gruppo molto significativo di studi di
Leibniz sulla meccanica, da lui scritti dopo il 1690; essi comprendono in maniera essenziale la sua
polemica con i cartesiani che diverrà nota come la polemica della vis viva e che farà discutere per un
secolo i massimi teorici della fisica. Gli scritti sono stati accuratamente commentati (e in parte ridotti),
in modo da renderli per la prima volta facilmente comprensibili ad un lettore di cultura media; inoltre
sono state inserite tra parentesi quadre le semplici formule matematiche che traducono i concetti
leibniziani, in modo da assicurare la piena comprensione dei testi anche a coloro che preferiscono il
linguaggio formale. Questi testi sono sufficienti per chiarire la polemica della vis viva e, cosa ancor
più importante, per ricostruire la "Riforma della dinamica" di Leibniz. Al contrario di come la giudicò
B. Russell ("un cumulo di confusione"), essa risulta una teoria coerente, ancorché incompleta. Essa
può essere considerata come l'inizio sostanzioso di una rifondazione della meccanica, completamente
alternativa a quella di Newton. Data la enorme influenza avuta da Newton per i suoi grandi successi,
essa poi è stata trascurata o equivocata con un atteggiamento ostinatamente metafisico di Leibniz esattamente il contrario dell'atteggiamento qui manifestato da Leibniz. La alternativa della sua
meccanica riguarda non solo la diversa concezione dei concetti di spazio e tempo, ma anche i concetti
fondanti - l'energia invece che la forza -, l'esclusione dell'analisi infinitesimale dai fondamenti della
teoria, la organizzazione basata su un problema invece che su dei principi assiomi. Di straordinaria
importanza la sua maniera di ragionare per la prima volta per simmetrie in fisica teorica, cioè secondo
trasformazioni sul sistema in esame. La sua meccanica però appare limitata dalla mancanza della
formula del principio dei lavori virtuali, data da J. Bernoulli solo dopo la morte di Leibniz. Il
compimento del programma di Leibniz sulla meccanica è avvenuto quasi un secolo dopo con la teoria
di Lazare Carnot (1783), la quale è stata riscoperta nel 1971 ed è stata rivalutata in questi ultimi anni
(ed. it, CUEN 1994). In più, i testi di Leibniz risultano adatti ad una proposta didattica innovativa; per
la prima volta essi propongono un preciso e importante argomento di studio sia agli insegnanti di
Fisica che agli insegnanti di Filosofia delle scuole Superiori; attraverso di esso questi insegnanti
possono ricostituire quel legame tra le due materie che oggigiorno è spezzato. L'insegnante di Fisica
può comprendere le assunzioni filosofiche che stanno alla base della meccanica di Leibniz e per
contrasto, quelle di Newton; mentre l'insegnante di Filosofia può comprendere quali concetti
fondamentali della Fisica danno una precisa alternativa alla scienza che ha dominato per tre secoli.>>
INDICE
INTRODUZIONE
1. IL PROGRAMMA DELL'OPERA
1.1 II problema dell'interpretazione del pensiero di Leibniz in meccanica
1.2 II precedente lavoro interpretativo degli storici e dei filosofi della scienza
1.3 Una nuova visione
1.4 L'indirizzo di lavoro
1.5 I testi presentati
2. LA MECCANICA DI LEIBNIZ RICOSTRUITA COME COERENTE ALTERNATIVA
ALLA MECCANICA DI NEWTON
2.1 II metodo di presentazione
2.2 II programma di Leibniz per una alternativa alla meccanica di Newton
2.3 Quale architettura della teoria fisica?
2.4 Due grandi principi che distinguono due tipi di logiche
2.5 Un principio fisico generale
2.6 La interazione: "Causa aequat effectum"
2.7 Relatività di moto, spazio e tempo
2.8 Fondamenti della dinamica. La scelta di una matematica semplice
2.9 Teoria dell'urto dei corpi
2.10 Le conservazioni
2.11 Teoria dei corpi pesanti
3. LA MECCANICA DI LEIBNIZ NELLA STORIA DELLA FISICA
3.1 La polemica di Leibniz con i Cartesiani sulla vis viva
3.2 L'introduzione concettuale delle simmetrie in fisica teorica
3.3 Valutazione della meccanica di Leibniz alla luce della meccanica di L. Carnot
3.4 Ricostruzione sintetica della dinamica di Leibniz
3.5 La alternativa alla meccanica di Newton
3.6 Le tappe della costruzione della meccanica di Leibniz-L. Carnot
3.7 La Scientia Generalis o Scienza delle scienze di Leibniz
3.8 Conclusioni
4. PROPOSTE PER LA DIDATTICA DELLA FISICA E DELLA FILOSOFIA NELLE
SCUOLE SUPERIORI
4.1 Una proposta modesta, indirizzata agli insegnanti di Fisica che trasmettono un elenco di tecniche
di Fisica
4.2 Una proposta di livello superiore per gli insegnanti di Fisica e per gli insegnanti di Filosofia
5. NOTE FILOLOGICHE. VOCABOLARIO DELLE NOZIONI UTILIZZATE DA LEIBNIZ
5.1 Note filologiche (con F. Piro)
5.2 Vocabolario delle parole usate da Leibniz
5.3 Principali opere di Leibniz sulla dinamica
Note
BIBLIOGRAFIA
I TESTI
DALLA LETTERA DI LEIBNIZ AD HONORATUS FABRI DEL 1677
BREVE DIMOSTRAZIONE DELL'ERRORE MEMORABILE DI CARTESIO (1686)
SAGGIO DI DINAMICA (1692)
Presentazione dell'opera
Un primo sguardo all'opera
Descrizione sintetica dell'opera
II problema cruciale: l'organizzazione della teoria
La serie delle frasi doppiamente negate
La versione didattica e ridotta
G.W. LEIBNIZ: ESSAY DE DYNAMIQUE
SAGGIO INTRODUTTIVO ALLA DINAMICA (1695)
Nota introduttiva al Saggio del 1695 (di F. Piro)
G.W. LEIBNIZ: SPECIMEN DYNAMICUM
SAGGIO DI DINAMICA SULLE LEGGI DEL MOTO (1698)
Introduzione
G.W. LEIBNIZ: ESSAY DE DYNAMIQUE SUR LES LOIS DU MOUVEMENT
Note
5 - Alessio Follieri, La nuova razionalità - Tra scienza, filosofia e teologia
Editore Pascale, Roma, 2004
viale Alessandrino 133/B2, 00172 Roma (tel. 06/24301774)
http://www.mariomichelepascale.net
(gli utenti interessati possono prenotare direttamente le copie presso l'editore)
<<Se non vi fosse stata alcun'esigenza moderna di conoscere la realtà che ci circonda, compresi noi
stessi, non avrei scritto questo libro. Essendo la conoscenza stessa, un bene che ritengo libero e
soprattutto per tutti, ho completato la stesura di questo lavoro nel modo più semplice possibile,
sviluppando concetti essenziali, dove il lettore ha il più ampio respiro per completare egli stesso le
proprie riflessioni. Onestamente, se fossi stato un ottimo scienziato, non avrei pubblicato questo
lavoro, così come se fossi stato un convinto filosofo o teologo. E' questo per molti versi il senso della
nuova razionalità, essere semplicemente individui nell'Universo e non concedere alcun atto di
presunzione nel credere che una dottrina costituita da leggi e regole sia in grado di afferrarne il
significato più intimo.>> (Dalla Prefazione dell'autore).
Introduzione
Parte I - Come conosciamo il mondo
Capitolo 1 - Razionalità e conoscenza
Razionalità precostituita
Capitolo 2 - Scienza, filosofia e teologia
Filosofia: nasce la logica
Teologia
La scienza
Limiti, congetture e confutazioni
Metodo scientifico e rigore logico matematico
Kurt Godel e l'incompletezza matematica
Capitolo 3 - Quale verità?
Ritorno alla filosofia
Parte II - Cosa conosciamo del mondo
Capitolo 4 - Il Big Bang
Universo infinito; Universo in espansione
Da Einstein alla Teoria del Big Bang
Capitolo 5 - La teoria quantistica
Un piccolo Universo, Atomi e Particelle
La Teoria Quantistica, una nuova sorprendente realtà
Capitolo 6 - Le forze fondamentali della natura e la teoria del "tutto"
La Grande Teoria Unificata
Parte III - Oltre i nostri orizzonti
Capitolo 7 - Nuove straordinarie implicazioni
Il dilemma del Big Bang
"Prima del Big Bang"
Capitolo 8 - Il segreto dell'informazione
Il mondo dei quanti
Questione d'informazione
Il paradosso EPR, esiste un qualcosa di straordinario
La massa mancante
Capitolo 9 - Evoluzione
Evoluzione
Determinismo o Indeterminismo?
Il dilemma del tempo
Capitolo 10 - Vita e intelligenza
Dal profondo delle stelle
Una grande complessità
Il cervello
La meccanica quantistica, invade lo studio della materia vivente
Capitolo 11 - Dal Big Bang alla materia vivente - Il nocciolo dell'evoluzione
Nuovi muri, nuovi orizzonti
Interazione dal piccolo, al grande
Il nostro contenuto interiore
Interazione nel tempo
Origine
Evoluzione del sistema umano tra etica e libero arbitrio
Parte IV - Una porta verso l'infinito
Capitolo 12 - Nuovi fenomeni
Fenomeno extraterrestre e la disinformazione
Questione di Razionalità
Teoria probabilistica sull'esistenza extraterrestre
Una nuova entusiasmante interpretazione
Congetture e contraddizioni
Capitolo 13 - Dalle guarigioni ai casi di pre morte
Né principio né fine
Oltre la vita
Perché non esistono strumenti?
Conclusioni
6 - Daniel Janik, A Neurobiological Theory and Method of Language Acquisition
Dan Janik, MD PhD (FACPM*, FAAIM*)
Intercultural Communications College
1601 Kapiolani Blvd #1000
Honolulu, HI 96814 USA
Phone 808-946-2445 - FAX 808-946-2231
Email [email protected]
Personal webpage http://homepage.mac.com/dannyjan
* FACPM - Fellow of the American College of Preventive Medicine
* FAAIM - Fellow of the American Association of Integrative Medicine
http://home.t-online.de/home/LINCOM.EUROPA/
<<This theory and method are broadly applicable to education, teaching and learning, and represent
the beginning of a radical shift in educational theory, application and the business of education.
A new theory of learning is posited, based on contemporary clinical and experimental neurobiological
data on effective traumatic learning. Interesting linguistic exegeses of first and second language
acquisition under such a theory are examined and their implications discussed. A list of
methodological tenets is derived, applied and demonstrated in limited fashion in a traditional,
educational, classroom setting. The neurobiological method is presented along with derivisional
hypotheses that, with further research, might lend it further support and provide new avenues of
insight into not only into the fundamental nature of first and especially second language acquisition,
but learning and teaching in general.>>
PROBLEMS
Chapter 1: INTRODUCTION
Chapter 2: THE NEED FOR A NEW LEARNING METHODOLOGY
CLINICAL AND EMPIRICAL EXPERIENCE
Chapter 3: TRAUMATIC LEARNING
Chapter 4: COGNITIVE LEARNING
EXPERIMENTAL EVIDENCE
Chapter 5: NON-IMAGING STUDIES
Chapter 6: IMAGING STUDIES
NEUROBIOLOGICAL LEARNING
Chapter 7: NEURO-ANATOMICAL BASES
Chapter 8: NEUROBIOLOGICAL FOUNDATIONS
A NEUROBIOLOGICAL THEORY OF LANGUAGE ACQUISITION
Chapter 9: LANGUAGE ACQUISITION
Chapter 10: SECOND LANGUAGE ACQUISITION
Chapter 11: ACQUISITION OF ENGLISH AS A SUBSEQUENT LANGUAGE
THE NEUROBIOLOGICAL METHOD
Chapter 12: THE NEUROBIOLOGICAL METHOD
Chapter 13: APPLICATION
Chapter 14: SUMMARY, CONCLUSIONS, AND MUSINGS
Acknowledgments - Bibliography - Index
7 - Joseph Lévy, From Galileo to Lorentz... and beyond - Principles of a fundamental theory
of space and time
Apeiron, Montreal, 2003
vi + 94 pp. (softcover) - ISBN 0-9732911-1-7
<<Assuming the existence of a fundamental aether frame and the anisotropy of the one-way speed of
light in the Earth frame, two facts supported by theoretical arguments (see chapters 2 and 8) and
repeatedly confirmed today by experiment, J. Lévy derives a set of space-time transformations. These
are demonstrated to be consistent, in that:
- They reduce to the Lorentz-Poincaré transformations when one of the two frames under
consideration is the fundamental frame.
- They show how systematic errors of measurement due to Lorentz contraction, clock retardation, and
unreliable clock synchronization explain why the speed of light is paradoxically always found to be
constant, even though it is actually anisotropic.
- Conventional relativity theory leads to inconsistencies that are removed by the present theory.
The implications for fundamental physics are shown to be wide reaching.>>
Preface: This book draws conclusions from lectures given by the author at various conferences, and
from several articles published in collections of essays on relativity theory. Some of the ideas
presented here arise from these earlier works, though they may not have been explicitly stated before.
The book is inspired in part by the works of Simon Prokhovnik, which represent a fundamental step in
the understanding of the theories of space and time. Nevertheless, the reader will appreciate that,
beyond a certain point, it departs from Prokhovnik's views. The reasons for this new course will be
explained in detail. We leave the result to the reader's judgment. The manuscript presents a number of
unconventional ideas. We have done our best to refute them, but in the end we find ourselves obliged
to accept them as factual. Although we have criticized some of their views, we would like to pay
homage to all our predecessors, without whom this manuscript could have not seen the light of day, in
particular to Lorentz, Einstein and Poincaré.
Table of Contents
Preface
Acknowledgements
Foreword
Steps in the development of the new conception
Introduction
Difficulties with Orthodox Relativity Theory
On light-speed invariance
On the relativity of simultaneity
On the relativity principle
Distance, velocity and time
Some Useful Concepts
Extended Space-Time Transformations
Introduction
Derivation of extended space-time transformations
Consistency of the transformations
Conclusion
Appendix 1
Appendix 2
Inertial Transformations Derived from Galilean Transformations
Prologue
Inertial transformations between the aether frame and other inertial frames
Compatibility of the Galilean law of composition of velocities with a limit velocity
Inertial transformations in the general case
Arguments in Favour of Lorentz-Fitzgerald Contraction
Introduction
Present-day arguments for Lorentz contraction
Implications for Fundamental Physics
The relativity principle
Mass-energy conservation
Principle of inertia
Conservation of momentum
Mass-energy equivalence
Variation of mass with speed
Invariance of the one-way speed of light
Twin paradox
Relativity of time
Relativity of simultaneity
Minkowski space-time
Length contraction
Mass and Energy in the Fundamental Aether Theory
Demonstration of E= mC2 without relativistic arguments
Variation of mass with speed
Variation of mass with speed in relativity and in the fundamental aether theory
The question of reciprocity
Possible measurement of the absolute speed of an inertial system
Conservation of energy
Synchronization Procedures and Light Velocity
Measuring the speed of light with one or two clocks by the Einstein-Poincaré procedure
Measuring the speed of light by the slow clock transport procedure
References
Index
Joseph Lévy completed his Doctoral degree at the University of Paris VI and has published numerous
papers in different fields of physics in international journals. He is now engaged in a study of relativity
from a critical point of view. Since 1994 he has been a regular participant in the international
conference "Physics Interpretations of Relativity Theory" held every two years at Imperial College of
the University of London, which is sponsored by the British Society for the Philosophy of Science. He
was also a member of the organizing committee of the international conference "Geometrization of
Physics", Kazan State University, Russia.
8 - Francesco Vitale, Accampamenti romani nel Veneto
CLEUP, Coop. Libraria Editrice Università di Padova
Via G. Belzoni, 118/3 - Padova (Tel. 049-650261)
http://www.cleup.it
<<Nel Veneto si possono ancora oggi ammirare alcuni manufatti costituiti da tumuli e da imponenti
cinte arginate, come quelle di Veronella Alta (VR), e di Castello di Gòdego (TV). I reperti trovati nelle
loro vicinanze hanno fatto pensare a costruzioni appartenenti all'Età del Bronzo; tuttavia, i motivi che
avrebbero portato in epoca preistorica all'edificazione di fortificazioni di enormi dimensioni non sono
chiari e, tra gli studiosi, molte sono le perplessità persino sull'età che è stata loro attribuita. L'Autore
dimostra rigorosamente - avvalendosi anche di altre discipline, quali la tecnica delle costruzioni, la
metrologia antica e l'archeoastronomia - che i manufatti sono resti di accampamenti costruiti dai
Romani verso la fine del II sec. a.C.. Il testo, che offre una dettagliata descrizione delle armi e delle
tecniche militari usate in quel tempo, contiene anche uno studio idrografico sugli antichi corsi seguiti
dall'Adige in epoca preistorica e romana.>>
Prefazione
II terrapieno di Veronella Alta
I documenti storici
La struttura dell'accampamento romano
Ricerca degli antichi corsi dell'Adige
L'enigma della "Rotta della Cucca"
Le Motte di Castello di Gòdego: descrizione del sito
Le ipotesi avanzate sull'utilizzazione del sito
Le obiezioni alle ipotesi proposte
Le ipotesi archeoastronomiche
La nostra spiegazione sull'origine e la funzione delle Motte
Ultime considerazioni sulle fortificazioni prese in esame
Altre fortificazioni di probabile origine romana
Bibliografia
Documentazione fotografica
*****
Notiziario del Centro per la Diffusione della Teoria delle Apparenze
Editoriale
Subject: ASSOCIAZIONE ACNR
Date: Thu, 18 Mar 2004 13:00:52 +0100 (CET)
From: Fiorenzo Zampieri <[email protected]>
Carissimi amiche/amici
Finalmente la bella notizia. E' attivo il sito della nostra Associazione Culturale Nuova Ricerca
(ACNR), all'indirizzo:
http://www.nuovaricerca.org
Siete tutti invitati a visitarlo e a partecipare attivamente alla sua formazione mediante
suggerimenti, interventi, contributi e quant'altro. Sarà estremamente gradita la vostra
eventuale richiesta di adesione (gratuita) alla stessa in modo da formare un gruppo oltre che
qualitativamente anche quantitativamente importante. Nel sito troverete tutte le istruzioni del
caso.
Un abbraccio fraterno.
Fiorenzo Zampieri
*****
Subject: Le novità di Giugno.
Date: Thu, 1 Jul 2004 02:17:57 +0200
From: "Riflessioni.it Newsletter" <[email protected]>
Newsletter mensile di www.riflessioni.it che vi aggiorna sulle novità del sito.
Le novità di Giugno sono state:
---- Tra i Testi: http://www.riflessioni.it/testi/index.htm
"Sull'amicizia" di Epitteto, da "Le diatribe e frammenti".
---- Nell'Angolo Filosofico: http://www.riflessioni.it/angolo_filosofico/index.htm
"La dea Iside: la Grande Dama" di Ermando Danese.
---- Tra le Esperienze di Vita: http://www.riflessioni.it/esperienze/index.htm
"Telericordi" a cura di Davide Riccio.
---- Tra le LettereOnLine: http://www.riflessioni.it/lettereonline/index.htm
"Tu… mi regali un sorriso?" di Pietro Mastandrea.
"Il solidarismo" di Fausto Sangiorgi.
"Omertà non sta a Solidarietà" di Vincenzo Andraous.
---- Nella rubrica: Prosa & Poesia: http://www.riflessioni.it/prosa_poesia/index.htm
"L'amicizia" di autore anonimo.
Poesia di J. Krishnamurti.
Grazie per l'attenzione, Ivo Nardi
www.riflessioni.it
*****
Subject: --- New papers
Date: Thu, 03 Jun 2004 15:45:41 -0400
From: Paul Marmet <[email protected]>
You might be interested to see new papers about the Michelson-Morley Experiment, and the
Lorentz transformation.
"The Overlooked Phenomena in the Michelson-Morley Experiment" is on the Web at:
http://www.newtonphysics.on.ca/michelson/michelson.html
Also I have another new paper "The Collapse of the Lorentz Transformation" at:
http://www.newtonphysics.on.ca/lorentz/lorentz.html
Regards, Paul Marmet
*****
Subject: Vol 6-3 of the Journal of Theoretics
Date: Tue, 08 Jun 2004 18:44:32 -0500
From: "Journal of Theoretics" <[email protected]>
**** New Original Articles of the Journal of Theoretics ****
June/July 2004 Vol.6-3 http://www.journaloftheoretics.com
Original Peer Reviewed Articles
- "Does Time Really Exist as a Fourth Dimension of Space?" by Dott. Amrit Sorli, Dott.
Kusum Sorli
- "Space and Matter" by Dott. Ing. Amrit Sorli
- "Proving that Space Density Theory is Different and More Complete than Spacetime" by
James P. Siepmann
- "A New Equation of Light Trajectory" by Dipl. Ing. Andrija S. Radovic
- "Discovery of a Solution to the Heisenberg Uncertainty Principle Conflict Between
Relativistic Intrinsic Spin and Classical Mechanics" by Warren York
- "The Meaning of Mass" by A.C.V. Ceapa
- "Determining Unification Energies of Fermion's in Zero Space" by Lance Fraser Christian
- "Refining the Diatomic Model for the Vaporization of Liquids" by G. V. Calder
- Guest Commentary: "Dense Space and Its Implications" by Piers Newberry
Comments on:
- "Einstein 1, Quantum Gravity 0"?
- A Space Density Problem
- The Truth about Smoking
- About the LightClock
- Gravity and Spacetime
Editorial: "What is a Photon?"
Also a listing of Conferences, Awards, & Grants of interest.
Recommended Links, and more....
Subject: Vol.6-4 through Vol.6-6 of the Journal of Theoretics
Date: Sun, 01 Aug 2004 08:41:55 -0500
From: "Journal of Theoretics" <[email protected]>
**** New Original Articles of the Journal of Theoretics ****
Vol.6-4 August 2, 2004
"A P-brane Solution to Three Cosmological Puzzles" by Dr. Paul Karl Hoiland
"Energy-based Model to Contract the Riemann Curvature Tensor" by Ari Vepsäläinen
"Global Comprehensive Theory" by Zdravko Carev, Dobromir Bonacin
"Updating Panofsky’s Views on Distant Matter in Physics" by Jorge Guala-Valverde
"Thermo-Gravitational Equilibrium" by Giuseppe Guzzetta
"The Relativistic Velocity Addition Law through Special Relativity" by Bernhard
Rothenstein, Ioan Zaharie
Guest Commentary: "From Space-time to Space" by Amrit Sorli, Kusum Sorli
Vol.6-5 October 4, 2004
"Interaction Space and General Relativity" by Ali Riza Sahin
"Decay and Spin are the Foundation of Physics" by Guoyou Huang
"Unification of Newtonian Dynamics and General Relativity in Cosmology with Constants
Confirmed" by Guoyou Huang
"The Generalised Mass-Energy Equation deltaE = Ac2deltaM; its applications in Cosmology"
by Ajay Sharma
"The Gravity as a Longitudinal Field" by Costinel Lepadatu,Serban Lepadatu
"Viscosity and Cohesion Pressure" by Zeljko Prebeg
Guest Commentary: "Physical Space, Entropy And Life" by Amrit Sorli, Kusum Sorli
Vol.6-6 December 6, 2004 [Final Issue]
"Multi Foci Closed Curves by Mohd. Javed Khilji
"Antiquanta Discovered by V.N.Strel’tsov
"Relativity, Quantum Mechanics and Classical Physics Evidence for a close Link between the
Three Theories by Jean-Louis Tane
"The Motion and Structure of Matter under Universal Magnetism by Guoyou HUANG
"Memory Process and the Function of Sleep by Jie Zhang, Ph D.
Guest Commentary "Cosmology without Special Relativity Theory" by Hans J. Zweig, PhD
-----------------------------------------------------------------Also Comments and Editorial Sections for each issue.
-----------------------------------------------------------------Note: Since Vol.6-6 is our last issue before the Journal of Theoretics goes into stasis, this will
be our last mailing. Please keep the above information about the remaining issues.
-----------------------------------------------------------------ISSN: 1529-3548 - The Journal of Theoretics is a 501c3 nonprofit organization.
*********** http://www.journaloftheoretics.com ************
*****
Subject: Circolare n.° 122
Date: Wed, 28 Jul 2004 23:24:39 +0200 (CEST)
From: Centro Studi La Runa <[email protected]>
[...] Negli ultimi tempi sul sito del Centro Studi La Runa sono stati pubblicati numerosi nuovi
articoli. Ne segnaliamo alcuni:
Claudio Mutti, Il Gotteskampf di Johann von Leers (prima parte),
www.centrostudilaruna.it/johannvonleers.html
Dario Giansanti, Le invasioni di Ériu (prima parte),
www.centrostudilaruna.it/invasionidieriuprimaparte.html
Marco Iacona, Agli antipodi del razionalismo,
www.centrostudilaruna.it/evolarazionalismo.html
Claudio Mutti, Evola e Nasser,
www.centrostudilaruna.it/evolaenasser.html
Gianfranco de Turris, Evola trent'anni dopo,
www.centrostudilaruna.it/evolatrentannidopo.html
Alfonso Piscitelli, Il sorriso di Hermes che vela e disvela,
www.centrostudilaruna.it/sorrisodihermes.html
Alberto Lombardo, L'immaginario alpino raccolto e catalogato,
www.centrostudilaruna.it/tersiliagattochanusagheleggendealpi.html
Associazione Culturale Identità e Tradizione: L'etno-nazionalismo e l'ideologia völkisch,
www.centrostudilaruna.it/etnonazionalismoideologiavoelkisch.html
*****
Subject: 21st Century Website Updated
Date: Mon, 2 Aug 2004 15:50:00 -0400
From: "21st Century Science" <[email protected]>
Dear 21st Century Reader:
The contents page for the Summer 2004 issue is now posted.
http://www.21stcenturysciencetech.com/current.html
Sincerely, Marjorie Mazel Hecht, Managing Editor
Segnalazioni
1 - Si segnala che nella presentazione del Dr. Alessandro Moretti al saggio di Eulero "De
Causa Gravitatis", apparso nel N. 1 di Episteme, è stato omesso un doveroso riferimento al
"Kommentar zu einer Schrift Eulers über die Schwerkraft", scritto dal Dr. Andreas Kleinert,
del Dipartimento di Fisica dell'Università di Halle-Wittenberg (il commento si trova
all'interno dell'introduzione al Vol. 31, Seconda serie, Opera mechanica et astronomica Commentationes Mechanicae et Astronomicae ad Physicam Cosmicam Pertinentes, edidit
Eric J. Aiton, appendicem addidit Andreas Kleinert, pp. LXXXVII - XCIII, dell'Opera Omnia
di Eulero, Auctoritate et Impensis Academiae Scientiarum Naturalium Helveticae, Basilea,
1996). In esso infatti il Dr. Kleinert discute attraverso quali elementi si debba attribuire
effettivamente al grande matematico svizzero l'articolo in questione, che ricordiamo fu
pubblicato anonimo.
2 - Si avverte che nell'articolo di Umberto Bartocci "La vera identità di Cristoforo Colombo Osservazioni e congetture", apparso in Episteme N. 6, viene attribuita infine, tra i
ringraziamenti, la paternità del libro Sulla piacentinità di Cristoforo Colombo al trisnonno
Bernardo Pallastrelli del Dott. Pier Lorenzo Ranieri Tenti, menzionato per questa e altre
importanti informazioni. Orbene, lasciando da parte la questione degli stretti legami tra colui
che risulta l'autore del testo citato e il Pallastrelli, lo studio in oggetto si deve invece al Prof.
Luigi Ambiveri, del quale è nota anche una dissertazione letta nella sala municipale del
Comune di Bettola il giorno 24 marzo 1889, sul tema "Del luogo di nascita di Cristoforo
Colombo" (F. Solari, Piacenza, 1889). Con l'occasione il Dott. Ranieri Tenti, a cui rinnoviamo
i ringraziamenti per la cortese attenzione e collaborazione, ci notifica pure un'eventuale
ulteriore conferma dell'ipotesi illustrata nell'articolo sopra riportato. Nel Libro III (Cap. XXII,
p. 93) dell'opera Geographiae et hydrographiae reformatae libri XII (Bologna, 1661)
dell'astronomo gesuita Giovanni Battista Riccioli (Ferrara, 1598 - Bologna, 1671; fu docente
presso le università di Parma e Bologna) si trova la seguente affermazione: <<Christophorus
Columbus ex Pelestrella stirpe placentina oriundus et postea Liguriae incola>>, la cui
importanza per i fini accennati non sfuggirà certo agli interessati all'ancora oscuro "caso
Colombo".
3 - Da Bruno d'Ausser Berrau riceviamo la segnalazione di alcune necessarie correzioni della
Nota N. 59 del suo "Mysteria Latomorum - Uno studio sullo scisma massonico del 1717 e su
alcuni aspetti generali di quell'Istituzione", pubblicato su Episteme N. 2. Presentiamo qui di
seguito integralmente la nota in oggetto, così come essa viene ad essere costituita dopo le
modifiche:
59
La prima Loggia di questa filiazione sembra sia stata fondata nel 1728 a Madrid (la
"French Arms"), seguono poi nel 1732 Parigi, nel 1733 Valenciennes e Château d'Aubigny
nel 1734. Per l'Italia, la situazione è assai diversa: la data di riferimento è il 1732 ed il luogo
Firenze anche se sembra ormai accertato che si debba risalire a data precedente ma di difficile
precisazione. L'ambiente in cui la Loggia sorse è stato sicuramente quello anglofono già allora
assai presente in città ma, a differenza dell'agnazione modern delle altre proiezioni overseas,
in questo caso l'iniziativa dovrebbe essere attribuita alla massoneria irlandese i cui rituali
molto "ortodossi" riconducono all'area degli antients. Nelle citazioni di tale gruppo il più
frequente riferimento è alla persona di Sir Horace Mann ed il motivo è da ricercarsi
soprattutto nel di lui rilevante ruolo sociale in quanto ministro plenipotenziario della corte di
San Giacomo presso il Granducato. Nella Loggia c'era quel Tommaso Crudeli, dottore in
lettere e poeta, che ebbe poi, proprio per quest'appartenenza, a subire un famoso processo
inquisitoriale. Tale Loggia sotto il titolo di "Sir Horace Mann, 1732" è ancor oggi presente e,
nell'almanacco massonico internazionale List of Lodges, è segnalata come <<a English
speaking Lodge>>. Sempre in Toscana, a Livorno (Leghorn), sede al tempo di due importanti
comunità inglesi e scozzesi, è accertata la presenza, in Via Grande, di ben quattro Logge
equamente divise tra le due correnti dei moderni e degli antichi.
Necrologi
Episteme si associa al cordoglio per la scomparsa del Dott. Alessandro
D'Alessandro, di Parma, sostenitore della rivista sin dai suoi esordi, e del Prof.
Stevan Dedijer, che collaborò al successo del N. 2 con un articolo fuori
dall'ordinario. Il loro ricordo resterà nei nostri cuori.
Cosmologia al bivio
(Alberto Bolognesi)
"It seems likely that redshift may not be due to an expanding
Universe, and much of the speculations on the structure of the
universe may require re-examination"
(Edwin Hubble, PASP, 1947)
La pentola vuota
Cosmologia e Filosofia della natura sembrano aver coronato le loro millenarie ricognizioni: la
materia proviene dal nulla. La chimica fondamentale dell'universo discende da una gigantesca
fornitura di idrogeno prodotta da nessuno ma a cui tutti possono attingere pronunciando il
termine magico "Big Bang". A partire da una regione priva di dimensioni e tuttavia dotata di
"densità" e di "temperatura" infinite, questo abracadabra termodinamico si rinormalizzò
attraverso le torsioni matematiche del super raffreddamento, commutando infine le proprietà
infinite in quantità finite. E l'universo fu.
Puramente e semplicemente creato. Ci voleva tanto? Ma non furono i quark, la radiazione, i
fotoni o gli joni pesanti ad accendere il fireball, fu la palla di fuoco proveniente dal nulla a
montare uno ad uno i suoi costituenti particellari. Occorre sempre ricordare che la
"nucleosintesi primordiale" è una conseguenza del Big Bang, non la causa. Struttura della
materia, costanti, leggi della fisica, spazio, tempo e gravitazione sono dunque il "residuo"
imperfetto di una omogeneità perfetta, la cosiddetta simmetria rotta, che accoppiata agli
pseudoconcetti di energia positiva e negativa consente di scrivere alla lavagna la prodigiosa
formula dell'universo a costo zero. Meno uno più uno uguale zero. Nel cilindro dei cosmologi
è il coniglio venuto dal nulla che materializza cappello, prestigiatore e pubblico plaudente.
Una volta acquisito il miracolo e agghindatolo con un lifting superluminale, la saga moderna
della Creazione si scrive da sola: se chiamiamo "tempo zero" l'attimo da cui tutta la materia
emerse istantaneamente da un punto che precedentemente non esisteva, la fisica e la
matematica sono in grado di compilare una rispettabile scaletta già a partire dai "primi"
centomiliardesimi di secondo.
In quei momenti la temperatura iniziale era già precipitata nel dominio delle quantità finite a
circa un bilione di kelvin e la sua densità ridotta "a soli" 10 14 grammi per centimetro cubo.
"Apparvero" fotoni primordiali che trasportavano una tale quantità di energia da essere
interscambiabili con coppie di particelle e di antiparticelle che si annichilavano
reciprocamente restituendo fotoni estremamente energetici. Naturalmente dovevano essere già
presenti neutrini e "particelle esotiche", mentre l'imbarazzante asimmetria attuale materiaantimateria si può giustificare ipotizzando una lievissima inefficienza nei processi di
interazione, che alla fine avrebbe provocato una piccola ma fatale eccedenza delle particelle
rispetto alle antiparticelle. Quando l'intruglio si raffreddò ulteriormente, i fotoni non avevano
più energia sufficiente per produrre protoni e neutroni, così le particelle e le antiparticelle
appaiate si annichilarono lasciando un residuo di materia stabile. A quel punto (circa un
centesimo di secondo dalla "fine del nulla") solo le coppie più leggere formate da elettroni e
positroni continuavano a interagire nella danza con la radiazione.
Un decimo di secondo dopo, la temperatura era scesa a trenta miliardi di kelvin e c'erano
ormai solo protoni e un terzo di neutroni: i neutrini smisero di interagire con la materia
barionica e si disaccoppiarono. Man mano che la temperatura continuava a calare, presero a
formarsi i primi nuclei di deuterio e tre minuti dopo, con la temperatura "scemata" ormai a un
Cosmologia al bivio
(Alberto Bolognesi)
"It seems likely that redshift may not be due to an expanding
Universe, and much of the speculations on the structure of the
universe may require re-examination"
(Edwin Hubble, PASP, 1947)
La pentola vuota
Cosmologia e Filosofia della natura sembrano aver coronato le loro millenarie ricognizioni: la materia proviene
dal nulla. La chimica fondamentale dell'universo discende da una gigantesca fornitura di idrogeno prodotta da
nessuno ma a cui tutti possono attingere pronunciando il termine magico "Big Bang". A partire da una regione
priva di dimensioni e tuttavia dotata di "densità" e di "temperatura" infinite, questo abracadabra termodinamico
si rinormalizzò attraverso le torsioni matematiche del super raffreddamento, commutando infine le proprietà
infinite in quantità finite. E l'universo fu.
Puramente e semplicemente creato. Ci voleva tanto? Ma non furono i quark, la radiazione, i fotoni o gli joni
pesanti ad accendere il fireball, fu la palla di fuoco proveniente dal nulla a montare uno ad uno i suoi costituenti
particellari. Occorre sempre ricordare che la "nucleosintesi primordiale" è una conseguenza del Big Bang, non la
causa. Struttura della materia, costanti, leggi della fisica, spazio, tempo e gravitazione sono dunque il "residuo"
imperfetto di una omogeneità perfetta, la cosiddetta simmetria rotta, che accoppiata agli pseudoconcetti di
energia positiva e negativa consente di scrivere alla lavagna la prodigiosa formula dell'universo a costo zero.
Meno uno più uno uguale zero. Nel cilindro dei cosmologi è il coniglio venuto dal nulla che materializza
cappello, prestigiatore e pubblico plaudente.
Una volta acquisito il miracolo e agghindatolo con un lifting superluminale, la saga moderna della Creazione si
scrive da sola: se chiamiamo "tempo zero" l'attimo da cui tutta la materia emerse istantaneamente da un punto
che precedentemente non esisteva, la fisica e la matematica sono in grado di compilare una rispettabile scaletta
già a partire dai "primi" centomiliardesimi di secondo.
In quei momenti la temperatura iniziale era già precipitata nel dominio delle quantità finite a circa un bilione di
kelvin e la sua densità ridotta "a soli" 1014 grammi per centimetro cubo. "Apparvero" fotoni primordiali che
trasportavano una tale quantità di energia da essere interscambiabili con coppie di particelle e di antiparticelle
che si annichilavano reciprocamente restituendo fotoni estremamente energetici. Naturalmente dovevano essere
già presenti neutrini e "particelle esotiche", mentre l'imbarazzante asimmetria attuale materia-antimateria si può
giustificare ipotizzando una lievissima inefficienza nei processi di interazione, che alla fine avrebbe provocato
una piccola ma fatale eccedenza delle particelle rispetto alle antiparticelle. Quando l'intruglio si raffreddò
ulteriormente, i fotoni non avevano più energia sufficiente per produrre protoni e neutroni, così le particelle e le
antiparticelle appaiate si annichilarono lasciando un residuo di materia stabile. A quel punto (circa un centesimo
di secondo dalla "fine del nulla") solo le coppie più leggere formate da elettroni e positroni continuavano a
interagire nella danza con la radiazione.
Un decimo di secondo dopo, la temperatura era scesa a trenta miliardi di kelvin e c'erano ormai solo protoni e un
terzo di neutroni: i neutrini smisero di interagire con la materia barionica e si disaccoppiarono. Man mano che la
temperatura continuava a calare, presero a formarsi i primi nuclei di deuterio e tre minuti dopo, con la
temperatura "scemata" ormai a un miliardo di kelvin, anche l'elio cominciava a conservarsi nonostante le
continue collisioni con le altre particelle. Ancora sessanta secondi e un quarto dell'intero idrogeno si sarebbe
convertito in elio, ma ci volle un'interminabile mezz'ora per far pareggiare il numero degli elettroni che si
annichilavano con i restanti positroni al numero dei protoni e produrre così la cosiddetta "radiazione di fondo".
Occorsero poi trecentomila anni per scendere a seimila kelvin e rendere i fotoni tanto deboli da non poter più
strappare elettroni dagli atomi, dopodiché la radiazione si congedò dalla materia e l'universo poté raffreddarsi in
pace, espandendosi uniformemente e aggregandosi in una moltitudine di palle di gas ammantate di "materia
oscura" e poi di protogalassie, che recedevano come sistemi indipendenti a causa dell'espansione "dello spazio".
Il nulla si era totalmente commutato in materia, e il caso e la necessità potevano finalmente sbizzarrirsi in una
infinità di combinazioni da alcune delle quali si sviluppò accidentalmente la vita e la consapevolezza degli
organismi più complessi.
Sociologia della conoscenza
Si può forse credere a una favola così greve a due sole condizioni: che dal nulla possa logicamente scaturire il
tutto e che l'universo osservabile stia realmente espandendosi a partire da un punto di raggio zero
materializzatosi circa quindici miliardi di anni fa. Se cade la prima condizione l'universo in espansione non è che
la trasformazione di uno stato fisico antecedente, se cade la seconda se ne vanno la Creazione, il Big Bang, lo
spazio che si espande e tutta la cosmologia contemporanea.
Non meno sorprendente è l'immenso credito che questa apparizione mariana ha riscosso nell'ambito della
comunità scientifica: di solito un paradigma si consolida attraverso la costante verifica dei dati empirici, mentre
qui, inaugurando un metodo che non ha precedenti in tutta la storia della ricerca, si autentica una creazione a
partire dal nulla e se ne formalizzano le conseguenze in termini di fisica nota e di matematica. E' la polpetta
avvelenata lanciata dai cosmologi contemporanei alla "età dei lumi": si inventa una creazione dal nulla e si
cercano prove indiziarie!
E' perfino ovvio che la soluzione del Mondo, presentata ormai come una scoperta astronomica, è solo apparente
e che il suo contenuto di validità viene inesorabilmente relegato al di là del primo invalicabile
micromiliardesimo di secondo: "se niente in astrofisica può prescindere dalla fisica nota - ha detto lo
«screditato» Fred Hoyle - allora il Big Bang deve essere considerato al di fuori della fisica nota". La replica
dell'"apparato" è che "è molto meglio sapere tutto dell'universo a partire dall'istante
10-43 che non saperne nulla", ma questo è il più vecchio dei trucchi dialettici smascherato da Voltaire, che
analiticamente equivale a: "meglio una finta risposta che nessuna risposta".
Il dorato segreto consegnato dai teorici alla comunità scientifica è dunque puramente e semplicemente "boh":
boh, ergo c'è stato un Big Bang. E che altro può fare un biochimico, un matematico, un naturalista, un
epistemologo, un letterato o un ragioniere che aspirano a formarsi un'idea più approfondita sul Genitore
universale, se non compulsare qualche ponderoso manuale di cosmologia? I più introdotti possono tutt'al più
contattare qualche eminente collega di astrofisica dei piani superiori, che sistematicamente li rimanda al "Big
Bang" e al primo centomiliardesimo di secondo. Ma se il più scettico dei biochimici o dei ragionieri si appella
all'onestà intellettuale degli specialisti della creazione, gli viene immediatamente riconosciuto "che il Big Bang è
teoria, non una scoperta scientifica"; e se alla luce di questa ammissione ne deduce che la "nucleosintesi
primordiale" non è che una mera congettura, gli zelanti "referenti scientifici" che operano nel campo della
comunicazione e dei media si affrettano a precisargli che "in realtà il Big Bang è molto, molto di più di una
semplice teoria" e che i luminari sono "per natura" troppi scrupolosi e modesti.
Nei fatti non c'è alcuna interdisciplinarità, ma una struttura piramidale che continua a calare modelli dall'alto e
che giungono sui tavoli degli accademici "sublunari" come conquiste della scienza. E' terribilmente ovvio che
non si possono affidare le chiavi del cielo ai ragionieri: ma i cosmologi possiedono davvero queste chiavi?
Di fatto i cosmologi controllano la fisica, la chimica, la biologia, l'epistemologia e perfino le osservazioni al
telescopio: ma chi controlla le affermazioni dei cosmologi? Non è forse tramite il "Big Bang" che gli atei sono
diventati "creazionisti", che i credenti si sono mutati in "evoluzionisti" e che gli scettici si sono estinti? Lo stesso
intangibile Jacques Monod sarebbe oggi costretto a rimaneggiare tutta la sua filosofia naturale nel concedere che
"l'immensità indifferente da cui siamo emersi per caso" deriva in realtà da un numero fisso di particelle senza il
quale né galassie né cellule avrebbero mai potuto realizzarsi. Senza quel numero magico, rigorosamente
deterministico e non casuale, il Big Bang si sarebbe spiattellato su se stesso o scivolato via fra le maglie del
nulla, e nessuna ironia sarebbe più irresistibile di un caso volontario sospinto dalla sua necessità.
Non è forse vero che quando si osservano ponti e filamenti di materia fra galassie con diverso spostamento verso
il rosso si devono sistematicamente invocare effetti di prospettiva ed allineamenti accidentali lungo la nostra
linea di vista? Non è forse vero che i jets o le propaggini gassose che li connettono non possono che stare
davanti o dietro nella profondità del cielo a seconda del loro spostamento verso il rosso perché la relazione di
Hubble non è falsificabile? Non è forse vero che per tenere i quasar alle loro "distanze di redshift" si devono
assumere luminosità ed energie che nessuna fisica è in grado di avallare? E non è forse vero che per
"razionalizzare" gli spostamenti verso il rosso di lontane supernovae bisogna presumere accelerazioni o
rallentamenti radiali dello spazio cosmico che si "dilata"?.
Come portare questi epicicli grossolani alla conoscenza o all'analisi critica di un medico, di un chimico o di uno
zoologo, e via via a un De Duve, a un Prigogine o a un Dawkins? E come consegnarli infine all'attenzione di un
giovane laureato in fisica che è stato appena assunto in un megagalattico acceleratore con il compito di
individuare le "pesantissime" particelle del Big Bang?
Da Galileo alla materia oscura
I quasar sono connessi alle galassie. Questa evidenza già segnalata da alcuni astronomi verso la metà degli anni
Sessanta ha continuato ad accumularsi ininterrottamente ed è divenuta schiacciante con la messa in orbita di
telescopi operanti nelle bande delle alte energie, come il ROSAT, l'Einstein, il Newton e il Chandra.
Nell'indifferenza generale questi strumenti hanno rilevato che la stragrande maggioranza delle sorgenti X e
gamma (ULX) immerse nel campo delle galassie sono state confermate spettroscopicamente come … quasar e
regioni HII ad alto redshift. Una esaustiva raccolta di questi casi si trova ora nel recentissimo "Catalogue of
Discordant Redshift Associations" (Apeiron, Canada 2003) dell'"incaponito" Halton Arp, che assieme ai coniugi
"brontoloni" Margaret e Geoffrey Burbidge, al "rimbambito" (e defunto) Fred Hoyle e allo "stravagante" Jack
Sulentic hanno compromesso le loro reputazioni cercando di confermare osservativamente queste connessioni
(vedi nota bibliografica).
Quasar spazialmente annessi alle galassie significano puramente e semplicemente che l'assunzione fondamentale
della cosmologia è contraddetta dalle osservazioni e che la relazione redshift-magnitudine apparente non riflette
né una distanza né una velocità. Significa sostanzialmente che la teoria del Big Bang è inadeguata, che lo spazio
che si dilata mantenendo ferme le galassie e facendo recedere …le distanze è un "nightmare" geometrico che ha
paralizzato settantanni di ricerche della struttura cosmica, e che il sogno tolemaico di chiudere la partita con
l'intero universo si è di nuovo dissolto.
Significa essenzialmente che le leggi "note" con le quali affrontiamo la dimensione cosmica sono chiaramente
incomplete, che il libro della fisica è ben lungi dall'essere ultimato e che gli assiomi di invarianza su cui
poggiano le più celebrate equazioni della natura sono contraddetti dai dati sperimentali. Significa tecnicamente
che le "righe" spettrali emesse dagli atomi che costituiscono gli oggetti cosmici non vengono spostate da un
fenomeno cinematico equivalente all'effetto Doppler, ma che quelle righe si trovano realmente alle frequenze e
alle lunghezze d'onda osservate. Nuova fisica dunque, nuovi isotopi e nuovi stati della materia. Ed è una sfida
straordinaria che dovrebbe esaltare e non deprimere i ricercatori veri, moltiplicando l'immaginazione, la sagacia
e il talento dei fisici teorici che non hanno fatto poi un gran servizio alle leggi "note" introducendo "energie
oscure", particelle "esotiche", "quintessenze" e "geometrie accelerate" per salvare l'espansione dello spazio.
Se siamo ancora animati dal desiderio di esplorare l'universo e non di omologarlo, non restano che due
alternative per intendere il fenomeno intrinseco dello spostamento spettrale degli oggetti cosmici: trascurando
l'effetto gravitazionale (effetto Einestein) - che dovrebbe crescere sistematicamente dalla periferia al nucleo delle
galassie e dei quasar e che non è supportato dalle misurazioni spettroscopiche - o gli spettri elettromagnetici
rendono conto di nuove varietà della materia, oppure sono una diretta conseguenza del loro tempo di formazione,
in pratica della loro "età evolutiva". Nel primo caso avremmo nuovi isotopi e nuove costanti da catalogare e da
determinare, nel secondo masse variabili col tempo a partire dal momento della loro formazione. In entrambi,
evidentemente, una rivoluzione come forse mai ci siamo trovati a fronteggiare.
La maggioranza è unanime nel rilevare che questo equivale "a buttare la fisica nota che abbiamo tanto
faticosamente costruito", quasi omettendo che la parte di fisica "nota" viene salvaguardata in cosmologia da
almeno novanta parti di fisica ignota, invisibile e trasparente allo spettro elettromagnetico. Per gli eredi di
Galileo, quando un pallone sonda veleggia nell'alta atmosfera o un satellite artificiale viene immesso nello spazio
circostante per indagare un fondo uniforme di microonde che ci avvolge, questa scansione è considerata "la
testimonianza fossile del lampo primigenio del Big Bang e la brillante conferma dell'esistenza della materia
oscura".
I barbieri di Baltimora
M 82
Un piccolo blitz osservativo sarà utile per integrare la discussione. La casistica sui redshift discordi, oramai
sterminata (vedi references), porterebbe cifre a sei zeri se la si estende alle cosiddette "dispersioni delle velocità"
e ai "moti peculiari" delle galassie, che vengono spiegati perlopiù con materie invisibili, "deviazioni di flusso" ed
espansioni asimmetriche dell'universo. Per i fini che si pone questo articolo inserirò solo tre casi nei quali la
connessione dei quasar alle galassie è direttamente coinvolta, e a cui ne aggiungerò alla fine un quarto dove un
giovane studente di fisica italiano ha avuto un ruolo determinante.
Fig. 1 - M 82 (da E.M. Burbidge et al.)
La prima immagine illustra le stupefacenti concentrazioni di quasar individuati nel campo della "starbust" M 82
(3C 281), una celebre e vicina galassia attiva molto luminosa anche in radio e nei raggi X. L'immagine è così
eloquente da rendere infinitesima la chance di un affollamento accidentale, ed è importante rilevare che i due
raggruppamenti si trovano sistematicamente sulle linee di emissioni X e in radio che si diramano in direzioni
opposte attraverso l'asse minore di questa galassia esplosiva.
I quasar finora catalogati da Arp, i coniugi Burbidge e l'italiano Stefano Zibetti (Astroph 0303625) sono quindici
(!) ma vi sono ancora altre sorgenti X candidate BSO da esaminare. Una di queste, rilevata dal satellite ASCA
vicina al centro di M 82, suggerisce che possa trattarsi di un quasar colto nell'atto in cui viene veicolato dal
nucleo verso lo spazio esterno e del quale, secondo le stime dei ricercatori, potrebbe essere rilevato
strumentalmente un moto proprio nel giro di una decina d'anni.
NCG 4319/MKN 205
La "goccia nera" della cosmologia è il quasar Markarian 205. Venne trovato nel 1970 quasi nel grembo della
contorta spirale NGC 4319 da un astronomo armeno che impiegava un piccolo telescopio Schmidt per
selezionare oggetti dotati di forte emissione continua nell'ultravioletto. L'americano D. Weldman ne ottenne
poco dopo gli spettri rilevando z = 0.006 per la spirale e z = 0.070 per l'oggetto Markarian, che in termini
convenzionali di recessione radiale corrispondono rispettivamente a 1.700 km/sec e 21.000 km/sec.
Arp esaminò immediatamente il sistema e dopo un'esposizione di quattro ore al fuoco primario del riflettore di 5
metri del Palomar, trovò una connessione luminosa fra il quasar e la galassia, all'interno della quale era anche
distinguibile un filamento sinuoso e ininterrotto più stretto. I due oggetti apparivano visibilmente connessi.
Come ovvio la polemica divampò subito perché un simile collegamento minava alla radice non solo l'inviolabile
assunzione che gli oggetti con spostamento verso il rosso molto diversi non possono essere fisicamente vicini,
ma tutta la cornice dell'espansione cosmica. Vennero fatte prontamente circolare fotografie che non mostravano
il collegamento e Arp toccò i vertici della sua crescente impopolarità quando, al Convegno d'Australia del 1973
mostrò ciò che qualsiasi fotografo del cielo è in grado di fare, e che cioè è facilissimo ottenere immagini senza
mostrare le connessioni.
La conflittualità si mantenne altissima fino a che Jack Sulentic alcuni anni più tardi, con le potenti risorse dei
grandi analizzatori di immagini del Jet Propulsion di Pasadena, sottopose le migliori lastre ottenute col 5 metri
del Palomar e col 4 metri del KPNO al vaglio elettronico, ottenendo un inequivocabile ponte luminoso fra la
galassia e il quasar di cui qui sotto riproduciamo l'immagine.
Fig. 2 - NGC 4319/MKN 205 (da J. Sulentic)
La questione sembrò finalmente risolta e si cominciò tiepidamente ad ammettere che "in qualche raro caso" fosse
possibile ipotizzare un redshift anomalo di natura ignota. Nel frattempo, col rapido progresso dell'astronomia
amatoriale vennero ottenute evidentissime fotografie del "ponte" fra il quasar Markarian e la galassia, una delle
quali, ottenuta nel 1998 dai cieli d'Inghilterra con un telescopio di 50 cm di apertura (!!), sembra davvero tagliare
la testa la toro.
Fig. 3 - (D. Strange, 1998)
Ma in cauda venenum. Nell'ottobre 2002 un team di osservatori collegato alla NASA ha prodotto una fotografia
ottenuta dall'Huble Space Telescope e diramato un comunicato stampa nel quale "si esclude l'esistenza di
qualsiasi connessione" (Fig. 4). "Le apparenze ingannano" aggiungono i ricercatori dell'Heritage Team
parafrasando una precedente opinione di Isaac Asimov: "la coppia è spaiata e separata nel tempo e nello spazio".
Se mi si perdona il riferimento, appena venni a conoscenza della release chiesi a Daniele Carosati
dell'Osservatorio di Armenzano di produrmi la migliore stampa possibile direttamente dal sito HST, l'appoggiai
sul vetro di una finestra … e la connessione apparve evidentissima! Quasi contemporaneamente Jack Sulentic
riprocessò l'immagine solo aumentando il contrasto e con lui centinaia e centinaia di professionisti e di dilettanti
che immediatamente reclamarono l'esistenza del ponte.
Ebbi in seguito anche uno scambio epistolare con gli astronomi Calvani e Marziani di Padova che avevano
preparato un articolo sui quasar per una rivista di astronomia in edicola e a cui avevano allegato (inutilmente)
l'immagine processata da Sulentic.
I due professionisti riconobbero l'evidenza del filamento e si dolsero che la rivista in questione non avesse
pubblicato l'elaborazione fornita appositamente dallo stesso Sulentic, ma mi precisarono che "l'interpretazione
più plausibile sembra quella di una caratteristica morfologica associata a Markarian 205, probabilmente un ramo
mareale casualmente orientato verso NGC 4319". Naturalmente ribattei che il solo motivo che può indurre a
respingere la connessione è la discordanza di redshift, senza la quale il punto di vista convenzionale
invocherebbe immancabilmente la "fusione" tra i due oggetti.
Figg. 4-5-6 (HST ed elaborazioni)
La magra consolazione fu in pratica l'ammissione che i componenti dell'Heritage Team non guardavano con
sufficiente attenzione le foto che loro stessi pubblicavano, ma fu l'analisi approfondita che ripetei personalmente
sulle immagini originali che mi lasciò perplesso. La foto è insolitamente molto buia ed è stata ottenuta con tempi
di posa del tutto insufficienti, mentre il filamento, inquadrato dal sensore HST meno sensibile e solitamente
dedicato alle riprese planetarie, appare proprio nel canale blu come "spogliato" delle sue informazioni primarie.
Mi rivolsi ad alcuni fra i migliori analisti d'immagine italiani - che qui preferisco non menzionare - e tutti furono
concordi nel riconoscere che il "chip" era "deteriorato". Uno di essi mi scrisse testualmente: "E' roba da barbieri,
non da astronomi". Così tentai una carta estrema, telefonando a un influente amico di Los Angeles, un tempo
"agnostico" ma oggi convinto "bigbanger", e la sua risposta fu che sollecitare una nuova ripresa con la più
sofisticata camera ACS gli sembrava "un'idea bizzarra".
Attualmente, e con l'Huble Space Telescope avviato alla pensione, la versione ufficiale è che il filamento non c'è,
e se c'è, è un ramo mareale di NGC 4319 che cade accidentalmente davanti a Mrk 205, oppure un ramo mareale
di Mrk 205 che si protende accidentalmente dietro a NGC 4319.
NGC 7603 A e B
Ovvero "lo strano" caso in cui due galassie collegate da un braccio di spirale, ma con redshift discorde,
esibiscono due oggetti di tipo quasar all'interno del braccio stesso …
La storia di questa decisiva configurazione affonda nello scorso millennio, e ha inizio una notte senza luna del
1970 al Monte Palomar.
Nel corso di una survey su galassie peculiari selezionate in precedenza, Halton Arp misurò gli spostamenti verso
il rosso in un sistema binario, che viene mostrato nella Fig. 7 in una bella immagine ottenuta da Nigel Sharp e
Roger Lynds. E' considerato uno dei casi più sorprendenti di "redshift discordi" anche dall'ortodossia, perché
nessun astronomo di credo convenzionale si è mai sentito di invocare apertamente l'accidente prospettico. Il
compagno minore compare infatti perfettamente allineato alla fine del braccio di spirale dell'oggetto più
massiccio ma se si assume che lo spostamento verso il rosso misuri invariabilmente la distanza e la velocità di
recessione, essi devono recedere rispettivamente a 8.700 e a 17.000 km/sec e quindi trovarsi separati a enormi
distanze nella profondità dello spazio l'uno dall'altro. Questa connessione è così imbarazzante che nessuno studio
approfondito fu più effettuato dopo la scoperta di Arp, né con i nuovi giganti costruiti a terra né col Telescopio
Spaziale.
Fig. 7 - NGC 7603 (N. Sharp e R. Lynds)
Nota a margine: nel descrivere questo sistema Arp notò due condensazioni compatte all'interno del braccio di
connessione e auspicò che gli spettrografi di futura generazione potessero ricavare ulteriori informazioni da
questo caso stupefacente.
Terzo millennio: La Palma, Canarie, un'altra notte senza luna, trentun anni dopo.
In una notte con seeing eccellente due giovani astronomi spagnoli, Martin Lopez Corredoira e Carlos Manuel
Gutierrez con lo strumento di 2,6 metri del NOT (Nordic Optical Telescope) al Roque de los Muchachos,
riescono a procurarsi gli spettri delle due condensazioni immerse nel braccio. E incredibilmente compaiono le
tipiche, compatte linee di emissione dei quasar con redshift di z = 0.391 per l'oggetto angolarmente più vicino
alla galassia principale e z = 0.243 per quello più prossimo alla compagna! Il mondo avrebbe dovuto fermarsi
almeno per un giorno, ma nessun referente scientifico della Big Science riportò la notizia …
Ci sono altre notevoli condensazioni nel campo di NGC 7603A: in particolare una molto interessante che si
intravede al "tip" di un braccio che incrocia quello principale e che si volge in direzione opposta, e un'altra
proprio all'uscita del nucleo a poche decine di secondi d'arco dal quasar con z = 0.391. Ulteriori indagini di
Corredoira e Gutierrez hanno evidenziato altri oggetti ad alto redshift (!) e i risultati sono in corso di
pubblicazione (Astroph 0401147vl2004); ma le richieste inoltrate da due Istituti di Ricerca per investigare a
fondo il sistema con il telescopio orbitale Chandra operante nei raggi X e con l'8 metri del VLT al Cerro Paranal
sono state respinte.
Secondo una prassi consolidata gli astrofisici più influenti hanno evitato di commentare la scoperta di Corredoira
e Gutierrez, ma un astronomo italiano associato all'Osservatorio di Arcetri ha recentemente dichiarato su un
mensile "che una rondine non fa primavera (?) e che si tratta di un caso statisticamente atteso che non prova
nulla". "Entia non sunt multiplicando praeter necessitatem" ammonisce citando Occam: e considerato che c'è una
chance contro una cifra di nove zeri di trovare per caso una simile disposizione, è probabile che la massima non
sia mai stata citata tanto a sproposito.
"Ufficialmente", è l'ennesimo allineamento prospettico di quattro oggetti scorrelati e separati nel tempo e nello
spazio, e poiché la galassia di primo piano deve ruotare su stessa con tutto il braccio, i dottorandi in astronomia
possono esercitarsi fin d'ora a farlo scorrere circolarmente come la lancetta di un orologio per ottenere il
"jackpot" e per rendersi conto che viviamo davvero in tempi straordinari.
Fig. 8 - NGC 7603 (da Corredoira e Gutierrez)
Quasar nel Quintetto di Stephan
Nel momento in cui viene scritto questo articolo, Eleanor Margaret Burbidge sta comunicando ad Atlanta, al
Convegno dell'American Astronomical Society, la scoperta di alcuni quasar nel grembo di uno dei cinque
componenti del Quintetto di Stephan.
Questo spettacolare sistema ad interazione multipla è famoso anche per presentare forti discordanze di redshift in
due delle cinque galassie, alle quali poi è probabilmente legata anche una piccola spirale che giace sul bordo
esterno del gruppo (NGC 7320 c).
Fig. 9 - Quintetto e QSO (da "Coelum" n. 70, 2004)
Sestetto, Tripletto o Quartetto, il Quintetto di Stephan raccoglie ormai da mezzo secolo una sterminata collezione
di opinioni contrastanti. Gli spettri dei quasari sono stati ottenuti la notte del 2 ottobre 2003 allo spettrografo del
10 metri del Keck dalla Burbidge e da Arp, ma la storia di questa ricerca che getta nuova benzina sul fuoco ha
una parte tutta italiana che merita di essere brevemente riportata. Un paio di anni fa, il giovane Pasquale Galianni
di Taranto che fra le pause dei suoi studi di fisica si divertiva a riprocessare le immagini HST del Quintetto, notò
un paio di oggetti - uno puntiforme e l'altro di aspetto nebulare - visibili ad alcune lunghezze d'onda in
corrispondenza di un jet che emerge circa 8 secondi d'arco a Sud del nucleo della galassia di tipo Seyfert NGC
7319. Avvalendosi di una mappa in alta energia ricavata da un'esplorazione della Professoressa Ginevra
Trinchieri con il satellite Chandra, Galianni stabilì correttamente le corrispondenze con le controparti ottiche e
coinvolse nella ricerca Arp e Margaret Burbdige, che l'anno successivo furono in grado di osservarli al Mauna
Kea.
Gli ULX (sorgenti X ultraluminose) sono diventati un "piatto" estremamente ambito per i ricercatori, perché
potrebbero localizzare buchi neri all'interno delle galassie sotto forma di sistemi "binari", dove cioè la stella
catturata dal "mostro invisibile" comincia a spiraleggiargli vorticosamente intorno rilasciando nella sua caduta
una grande quantità di particelle energetiche X e gamma. Un piatto che tuttavia si è rivelato estremamente salato,
perché la maggior parte degli ULX finora indagati si sono rivelati quasi esclusivamente quasar e regioni HII.
Con giovanile entusiasmo, ma basandosi purtroppo su incertezze di catalogo, Galianni rivendicò il moto proprio
di una "binaria" e così alla fine la natura dell'oggetto da lui scoperta veniva forzatamente rimandata alle analisi
spettroscopiche che soltanto un grande telescopio avrebbe potuto effettuare.
Ora, nell'imbarazzo degli stessi educatori di fisica di Pasquale, il "quasar Galianni" risplende al centro del
Quintetto di Stephan, con z = 2.267!
Fig. 10 (da "Coelum" n. 70, 2004)
Cosmologia al bivio
La triste vicenda di Herbert Dingle, prestigioso e influente "lettore" di Relatività all'Imperial College del South
Kensigton e poi caduto in disgrazia per via delle obiezioni che in seguito sollevò alla coerenza della Relatività
Ristretta e Speciale, dimostra che se di paradigmi si vive, di paradigmi si può anche morire. E' stato provato che
alcune sue eccezioni non vennero formulate correttamente a causa di una "mal compresa" o "non rigorosa"
applicazione degli assiomi einsteiniani, ma nessuno è mai riuscito a dimostrare - se non attraverso idealizzazioni
di natura geometrica - che il tempo e lo spazio possono realmente dilatarsi o contrarsi.
Certo, i processi fisici accelerano o rallentano in presenza di masse o di moti accelerati, ma è davvero il tempo (o
lo spazio) a possedere requisiti e qualità "geometriche" intrinseche? Siamo davvero in presenza di enti naturali
che si incurvano e si appiattiscono o ne esprimiamo una mera analogia attraverso un artificio matematico?
Spaziotempo curvo - come obbietta il fisico Tom Phipps - non è precisamente una contraddizione in termini?
Uno dei dilemmi più cruciali e drammatici che la fisica e la filosofia del Novecento hanno consegnato al nuovo
millennio è proprio il contenuto oggettivo o illusorio di questi "enti" e se la struttura geometrica ideata da
Minkowski per unificarli esiste realmente in natura o è un semplice espediente operazionale. Una domanda
davvero terribile dalla quale dipende in toto, oltre alla fisica classica, la meccanica quantistica, il microcosmo, la
fisica dei buchi neri e l'avveniristica congettura delle supercorde. Una domanda dalla quale dipendono il
principio di causalità e i "viaggi nel tempo", e quindi le sorti dei logici, dei filosofi e degli scrittori di
fantascienza.
L'incalcolabile contributo epistemologico fornito da Einstein è stato di dimostrare che fra misurante e misurato
c'è un'indissolubile solidarietà, che spazio e tempo "assoluti" non hanno alcun contenuto di oggettività e che la
"direzione" del tempo attraverso lo spazio può essere definita solo dall'azione causale. "Lo spazio tempo - ha
scritto Einstein - non pretende di avere una sua esistenza propria, ma solo di rappresentare una qualità strutturale
del campo" e che dunque i "coni di luce" o le "linee di universo" possiedono un'esistenza puramente geometrica
e non fisica. Ma allora, in quale misura una fisica dello spazio-tempo per la quale gli enti geometrici
quadridimensionali sono la fisica stessa possono sperare di rappresentare una descrizione realistica della natura?
Poiché il sogno deterministico non morirà mai, si fa strada l'idea che l'approssimazione alla "verità fisica"
compirà un ulteriore balzo solo quando le equazioni saranno in grado di integrare un'irreversibilità causale che
prescinda da ogni espediente operazionale. Il che in apparenza sembra impossibile, perché la nozione di
temporalità è indissolubilmente legata alla sfera di intendimento degli esseri pensanti e transitori che
percepiscono e interagiscono con l'ambiente, e che poi, in definitiva, è ciò che li ha prodotti. La teoria della
massa variabile di Narlikar e Hoyle che pure offre qualche appiglio alla suggestiva possibilità di equiparare
l'universo a una sorta di entità riproduttiva di reminiscenza organica, non sembra poter fare a meno di un tempo
cosmico dal momento che la massa delle particelle viene subordinata al tempo e ne è anzi una funzione diretta.
Ciò tuttavia è vero solo in apparenza, in quanto lo sviluppo e la crescita di massa sono più sottilmente legati
all'interscambio particellare, o meglio alle particelle con le quali la protoparticella appena "emersa" è in grado di
scambiare interazioni e di mutuare "gravitoni" in un raggio che da "zero" si espande alla velocità della luce. In
questo quadro la massa di una particella è ciò che la massa stessa è in grado di "vedere" o di scambiare in un
orizzonte che si dilata alla velocità della luce. Dopo un secondo è il prodotto di ciò che ha incontrato in
trecentomila chilometri, dopo un'ora è quel che ha "mutuato" dopo un'ora luce e dopo un milione di anni è il
prodotto dell'interazione che è stata in grado di realizzare in una sfera dal diametro di due milioni di anni luce.
Poiché - a rigore - le propagazioni elettromagnetiche non dipendono dal tempo ma dalle loro velocità di
propagazioni, abbiamo una teoria della materia essenzialmente machiana che non dipende dal "Tempo" ma dagli
effetti delle propagazioni. E' una situazione completamente nuova per la fisica, una situazione che in termini
grossolani equivale a dire che una massa è ciò con cui interagisce dal momento della sua nascita. Che, ancora,
non dipende dal Tempo, ma da ciò che incontra e con cui interagisce. E' una distinzione cruciale, perché una
"bolla interattiva" creata a massa prossima a zero e che si espande alla velocità della luce, è anche funzione della
densità circostante in cui appare e si sviluppa. Sembrerebbe inevitabile che un "punto" di creazione a m = 0 che
emerga in una zona a bassa densità acquisisca massa a un tasso più lento di un altro che venga a formarsi
contemporaneamente in una regione di universo ad alta densità.
Il formalismo matematico della cosmologia a massa variabile è, come noto, un universo non in espansione e a
spazio piatto (euclideo) in cui:
m = m(t),
2
m0
t
= 0 =1+z
m
t2
e quindi Ho (costante di Hubble):
Ho =
2
2
=
t 0 3τ 0
nella quale non compare un'ipotetica variabile x o (densità dell'orizzonte) che tuttavia potrebbe essere ricavata
empiricamente da misurazioni spettroscopiche della struttura fine e iperfine degli oggetti ad altissimo
spostamento verso il rosso (che secondo questa teoria sono considerati i più intrinsecamente giovani).
Nuova fisica, evidentemente, variabilità delle costanti, masse differenziate delle particelle, atomi ed elettroni …
distinguibili in base all'età. Una rivoluzione da far tremare le vene ai polsi: che tuttavia dovrebbe costituire una
sfida irresistibile per i teorici e per gli sperimentali. Forse le costanti fisiche che abbiamo determinato sulla terra
- compresa quella gravitazionale - potrebbero modificarsi se le trasportassimo in blocco fra le spire di NGC
7603? E' forse quest'idea più strampalata di quella che teorizza viaggi lungo linee geometriche che conducono a
tempi in cui il nostro DNA non era ancora disponibile? Questa è la sfida.
Nel frattempo abbiamo una cosmologia che convive con la sua falsificazione osservativa, che rivela galassie
interagenti con redshift discordi in cui le più massicce sono sistematicamente quelle con redshift più basso, dove
i quasar cadono sistematicamente vicini o sono addirittura immersi in quelle più attive, dove sistematicamente
getti e controgetti spettacolarmente collimati riversano immense quantità di materiale energetico nei gamma,
negli X e in radio verso punti dello spazio circostante. Materia che cade fuori: fuori e non dentro in un processo
moltiplicativo continuato e palesemente riproduttivo.
Quanto tempo occorrerà per riconoscere che i redshift non hanno a che vedere con la distanza o con la velocità?
Quanto tempo ancora occorrerà agli astronomi per domandarsi perché i quasar sono finiti lì, nelle vicinanze delle
galassie? Quanti altri "allineamenti prospettici" saranno necessari per archiviare la sacra assunzione che ogni
punto dell'universo deve trovarsi alla distanza del suo spostamento spettrale? Si conoscono redshift a z = 4, 5, 6
e più, valori che per la cinematica classica corrispondono a quattro, cinque, sei volte la velocità della luce e che
vengono integrati con una correzione di "estrazione relativistica" secondo la quale - e per quanto alto possa
essere z - il loro moto di recessione non può mai superare la velocità della luce. E anche qui la domanda è:
perché mai questa "ovvia" correzione se la velocità effettiva di quegli oggetti è di fatto sempre inferiore a quella
della luce?
La relazione di Hubble come relazione di età
Il risultato più sorprendente delle relazioni matematiche della massa variabile che abbiamo riportato è che con
queste si risolvono le altrimenti inspiegabili "anomalie" e discordanze di redshift: più antico è l'oggetto
osservato più basso è il suo spostamento spettrale, più giovane è l'oggetto osservato più alto è il suo redshift. Per
oggetti della medesima età ma che si trovano a distanze molto diverse, la differenza di redshift è prodotta
evidentemente dal solo lookbacktime, che esibirà uno spostamento verso il rosso più alto rispetto all'oggetto che
lo osserva a causa della distanza spaziale che lo separa. E poiché nuova materia viene continuamente a formarsi
nell'universo, la determinazione delle distanze per chi compie le misurazioni in base all'"età" del proprio sistema
di riferimento diviene un affar serio quando indicatori indipendenti (cefeidi, nebulose planetarie, regioni HII,
supernovae etc.) non sono disponibili. L'omologazione dei quasar a compagni giovani poco luminosi delle
galassie (e che dunque verosimilmente non potrebbero essere osservati alle più grandi distanze) rende
automaticamente l'universo molto più denso e contenuto e contemporaneamente le immense distanze a cui ci
aveva abituato la cosmologia dell'espansione si ridimensionano drasticamente. Occorreranno molti decenni di
osservazioni per inquadrare questo nuovo scenario davanti al quale, per il momento, la tentazione è di
identificare il Superammasso Locale con tutto l'universo osservabile. Che cosa ci sia, e se si possa osservare
strumentalmente qualcosa al di là del Superammasso, è al momento una domanda pendente.
E' tuttavia sempre un notevole shock ricordarsi che se guardiamo una galassia posta alla "breve" distanza di 3,26
milioni di anni luce, ciò che vediamo risale a 3,26 milioni di anni fa, perché tanto ha impiegato quella luce
partita dal passato a colmare la distanza fino a "noi-ora". Se si tratta di una galassia molto simile alla nostra, le
equazioni della massa variabile ci forniscono l'informazione che il suo spostamento verso il rosso era in quel
momento di un ordine che in termini convenzionali di "velocità" ammonta a circa 45 km/sec di redshift positivo
rispetto allo spettro di riferimento. Ma 3,26 x 10 6 anni luce è uguale a 1 Megaparsec, cosicché otteniamo una
relazione redshift-distanza di circa 45 ± 7 km/sec per Mpc che è anche un valore abbastanza vicino a quello della
"long distance" con Ho = 52 km/sec per Mpc.
Così lo shock può perpetuarsi nell'intuire all'improvviso che l'universo non ha alcun bisogno di essere in
espansione! L'enunciazione rigorosa per la cosmologia alternativa di Arp e Narlikar è che per galassie che
vengano a formarsi nello stesso momento (cioè per galassie "coeve", qualitativamente simili alla nostra)
l'accordo con la convenzionale legge di Hubble è mantenuto, ma che la relazione empirica spostamento verso il
rosso - magnitudine apparente è immediatamente risolta in termini di età e di luminosità! Senza alcun bisogno di
"dilatare" lo spazio, di imbottire l'universo di materia "oscura", di attribuire ai quasar luminosità prodigiose e di
invocare sistematicamente accidenti di prospettiva.
Rimandando ai testi della bibliografia, possiamo qui concludere brevemente che la trasformazione statica della
soluzione di Friedman richiede operazionalmente due scale temporali, una considerata dall'osservatore che è
parte dell'età della sua propria galassia, l'altra considerata da un osservatore in un sistema di riferimento esterno.
Se dovessimo guardare un oggetto molto giovane da un sistema molto più antico (come per esempio la nostra
Via Lattea) la scala temporale dei suoi processi fisici ci apparirebbe fortemente rallentata poiché le masse delle
particelle che lo costituiscono sono più piccole e quindi tutte le oscillazioni - come orologi che ritardano - sono
più lente. Come dice Arp "il significato di queste due scale temporali è evidentemente che dobbiamo vivere per
un periodo lungo per poterci vedere come gli altri ci vedono". Dopo tutto la teoria della massa variabile è una
teoria di "massa crescente" in cui l'alto redshift intrinseco della materia che si condensa nell'universo decade
rapidamente man mano che l'oggetto evolve fino ad azzerarsi o a volgersi addirittura in uno spostamento verso il
blu. Il destino ultimo della materia "evoluta" resta al momento una questione aperta, affascinante quanto
irrisolta.
L'ironia è rappresentata dal fatto che se trasportassimo un cosmologo del Big Bang con il suo spettrografo e le
sue relazioni di distanze e velocità in un sistema neonato (ad altissimo redshift intrinseco), questi
sperimenterebbe un universo complessivamente spostato nel blu. Ne dedurrebbe paradossalmente che viviamo in
un universo in contrazione, che forse a partire da uno stato di estensione infinita sta franando su se stesso per
produrre una singolarità di raggio zero. Un "big crunch", una "brama di unità" degna in tutto e per tutto
dell'immaginazione di Edgar Allan Poe, che realmente la descrisse nel suo poema cosmico "Eureka" del 1848.
E' possibile un cambio in cosmologia?
La cosmologia è una scienza impossibile. Nessuno può dire che cos'è l'universo, se mai è "cominciato", se mai
"finirà" o se invece è il prodotto di infinite trasformazioni. Ma possiamo decidere sperimentalmente se i quasar
sono connessi alle galassie e se l'interpretazione dello spostamento verso il rosso degli oggetti cosmici in termini
di recessione e di dilatazione dello spazio è smentita dalle osservazioni.
I libri e gli atlanti di Arp sono noti in tutto il mondo ma, soprattutto i primi, non facilmente reperibili: l'edizione
italiana di "Quasars, Redshifts and Controversies" (1987) è praticamente introvabile mentre la traduzione di
"Seeing Red" (Apeiron, Canada, 1998) annunciata da quattro anni dalle Edizioni Coelum sta ancora lottando con
problemi di "brochure" o di rilegatura.
Con il permesso dell'Autore, concludiamo riproducendo il paragrafo finale di un suo articolo di una dozzina di
anni fa, pubblicato in italiano dall'Editore "Il Poligrafo" (1994) [H. Arp, "Cosmologia: Una ricerca per il passato
e per il futuro", 1993].
"Se è corretta la teoria di un non expanding universe e in creazione continua come ho ricavato in base ai dati
dell'osservazione, allora non può esserlo quella basata sulla comune credenza che l'universo sia sorto da un big
bang. Nasce così l'obiezione di come abbia potuto essere così drammaticamente sbagliata l'immagine
fondamentale dell'universo che viene fornita da tanti decenni. Ogni lettore o persona interessata ai fatti dovrà,
come ovvio, formarsi un'opinione in base ai dati osservativi e alle argomentazioni che sarà in grado di
raccogliere, ma se il modello a creazione continua è quello corretto, la mia opinione sul perché il Big Bang sia
stato inculcato in modo così sistematico e che i dati osservativi che lo confutano sono stati semplicemente
soppressi.
La mia esperienza è che i primi dati contraddittori apparsi nel 1966 furono pubblicati puntualmente e
riscossero notevole attenzione, ma non appena le conseguenze cosmologiche divennero chiare, fu sempre più
problematico pubblicare e discutere le osservazioni che minavano l'assunzione per la quale il redshift è sempre
e comunque un indicatore di distanza e di velocità. Con i dati contrari che diventavano sempre più forti, referee
e curatori stabilirono semplicemente che non potevano essere corretti e bloccarono queste comunicazioni. I
comitati per la gestione dei grandi telescopi furono pronti a considerare queste ricerche alternative come "prive
di significato" e non venne concesso ulteriormente l'accesso a quei telescopi. Come inibitore particolarmente
potente, perfino le promozioni e in ultima analisi l'impiego vennero regolati sull'adesione alle visioni ortodosse.
Se quanto detto è vero, è facile capire come un'impostazione teorica non corretta possa essere custodita e
persino rafforzata con "scoperte" di materia invisibile, geometrie "accelerate" e schemi sempre più complicati
per la formazione e l'evoluzione delle galassie. Come gli epicicli di Tolomeo, ogni contraddizione della teoria
poté essere reinterpretata come un ulteriore abbellimento dell'assunzione che regola l'interpretazione dei
redshift extragalattici. Ma come il lungo periodo trascorso da Aristarco a Copernico, non c'è al momento
alcuna garanzia che le argomentazioni e i dati reali, anche se esaminati, potranno aprire un varco nella
massiccia ortodossia istituzionalizzata.
Come si fa allora a decidere che cosa sia "corretto"? L'unica possibilità di cambiamento è che il pubblico
interessato a questi grandi temi si convinca autonomamente e individualmente circa ciò che è "corretto". Molte
persone tuttavia, anche fra gli addetti ai lavori, esitano a prendere una decisione che indiscutibilmente presenta
degli elementi conflittuali. I più disponibili possono tutt'al più dire: "Gradiremmo maggiori dati e maggiore
discussione prima di decidere che cosa riteniamo sia giusto". L'importante messaggio che reca questo articolo è
che, se le persone desiderano avere questi dati ulteriori e questa maggiore discussione, dovrà essere compiuta
una riforma assai difficile nell'ambito accademico dell'astronomia extragalattica, della libertà di indagine e di
accesso alla comunicazione. Questa riforma mi sembra attualmente così ardua e temeraria che sarei portato a
supporre con tristezza che solo attraverso coloro che cercano articoli come questo su riviste non professionali, i
singoli individui potranno man mano consolidare un'opinione di massa che forzi un cambiamento nel modo con
cui è condotta questa disciplina così speculativa e controversa. Mi sembra che la moltitudine crescente dei non
professionisti e degli appassionati che già comprendono questi argomenti contrari sia al momento ciò che
maggiormente può alimentare la speranza di condurci a una revisione nella cosmologia e nella scienza, i cui
effetti potrebbero essere paragonabili a quella rivoluzione nella democrazia politica che fu provocata
dall'Illuminismo".
Halton Arp
La radiosorgente doppia 3C 343.1. La coppia galassia-quasar ha una separazione di 0,25"
(z = 0.34 per la radiogalassia e z = 0.75 per il QSO) e risulta fisicamente connessa da materiale radio.
(Radiomappa a 1.6 GHz di Fanti et al. 1985).
References
Arp, H. 1967, ApJ 148, 321.
Arp, H. 1968, Astrofizika (Armenian Acad. Sci) 4, 49.
Arp, H. 1970, Nature 225, 1033.
Arp, H. 1977, ApJ 218, 70.
Arp, H. 1982, Apj 263, 54.
Arp. H. 1987, Quasars, Redshifts and Controversies (Interstellar Media, Berkeley).
Arp, H. 1990, Astrophys. and Space Science 167, 183.
Arp, H. 1996, A&A 316, 57.
Arp, H. 1997, A&A 328, L17.
Arp, H. 1998a, ApJ 496, 661.
Arp, H. 1998b, Seeing Red: Redshifts, Cosmology and Academic Science (Apeiron, Montreal).
Arp. H. 1999, ApJ 525, 594.
Arp, H. 2001, ApJ 549, 780.
Arp, H. 2002, ApJ 571, 615.
Arp, H. 2003, Catalogue of Discordant Redshift Associations (Apeiron, Montrealt).
Arp. H., Bi, H.G., Chu, Y., Zhu, X, 1990, Astron, Astrophys. 239, 33.
Arp, H., Burbidge, E.M., Chu, Y., Zhu, Z., 2001, ApJ, 552, L11.
Arp, H., Burbidge, E.M., Chu, Y., Flesch, E., Patat, F. 2002, A&A 391, 833.
Arp, H., Narlikar, J., Radecke, H.D. 1997, Astroparticle Physics 6, 398.
Bertola, F., Sulentic, J., Madore, B. 1988, New Ideas in Astronomy, Cambridge Univ.
Bolognesi, A., 1975, Piccola cosmologia portatile, Novalis.
Bolognesi, A. 1995, Eppur non si muove!, Studio Stampa.
Bolognesi, A. 2001, Coelum n. 40; n. 44.
Bolognesi, A. 2002, Coelum n. 50.
Bolognesi, A. 2003, Coelum n. 65.
Bolognesi, A., 2003, La nuova teoria del cielo, Episteme n. 7, Univ. di Perugia.
Burbidge, G.R., Burbidge, E.M. 1967, ApJ 148, L107.
Burbidge, G.R., Burbidge, E.M., Solomon, P.M., Strittmatter, P.A. 1971, ApJ 170, 233.
Burbidge, E.M. 1995, A&A 298, L1.
Burbidge, E.M. 1997, ApJ 484, L99.
Burbidge, G.R., Napier W. 2001, AJ 121, 21.
Burbidge, G.R., Burbidge, E.M., Arp H. and Zibetti S., 2003, Astro-ph/0303625.
Chu, Y., Wei, J., Hu, J., Zhu, X., Arp, H. 1998, Apj 500, 596.
Fanti, C., Fanti, R., Parma, P., Schillizzi, R., van Breugel, W. 1985, A&A 143, 292.
Field, G., Arp, H., Bahcall, J. 1973, The Redshift Controversy, W.A. Benjamin, reading Mass.
Galianni, P., 2004, Coelum n. 70.
Holmberg, E. 1969, Ark. Astron. 5, 305.
Jaakkola, T. 1971, Nature 234, 534.
Lopez-Corredoira, M., Gutierrez, C., 2002, A&A 390, 15 L.
Lopez-Corredoira, M., Gutierrez, C., 2004, Astro-ph/0401147.
Madgwick, D., Hewett, P., Mortlock, D., Lahav, O. 2001, astroph/02033307.
McCarthy, P., Dickinson, M., Filippenko, A., Spinrad, H., van Breugel, J. 1988, ApJ 328, L29.
McCarthy, P., van Breugel, J., Spinrad, H. 1989, AJ 97, 36.
Narlikar, J. 1977, Ann. Physics 107, 325.
Narlikar, J., Arp, H. 1993, ApJ 405, 51.
Phipps, T. 1986, Heretical Verities, Urbana, IL.
Pietsch, W., Vogler, A., Kahabka, P., Jain, A., Klein, U. 1994, A&A 284, 386.
Radecke, H.D. 1997a, A&A 319, 18.
Radecke, H.D. 1997b, Astrophys. Space Sci 249, 303.
Sandage, A., Tamman, G. 1981, A Revised Shapley Ames Catalogue, Carnegie Inst.
Selleri, F. 2003, Lezioni di relatività, Progedit, Bari.
Tran, H., Cohen, M., Ogle, P., Goodrich, R., di Serego Alighieri 1998, ApJ 500, 660.
Ulrich, M.H. 1972, ApJ 174, 483.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 2 di Episteme.]
[email protected]
Il Disco di Festo
Un calendario vecchio di 4000 anni?
(Rosario Vieni)
(Figura 1 - Disco di Festo)
Introduzione
Quattro millenni addietro Creta era un'isola felice.
(Figura 2 - Creta)
Ricca e felice.
Durante la fase detta dell'Età del Bronzo, nel cuore del Mediterraneo orientale al di qua delle
Colonne d'Ercole, al centro di tutte le rotte commerciali, essa era il punto di riferimento
culturale per tutti i popoli del Grande Mare e per chiunque si trovasse a solcare quelle acque o
sostasse, anche per poco, in quella terra beata.
Il suo potere s'allargava in cerchi concentrici in ogni direzione sul grande mare, lambendo le
sponde dell'Anatolia, dell'Egitto, delle terre occidentali fino alle Colonne d'Ercole e alla
Sicilia; dominava sulle isole dell'Egeo e su parte del continente che si sarebbe chiamato greco,
di certo su quello che sarà poi il Peloponneso.
Mitico monarca di quell'età era Minosse... anche se, a dire il vero, pare che quella di Creta
fosse una civiltà dove vigeva il matriarcato; dove quindi c'era una regina e non un re a
governare; dove la maggiore divinità era femminile e non maschile.
Minosse, comunque, fonda 100 grandi città, fra le quali le più famose sono Cnosso, Festo,
Cidonia.
Omero, nel II libro dell'Iliade, allude a tali cento grandi città quando canta:
Il gran mastro di lancia Idomenèo
guida i Cretesi che di Cnosso usciro,
di Litto, di Mileto e della forte
Gortina e dalla candida Licasto
e di Festo e di Rizio, inclite tutte
popolose contrade, ed altri molti
dell'alma Creta abitator, di Creta
che di cento città porta ghirlanda.
E ad avere rapporti con Creta non furono solo le genti dell'area egeo-anatolica, ma anche
quella egizio-palestinese, e in generale di tutto il bacino del Mediterraneo centro-orientale.
Ma peccheremmo per difetto se pensassimo che la sua influenza commerciale e culturale
fosse limitata in quel contesto geo-culturale; di certo gli abili navigatori minoici solcarono
altri mari e, per via indiretta, ci hanno lasciato tracce visibili anche altrove.
Sul quadrante che delimitava nettamente la parte orientale di quello che noi chiamiamo mar
Mediterraneo dalla sua parte occidentale, si ergeva imponente e maestosa l'isola dove il dio
Efesto aveva posto la sua officina.
Qui venne Minosse.
Secondo una certa tradizione la morte di Minosse viene attribuita alle figlie di Cocalo, re di
Camico; terra che a quel tempo (stando ad Erodoto) era abitata dagli Agrigentini. E' difatti
Erodoto che ci tramanda (VII, 169-170) tale notizia, che verrà poi sviluppata più ampiamente
da Apollodoro (Epit., 1, 13-15) e da Diodoro Siculo (IV, 78-79).
E ci venne inseguendo il mitico architetto Dedalo, il quale, fuggendo dalla città di Cnosso
assieme al figlio Icaro (ma questi non completerà il viaggio in quanto precipita, mentre
volava, in mare), avrebbe cercato e trovato rifugio per l'appunto presso il re Cocalo, nella terra
che taluni erroneamente definiscono ancora col nome di Trinacria.
Il corpus, difatti, dei segni testimoniati nelle isole Eolie scoperti da Bernabò Brea più di 50
anni fa e il grande santuario-officina scoperto da G. Castellana a Monte Grande nei pressi di
Agrigento consacrato alla lavorazione e al commercio dello zolfo con Creta e con le zone
dell'Egeo, tutto questo testimonia senza ombra di dubbio i rapporti che Creta aveva intrecciato
con le zone più estreme del suo impero thalassocratico.
Ma l'influenza di Creta si spinse anche più a nord.
Nell'attuale Toscana forse, dove sulle pendici dell'Amiata, in Pian della Carola, furono tempo
addietro rinvenute delle cretule assimilabili per forma (non nei materiali) a quelle minoiche.
Sicuramente, però, nella lontana (dalle rotte consuete) Germania dove, presso Monaco di
Baviera, durante una campagna di scavo, fra il 1999 e il 2000, sono state trovate due
placchette risalenti al XIV secolo a.C..
La prima, denominata "Objekt A", è una piccola placca di ambra a mo' di triangolo rovesciato
che reca incisioni su ambedue le facce.
Essa misura mm 32,1 per 30,5 per 10,8.
Sul lato A è incisa l'immagine alquanto stilizzata di un volto che rammenta istintivamente una
delle maschere d'oro di Micene che si trova conservata presso il Museo Archeologico
Nazionale di Atene.
(Figura 3 - Objekt A.1)
Sul lato B c'è incisa una serie di 3 segni che senza ombra di dubbio sono assimilabili a quelli
dei sistemi lineari dell'area egea.
(Figura 4 - Objekt A.2)
Quello centrale ci richiama ad un segno della Lineare A e della Lineare B (quello che Ventris
legge come ka, e che noi invece leggiamo tha). Altrettanto non si può affermare per gli altri
due, anche se si può qui azzardare una ipotesi: potrebbero essere i prototipi per quelli che poi
saranno 02 e 07 (o 27) nella Lineare A.
Ma è solo una prima ipotesi.
La seconda piccola placca, sempre d'ambra e di forma ovale, è ancora più interessante.
Essa misura mm 31 per 23,9 per 21.
I segni incisi sono ben quattro, e sono qui facilmente identificabili. Almeno i primi tre, che
sono immediatamente riconducibili al sistema della Lineare B (03, 48, 37). Meno chiaro e
definibile invece il quarto.
(Figura 5 - Objekt B)
Creta si crogiolava al sole del mare, quando all'improvviso qualcosa accadde a NE.
Il vecchio Egeo capì che era giunto il momento di agire.
Per anni, per decenni aveva pregato gli dei del nord perché finalmente intervenissero, e per
anni aveva sperato che le sofferenze del suo popolo cessassero.
Chiamò il figlio Teseo e gli parlò a lungo.
Il rumore della risacca era desiderabile come il corpo di una donna.
Un mare di ossidiana percosse la terra e ne fece vibrare le più recondite viscere.
Da lì in avanti altri signori avrebbero dominato su Creta... ma questa è un'altra storia.
Il Disco di Festòs
Eretto sull'orlo di una ripida collina con una superba vista sulla pianura di Messarà ad est, e
sul massiccio dell'Ida a nord, il palazzo di Festo godeva di una invidiabile posizione.
(Figura 6 - Palazzo di Festo)
Secondo, per dimensioni, solo a quello di Cnosso, era, rispetto a questo, avvantaggiato per la
sua posizione incantevole e per l'aria e il clima.
Nel luglio del 1908 l'archeologo italiano Luigi Pernier rinvenne, a livello del primo palazzo,
una tavoletta circolare di terracotta, del diametro di circa 16.2 cm., recante sulle due facciate
dei segni pittografici incisi a spirale, da destra verso sinistra.
I segni apparivano incisi non a mano, ma con punzoni simili a quelli usati per la stampa a
caratteri mobili.
(Figura 7 - DiskA)
(Figura 8 - DiskB)
L'esame stratigrafico del reperto lo datava intorno al 1700 a.C.; e in effetti il disco era stato
trovato entro la cerchia delle mura del primo palazzo che si trovava ad un livello inferiore
rispetto alla cinta muraria del secondo palazzo.
Convenzionalmente abbiamo definito A e B le due facce.
La prima osservazione va fatta sull'oggetto e sulla sua forma. Ci richiama immediatamente
altri reperti, presenti presso altre culture e che identificano una particolare cifra semiologica.
Nel Museo Archeologico di Firenze si conserva una tavoletta etrusca in piombo (proveniente
da Magliano) sulla quale v'è, incisa, una iscrizione probabilmente di carattere votivo.
La forma circolare che la significa vuole presumibilmente esprimere l'idea della sacrale
globalità della preghiera che viene così resa dalla figura geometrica più perfetta e che
richiama, in maniera fortemente simbolica, l'idea del cielo e dei corpi che in esso si muovono
e il cerchio magico che - come luogo di culto - è presente in molte facies culturali già in epoca
tardo-neolitica (come memoria ancestrale del cerchio degli individui che si stringeva attorno
al fuoco "sacro").
La specificità di tale testo sta nella scrittura che, ovviamente, si dipana libera attraverso le
spire della tavoletta bronzea come libera solo può essere la parola ed ogni forma di
comunicazione anche rituale.
Il Disco di Festo, già sotto questo profilo, presenta una sua singolarità.
Le varie "sezioni" del "testo" sono nettamente distinte e separate le une dalle altre; ma non in
maniera tale da mantenere, pure visivamente, l'unitarietà del testo, ma con un sistema di
barrette verticali che, unite alla linea della spirale, finiscono con l'incasellare ogni unità
semantica in uno spazio fortemente delimitato che poco concede al libero dipanarsi della
parola.
Una analisi, poi, dei segni ci dice anche altro. Essi (123 sul lato A, e 119 sul lato B) non
appaiono assimilabili ad alcuna forma nota di scrittura, ed inoltre è discutibile la loro cifra
linguistica.
Vediamo di capirne il perché.
Chi ha sostenuto la tesi che trattasi di scrittura ha dovuto affermare, a cominciare da Ventris e
Chadwick nel loro Documents in Mycenaean Greek, che trattasi verosimilmente di una
scrittura di tipo egeo, e comunque sillabica.
D'altra parte finora nessuno ha messo in dubbio che si tratti di una forma di scrittura, ma
nonostante ciò nessuno è riuscito a "decifrare" l'oscuro messaggio che ci viene da un tempo
tanto remoto né, peraltro, a riconoscere il registro di una tale forma di comunicazione.
Non sappiamo che valenza abbiano i segni, se acrofonica o d'altro tipo, né sappiamo se trattasi
di lingua affine al ceppo ie.; ma un'analisi linguistica può anche prescindere da codesti
elementi.
Intanto solo un paio di "parole" su entrambi i lati del disco, finiscono con il medesimo segno,
e tale caratteristica ci dice tanto sulle caratteristiche morfologiche della lingua: se si tratta di
lingua non è indubbiamente del tipo flessivo!
Ma questo appare quanto meno strano, almeno in quell'area geo-linguistica che va dai Balcani
ai limiti delle regioni microasiatiche. Ed allora? Ma anche altri elementi ci fanno dubitare che
si tratti di un linguaggio. Dovrebbe essere di tipo sillabico? Ma diverse sezioni presentano una
serie di 6 o addirittura 7 segni, il che indicherebbe la presenza di parole eccessivamente
lunghe. E poi, l'analisi interna dei segni per ogni sezione ci dice anche altro: appare strano, ad
es., che il segno del "guerriero con elmo" appaia soltanto all'inizio di ogni sequenza in
entrambi i lati del disco; che esistano serie di due segni ripetuti ma mai all'inizio della
sequenza; che esistano varianti di "posizione" di taluni segni, posti ruotati talvolta di 45° o di
altri che sono stati sfasati senza, per ciò, indicare (o la indicano? ed allora tale funzione
appare assai strana in una fase arcaica del linguaggio!) una atipica loro specificità... .
Insomma, la singolarità della cifra semantica delle varie sequenze del Disco di Festo ci
impedisce di credere che si tratti di linguaggio.
Lo ripetiamo, basta riflettere su quanto sopra abbiamo detto: il fatto pertanto che ogni
"parola", ogni sequenza, presenti un impianto strutturale e morfologico sempre diverso,
nel quale si individuano ben 33 "suffissi" diversi (23 A / 10 B), in un "testo" tutto
sommato cosi breve, tutto ciò rafforza in noi l'idea, quella primitiva intuizione, che non
si tratta di scrittura.
Qual è stata tale primitiva intuizione?
Quella secondo cui il Disco di Festo altro non è che un "normalissimo" CALENDARIODIARIO ad uso e consumo, forse, dei giovani (o della gente in genere) di quel tempo; per cui
altro dev'essere il codice di lettura del reperto per poterne valutare esattamente lo spessore.
Quello che mi colpisce, che mi ha colpito nella primavera del 90 (dopo la "mia" lettura dei
testi in Lineare B), è il numero delle sezioni in cui è divisa ogni faccia del disco: 31 sul lato
A, e 30 sul lato B. E' una singolarità troppo evidente per essere trascurata, né può trattarsi di
semplice coincidenza.
Sopra abbiamo detto della forma del reperto, in relazione alla tav. di Magliano e al suo
carattere votivo; qui, invece, la circolarità dell'oggetto è in relazione al circolo solare ed al suo
moto durante l'anno e appare configurare l'immagine del cielo e quindi il computo del tempo
in relazione agli eventi astrali o stagionali. Questo si legge, si intuisce, immediatamente al
primo approccio; quindi, analizzando il "testo", altro inizia a prendere forma: la
consapevolezza che il cerchio voglia esprimere, rappresentare in maniera immediata e
simbolica, conoscenze geo-matematiche che attengono alla figura.
Si tratta, fra l'altro, di un oggetto didattico, come tanti altri in uso in antichità; come le
anforette etrusche che recano graffito l'alfabeto, quelle di Graviscae, di Formello, di Viterbo,
e di Cerveteri.
All'inizio erroneamente pensai che il mese potesse essere suddiviso per "settimane".
Considerando che potevano essere, ad es., di 31 gg. i mesi estivi e di 30 quelli invernali, mi
chiesi se c'era un numero distintivo di quella cultura per il quale il mese potesse essere
suddiviso.
Ponendo, difatti, il 5, le serie che si formano sono.
19, 20, 19, 23, 19, 19, 3
20, 19, 19, 19, 19, 21.
Il 19, come insieme di attività da compiere per "settimana", ritorna con una certa frequenza.
Ma una suddivisione del mese in periodi, per quell'età, non è assolutamente ipotizzabile per
motivi che qui non starò a dire; se mai, la frequenza del 19 sta a dimostrare qualcosa, di cui
diremo fra poco, in relazione alla regolarità dinamica in serie di sequenze.
In ogni caso il "gioco" dei numeri, una sorta frattalica di cabala, mi spinse nella direzione
giusta, facendomi comprendere qualcosa della cultura di quelle genti che non avrei
immaginato.
Difatti v'è un'altra analisi che appare ancor più sconvolgente.
Se assumiamo come "diagonale" del disco il raggio, la sezione, che individua il cerchio presso
il punto d'inizio del "testo", ci accorgiamo che per ogni "spira" v'è (per ambo i lati) una sola
serie che appare, multipla del 3.
12 , 9 , 6 , 3 , 1 (lato A)
12 , 9 , 6 , 3
(lato B).
Il che è ancora più straordinario, in quanto dimostra che a quel tempo il calcolo (sia pure in un
sistema a base dieci) era già basato sul 3 e sui suoi multipli.
L'immagine esplosa delle due facce appena vista lo indica chiaramente.
Per cui anche l'anno doveva essere... anzi già era di dodici mesi. Difatti:
6 mesi di 31 gg. = 186 gg.
6 mesi di 30 gg. = 180 gg.
totale
366 gg.
Stupefacente!
Per quanto attiene ai segni, tutti e due i lati iniziano con la stessa immagine, quella del
guerriero con l'elmo
: segno che l'attività guerresca era primaria e fondamentale per la
comunità.
Se osserviamo in che modo, con quale frequenza il segno si ripete (lo stesso potremmo fare
per ogni altro segno, ma in questa fase sarebbe di nessuna utilità) ci accorgiamo che tale
attività è praticata col seguente ritmo.
Se indichiamo con "X" tale attività e con "0" globalmente le altre, otteniamo tale sequenza:
X000 X00 X0 X0 X0 X0 XX0 XX0 XX00 X00 X00 (lato A).
Ovviamente non indichiamo con la "X" soltanto il segno in questione (non sarebbe utile), ma
tutta la sequenza che s'apre con tale segno; cioè la giornata (ad es. la prima, la quinta, l'ottava,
etc.) nella quale la prima attività da compiere è quella delle armi; con "0" ogni giornata che
non s'apre con tale attività. Questo per stabilire il ritmo e il gravame dell'impegno profuso.
Se, invece, osserviamo l'altra faccia del disco, notiamo come l'impegno per le attività militari
qui diminuisca. Da ciò si potrà pure dedurre l'alternarsi delle varie attività, e il riconoscerle,
fra il periodo primavera-estate e quello autunno-inverno.
Osservando, poi, il ritmo delle sequenze si noterà anche una scalarità quasi metrica, che
corrisponde alla necessità che le varie attività possano essere distribuite nel mese con sapienza
e, diremmo oggi, progressione didattica.
Quali altre attività si riconoscono? Alcune appaiono chiaramente identificabili: quella
dell'esercitarsi con l'arco
elmi o corazze
, quella di saper andar per mare
, di dedicarsi poi alla concia delle pelli
, di costruire
, del saper usare raspa e
trapano
ed ascia
; o di dedicarsi all'agricoltura, o addirittura di fare musica
.
Altri segni sono meno facilmente identificabili, e dalla capacità che avremo di poterli
riconoscere dipenderà la possibilità di poter tracciare un quadro delle abitudini e della cultura
di tale popolo. Il quale fu anche pescatore, curò le attività ginniche, fu dedito alla pastorizia,
introdusse la coltura del fico a e stabilì probabilmente rapporti particolari con l'altro sesso.
La figurina di donna deve pur avere un suo particolare significato, anche se ancora esso non ci
appare chiaro. Così come non sono chiari altri segni, la cui valenza e cifra devono essere
riconosciute.
Altri segni, poi, sembrano richiamarci ad alcuni elementi che troviamo nella scrittura lineare
B, di cui il Disco di Festo deve essere coevo; ché, se la scrittura Lineare B è testimoniata in
tavolette stilate intorno al XVI sec. a.C., essa è così bene e compiutamente strutturata che la
sua formazione deve risalire per forza di cose a secoli precedenti, per cui il disco in questione,
in questo caso, altro non fa che testimoniare la presenza di elementi pittografici che, nel
linguaggio, assumono intanto la valenza di fonogrammi. Questi sono il cerchio puntato
e,
l'abbiamo già vista, l'ascia bipenne
che nel miceneo appare nettamente stilizzata
segno che anticipa il moderno fonema T.
nel
Da oggi, voglio sperarlo, il Disco di Festo non sarà più un problema linguistico; rimarrà,
soltanto, densa e di particolare spessore la sua cifra, matematica e culturale.
Questa la comunicazione che feci, nell'ottobre del 1991, al II Congresso Internazionale di
Micenologia al quale partecipai quale rappresentante-delegato del Presidente del CNR.
Note sul ritrovamento del disco
Noi sappiamo che la scoperta dell'ubicazione di Festo fu dovuta allo spirito avventuroso di un
militare inglese, il generale Spratt il quale, Strabone alla mano, rintracciò l'antica città cretese
di cui parlarono anche altri autori classici quali Omero nell'Iliade (II, 648) e nell'Odissea (III,
296) e Diodoro.
Liscia e pendente sovra il fosco mare
di Gortina al confin, sorge una rupe,
contro alla cui sinistra, e non da Festo
molto lontana punta, Austro i gran flutti caccia;
Secondo le indicazioni di Strabone, la "città popolosa" come la definì Omero, era sita a 60
stadi da Gortina e a 40 da Matala (il porto della città minoica di Festo).
Il Disco di Festo venne poi rinvenuto dall'archeologo L. Pernier, durante una campagna di
scavi, la sera del 3 Luglio 1908 in una "fossetta" (N. 8) presso il vano 86 della zona nord-est
del Palazzo: "vicino all'angolo nord-ovest e a circa 50 cm. dal fondo roccioso, in mezzo a
terra scura mista a cenere, carboni e frammenti ceramici"; la tavoletta in Lineare A (PH 1)
giaceva pochi centimetri più a sud-est, quasi alla medesima profondità, nello stesso vano.
(Figura 9)
(Figura 9bis)
Nello strato di terra allo stesso livello del disco e sotto ad esso si trovavano avanzi ceramici,
più o meno attribuibili, secondo Pernier, alla fine del Minoico Medio: diversi frammenti di
ceramica di Kamares e frammenti di pithoi. Inoltre venne rinvenuto un pezzo di tazza, forse
micenea, e ancora (ma non solo) un'ansa di un'hydria "ellenistica". Secondo Pernier, quindi
l'intera zona era da doversi considerare "perturbata" nel corso della Storia e non affidabile per
un qualsiasi studio stratigrafico.
Il disco si trova oggi nel museo di Iraklion, a Creta.
La misura del tempo
Intanto una considerazione preliminare.
Il nostro libello, quella comunicazione al Congresso, ha di certo - forse indirettamente - aperto
la via per una nuova "lettura" del reperto. E difatti da quel momento in avanti s'è visto un
proliferare di saggi illustri (perché tali sono i loro autori) nei quali si parla di "calendario
minoico". Su tutti qui occorre ricordare: Ole Hagen; Hermann Wenzel; M.M. Frenkel; Bernd
Schomburg.
L'ipotesi del calendario è sostenuta dal danese Ole Hagen (che espone i risultati della sua
ricerca in un libro di cui esiste anche una versione elettronica acquistabile in rete) e dal
tedesco Hermann Wenzel. Mentre M.M. Frenkel, della Riga Technical University, propende
per un calcolatore astronomico. Bernd Schomburg infine ritiene che si tratti di un calendario
o, più precisamente, che il disco contenga delle istruzioni per l'osservazione del Calendario
astronomico.
Circolarità del tempo
Lo ripeto, è assolutamente fuori discussioni che possa trattarsi di scrittura. Ed ogni altro
arzigogolo mi sembra risibile.
E d'altra parte l'interesse per il cielo, unico stabile riferimento, dovette essere enorme per gli
antichi. Noi oggi non possiamo capirlo perché sommersi da una tecnologia e da oggetti che
danno per scontato quasi tutto; ma immaginiamo per un attimo di trovarci lontani da ogni
rotta umana, in luoghi privi di quelle comodità cui siamo avvezzi e perfino di un orologio,
avendo solo a disposizione un tempo illimitato e continuo...
Come riusciremmo a stabilire un rapporto col fluire delle cose se non osservando lo spettacolo
del cielo stellato e il sorgere e tramontare degli astri?
Così facevano i nostri antenati già 30000 anni fa.
Così continuarono a fare per millenni, fino a 15000 anni fa.
(Figura 10)
Interessante, a questo proposito, la cosiddetta "scena del pozzo" di Lascaux. Qui, secondo
Michael Rappenglück (Facoltà di Matematica e di Scienze Informatiche dell'Università
"Ludwig-Maximilians", Monaco di Baviera) l'immagine dello sciamano che affronta lo spirito
del bisonte è da porre in relazione ad alcune costellazioni che passavano in meridiano alla
mezzanotte del solstizio d'estate del 16.500 a.C..
Nel paleolitico il computo del tempo era scandito dalle fasi lunari, in particolar modo dai
"pleniluni", molto importanti per la luminosità dell'astro. Questo vistoso mutamento
dell'aspetto della Luna veniva già registrato intorno al 30.000 a.C. su un osso lavorato
ritrovato nella regione di Les Eyzies de Tayac, nel Perigord francese.
(Figura 11)
Ci sono gli ossi, poi, decorati con tacche trasversali, segni interpretati da alcuni archeologi
come dei "giochi aritmetici" ma che non hanno avuto a tutt'oggi una chiara e definitiva
spiegazione.
Un ipotesi assai accreditata vedrebbe questi segni non come semplici decorazioni ma come
particolari "tacche per conteggi". Secondo Alexander Marshack, però, un ricercatore associato
del Peabody Museum dell'Università di Harvard, si tratterebbe delle prime testimonianze di
registrazioni del mutamento dell'aspetto della Luna. Questa ipotesi, probabilmente la più
verosimile, pone in evidenza un probabile conteggio dei giorni che compongono le lunazioni
(mese sinodico). Questo, probabilmente, perché tale periodo si prestava abbastanza bene a
scandire le uscite per la caccia o per altre attività confortate dalla luce della luna piena.
In età antica, poi, pare che fosse in uso incidere su osso le prime osservazioni astronomiche.
Si conservano ancora: un osso inciso da tacche trasversali proveniente da Kulna, in
Cecoslovacchia; un osso inciso da piccole tacche trasversali disposte su una linea continua a
forma di "U", proveniente da Gontzi, in Ucraina; il già menzionato osso istoriato da incisioni
di forma circolare proveniente da Abri Blanchard, regione di Les Eyzies de Tayac sita nel
Perigord francese.
Ma quello che ci pare di maggiore interesse è un osso istoriato di tacche trasversali e da
incisioni di forma circolare proviene da Abri Lartet, ancora regione di Les Eyzies de Tayac.
(Figura 12)
Questo oggetto, appartenente al Periodo Aurignaziano (30.000 a.C.), presenta serie di
incisioni di 29 e 30 segni abbinate a cinque gruppi di tacche.
I segni circolari sembrerebbero, anche in questo caso, avere la forma delle varie fasi lunari,
riprodotte con la medesima sequenza con cui appaiono nella realtà.
Secondo il Marshack il conteggio delle lunazioni su questo oggetto venne fatto più volte e
rappresenterebbe i giorni contenuti in un mese sinodico.
Insomma, l'interesse dell'uomo per il cielo è più antico di quanto si possa credere.
Si creò così una casta di specialisti, scienziati-sacerdoti, che ebbe il compito di tramandare
agli altri le enormi conoscenze acquisite.
E da qui, poi, la cosa passò nelle mani dei poeti, degli scrittori, dei filosofi (che furono
essenzialmente degli scienziati, privi di un metodo, ma che per primi si posero delle domande
sul perché dei fenomeni).
E per quanto ci riguarda, infine ecco Omero ed Esiodo. E poi Metone, ed una caterva infinita
di nomi illustri le cui scoperte da sole riescono a riempire migliaia e migliaia di pagine e che
ancora oggi riescono a stupirci.
Nei poemi omerici vengono citati: la "stella" del mattino e della sera (Venere), Sirio, le
Pleiadi, le Iadi, il grande carro, le costellazioni del Bifolco e di Orione.
In Esiodo esistono correlazioni fra i fenomeni celesti ed il tempo delle azioni umane; così ad
esempio la semina avviene in novembre, cioè al tramonto mattutino della costellazione di
Orione; la mietitura in maggio quando le Pleiadi sorgono di primo mattino; la vendemmia in
ottobre al primo sorgere di Arturo del Bifolco. Esiodo conosce approssimativamente le date
dei solstizi ma non quelle degli equinozi; fissa l'inizio della primavera circa sessanta giorni
dopo il solstizio d'inverno; le notti si allungano verso la fine dell'estate; il mese sinodico della
Luna, cioè l'intervallo dopo il quale la Luna ripresenta la stessa fase, dura 30 giorni contro un
valore reale di 29g 12h 44' 2,9"; il mese viene diviso in tre parti di dieci giorni ciascuna.
Nel V secolo a.C. l'astronomo ateniese Metone scoprì che 235 lunazioni (mesi lunari) fanno
quasi esattamente 19 anni solari. Per tale ragione, dopo un ciclo di 19 anni (detto ciclo di
Metone o ciclo metonico o ciclo lunare) le fasi della Luna tornano ai medesimi giorni
dell'anno.
In altre parole, dopo aver osservato i giorni in cui hanno avuto luogo le diverse fasi lunari per
19 anni, si noterà che il ventesimo anno queste cadranno negli stessi giorni del primo anno, il
ventunesimo anno cadranno negli stessi giorni del secondo anno, e così via.
Ecco perché la serie dei tempi, partendo dall'anno 1 a.C., è stata divisa in periodi di 19 anni, e
a ciascun anno di ogni periodo è stato abbinato un numero naturale dall'1 al 19. Il numero
d'oro è quindi il numero dell'anno nel ciclo lunare in corso.
Per trovare allora il numero d'oro relativo a qualsiasi anno, basta sommare 1 all'anno, e
dividere poi per 19. Il resto di questa divisione dà il numero d'oro; se però il resto è uguale a
0, il numero d'oro è 19.
Meglio ancora si può ottenere dividendo l'anno per 19 e aumentando di una unità il resto così
ottenuto.
Tutto questo, brevissimo peraltro, excursus sulle conoscenze astronomiche degli Elleni ha un
senso. Quando poi ci accorgiamo che certi numeri (in questo caso il 19) ritornano con una
certa frequenza in ambiti e in tempi diversi, beh possiamo anche credere che non si tratti più
di coincidenze o di semplice casualità.
E comunque ha un senso tanto più se si pensa a quanto siamo debitori verso chi molto ci ha
dato. Non a caso lo storico tedesco Burckhardt affermava: "noi vediamo con gli occhi degli
Elleni e parliamo con le loro espressioni."
La storia
Cominciamo intanto a fare il punto sulla originalità o meno del reperto.
Esso è unico, e pare non registri forma di scrittura alcuna.
Vale la pena, qui, ripetere e meglio chiarire quanto già anticipato nella comunicazione al
congresso; anche se da allora tante altre cose sono venute fuori rinforzando l'idea che
avevamo dell'oggetto e anzi accrescendone la cifra e lo spessore scientifico.
Intanto il primo dato che salta agli occhi è che le sequenze numeriche paiono avvenire non a
caso. Ovviamente parliamo delle sequenze di oggetti presenti in ogni "cartiglio", laddove per
cartiglio si intende lo spazio compreso fra le due linee (inferiore e superiore) della spirale e i
tratti verticali che nettamente separano una sequenza dall'altra.
Esse sono rispettivamente per i due lati:
lato A:
533354353545
262472462
474343
372
3
lato B:
544344454444
533544335
433455
542
Potrà essere una semplice coincidenza, ma sorgono qui due riflessioni:
- la prima è che l'ordine con cui si succedono i segni nei vari "cartigli" non è casuale ma
obbedisce ad una ben chiara logica matematica;
- la seconda è che il numero dei segni in ogni "cartiglio" non è mai inferiore a 2, né superiore
a 7.
E la cosa non è casuale. Gli antichi conoscevano quello che viene definito il ciclo di Saros,
ovvero il numero (e quindi il periodo) delle eclissi che si verificano annualmente eppertanto il
loro succedersi regolare; è giocoforza allora credere che il Disco contenga anche informazioni
di tipo astronomico: in questo caso derivate dall'osservazione attenta del cielo e del
movimento dei suoi astri (si rammenti peraltro che il numero dei "pianeti" conosciuti
anticamente era di 7: 5 pianeti + il Sole e la Luna).
Le eclissi innanzitutto, la cui valenza doveva essere per i nostri progenitori di enorme peso: la
paura per un fenomeno che non apparteneva certo alla quotidianità, la cui conoscenza era solo
nelle mani dei saggi o dei sacerdoti (che di solito erano gli unici a detenere il potere culturale,
e non solo) i quali potevano così vaticinare e gestire il quotidiano dei popoli ad essi
sottomessi, il segno del divino che così si manifestava alle genti.
Ma analizziamo attentamente ciò che viene fuori dalle "previsioni" del Ciclo di Saros.
Come si diceva, ogni anno possono avvenire da un minimo di 2 eclissi ad un massimo di 7 (5
di Sole e 2 di Luna, oppure 4 di Sole e 3 di Luna).
Ora noi sappiamo che è possibile prevedere le eclissi con buona approssimazione, tenendo in
debito conto il fatto che la linea dei nodi non rimane fissa, ma compie sul piano dell'orbita
terrestre una rotazione completa in 18 anni, 11 giorni e 8 ore. Che lo facessero gli antichi è
cosa straordinaria.
Tale conoscenza del cielo e delle sue leggi appartenne anche ad altre etnie, perfino a popoli
dell'America latina, che furono capaci di prevedere eclissi che addirittura avvenivano in altre
parti della Terra e che non erano quindi visibili alle loro latitudini.
D'altra parte, lo studio degli astri non è una novità presso gli antichi. Addirittura Giovanni
Pettinato, nel suo La scrittura celeste, ci narra del ritrovamento in territorio caldeo della
montatura di un antichissimo cannocchiale; e i Caldei, lo si sa, furono abilissimi matematici e
astronomi. Dice testualmente, alle pp. 103-104:
"Lenti e cannocchiale - Prima abbiamo menzionato misurazioni effettuate mediante il palmo
e le dita. Molti calcoli eseguiti con tale metodo antropometrico risultano, però, così precisi
da sollevare tra gli studiosi il problema dell'utilizzo o meno di strumenti per aiutare l'occhio
nudo. Questo, come recentemente ha fatto notare A. Kyrala, professore di fisica all'università
dell'Arizona, non riesce a distinguere misure angolari inferiori al minuto di arco: in base alle
misure angolari, inventate dai Babilonesi, vi sono 60 secondi di arco e in un minuto di arco e
60 minuti in un grado. Le misure riportate nei calcoli astronomici delle tavolette cuneiformi
sono di gran lunga inferiori ad 1 minuto di arco, tanto da escludere l'utilizzo del semplice
occhio nudo nelle osservazioni astronomiche.
L'astrologo, di conseguenza, doveva avere tra i suoi strumenti per le osservazioni, oltre ad un
buon occhio e alle tavolette della serie Enūma Anu Enlil, anche dei sistemi di puntamento che
gli permettessero di essere tanto preciso nei calcoli e nelle localizzazioni. Se da una parte è
facile supporre l'esistenza di un sistema di puntamento come la balestriglia, abbastanza
elementare per coloro che hanno inventato la misurazione angolare, stupisce pensare che i
Babilonesi avessero già ideato una forma, seppure rudimentale, di cannocchiale.
E' interessante notare che se della balestriglia non abbiamo alcun resto archeologico, del
cannocchiale abbiamo, probabilmente, riferimenti testuali: in tavolette neoassire infatti sono
registrate delle consegne proprio ad astrologi di lenti addirittura con il supporto di tubi d'oro
(cfr. SAA VII 64 e 72). Il fatto che a volte venga spiegato lo scopo a cui doveva servire la
lente, quello cioè di "ingrandire la pupilla", ci convince che si faccia appunto riferimento ad
un'osservazione difficile ad occhio nudo.
Non ci meraviglia poi che già negli scavi condotti da Layard a Ninive, alla metà del secolo
scorso, sia stata ritrovata una di tali lenti di cristallo di rocca della lunghezza focale di 4,5 e
v'è da chiedersi se l'archeologo inglese non si sia imbattuto in uno degli strumenti la cui
esistenza noi qui sosteniamo."
Del resto, la "produzione" di quello che noi oggi definiamo vetro ottico dovette avere un
grosso incremento nell'area mesopotamica visti i ritrovamenti di materiali vetrosi nella zona
che si erano generati in seguito all'impatto di un grosso meteorite il cui cratere, di recente, è
stato localizzato proprio in quell'area. Né dubitiamo che si sia trattato di un solo episodio. Del
resto, è sufficiente il calore di un fulmine caduto sulla spiaggia per trasformare in vetro i
silicati contenuti nella sabbia.
Ma non furono i soli ad osservare il cielo. Se ci spostiamo nel nord dell'Europa, nelle isole
britanniche, troviamo a riprova di quanto appena detto il tempio megalitico di Stonehenge;
che fu indubbiamente una sorta di grande e maestoso planetario all'aperto, di certo adibito
anche a pratiche cultuali, ma la cui funzione primaria e la cui origine fu dettata da motivi
astronomici: per fissare stabilmente nel tempo il sorgere del sole intanto al solstizio d'estate,
per fissare il punto di solstizi ed equinozi, per segnare il sorgere della luna, per determinare
eclissi, per indicare addirittura la precessione degli equinozi. E tutto questo in un tempo in cui
pareva (per secoli questo s'è predicato nelle scuole) non ci fossero conoscenze... specie se ad
opera di popoli "barbari".
(Figura 13)
Ma Stonehenge non è il solo astrolabio arcaico che s'è conservato. Risale difatti a oltre
cinquemila anni fa, ossia molto prima che fosse costruita Stonhenge, un cerchio di grandi
pietre scoperto in una cava sull'isola di Lewis, al largo della costa nord-occidentale della
Scozia. "E' l'unico cerchio di pietre che abbiamo mai trovato costruito in una cava, e il cerchio
potrebbe indicare la consacrazione della cava", ha spiegato Colin Richard, dell'Università di
Manchester. "Non esistono molti cerchi di pietre in queste condizioni - afferma l'archeologo -
e io non ne ho mai visti edificati in questo modo prima di ora". Lo scopo dei cerchi di grandi
pietre, di cui esistono diversi esempi nelle isole britanniche, costituisce tutt'ora un enigma per
gli studiosi, ed è oggetto di acceso dibattito: alcuni ipotizzano una loro destinazione a luogo di
culto religioso, mentre altri li interpretano come strumenti di osservazione astronomica a
scopo calendariale (gli allineamenti delle pietre corrispondono a precisi punti sull'orizzonte
nei quali determinati astri sorgono in giorni significativi del calendario, quali - per esempio solstizi o equinozi).
Il tumulo di Newgrange poi, in Irlanda, manifesta chiaramente tale arcaico interesse per gli
astri. Esso è, in sostanza, un complesso osservatorio astronomico.
E che dire del meccanismo di Anticitera?...
(Figura 14)
... o delle Piramidi di Giza e così via?
Insomma, per una comunità che ha dato poi origine al pensiero astratto e a tutte quelle
conquiste che hanno fatto parlare di "miracolo greco" custodire e utilizzare un oggetto
scientifico non è, e non deve sembrare, poi così strano. Semmai ci sarebbe da stabilirne
l'origine, della fattura intendo dire, e ammesso che non sia d'origine minoica; ma credo che
questo sia ancora di là da venire.
In ogni caso il Disco di Festo non testimonia un linguaggio; se non quello della scienza.
Intanto è stato ritrovato nella parte più recondita del palazzo, custodito in un alloggiamento e
al riparo dalla vista e dalle mani di eventuali malintenzionati. Doveva trattarsi davvero di un
pezzo unico. Non presenta segni d'uso o abrasioni. Segno che non poteva servire ad ogni pie'
sospinto. A tal proposito fa sorridere l'ipotesi dell'illustre prof. Faure (ma anche i grandi
talvolta prendono qualche cantonata) che sostiene trattarsi di un "gioco dell'oca"; in tal caso il
reperto avrebbe conservato i segni di un uso magari abbastanza prolungato e, forse, poco
attento. E invece no. La superficie è perfetta, e più ancora i segni che sono stati incisi con
punzoni sicuramente di materiale duro e ben intarsiato e che non presentano sui bordi rottura
o abrasione alcuna. Ne deriva che doveva trattarsi di un oggetto considerato rarissimo, da
tutelare con la massima cura. Forse una matrice, su cui far aderire altro materiale in argilla per
utilizzarlo per i sapienti di corte; ma comunque un oggetto ben diverso da altre tavolette in
caratteri minoici - quelle sì - che erano incise con caratteri di scrittura e su materiale
deperibile come l'argilla cruda.
Cerchiamo ora di esaminare numeri e rapporti numerici che si riesce a leggere sul disco,
anche se lo spazio virtuale a nostra disposizione non permette per ora un esame dettagliato né
approfondito.
Sopra si diceva del numero 19. In effetti se si considerano i rapporti numerici del meccanismo
di Anticitera viene fuori che quel numero 19, che sembrerebbe a prima vista così peregrino
ritorna - è il caso di dire - nel calcolo del moto della luna attorno al sole. Infatti le 20 ruote
dentate di tale meccanismo avevano la funzione di riprodurre il rapporto 254:19
indispensabile per ricostruire il moto della luna in relazione al sole: la luna, infatti, compie
254 rivoluzioni siderali ogni 19 anni solari.
S'è ricordato pure il tempio megalitico di Stonehenge. Ebbene, noi sovrapponendo l'immagine
del disco su quella della pianta del tempio megalitico abbiamo notato delle cose di un certo
interesse:
- che la linea ideale che congiunge l'immagine del guerriero (1° cartiglio) a quella del
guerriero (8° cartiglio) coincide col sorgere del sole al solstizio d'estate;
- che la linea ideale che congiunge l'immagine dello scudo (1° cartiglio) a quella dello scudo
(8° cartiglio) coincide col sorgere della luna al solstizio d'inverno;
- che la linea ideale che congiunge l'immagine del guerriero (16° cart.) a quella del guerriero
(10° cart.) coincide col sorgere della luna al solstizio d'estate. A questo proposito ci si
potrebbe chiedere come mai il rapporto qui avviene in maniera retrograda (16° / 10°).
Semplice: ciò indica lo sfasamento del numero dei giorni del nostro satellite in relazione alle
diverse lunghezze dei mesi, che, calcolati sul ciclo sinodico della luna non coincidevano
ovviamente con la levata del sole o con quella eliaca di Sirio. Cosa confermata dalla linea che
congiunge l'immagine dello scudo (stessi cartigli) e che determina uno spostamento di 4° in
senso orario, in relazione al punto esatto della levata dell'astro in quella stagione.
- La cosa è del resto confermata dalla linea che congiunge l'uccello (22° cartiglio) a quella
dell'uccello (25° cart.). Qui, difatti, individua il punto in cui il nostro satellite sorge al solstizio
d'inverno quando sono presenti le medesime condizioni; cioè quando c'è discrepanza fra il
ciclo sinodico e la levata del sole o con quella eliaca di Sirio: la differenza è in questo caso di
19°, ed il moto avviene in senso antiorario.
Tutte cose che anche noi, oggi, registriamo dato che neppure il nostro calendario è perfetto e
che pertanto entrata delle stagioni pleniluni eccetera non avvengono mai nel medesimo
momento e nella medesima data dell'anno precedente.
Su altre caratteristiche del disco in rapporto al tempio di Stonehenge si sta ancora indagando.
E proprio per questo un altro argomento è qui importante sottolineare; e cioè che il disco in
questione appare anche come un antico primitivo calendario lunisolare come tanti in uso
nell'antichità pre-storica ed oltre. Ovvero, come un calendario che teneva conto di un doppio
ciclo astronomico: quello iniziale basato sul calcolo del periodo di rivoluzione lunare che è di
ca. 28/29 giorni, e quello successivo solare (senza correzioni, come sopra s'è già detto) che ad
esso si sovrappone e lo completa lasciando al computo del tempo delle lunazioni il compito di
fissare festività e operazioni agricole che alla dinamica della luna erano legate.
Cioè, in buona sostanza, un astrolabio che teneva conto scientificamente del "codice stellare",
e di una sorta di agenda che serviva per attività quotidiane.
Presso altri popoli, più o meno "primitivi" (secondo l'accezione che ne possiamo dare noi,
moderni e "civilizzati") sono stati in uso calendari abbastanza simili; specie presso Atzechi e
Maya. Testo fondamentale, a tal riguardo, è quello contenuto nel Codice Dresda. Pare che i
Maya non possedessero le conoscenze necessarie per determinare se un'eclisse di sole fosse
visibile nelle zone in cui abitavano, ma sembra che anche le eclissi non visibili siano state da
loro previste ed accuratamente registrate. Esistono difatti nel Codice di Dresda alcune tavole
relative alla previsione delle eclissi.
Assai antica è poi in Egitto la pratica, connessa ovviamente a quella matematica di cui sono
testimonianze in antichi papiri e testi, dell'astrologia e dell'astronomia come risulta dall'analisi
dello "zodiaco di Denderah" e dall'attenzione che gli Egizi riservarono al computo dell'anno.
D'altra parte ci corre l'obbligo di dire, senza con ciò nulla togliere al "divino" Caio Giulio
Cesare, che la riforma che prende nome da lui (quella del calendario giuliano) ebbene la si
deve forse alla cultura egizia. E' notizia abbastanza recente del ritrovamento di un testo
trilingue in cui si fa appunto riferimento alla riforma del calendario fatta sotto Tolomeo III
Euerghete, ragion per cui quella che va sotto il nome di riforma "giuliana" deve essere almeno
in parte ridimensionata: Caio Giulio Cesare avrebbe in ogni caso utilizzato o perfezionato (lui,
o il suo staff di scienziati) un sistema già intuito ed elaborato quasi un paio di secoli prima.
Ma continuiamo, ancora un po', a parlare di calendari "arcaici". Gli antichi babilonesi, come
s'è appena detto, usavano un calendario lunisolare di 12 mesi lunari di 29 o 30 giorni ciascuno
e, per recuperare l'accordo con il ciclo delle stagioni nonché con la durata dell'anno solare,
aggiungevano 5 mesi ogni 12 anni.
Gli antichi egizi, i primi a sostituire il calendario lunare con quello solare, fissarono la durata
dell'anno in 365 giorni, ripartiti in 12 mesi di 30 giorni ciascuno con l'aggiunta di 5 giorni
supplementari. Perché l'inizio dell'anno cadesse sempre nello stesso giorno, coincidente per lo
più con l'inondazione del Nilo, intorno al 239 a.C. il re Tolomeo III ordinò che si
aggiungessero un giorno ogni 4 anni e dieci giorni ogni 40 anni, introducendo così una sorta
di moderno anno bisestile.
Il Disco di Vladikavkaz
Un giallo nel giallo. Si pensava, fino a poco tempo fa, che il Disco di Festo fosse un reperto
unico al mondo; e invece ecco che spunta fuori una sorta di "Festo 2" che rimette in ballo
tante cose, ivi incluse le certezze che il reperto sia venuto da est e con esso, tutto sommato, gli
inizi della nostra civiltà occidentale. Insomma, tutta la fase arcaica della nostra civiltà
occidentale pare costellata da manufatti circolari che sembrano provenire dal Nord e che
richiamano senza ombra di dubbio quanto gli storici antichi scrivevano.
(Figura 15)
Secondo le notizie disponibili, una casa localizzata a Vladikavkaz era oggetto nel dicembre
1992 di una pulizia della cantina. Questa casa di mattoni a due piani fu costruita
probabilmente alla fine del XIX secolo. Tra i detriti tolti della cantina furono scoperti un
frammento di disco in terracotta, coperto su una delle facce di segni sconosciuti. L'autore del
ritrovamento dell'oggetto, rimasto anonimo, lo portò al museo della Repubblica dell'Ossezia
del Nord.
Il disco di Vladikavkaz è fatto di argilla pura di colore marrone chiaro, la marca di una tavola
è visibile al rovescio. La forma discoidale è attestata dalla curva del bordo rimanente che
permette di restituire un diametro di 10 cm. Lo spessore al centro è di 1,1 cm, e il disco si
assottiglia verso il bordo dove non misura più di 0.5 cm di spessore. Le spaccature portano
una patina chiara e danno l'impressione di essere vecchie.
Il disco di Vladikavkaz è per alcuni una tappa intermedia per la realizzazione del disco di
Phaistos, un prototipo della prima faccia. Potrebbe epperò essere un falso... .
La cosa strana è che, di recente, pare che di tale frammento si sia persa traccia!
In ogni caso non vedo perché il disco di Festo dovrebbe, in un tale contesto, apparire come
una superba eccezione.
Il disco di Nebra
Mittelberg: una collina di 252 metri nel sud-ovest della foresta di Ziegelroda a 180 km di
Berlino, in Germania. Gli archeologi stanno studiando con molta attenzione un luogo in cima
alla collina dove è stato trovato nel 1999 un disco in bronzo e oro di 32 cm risalente ad oltre
3.600 anni fa, come viene fuori dalle anche dalle analisi di Harald Meller archeologo nello
Stato di Sassonia-Anhalt. Il Mittelberg è vicino alla cittadina tedesca di Nebra da cui il disco
ha preso il nome. Questo disco rappresenta ad oggi la più vecchia rappresentazione concreta
delle stelle nel cielo. Il disco traccia 32 stelle, comprese il gruppo delle Pleiadi: esse
compaiono sull'orizzonte in riferimento ad una montagna locale il Brocken.
Il ritrovamento è avvenuto, come s'è appena detto, vicino al villaggio di Nebra situato presso
Mittelberg, una collina alta 252 mt nella foresta di Ziegelroda, a 50 km ad ovest di Lipsia,
nella Germania orientale. Il sito ha nome Gosek, ed è senza dubbio il più antico sito
preistorico che abbia indubbie relazioni con la lettura del cielo e con dati indubbiamente e
inequivocabilmente astronomici. Pare sia vecchio di ben 7000 anni. Dato non trascurabile:
nello stesso sito sono state ritrovate anche delle spade di tipo miceneo.
La cosa può essere d'estremo interesse se si tiene conto del fatto che anche a Stonehenge c'è
un graffito che ricorda una spada micenea!
Il disco di Nebra è un manufatto circolare in bronzo e oro datato 1600 a.C. circa, con un
diametro di 32 cm. con raffigurati sole, luna e stelle tra le quali si distinguono le sette Pleiadi;
o almeno il gruppo delle 7 stelle visibili ad occhio nudo che fanno parte della costellazione
delle Pleiadi. Il disco di Nebra sembrerebbe, così, essere la più antica rappresentazione di
stelle in assoluto... ma il Disco di Festo è indubbiamente più antico e più complesso.
(Figura 16)
Questo singolarissimo ritrovamento archeologico, sembra corroborare gli stretti legami tra
l'Europa centro-settentrionale e il mondo miceneo e poi omerico evidenziati dagli studi di
Rosario Vieni, di Harald Haarmann, e di Felice Vinci.
Il disco è il perfetto pendant dei versi del XVIII libro dell'Iliade in cui Omero illustra le
decorazioni astronomiche fatte dal dio fabbro Efesto sullo strato in bronzo posto al centro
dello scudo di Achille: "Vi fece la terra, il cielo e il mare, / l'infaticabile sole e la luna piena, /
e tutti quanti i segni che incoronano il cielo, / le Pleiadi, le Iadi, la forza d'Orione".
I reperti di Nebra insomma mostrano lo stretto rapporto, per così dire "triangolare", che,
attraverso l'archeologia, si può stabilire tra il mondo nordico della prima età del bronzo,
quello omerico (lo scudo) e quello miceneo (le spade).
Ciò d'altronde è perfettamente in linea con quanto afferma Stuart Piggott - grande accademico
ed archeologo, professore di archeologia preistorica all'università di Edimburgo - nel suo
Europa Antica: "La nobiltà degli esametri [di Omero] non dovrebbe trarci in inganno
inducendoci a pensare che l'Iliade e l'Odissea siano qualcosa di diverso dai poemi di
un'Europa in gran parte barbarica dell'Età del Bronzo o della prima Età del Ferro. "Non c'è
sangue minoico o asiatico nelle vene delle muse greche... esse si collocano lontano dal mondo
cretese-miceneo e a contatto con gli elementi europei di cultura e di lingua greche", rilevava
Rhys Carpenter.
A quanto pare, alle spalle della Grecia micenea... si stende l'Europa.
Ma se si trattasse solo di una raffigurazione del cielo e dei corpi celesti più importanti o
evidenti, tutto sommato sarebbe poca cosa. Certo indicherebbe l'interesse che ebbero quelle
genti per il cielo, non dissimile però dagli analoghi interessi di molte altre genti in tante altre
contrade della Terra.
Qui, nel Disco di Nebra, c'è molto di più.
Oltre alla meraviglia per il cielo stellato espressa dal colore del bronzo e dal fulgore dell'oro,
c'è chiara l'attenzione, la speculazione, la curiosità, e l'approccio nettamente scientifico di un
popolo che nel pieno dell'età del Bronzo seppe riconoscere e fissare nella materia punti
fondamentali della vita delle stelle e della propria.
C'è il sole. Ed è ovviamente pieno, maschile, nordico. Con tutto il valore che tale astro poteva
avere ad una latitudine che non era certo quella nostra, mediterranea.
La luna è appena una falce.
Innanzitutto per distinguerla dal sole, di poi perché essa rappresenta il femminile del creato,
quasi un'appendice dell'astro maggiore, così come è per tali nuovi popoli la donna in una
società di tipo nettamente patriarcale.
Ma essa è il simbolo per eccellenza della vita. E' la "culla" presso cui, la notte, la donna veglia
accanto al futuro degli uomini; è la vela che ci ha portati alla vita; è parimenti la barca che ci
condurrà nel regno delle ombre; è l'arco che sprizza energia vitale e dà sostegno al quotidiano
o ci salva dalla violenza del nemico.
Non a caso la casta Artemide è cacciatrice e simbolo della purezza incontaminata.
Non a caso Ovidio, a proposito dell'arco che si tende, cantò Lunavit arcum... .
E' un simbolo, o forse il simbolo per antonomasia; compagna di poeti e musicisti, consolatrice
della notte che solo essa riesce a vivificare.
Ma, tornando a Nebra, rappresenta probabilmente lo scorrere del tempo perché essa ci
fornisce il primo computo complesso di quello che sarà poi il nostro "mese".
Quello che però è veramente rimarchevole, e stupefacente, è dato da due elementi che stanno
lungo la circonferenza del disco e che individuano 4 punti fondamentali sull'orizzonte
terrestre.
Le due fasce laterali (quella di sinistra è mancante) che corrono lungo la circonferenza, alla
loro estremità individuano 4 punti che stanno ad indicare rispettivamente il sorgere e il
tramontare del sole nei due solstizi. L'arco di raggio spazzato è esattamente di 82°.
Esattamente quello che è coperto dal moto apparente del sole sull'orizzonte nella località del
ritrovamento.
Analisi del manufatto
1
Una prima osservazione va rivolta alla fattura complessiva del Disco. Le immagini incise, con
punzoni di osso o di un metallo raro, sono perfette e senza slabbrature ai bordi, senza lesione
alcuna. Unico appunto - e anche questo la dice lunga sulla "complessità" dell'oggetto - che si
può muovere a quell'antico artigiano è l'apparente improvvisazione, quasi addirittura la
rozzezza delle linee divisorie che a spirale fanno da "supporto" al "testo", in contrasto sia con
la purezza dell'argilla impiegata e la perfezione della cottura, sia con l'abilità e la precisione
nella costruzione delle "matrici" (i punzoni impiegati per stampare). Ma questo si spiega col
fatto che tale apparente imperfezione delle spirali era funzionale alla sistemazione dei simboli
che doveva essere necessariamente molto accurata e precisa.
Se si fosse trattato di linguaggio, di un testo voglio dire, ciò non sarebbe stato necessario.
Così, invece, ogni simbolo andava sistemato in un suo spazio ben preciso, e l'artigiano
presumibilmente, piuttosto che tracciare prima e in maniera esatta le spirali, preferì mano a
mano tracciarne un pezzo, sistemare i simboli, e in tal modo procedere.
Se ne deduce che:
- intanto l'oggetto non poteva essere un utensile di uso quotidiano;
- verosimimente era una "matrice" che poteva eventualmente essere utilizzata per farne delle
copie perfette adattandovi sopra e premendovi dell'argilla cruda o altro materiale molle.
La pratica, del resto, era abbastanza in uso nelle civiltà mesopotamiche. Anche per ragioni
didattiche. Viene fuori qui, infatti, un'altra considerazione: i segni appaiono "rivoltati". In tal
caso la loro lettura andrebbe fatta rovesciata, allo specchio, e non come comunemente
avviene. Questo è un dato che pare sia sfuggito a tutti i ricercatori che si sono cimentati,
inutilmente, col Disco di Festo. Difatti, a sostegno di codesta tesi, v'è un altro elemento
probante. Normalmente chiunque tracci il profilo di un volto lo fa orientando il naso verso la
sinistra; qui avviene l'incontrario. Ma tutto il "testo" appare all'incontrario, tracciato in
maniera retrograda. E se con la scrittura ciò potrebbe essere comprensibile, ove però si
utilizzassero strumenti meccanici su superfici dure, non lo è su materiale molle, di codesta
epoca, e con disegni. Lo stesso avviene con altri segni: tanto per citarne alcuni, ad es., quelli
della nave, della figura femminile, di un altro viso, di varie figure, della colomba o di altro
uccello, e di quelle figure geometriche rivolte apparentemente a destra mentre la "grafia" è
chiaramente retrograda; o dell'omino che cammina, etc.
Sembrerebbero particolari insignificanti, ma così non è. Del resto, e la cosa ci conforta, la
nostra osservazione concorda con quella fatta a suo tempo da Evans, il quale affermava che il
testo andava letto dal centro alla periferia proprio per via delle figure; allo stesso modo si
esprime Pugliese Caratelli (sul problema del labirinto).
Ma forse la riposta potrebbe essere un'altra. In effetti le figure furono correttamente tracciate:
chi realizzò i punzoni incise i segni nella maniera giusta, ma al momento in cui furono
impressi sull'argilla ogni immagine risultò ruotata e capovolta. Oppure il nostro disco è stato a
sua volta realizzato come copia su argilla di un originale, proveniente chissà da dove, oppure
rinvenuto altrove o altrove "consultato". Ciò potrebbe spiegare l'irregolarità apparente delle
figure.
Un altro elemento da tenere in considerazione è che, ad onta di quanto appena sopra affermato
(e cioè che i caratteri siano stati impressi con singoli punzoni "mobili") alcuni segni non
risultano perfettamente identici sulle due facce del reperto. Il particolare pare non sia stato
notato dagli "addetti ai lavori", né vi fa accenno alcuno Godart nel suo testo del '94. Eppure il
fatto dovrebbe invece far riflettere. Perché la tecnica d'incisione e le sue varie fasi possono far
luce, anche se solo in parte, sullo scopo del Disco e sul suo utilizzo. Diamo ovviamente per
certo che il Disco sia stato realizzato con caratteri mobili.
Una nota sulla sistemazione di alcuni segni. In un oggetto così unico e particolare non credo
che le cose siano state affidate al caso. Voglio dire che prima di imprimere i segni chi lo fece
dovette prima controllare che lo spazio fosse, come s'è detto, sufficientemente bastevole
perché, ovviamente, non si poteva poi procedere ad abrasioni o cancellazione alcuna; ragion
per cui se troviamo dei segni sistemati in maniera non usuale dobbiamo per forza di cose
congetturare che sia stato volutamente così deciso. Mi riferisco non soltanto alle seqq. 4 e 5
del Lato A dove alcuni segni appaiono compressi e la testa piumata appare ruotata di 45°, ma
anche alla seq. terzultima dove l'immagine del disco appare spostata al di sopra del rigo ideale
di scrittura e la solita testa piumata appare qui ruotata di quasi 90°.
Avrà, tutto ciò, un significato?
2
I dati numerici che la lettura del disco ci offre sono di diverso tipo, e ciò dimostra la
complessità del reperto. Dicevamo già del dato fondamentale di base: le varie spire del disco
ci indicano chiaramente che era già presente alla conoscenza di quelle genti il fatto che
bisognasse trattare i numeri sul 3 e sui suoi multipli: le spire in successione indicano su di un
verso le sequenze 12-9-6-3-1, e sull'altro 12-9-6-3.
C'è poi un altro elemento che ci dice della sua complessità: l'ultimo segno di sequenza - ora
vedremo quale - reca un'appendice che di certo non è stata posta a caso. Fra l'altro è questo un
ulteriore dato che esclude che si tratti di scrittura, perché non se ne comprende il senso né
l'utilità e perché in nessun'altra scrittura, conosciuta o non, è indicato un tale segno diacritico
(un tratto verticale o appena obliquo). Esso appare in:
lato A
lato B
1(5), 3(3), 12(5), 15(2), 16(4), 19(4), 21(2), 22(4), 27(3);
3(4), 20(3), 21(5), 24(3), 26(5), 30(2).
I segni "sottolineati" con tale tratto sono complessivamente 9 sul lato A, e 6 sul lato B.
Si potrebbe a questo punto, però, a proposito delle spirali muovere un'obiezione che non
appare del tutto indegna. Mi è stata mossa, tramite una e-mail, dall'illustre prof. Jean
Faucounau, autore di un testo, in due piccoli tomi, per l'appunto sul Disco in questione (non
c'è bisogno quasi di aggiungere che anche lui propende per un "testo"): sulla spira esterna del
lato A la serie di cartigli, o sezioni che dir si voglia, non parrebbe di 12 ma di 13.
Ma la questione sembra abbastanza semplice da spiegare. Intanto c'è da ribadire che ogni
cartiglio, ogni sequenza è "polisemica". Voglio dire, ogni elemento del disco contiene e
fornisce più dati. A questo proposito fa testo sì il passaggio dal computo per decina a quello
più moderno sul 3 e suoi multipli, ma pure dell'altro. Il disco reca testimonianza cioè di una
prima e più arcaica fase in cui i mesi erano 13 e non 12. E questo perché - ed è caratteristica
che appartiene alle più disparate culture arcaiche - tanti erano i mesi computati sul periodo
lunare che, come sappiamo, è di circa 29 giorni.
Poco prima s'è detto delle appendici che individuano alcuni segni sulle due facce.
(Figura 17)
I segni caratterizzati da quell'appendice, di cui abbiamo appena detto, sono 9 sul lato A e 8 sul
lato B. Perché? Semplice. Se sottraiamo tale numero al numero complessivo dei cartigli che
appaiono su ogni facciata del Disco otteniamo la medesima cifra; e cioè 22. 31 meno 9 fa 22;
30 meno 8 fa ugualmente 22. Che significa? La cosa può essere messa in relazione con
l'arcaico computo dei periodi e delle attività che avvenivano in collegamento alle fasi lunari:
esattamente al periodo in cui la luna era, ed è, visibile nel cielo (di qui il legame con quel 13 il tredicesimo cartiglio della prima spira del lato A).
3 - magia dei numeri
2,7
27 = 128
Nell'aprile di due anni fa scrivevo al Prof. Bartocci per avere lumi su quelle serie che mi
sembravano non casuali.
Ricevevo, il 21, la Sua risposta nella quale mi diceva d'aver girato anche ad altri le serie
numeriche e d'aver ricevuto "...una prima risposta assai interessante dall'Amm. Flavio
Barbiero", che così gli scriveva "... Ho il sospetto che sia correlato al calendario, più
precisamente al ciclo dei 128 anni, e che la sua soluzione potrebbe riservare grosse
sorprese."
Nell'allegato l'Amm. Barbiero aggiungeva:
"Caro Umberto,
In effetti le serie che mi hai inviato mi dicono qualcosa. Mi ricordano molto da vicino le serie
di abaci che a suo tempo avevo inventato (una specie di divertissement), occupandomi del
calendario.
Ti allego alcuni appunti che avevo preso a suo tempo, da cui puoi prendere visione di questi
abaci, del loro significato e funzionamento.
Ho il sospetto che queste serie abbiano un significato calendariale, siano cioè una sorta di
abaco "magico" da cui si possano ricavare tutti i numeri significativi del calendario, se si
scopre il modo di utilizzarle. Il sospetto mi viene dal fatto che utilizzando queste serie nel
modo spiegato negli appunti allegati, mi vengono numeri assolutamente significativi da un
punto di vista calendariale, legati in modo particolare al ciclo dei 128 anni.
Ad esempio, le prime tre righe della serie a):
5
4
5
3
5
3
4
5
3
3
3
5
0
0
0
0
0
0
2700
675
135
45
15
2
6
4
2
7
4
2
6
2
0
0
0
0
3
0
0
0
0
64800
32400
5400
1350
672
96
24
12
3
4
3
4
7
4
l
5
0
2
4383
1460
360
120
28
Se scrivo la quarta riga nel seguente modo: 4+7+4+3+4+3 = 25; e la quinta 3×(7+2) = 27,
25×27=675. Questo, che mi esce due volte nello sviluppo degli abaci, è un numero
fondamentale e caratteristico del calendario basato sul ciclo dei 128 anni. Infatti
675×128 = 86400, che è la lunghezza del ciclo in anni, ma anche del giorno in secondi.
1460+1 è il numero sothico (numero dei giorni interi in quattro anni); 64800/3=21600, altro
numero fondamentale dei calendari antichi, presente in tutte le mitologie insieme al 27,
54,108 e così via.
Da notare che questi numeri sono presenti anche in un "promemoria" criptico (di sicuro
significato calendariale), inserito in un passo della Bibbia (Numeri 31,32-47) qualche
millennio fa."
[Segnaliamo, ad evitare incomprensioni, che abbiamo riportato il testo dell'Amm. Barbiero
esattamente così come ci è stato trasmesso, anche se erroneamente subito dopo la tabella è
scritto "la quarta riga" e poi "la quinta", laddove si volevano intendere invece "la terza riga" e
"la quarta". Infatti l'Amm. Barbiero ha preso le righe delle serie numeriche dianzi elencate per
il lato A, e le ha sistemate in colonna, partendo dal basso - si comprenderà subito a quali
colonne ci si riferisca. Ha però inserito solo le prime 3 righe, e pensando ovviamente alla
quarta e alla quinta non incluse nel grafico, volendo spiegare la terza ha detto "quarta", mentre
per la quarta (ripetiamo, non presente nella tabella) ha detto "quinta". Notiamo pure che, se si
parte dal basso di una delle colonne corrispondenti alle righe in oggetto, e si moltiplica ogni
numero per quello che si trova immediatamente al di sopra, si ottengono i valori che
compaiono nella colonna quasi contigua. Strettamente contigue sono delle colonne che (a
contare sempre dal basso) rappresentano le correzioni che di volta in volta, e in maniera
empirica, si possono apportare, ovvero le aggiunte di giorni che vanno effettuate per
mantenere il fasamento con l'anno solare - l'anno puro viene indicato con lo zero.]
Non sarebbe una perdita di tempo applicare tale struttura d'abaco alle nostre serie numeriche,
e verificare via via i risultati ottenuti. Esse, in effetti, si possono già visualizzare in parte nella
griglia sopra descritta. Se è così il Disco di Festo si pone anche come il primo calendario
moderno, più moderno e più preciso di quello, il gregoriano (correzione del giuliano), che noi
attualmente utilizziamo.
"La durata di un anno solare è stata misurata (alla quarta cifra decimale) in 365,2422 giorni
solari. Per mantenere il fasamento fra calendario e anno solare, normalmente si aggiunge un
giorno ogni quattro anni di 360 + 5 giorni ciascuno. Si ha quindi un anno (detto giuliano) di
durata media 365,25 giorni, 0,0078 giorni più lunga di quella dell'anno solare. Pertanto, dopo
1/0,0078 = 128,205 anni, si ha un eccesso di 1 giorno intero, che va detratto.
In un ciclo di 128 anni, la differenza fra l'anno medio e l'anno solare risulta di 1,08 secondi.
Per avere un intervallo di tempo esattamente divisibile per il secondo, dobbiamo moltiplicare
128 per 12,5 e si stabilisce così un ciclo di 1600 anni, contenenti esattamente 50.491.081.728
secondi." (da: Flavio Barbiero, Origine e significato del valore dell'unità di misura del
tempo, 9 novembre 1996).
Pertanto, con un tale calendario lo scarto in 128 anni sarebbe di soli 1,08 secondi, mentre con
quello che noi utilizziamo esso è di 1 giorno intero. A dir poco meraviglioso, stupefacente, e
(nel senso migliore del termine) anacronistico. Apparentemente anacronistico, stando a
quanto di solito si racconta sulle magnifiche sorti progressive della nostra società in
opposizione alla barbarie e all'arretratezza dei tempi antichi.
Nota finale
Non crediamo di aver esaurito così quanto c'era e c'è da dire sul manufatto in questione.
La complessità di esso è, difatti, tale che sono certo che mi ci vorrà tanto altro tempo... per
dipanare in maniera completa ed esaustiva un tale "labirinto" di informazioni.
Dante ebbe a scrivere nella sua Commedia che "poca favilla gran fiamma seconda...". Sono
certo, a questo punto, che altri (più attrezzati di me) sapranno essere quella gran fiamma.
Io, per conto mio, continuerò a lavorarci e se mai caverò fuori dell'altro i lettori di Episteme
saranno i primi ad esserne informati.
Se poi - così chioseranno i micenologi ortodossi, ne sono certo - dovessi io essere in errore,
ebbe c'è un modo semplicissimo per dimostrarlo.
Traslitterare per benino e tradurre un tale testo.
Cosa impossibile però, quando non si conoscano né la lingua né il codice linguistico che la
sottende.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 5 di Episteme.]
[email protected]
Due brevi iscrizioni epigrafiche inedite
(Rosario Vieni)
Si tratta di due brevi testi di cui sono venuto a conoscenza occasionalmente, e che ho potuto vedere, il primo in
riproduzione fotografica, il secondo dal vivo, ma senza che mi venisse permesso di scattare una foto o di
analizzarlo in maniera compiuta.
1
Il primo testo viene dalla Grecia, e precisamente da una baia nei pressi di Salamina o, comunque, lì vicino. Così
mi è stato assicurato.
Chi ha ritrovato il reperto, su di un fondale presso un'isoletta di cui mi è stato taciuto il nome (peraltro la notizia
e foto del reperto mi sono state inviate per lettera, e la lettera non era firmata !), non ha voluto dirmi di più.
Su di un vaso a bocca larga, alto non più di 20 cm, si legge chiaramente:
(Figura 1 - Iscr. Salam.)
Si tratta di appena 5 segni, di cui due ripetuti.
Appare verosimile che il ritrovamento sia avvenuto nei pressi di Salamina, in quanto il reperto ha chiara
attinenza con la scrittura eteo-cretese.
2
La seconda delle iscrizioni è invece totalmente italica, è più ampia, e appare più significativa sotto il profilo
linguistico, visto pure che il ritrovamento è avvenuto nei pressi di Roccelletta di Borgia (Catanzaro), zona di alto
interesse archeologico.
Come si diceva, possiamo solo riportare copia del testo che abbiamo osservato per il tempo appena necessario a
trascriverlo (si trovava su due tavole in pietra d'arenaria, le cui dimensioni, stimate ad occhio, erano di 20 cm per
40).
(Figura 2 - Tav. Cal.)
A dire il vero il testo, che qui riportiamo in una nostra trascrizione, è incompleto; non ci è stato permesso, difatti,
di riprodurlo integralmente. Il giovane autore del ritrovamento, non solo è stato assai vago sulle modalità dello
stesso e sul luogo esatto, ma, invitato a darne comunicazione alla locale Sovrintendenza e richiesto di farmi
fotografare il reperto, ha preferito in tutta fretta raccogliere il materiale e andarsene senza altro aggiungere. Né io
lo conoscevo, ragion per cui mi son dovuto accontentare di quanto, fortunosamente, ero riuscito a documentare.
Forse avrei dovuto offrirgli del denaro, ma ciò mi riusciva, sotto il profilo deontologico, terribilmente ostico.
Non ho saputo più nulla di quella persona né di quel reperto, e dubito che ne abbia dato notizia alle autorità
competenti.
I fatti della mia vita, poi, mi portarono altrove, e solo ora, rovistando fra le mie cose, ho ritrovato la mia vecchia
riproduzione di quel testo, forse non totalmente indigeno.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 5 di Episteme.]
[email protected]
Un'antica sinagoga nel cuore paleocristiano di Cimitile?
(Sabato Scala)
La Basilica dei Martiri nel complesso Paleocristiano di Cimitile
Il complesso di Basiliche paleocristiane di Cimitile in provincia di Napoli, purtroppo ancora
poco noto nel panorama dei tesori archeologici d'Italia, è stato definito dal Lehmann [1],
archeologo tedesco che ha attivamente operato e studiato il sito, una vera e propria Pompei
della cristianità.
Il complesso sorto intorno ad una antica necropoli ed al culto per la locale tomba di un Santo
di cui si sa davvero poco, San Felice, ha subito notevoli ampliamenti, adattamenti, rifacimenti
e ristrutturazioni a partire dal II secolo fino alle soglie del XVII secolo.
Il momento di maggiore sviluppo di questo antichissimo santuario è comunque connesso alla
instancabile attività, sia edilizia che di promozione, voluta da Ponzio Anicio Paolino,
importante esponente della aristocrazia romana nato a Bordeaux, che, dopo la conversione al
cristianesimo, venduti i cospicui beni di cui disponeva, si trasferì qui con la moglie Terasia
fondando un prestigioso monastero misto.
Il motivo del suo trasferimento, come ricorderà Paolino nel suo vasto epistolario e nei
numerosi carmi che ci ha lasciato, fu proprio la devozione particolare che maturò per San
Felice nata nel periodo della sua nomina quale governatore della Campania, ed alimentata
dall'enorme afflusso di pellegrini e dalla particolarissima passione religiosa per il Santo che
animò i campani.
Fu grazie ai numerosi ed importanti contatti che Paolino intrattenne con i maggiori esponenti
del clero del tempo a mezzo di un continuo invio di messi e di epistole che il complesso
basilicale di Cimitile aumentò la sua fama divenendo tra i più notevoli centri del cristianesimo
di allora dopo Roma e Gerusalemme.
Una vera e propria cittadella nacque e crebbe intorno al santuario e la fama del luogo continuò
quasi ininterrotta per oltre mille anni dopo la morte di Paolino alimentata, stavolta, non solo
dal culto per San Felice ma anche da quello per questo straordinario personaggio che oggi
possiamo continuare a conoscere e studiare grazie alla sua cospicua produzione letteraria ed
epistolare.
Il visitatore che decidesse di uscire fuori dai tradizionali corridoi turistici dell'Italia
meridionale recandosi a Cimitile, rimarrà sconcertato dalla varietà, sovrapposizione e
mutevolezza di forme espressive artistiche ed architettoniche che si presentano nei circa 9000
m2 del complesso. Lo sconcerto ed il disorientamento è il medesimo che prova anche lo
studioso che per la prima volta affronta lo studio di questo sito sul quale c'è ancora moltissimo
lavoro da compiere.
Indizi iconografici gnostici in alcune pitture della Basilica dei Martiri
Il mio interesse per il santuario è nato osservando una straordinaria ed unica raffigurazione
della Maddalena, una Maddalena Incoronata presente nella più antica e piccola delle basiliche
del complesso, la Basilica dei Martiri.
Alla Maddalena ho dedicato un'approfondita analisi nel contesto di uno studio sul culto
gnostico per la Santa [2]. Sinteticamente, sebbene non sia riuscito a raccogliere elementi che
ricollegassero con certezza il dipinto ad una presenza gnostica presso le Basiliche, ho
evidenziato una serie notevole di affinità tra la visione gnostica della funzione della
Maddalena e la descrizione che della Santa viene proposta nelle lettere del vescovo Paolino.
Queste affinità, comunque, sono da riconnettersi essenzialmente alla origine francese del
Santo, ed all'enorme sviluppo che il culto per la Santa ebbe in Provenza, regione vicina al
luogo di nascita di Paolino.
Una cosa è tuttavia evidente, nella bruna Maddalena Incoronata delle Basiliche di Cimitile si
incarnano e si sovrappongono in maniera mirabile gli elementi iconografici delle due figure
che Paolino indica come principali metafore della Chiesa, la Regina di Saba e, appunto, la
Maddalena. Singolare è il fatto che proprio tali figure avessero assunto un ruolo centrale in
ambito gnostico. Il mito di Sophia, espressione in ambito gnostico della morte e rinascita, e
sintesi stessa del percorso gnostico per la riscoperta in sé della scintilla divina, era spesso
simbolicamente rappresentato dalle figure della Regina di Saba e soprattutto dalla Maddalena.
Nel mio studio ho evidenziato vari elementi iconografici ma anche contestuali e documentali
che mi spingono a ritenere il dipinto molto precedente alla datazione in genere proposta: l'XI
secolo [2]. Non riprendo qui tali argomentazioni, che esulano dall'ambito della presente
trattazione, e che mi hanno spinto a suggerire il V-VII secolo come possibile datazione.
Tra i vari elementi che mi hanno portato a predatare la Maddalena, quello che maggiormente
interessa ai fini dell'analisi che intendo attualmente proporre, è legato alla collocazione del
dipinto: esso si trova all'interno di una zona incavata nel più antico muro del complesso e,
almeno in apparenza, non si evidenziano nelle parti mancanti dell'intonaco, fenomeni di
stratificazione e sovrapposizione pittorica che, invece, ritroviamo in molti dei dipinti delle
rimanenti basiliche.
Tralasciamo l'anomalo dipinto della seconda Maddalena a figura intera che campeggia a
destra della Maddalena Incoronata, anche qui caso unico di replica di una stessa figura in uno
spazio peraltro angusto e passiamo ad un altro caso iconografico straordinario e parimenti
unico: l'affresco di Adamo ed Eva.
Tale affresco viene datato al III sec. d.C. [3], e costituisce pertanto uno dei reperti più antichi
della storia cristiana, ma la sua straordinarietà non è solo nella datazione. In esso, infatti,
Adamo ed Eva appaiono senza il tradizionale albero e senza il serpente. L'albero è da sempre
iconograficamente legato al peccato originale come il serpente, sicché l'assenza di tali
elementi, sottolineata dal notevole spazio che separa i due personaggi, deve essere interpretata
come una chiara indicazione simbolica che l'artista ha voluto esprimere. Nel dipinto, come
nell'evento narrato pittoricamente, per l'autore non c'è peccato.
In ambito gnostico l'assenza del peccato è un argomento centrale ed ineludibile, per
comprendere ciò operiamo nuovamente una breve digressione.
Il cuore della Gnosi è una speranza di libertà e di liberazione basata su una singola idea:
nell'uomo è nascosta una scintilla divina. La Gnosi è il processo di "ricordo" e di
"ricostruzione" che porta l'uomo a riscoprire questa scintilla superando le nebbie dietro cui
essa si nasconde.
Il Demiurgo, il Dio creatore del mondo materiale che si crede onnipotente e vero Dio, ha
generato alcuni esseri malvagi: gli Arconti. Questi esseri sono quelli che combattono contro
l'uomo e cercano di ingannarlo per nascondergli la sua origine divina che lo rende superiore al
Demiurgo stesso e figlio del Padre del mondo spirituale: il vero Dio.
Per la Gnosi, quindi, non c'è peccato, poiché se peccato vi fu, la sua responsabilità è da
addossare interamente al Demiurgo.
In pratica, il presunto peccato di Adamo ed Eva diviene in ambito gnostico il momento del
riscatto e l'inizio della salvezza. E' nella disobbedienza al Demiurgo che l'uomo dichiara la
sua indipendenza ed apre la battaglia per la riconquista della sua scintilla divina.
E' chiaro, quindi, perché Sant'Agostino, che in origine era uno gnostico, temette e combatté
con veemenza l'eresia pelagiana, in apparenza così innocua. Tale eresia, infatti, metteva in
discussione proprio il battesimo e, portata alle estreme conseguenze, si configurava
chiaramente come gnostica.
Ecco perché, temendo una possibile deviazione dello stesso amico San Paolino, ed essendo
fortemente preoccupato che la rinuncia al mondo ed alla ricchezza da parte di Paolino potesse
nascondere molto più che un'eroica scelta di vita esemplare, Agostino lo ammonì
consigliandogli di sospendere il rapporto di amicizia con Pelagio.
Spieghiamo così il messaggio forte che potrebbe, il condizionale è d'obbligo, celarsi dietro
l'assenza dell'albero e del serpente nell'affresco di Adamo ed Eva.
Abbiamo, insomma, riscontrato una seconda antica anomalia nella piccola basilica dei
Martiri. E, anche qui, è interessante notare che l'immagine è collocata su una delle pareti più
antiche della più antica basilica del complesso paleocristiano cimitilese.
Reperti e documenti a testimonianza di una presenza ebraica a Cimitile
Veniamo adesso ad una nuova anomala scoperta, avvenuta nel 1988 e analizzata nel 1990 in
un articolo dell'archeologo tedesco Dieter Korol apparso sulla rivista Boreas [4]: si tratta del
ritrovamento di una antica lampada ebraica ad olio in terracotta su cui è raffigurata una
Menorah (il candelabro ebraico a 7 bracci - vedi Figura 1).
Il reperto, di origine sicuramente ebraica, è correlato dal Korol ad una serie di lanterne simili
ritrovate principalmente nel mediterraneo occidentale e di origine africana, o comunque
costruite ad imitazione di queste.
Sempre il Korol ricorda come il ritrovamento fosse stato preceduto da quello di un'altra
lucerna decorata con una conchiglia in una zona non distante da quella dell'altro ritrovamento.
La fabbricazione di questa lucerna sembrerebbe, invece, collocarsi in territorio tunisino.
La datazione proposta dal Korol per la seconda delle due lucerne varia tra la seconda metà del
IV secolo e la prima metà del VI secolo.
Relativamente, poi, al ritrovamento di oggetti simili tra le numerose tipologie di lucerne
analizzate, il Korol propone due soli esempi che alla presenza della Menorah nel disco
centrale aggiungono una serie di incisioni sulla spalla: una lucerna ritrovata ad Augusta e
l'altra a Cartagine.
Esiste, però una lucerna estremamente simile per forma e per analogo disegno della Menorah,
sebbene priva della serie di incisioni sulla spalla, che ci ha colpito per il particolare contesto
del ritrovamento: la lucerna di Aquileia (Figura 2).
Figura 1: Lampada ad olio ebraica con Menorah
rinvenuta negli scavi archeologici effettuati
presso le Basiliche di Cimitile
Figura 2: Lampada ad olio ebraica con
Menorah rinvenuta presso le rovine di
Aquileia
La lucerna viene proposta nell'ambito di uno studio di Samuel Kurninsky sul mosaico
pavimentale contenuto nel Museo paleocristiano di Aquileia [5].
Lo studio del Kurisky è teso a dimostrare come il mosaico pavimentale sia appartenuto ad una
antica sinagoga ebraica, e come l'intera regione sia stata, intorno al IV secolo, oggetto di una
forte immigrazione ebraica.
Il Kurisky, estendendo l'analisi applicata al mosaico del Museo paleocristiano, ritiene di poter
identificare anche nel mosaico pavimentale della cattedrale di Aquileia elementi di origine
ebraica che lo farebbero associare ad una antica sinagoga.
E' singolare osservare come Renato Jacumin, nella appendice alla Pistis Sophia a cura di
Luigi Moraldi, consigli, invece, una lettura gnostica della medesima opera musiva, utilizzando
gli strumenti simbolici di questo antico testo [6].
Tornando, invece, al lavoro del Korol, desideriamo segnalare un'altra lampada degna di nota,
ritrovata ad Atripalda presso Avellino (Figura 4), databile al quarto secolo ed ora conservata
presso il Museo di Gerusalemme [15].
Figura 3: funzionamento di una antica lampada
ad olio di tipo Nordafricano
Figura 4: Museo di Gerusalemme, lampada
ebraica proveniente da Atripalda (AV)
L'importanza di tale lampada risiede, prima di tutto, nella rarità dello stampo. Come fa notare
il Korol segnalando uno studio del Pavolini [16], lampade simili sono presenti solo in Italia ed
in Tunisia, ma non si fa menzione della lampada qui illustrata.
Il secondo elemento di rilievo, a nostro avviso, è la relativa vicinanza geografica del
ritrovamento di tale lampada ebraica, avvenuta nel territorio campano a non molti chilometri
da Cimitile.
La somiglianza tra la fisionomia delle due lampade è notevole e, stante la rarità della
raffigurazione, potrebbe testimoniare la presenza di artigiani locali che hanno elaborato senza
distaccarsene di molto questa particolare scelta stilistica, adoperando stampi similari per la
colatura (in Figura 5 ne illustriamo uno tipico).
Figura 5: antico stampo adoperato per la realizzazione delle lampade ad olio
Torniamo, però, alle analisi del Korol. Una volta identificata la chiara provenienza ebraica del
reperto, il Korol nel suo studio cerca di verificare se il ritrovamento risulti isolato in zona, e
quindi possa associarsi ad un riuso casuale di un oggetto di provenienza ebraica, oppure se vi
fossero testimonianze precedenti di simili ritrovamenti nel Nolano.
In tal senso vengono citati due ritrovamenti documentati nel 1747 dallo storico Gianstefano
Remondini:
1) Un medaglione ebreo "in cui dall'una parte si leggono tutti i nomi che diede quel Popolo
all'Altissimo Iddio e son nel rovescio tutti i nomi degli Angioli".
2) Un candelabro di bronzo ad 8 lumi recante una iscrizione tratta dai Proverbi (cap. 6, 23):
"poiché il comando è una lampada e l'insegnamento una luce" (caso raro ma non unico di
Menorah ad 8 bracci; molto più rara, invece, è la presenza della iscrizione).
Attraverso il parallelo con un ritrovamento simile avvenuto in Israele a Beth-Shean, e
richiamando la datazione proposta da Jean-Baptiste Frey, nel lavoro del Korol viene suggerito
il V sec. d.C. quale possibile datazione del candelabro oggi scomparso. Ovviamente tale
conclusione, in assenza del reperto originale, rimane opinabile.
Ma probabilmente, possiamo spingerci un po' oltre le osservazioni del Korol per le nostre
riflessioni. Il candelabro a 6-8 bracci è tipico di un particolare uso liturgico all'interno delle
sinagoghe. La sua funzione è brillare accanto al Tamid, la lampada eterna, nell'Arca, ovvero
all'interno della zona solitamente absidale delle sinagoghe, destinata a contenere i rotoli della
Torah. L'uso di un candelabro ad 8 bracci testimonia una precisa scelta di ortodossia, comune
anche alle moderne sinagoghe: la volontà di non replicare ma solo richiamare la Menorah a 7
bracci che faceva parte dell'arredo sacro del Tempio distrutto dalle legioni di Tito [18].
Ciò non impedisce, peraltro, come nel caso di Bova Marina che esamineremo più avanti, che
il candelabro a 7 braccia, o Menorah, non solo venga rappresentato nei mosaici pavimentali e
nelle decorazioni della sinagoga, ma sia pure fisicamente presente accanto alla Torah.
Tale Menorah va distinta, in ogni caso, da quella a 9 bracci che, invece, poteva essere forse
già al tempo destinata anche ad un uso familiare oltre che liturgico. L'oggetto in questione,
infatti, è connesso alla cosiddetta Chanukah o festa delle luci, richiamata per la prima volta da
Giuseppe Flavio nelle Antichità Giudaiche, e legata alla sconfitta delle truppe siriache nel 165
a.c. da parte dei rivoltosi guidati da Giuda il Maccabeo, ma soprattutto alla liberazione del
Tempio dai riti impuri imposti dall'invasore.
Successivamente, e se ne trova la prima testimonianza nel talmud Babilonese intorno al 500,
tale festa viene connessa ad un evento miracoloso: la straordinaria durata, nel corso della
rivolta, di una esigua razione d'olio che era destinata alla Menorah del Tempio, sufficiente a
coprire una sola giornata, ma che durò, invece, 8 giorni. [19]
Come per la Menorah, l'accensione da destra a sinistra di una singola luce al giorno scandisce
il succedersi degli 8 giorni della festa. Il rito è seguito dalla intera comunità con un candelabro
a 9 bracci con la luce centrale sempre accesa, di solito posto visibilmente su una finestra.
Tenuto conto, quindi, della Menorah del Remondini e della lampada del Korol, la datazione di
entrambe è indizio forte di una presenza ebraica nel nolano che oscilla tra il IV sec d.C. ed il
V d.C., e con essa anche di una indispensabile sinagoga.
Ma torniamo all'approfondimento del Korol. L'archeologo prosegue l'analisi cercando
ulteriori indizi di un possibile insediamento ebraico nella zona, e in tal senso segnala un altro
ritrovamento, che sembrerebbe confermare in pieno tale ipotesi.
A pochi Km da Nola, in Brusciano, fu rinvenuta nel 1979 una iscrizione funeraria risalente al
IV secolo, pubblicata da Elena Miranda, in cui il defunto viene citato con il titolo di Rabbi.
Il lavoro del Korol termina analizzando due elementi documentali di estremo rilievo:
1) La 19ma lettera di Paolino in cui si parla di un ebreo convertito di nome Piroforo unitosi
alla sua comunità monastica.
2) Una lettera del sacerdote Uranio in cui si fa menzione della presenza di ebrei al funerale di
Paolino nel 431.
A questo punto ci pare ragionevole, come del resto fa il Korol, ammettere una significativa
presenza ebraica nel nolano nei secoli IV e V, con ciò significando che tale presenza doveva
essere anche relativamente folta, se si ricollegano la Menorah di Nola e l'epigrafe di Cimitile
alla esistenza di due distinte sinagoghe a distanza, tutto sommato, limitata.
Orientazione absidale della basilica dei Martiri
Delineato il precedente scenario, in cui la presenza ebraica nel nolano nel periodo IV-V sec.
d.C. sembrerebbe ormai accertata, possiamo introdurre il passo successivo: una constatazione
singolare avvenuta agli inizi di febbraio e da me segnalata al I Forum della cultura nolana
tenutosi a Cicciano il 13/02/2004.
Analizzando la anomala orientazione della Basilica dei Martiri e delle tombe che la
circondano, ma anche di altri edifici come l'abside della basilica Vetus e, con qualche lieve
variazione, anche dell'abside della Basilica di San Calionio, ho potuto constatare un fatto
davvero singolare. L'orientazione dell'asse che collega i centri delle diagonali della sala di
accesso alla basilica e di quella della Cappella di San Giacomo con il centro dell'abside di
quest'ultima cappella è di -27 gradi est, e quindi punta decisamente, con uno scarto di un sol
grado, su Gerusalemme. A nostra conoscenza questa particolare orientazione, che ritroviamo
anche nelle numerose tombe del sito basilicale, è correlabile, nel periodo in esame, solo ad
una tipologia di edifici: le Sinagoghe.
A conferma della Ns ipotesi viene la epistola 32 di Paolino che al paragrafo 13 recita "La
facciata (della basilica Nova) non è rivolta verso oriente com'è usanza più comune, ma guarda
verso la Basilica di San Felice". In pratica Paolino ci dice che, in quel periodo, le facciate e
non le absidi, come avverrà per le chiese del tardo medioevo, erano orientate verso est.
In ogni caso la nostra abside ha una orientazione anomala verso Gerusalemme che le
conferisce una vistosa deviazione da est verso sud; ciò esclude anche la possibilità di una
orientazione absidale ad est, divenuta, comunque, norma architettonica per la orientazione
delle chiese solo nel tardo medioevo.
Figura 6: orientazione absidale della Basilica dei Martiri verso Gerusalemme
Affinità architettoniche ed evolutive tra la Basilica dei Martiri e la sinagoga di Bova
Marina
Ma la conferma più interessante alla nostra ipotesi ci viene dal un recente ritrovamento della
sinagoga di Bova Marina in Calabria [7]. Numerose sono, infatti, le similitudini
architettoniche e contestuali che confermano indirettamente l'ipotesi formulata circa la
possibilità di identificare nella basilica dei Martiri ciò che in origine dovette essere
verosimilmente una sinagoga. Il primo elemento interessante da notare è inerente
all'evoluzione del complesso che, almeno in pianta, presenta notevoli analogie con il caso
cimitilese. Nella Figura 7, infatti, si nota come, da quella che in origine fu probabilmente una
abitazione civile ebraica, si fosse isolata una particolare ala (in altro a destra in figura) che fu
adibita a sinagoga. Successivamente, abbattendo gran parte delle camere a sud ovest, venne
privilegiato l'asse nord-ovest/sud-est e quindi l'orientamento dell'edificio verso Gerusalemme,
realizzando una ulteriore camera a nord-ovest all'interno della quale è stato rinvenuto un
dolium ed un tesoretto monetale. Fondamentale è l'aggiunta di una abside nel muro a sud-est
rialzata rispetto al livello dell'aula a mezzo di un gradone e circondata da una balaustra. La
funzione di questa abside è tipica nelle sinagoghe: in essa venivano custoditi i rotoli della
Torah.
Figura 7: Evoluzione architettonica della sinagoga di Bova Marina - fase I, IV sec.
Figura 8: Evoluzione architettonica della sinagoga di Bova Marina - fase II, VI sec.
All'edificio principale fu aggiunto, successivamente, un edificio a sud che l'archeologo
Augusto Cosentino identifica come possibile albergo destinato ai pellegrini. Al di sotto
dell'albergo sono state ritrovate alcune sepolture.
Infine è interessante notare come nell'ala est dell'edificio il mosaico che ornava il pavimento,
e che con i suoi chiari riferimenti ebraici (il nodo di Salomone, la Menorah, ecc.) ha
consentito l'identificazione della funzione dell'edificio, sia stato rotto per interrare un dolio nel
quale sono state ritrovate lampade ad olio di tipo palestinese, e 7 sostegni per stoppino
probabilmente appartenuti ad una Menorah.
Il Cosentino non esita, anche per il luogo in cui è avvenuto il ritrovamento, e la presenza dei
resti di una Menorah, a collegare le lampade palestinesi con la Menorah, ad una funzione
rituale: questi elementi, secondo il Cosentino, probabilmente adornavano la zona absidale.
A questo punto avremmo trovato anche una possibile funzione delle due lampade ritrovate a
Cimitile. Ma ciò che interessa di più è il confronto tra la pianta della Basilica dei Martiri e
quella della fase evolutiva conclusiva della sinagoga di Bova Marina.
Figura 9: Comparazione tra la struttura della Basilica dei Martiri di Cimitile
e della sinagoga di Bova Marina
La similitudine, come illustrano le immagini, è davvero notevole, peccato che non si disponga
di elementi del pavimento della cappella di San Giacomo nella Basilica dei Martiri per
verificare la eventuale presenza di un mosaico analogo a quello di Bova Marina. Ciò che però
possiamo ancora confrontare è il tipo di pavimentazione della camera di ingresso delle
strutture in questione: in tutti e due i casi il pavimento è stato realizzato in laterizi. Altro
elemento interessante è la posizione dell'ingresso nei due edifici. In entrambi l'accesso
avveniva con una porta nel lato sud-ovest. Ciò che infatti si vede nella pianta della Basilica
dei Martiri è l'attuale ingresso, mentre quello originario era aperto nella parete opposta; di tale
accesso parla approfonditamente il Korol [20], descrivendo come fosse estremamente curato
ed adorno.
L'antico ingresso descritto dal Korol era fiancheggiato da due muri lunghi 1,49 metri ed alti
1,74, terminanti con due semicolonne. I muri risultavano affrescati in colore chiaro e riquadri
multicolore; l'ingresso era pavimentato in marmo bianco, come testimoniano alcuni suoi resti.
Per completare il raffronto con sinagoghe italiche coeve, non possiamo, comunque, esimerci
dal verificare possibili analogie anche con la sinagoga di Ostia che, insieme a quella di Bova
Marina, costituiscono gli unici due casi archeologicamente certi di antichissime sinagoghe in
Italia. Nella figura seguente è illustrato, in assonometria, l'impianto architettonico di questa
sinagoga:
Figura 10: Sinagoga di Ostia - I sec. d.C.
Sebbene la struttura appaia profondamente diversa dai casi ora presentati, è comunque
possibile effettuare alcune utili riflessioni comparative, prima tra tutte quella inerente
l'orientazione di questa struttura, che appare identica a quella della ipotetica sinagoga della
Basilica dei Martiri a Cimitile (circa - 30 gradi est).
Il secondo elemento interessante è dovuto alla datazione di questa struttura: il I sec. d.C., ed
alla sua evoluzione architettonica. E' significativo notare come la sinagoga di Ostia sembri
convalidare le ipotesi da noi in precedenza formulate, circa l'uso civile delle sinagoghe.
Questa struttura fu, infatti, dotata di cucina, un'ampia sala da pranzo, una sala di studio, in
buona sostanza, indipendentemente dall'uso precedente, questo edificio era un luogo di
soggiorno ed insieme di preghiera.
La cosa, che, però, ci attrae maggiormente è l'inversione dell'orientazione che si osserva nella
sala del Sancta Sanctorum. Inizialmente, infatti, si era mantenuto l'ingresso orientato verso
Gerusalemme; successivamente, nel IV secolo, fu ricavata la piccola abside sul lato sinistro
dell'ingresso alla sala principale, evitando la revisione architettonica drastica dell'edificio. E'
la datazione della piccola abside che individua, ancora una volta, il IV secolo come periodo
distintivo del cambio di architettura delle sinagoghe e della scelta della edificazione di piccole
absidi con orientazione verso Gerusalemme destinate a contenere i rotoli della Torah.
L'evoluzione architettonica proposta dal Korol e dal Lehmann e l'ipotesi Belting della
doppia abside
A questo punto analizziamo il piano evolutivo proposto dal Korol e dal Lehmann [1] per la
Basilica dei Martiri confrontandolo con quanto avvenuto per la sinagoga di Bova Marina.
Secondo il Lehmann, fino al II/III secolo la sala centrale che contiene i dipinti della
Maddalena e di Adamo ed Eva era l'unica esistente con una funzione di mausoleo funerario.
Successivamente furono aggiunte nuove camere sulle pareti nord-ovest e sud-est. La
situazione rimane, secondo tale studioso, immutata fino al VII secolo, periodo durante il quale
viene abolita la camera a sud-est, e quella centrale viene dotata di una abside, la cui presenza
fu ipotizzata per la prima volta dal Belting [8]. Infine nel X sec. viene ricostruita e viene
dotata di un'abside la stanza a sud-est dedicata a San Giacomo. Essa viene collegata a quella
antica e centrale sfondando l'abside ipotizzata dal Belting.
E' evidente che, accettando questa proposta evolutiva, l'ipotesi da noi formulata sarebbe da
escludere, visto che l'abside del Sancta Sanctorum coincidente con la Cappella dedicata a San
Giacomo sarebbe stata realizzata durante un periodo in cui l'edificio era ormai da 5 secoli
adibito ad uso cristiano. In verità alcuni dubbi sul quadro evolutivo delineato restano.
Il primo concerne l'abside proposta dal Belting, e ripresa dall'evoluzione congetturata dal
Lehmann. Se si osserva la pianta in Figura 9 è facile notare che, se è ben evidente la
preesistenza di una struttura muraria successivamente abolita in cui sono interrate alcune
tombe, appare difficile ipotizzare la presenza di un'abside nella camera centrale, considerato il
fatto che per realizzare la base muraria di questa si sarebbero dovute abolire almeno due delle
tombe che sono sopravvissute fino a oggi, e considerato che di tale base muraria concava
esterna al muro non v'è alcuna traccia. E' da escludere, inoltre, dato lo spessore limitato del
muro, che l'abside fosse stata ricavata solo incavando quest'ultimo, poiché l'apparente
profondità conferita dal prolungamento della forma convessa dell'arco porterebbe il centro
dell'abside oltre lo spessore del muro. Tale affermazione appare evidente osservando i resti di
un semicerchio disegnato da alcune parti mancanti del pavimento della sala centrale proprio in
corrispondenza della presunta abside e che, probabilmente, ha indotto la deduzione del
Belting. La freccia dell'arco disegnato dal semicerchio risulta, infatti, pari proprio allo
spessore del muro, ed è, quindi, evidente la impossibilità di realizzare un'abside se non
costruendo una base muraria fuoriuscente il muro stesso di cui non v'è, come già segnalato,
traccia alcuna.
Come si spiega allora il semicerchio nel pavimento? A nostro avviso, l'unica possibile
spiegazione è la presenza di un disegno ad intarsio di laterizi nel pavimento, con funzione
ornamentale, atto a simulare il prolungamento ottico virtuale dell'abside.
Figura 11: Parete est della Cappella dei Martiri nella ricostruzione del Belting
Se supponiamo quindi che l'abside proposta dal Belting non sia mai esistita, allora lo
sfondamento della parete e l'allargamento della camera a sud est, con la creazione della
Cappella di San Giacomo completa di abside, potrebbero essere avvenuti quasi
contemporaneamente, ed in epoche precedenti il V secolo. Anche la presenza di tombe
all'interno dell'edificio potrebbe non essere coeva alle strutture, il che condurrebbe a non
configurarlo come originariamente funerarie. Se, infatti, si osserva la tomba isolata che è
presente nella Cappella di San Giacomo - che appare peraltro lievemente più alta delle altre,
sebbene simile per forma - è chiaro che essa potrebbe essere stata aggiunta in epoca
successiva al X secolo, salvo a supporre che fosse stata tenuta fuori dall'edificio preesistente
alla cappella.
Fase 1: II/III sec.
Fase 2: IV Sec.
Fase 3: IV Sec.
Fase 4: V/VI sec.
Fase 5: VII-X sec.
Fase 6: X sec.
Figura 12: Evoluzione del complesso delle Basiliche di Cimitile dal II al X sec
Escludendo tale eventualità, si può anche ipotizzare che le tombe siano state inserite nel
pavimento in un periodo successivo, occupando gli spazi messi a disposizione dalla
particolare conformazione prodotta dallo spessore della base muraria. In questo caso è
evidente che, anziché abbattere lo spessore del muro che si nota in pianta, siano state rimosse
solo le parti in terreno, creando le tombe sia dentro la base dell'antico muro, sia fuori (l'unica
presente sulla parete nord).
Una ulteriore conferma indiretta ci proviene dallo stesso Paolino, che nel carme 18 (177/119)
parla di 5 basiliche, includendo, come hanno già ritenuto il Testini ed il Krautheimer [13]
[14], anche la Basilica dei Martiri.
Se prendessimo in considerazione l'ipotesi illustrata, la funzione originaria dell'edificio era
quella di luogo di culto e non di mausoleo sepolcrale. Se ciò fosse vero, è difficile credere che
l'edificio non disponesse di alcun elemento architettonico che lo configurasse appunto come
luogo di culto: primo tra tutti un'abside, quella della Cappella di San Giacomo.
Lo stesso Paolino identifica esplicitamente con il nome di basilica solo edifici con abside
(vedi ad esempio la lettera 35). Anche accettando l'evoluzione proposta dal Lehmann, è
evidente che gli edifici principali antichi, come la Basilica Vetus e la Cappella di san Calonio,
furono edificati con una posizione e direzione absidale anomala, probabilmente tratta per
imitazione dalla Cappella dei Martiri.
Va anche aggiunta l'anomalia della insistenza fuori dal mausoleo funerario, durante il periodo
del trasferimento a Cimitile del Vescovo Paolino, delle tre più importanti tombe: quelle dei
vescovi Quinto, Massimo e Felice, come ricorda Paolino sempre nel carme 18 (131/137;
327/360). E' credibile che tombe anonime fossero costruite al di sotto di un mausoleo, e che la
tomba del santo più venerato fosse mantenuta all'aperto in un "orto"?
Sepolcreti e dipinti veterotestamentari nella Basilica dei Martiri
Soffermiamoci, però, sul lavoro del Korol [20] e sulla struttura della Cappella di San
Giacomo, cercando di verificare la possibilità che tutte le tombe in essa presenti siano state
realizzate in epoche successive alla costruzione dell'edificio. Osservando la pianta della
Cappella di San Giacomo si notano 4 tombe appoggiate all'esterno della parete contenente
l'abside del Belting, ed una isolata sul lato nord-est, quella cui abbiamo fatto cenno nel
precedente paragrafo. Le quattro tombe sono perpendicolari a due arcosolii ricavati nella
parete. In mezzo, tra la terza e la quarta tomba, è presente la base muraria del prolungamento
degli archi dei due arcosolii fuori dal muro verso il centro della sala: tale prolungamento fu
privato della parte superiore per la realizzazione del pavimento della cappella di San
Giacomo. Il Korol segnala come, attraverso una analisi dello strato di intonaco, si siano
identificati i dipinti nei due arcosolii come coevi a quelli veterotestamentari che ornavano le
pareti dell'edificio preesistente alla Cappella di San Giacomo. Sempre quest'autore, attraverso
la comparazione con una locale tomba sicuramente risalente al IV secolo d.C., data tali tombe
alla medesima epoca; quindi sulla base di tali rilievi e, smentendo una precedente erronea
deduzione, segnala come anche le tombe a testata arrotondata presenti a Cimitile, e non solo
quelle a testata rettangolare, siano risalenti al periodo cristiano. A questo punto, però il Korol,
dando per scontato che le tombe siano coeve all'edificio ed ai dipinti, posticipa la datazione di
entrambe, collocando la realizzazione dei dipinti, precedentemente ritenuti del II o III secolo,
nel V secolo, e datando l'edificio al IV.
Alcuni elementi di questa analisi ci lasciano perplessi, e si aggiungono a quello già
menzionato nel precedente paragrafo in merito alla tomba isolata che, a nostro avviso è stata
realizzata successivamente alla edificazione della Cappella di San Giacomo, ma nel contempo
prima del X secolo, data proposta per l'edificazione di questa parte dell'edificio. I nostri dubbi
sono relativi da un lato al prolungamento in muratura dei due arcosolii che, sebbene privato
della parte superiore dalla presenza del pavimento, è ancora ben visibile in mezzo alle 4
tombe interrate, e dall'altro alla anomala disposizione dei due arcosolii che spezzano, l'unicum
pittorico formale a quadroni di cui parla il Korol.
Esaminiamo nel dettaglio le nostre perplessità. In primo luogo il sostegno centrale rimasto dei
due archi di prolungamento degli arcosolii appare alquanto strano se si ipotizza che per
realizzare il pavimento si sia interamente riempito il vano delineato dal muro del vecchio
edificio: perché lasciare quella struttura e non ripulire e consolidare il suolo? Il sostegno
murario, inoltre, appare estremamente rozzo a confronto della cura, che lo stesso Korol
segnala, con cui sono state realizzate le pitture. Strano appare, inoltre, che, sebbene molto
deteriorate, le pitture si siano conservate all'interramento in un ambiente così ricco di umidità.
Tali anomalie potrebbero trovare spiegazione nella ipotesi che esponiamo di seguito. Se le
tombe che si vedono molto più basse rispetto al pavimento della sala sono state, come
riteniamo, realizzate in epoche successive alla costruzione dell'edificio, che già al tempo di
Paolino doveva contenere l'ala absidata di San Giacomo, è possibile che se ne sia voluta,
comunque, lasciar la visione al pubblico per la venerazione. In questo caso la rozza struttura
muraria ad arco poteva essere stata realizzata contemporaneamente alla edificazione delle
tombe scavate nel pavimento dell'antico edificio. Siffatta struttura aveva mera funzione di
sostegno, facendo in modo che l'ambiente funerario realizzato sotto il pavimento della
Cappella di San Giacomo fosse, seppure chiuso, visibile a mezzo di grate. In questo caso non
ci troveremmo di fronte a due arcosolii, bensì a due archi che si sono appoggiati ai preesistenti
dipinti a quadroni che ornavano l'antico edificio.
Vediamo, però, gli elementi concreti, nel lavoro in oggetto, che si oppongono alla nostra
proposta interpretativa. Nell'articolo si formula una possibile datazione della antica sala che
precedette la Cappella di San Giacomo, successiva all'edificio centrale della Cappella dei
Martiri (per intenderci, quello che contiene i dipinti di Adamo ed Eva e di Giona). Tale
posteriorità cronologica viene avanzata sulla base delle lievi differenze di struttura muraria tra
la sala centrale della Basilica dei Martiri e quella antica rettangolare nella Cappella di San
Giacomo. Lo stesso Korol, però, non può esimersi dall'osservare come questo edificio appaia
inspiegabilmente molto più interrato, rispetto a questa sala, allo stesso modo del resto che le
altre camere rettangolari che la circondano, e suggerisce quindi per esso una datazione più
antica, anziché più recente. Siffatto maggiore interramento potrebbe, a nostro avviso, essere
invece dovuto all'originario piano di sviluppo dell'edificio, e ad un sollevamento stratigrafico
della struttura centrale riutilizzata, come tutto il complesso, in ambito cristiano, e nel IV
secolo come mausoleo funerario.
A tale proposito solleviamo anche dubbi sulla possibile funzione dei 4 arcosolii, di cui 2 con i
già indicati dipinti veterotestamentari, della sala centrale della Basilica dei Martiri, presenti
nella parte bassa del muro. Korol ritiene, anzi, che gli arcosolii fossero in tutto 6, 3 per lato
sulle pareti ovest, nord ed est, e che quelli ad est siano stati coperti dagli altarini medievali
oggi visibili e sormontati dai due dipinti del Sant'Eusebio e della Maddalena.
A nostro avviso, le dimensioni di tali strutture ad arco, di poco superiori al metro, non sono
sufficienti ad una disposizione longitudinale del corpo (con parete lunga appoggiata al muro).
Il nostro dubbio dimensionale è evidente, ad esempio, osservando gli arcosolii contenenti gli
affreschi di Adamo ed Eva e di Giona.
Figura 13: Pianta della Basilica dei Martiri
Questi due improbabili arcosolii sarebbero disposti ad angolo e si toccherebbero nella parte
nord-ovest rendendo, a nostro avviso, impossibile una sepoltura longitudinale, per quanto già
detto; inoltre, per lo spazio ulteriormente ridotto dalla configurazione, sarebbe impossibile
anche una sepoltura perpendicolare all'arcosolio, in quanto le due tombe risulterebbero allora
disposte a croce. Nella immagine seguente mostriamo una tipica tomba cristiana con arcosolio
(tomba ad arcosolio di Veneranda a Roma, catacomba di Domitilla). Si nota come la
dimensione dell'arcosolio, sebbene appaia simile a quella qui analizzata, viene ulteriormente
ampliata da un secondo arco in modo da portarne le dimensioni complessive ad una
longitudine compatibile con la lunghezza della tomba. E' chiaro, dalla figura, che lo spessore
della tomba impedisce la presenza di una analoga tomba con arcosolio a destra di questa se,
come nel caso della Basilica dei Martiri, i due arcosoli si toccassero ad angolo.
Figura 14: Tomba con arcosolio nelle catacombe di Domitilla a Roma
Nonostante i dubbi esposti, un elemento di estremo interesse ci viene comunque dal lavoro
del Korol sulle numerosissime pitture parietali della vecchia struttura muraria rettangolare
della Cappella di San Giacomo. L'autore elenca una serie di dipinti murali: ben 27 quadri di
cui solo 13 mostrano immagini più o meno riconoscibili, e tutte tratte dal Vecchio
Testamento.
Tali immagini vanno da Adamo ed Eva, alla proibizione di Dio di mangiare i frutti dell'albero,
a Giuseppe viceré d'Egitto che giura dinanzi al padre Giacobbe di seppellirlo in terra di
Canaan, alla benedizione di Giacobbe ad Efraim e Manasse, fino a due rappresentazioni di
Giona rigettato dal mostro marino e poi raffigurato in riposo. Il Korol segnala quella che è, a
suo avviso, una evidente unità pittorica di tali dipinti, espressione di un progetto unitario e
non di una sovrapposizione casuale. L'ipotesi da lui formulata è che i dipinti siano dei primi
decenni del V secolo, smentendo così il Belting e la datazione da questi proposta al II-III
secolo, in analogia con i dipinti della sala centrale dell'edificio dei Martiri. Risulta, però,
oggettivamente strano pensare che l'unità pittorica dei dipinti della Cappella di San Giacomo
sia stata rotta nel passaggio dall'una all'altra sala della Cappella dei Martiri, lasciando un
vuoto di oltre un secolo, salvo accettare il fatto che questo edificio, seppure più interrato, sia
più recente della sala centrale, e sia stato edificato nel IV secolo d.C.. Se, invece, riteniamo
corretta l'ipotesi di datazione del Belting, l'unità pittorica dell'insieme veterotestamentario
degli affreschi di entrambe le sale, la impossibilità che gli affreschi in arcosolio abbiano
sovrastato originariamente tombe, e la datazione al IV secolo delle tombe della Cappella di
San Giacomo, non possiamo che pervenire alla conclusione che tali tombe furono inserite
successivamente su una struttura interamente preesistente già nel III secolo, ed il cui uso non
era, in origine, funerario.
Ad ogni modo dalla analisi del Korol emerge un dato evidente: il numero degli antichi dipinti
veterotestamenatri è, nella Cappella di San Giacomo, davvero straordinario e differenzia
questo ambiente sia da quello centrale sia da quello a lato nord-ovest, ove, sebbene siano
presenti pregevoli dipinti, essi ritraggono solo decori floreali e vegetali.
L'unità rappresentativa pittorica, la datazione proposta dal Belting e le osservazioni già
effettuate, insieme con la ipotesi da noi formulata relativa al precedente uso di questo edificio
come sinagoga, ci spinge a dire che questi dipinti sono una evidente ulteriore prova che la
Cappella di San Giacomo, già prima dell'allargamento absidato, avesse la funzione di
sinagoga.La camera che abbiamo descritto, in particolare, era a nostro avviso già adoperata
come sala del Sancta Sanctorum nel III secolo.
In analogia a quanto avvenuto a Bova Marina e ad Ostia, è all'inizio del IV secolo che venne
realizzata l'abside per l'Arca accentuando l'orientazione a sud-est verso Gerusalemme.
Successivamente, quando durante il IV secolo il contesto storico mutò, dapprima con l'editto
di Costantino, e poi con l'editto di Tessalonica (380) emanato da Teodosio, ed il Cristianesimo
divenne infine religione di stato, è probabile che una certa ostilità, se non proprio una
persecuzione aperta, si sia rivolta repentinamente sulla popolazione ebraica anche in territorio
campano, dando così vita alla possibilità di espropri o riutilizzazione di edifici abbandonati
dalle comunità in fuga.
Comparazione con gli affreschi della sinagoga di Dura Europos
La prima credenza che va sfatata sulla base delle recenti numerose scoperte archeologiche è
relativa alla presunta incompatibilità tra raffigurazioni pittoriche ed antiche sinagoghe. La
sinagoga di Dura Europos scoperta in Siria è databile al IV sec. d.C. ed è un esempio
lampante e straordinario della libertà e varietà delle rappresentazioni pittoriche tipiche delle
antiche sinagoghe; l'immagine seguente mostra, ad esempio, un gruppo di uomini che porta
l'Arca dell'Alleanza in battaglia. Prima della scoperta di sinagoghe come questa, veniva
categoricamente esclusa la possibilità di ritrovare rappresentazioni di figure umane e sacre in
una sinagoga: nell'affresco che mostriamo è presente il più sacro dei simboli: l'Arca
dell'Alleanza.
Figura 15: Sinagoga di Dura Europos - Arca portata in battaglia
Il Sancta Sanctorum di questa sinagoga presenta inoltre uno straordinario affresco ricchissimo
di immagini veterotestamentarie. Nessuna figura pare trascurata, nemmeno quella di Dio, che
nella immagine seguente, raffigurante l'Esodo, appare, come in altre dell'affresco, immortalato
con una mano tesa dall'alto verso il Popolo.
Figura 16: Sinagoga di Dura Eudropos - Esodo
L'iscrizione aramaica recante la data del 244 d.C. consente una datazione relativamente
precisa della sinagoga; tale data coinciderebbe con il periodo solitamente indicato per la
realizzazione dei dipinti veterotestamentari della Basilica dei Martiri. Le immagini qui
contenute, ispirate ancora all'Antico Testamento, quali l'affresco di Adamo ed Eva e quello di
Giona, sono quindi almeno cronologicamente compatibili con l'ipotesi sinagoga da noi
formulata: esse, inoltre, ci paiono avere notevoli affinità stilistiche con quelle di questa
straordinaria testimonianza pittorica.
Figura 17: Comparazione dell'arcosolio di Adamo ed Eva a Cimitile con uno di Dura Europos
E' singolare constatare come tale affinità stilistica sia stata constatata anche dal Korol [20].
Sempre questo autore in diverse parti del suo lavoro si pone il problema della possibile
attribuzione ebraica delle opere pittoriche ma conclude affermando che: "per le uniche
rappresentazioni finora interpretabili negli arcosolii, i progenitori dopo il peccato originale e
Giona, attualmente non sono conosciuti confronti antichi in ambiente chiaramente ebraico, ma
soltanto in un contesto cristiano o neutrale", escludendo così, come ci ha confermato anche
per via epistolare, qualunque coinvolgimento di una comunità ebraica nella edificazione e
nello sviluppo della Cappella dei Martiri.
Una risposta alla ipotesi del Belting e della doppia abside: il Parochet di accesso al
Sancta Sanctorum
Dopo aver sollevato, nel precedente paragrafo, i nostri dubbi sulla tesi avanzata dal Belting
negli anni 60 relativa alla esistenza di una seconda abside nella sala principale della Basilica
dei Martiri, successivamente distrutta al momento dell'edificazione della Cappella di San
Giacomo, vogliamo proporre una possibile diversa soluzione al dilemma della forma
particolare dell'ingresso alla detta cappella. Come abbiamo detto, prolungando il disegno
semicircolare dell'ingresso alla Cappella di San Giacomo, si arriverebbe poco oltre lo spessore
del muro, con una circonferenza quasi tangente al prolungamento della parete posteriore.
Cominciamo con l'asserire che, proprio sulla base di quanto visto a Dura Europos, la presenza
di due Angeli sarebbe perfettamente compatibile con la nostra ipotesi; ciò che è invece
sicuramente non compatibile è la presenza della testa della Vergine di cui parla il Belting.
Oggi ciò che è sicuramente riscontrabile è una corona isolata al centro dell'arco di volta.
Parliamo di corona isolata poiché essa non reca al di sotto alcuna testa visibile, infatti la testa
con l'aureola della Vergine indicata dal Belting, ed abbozzata nel suo testo, era discosta dalla
corona. Tale corona presenta invero, ancora evidente, una sorta di aureola che la circonda.
Accettando ciò che sostiene il Belting, ci troveremmo di fronte ad una strana rappresentazione
di una corona isolata con aureola, che sormonterebbe una Vergine anch'essa con aureola. Se,
invece, supponessimo che la parte superiore della testa, poiché di questo si tratta visto che il
Belting non parla di volto, non fosse quella della Vergine, ma che sia stata mal interpretata
dall'archeologo, rimarrebbe certa la sola presenza della corona isolata e dei due Angeli ai lati
dell'ingresso che, come osserva il Belting, sono ritratti nell'atto di sorreggere qualcosa: ma che
cosa? Nella ipotesi da noi proposta, l'oggetto potrebbe essere il velo di separazione della sala
di ingresso dal Sancta Sanctorum. In pratica potremmo essere di fronte ad un Parochet,
ovvero al velo che solitamente copre l'abside contenente i rotoli della Torah, la Menorah ed il
Tamid. In questo caso, al velo che avrebbe dovuto coprire l'abside interna alla Cappella di San
Giacomo potrebbe essere stato aggiunto, ad imitazione di ciò che accadeva per il Tempio, un
secondo velo per impedire la visione del Sancta Sanctorum.
Vari sono gli esempi di Parochet caratterizzati da elementi contrapposti ad una corona
centrale, ne mostriamo alcuni in figura.
Figura 18: Esempi di Parochet, velo che copre l'Arca con la Torah
Ripetiamo che, nel caso della Basilica (ex Sinagoga) dei Martiri, i due angeli potrebbero
reggere proprio il Parochet. Nella successiva figura rappresentiamo una possibile
ricostruzione della parete est completa di tale elemento. Avremmo, in pratica, i due angeli
contrapposti che richiamano i cherubini sull'Arca dell'Alleanza sovrastati dalla
rappresentazione della corona, il tutto dipinto direttamente sulla parete anziché sul Parochet,
mentre al di sotto avremmo il Parochet riccamente decorato.
Figura 19: Ipotesi ricostruttiva della funzione della semiabside del Belting
Una raffigurazione di un tessuto con bordi riccamente decorati completo di drappeggio è
segnalato dal Belting nella parte inferiore dei due lati curvi dell'ingresso; tale raffigurazione
potrebbe richiamare sulla parete il Parochet che fungeva da porta di accesso al Sancta
Sanctorum. E' anche interessante notare come l'affresco ai due lati della porta appaia diviso in
due parti, di cui quella inferiore sembrerebbe rappresentate la base di un altare. Supponendo
che il Parochet rappresentasse, per continuità, la parte centrale inferiore mancante dell'altare,
rimarrebbe, nella parte superiore, una sorta di altarino absidato con un effetto ottico
accentuato dalla curvatura del muro: tale altarino absidato potrebbe essere il luogo destinato
all'Arca della sinagoga, e proprio questa doveva essere rappresentata sul telo.
Compatibilità tra necropoli e sinagoga
Un altro elemento che può generare perplessità è la presenza nel pavimento di antiche
sepolture, che sembrerebbe contrastare con i requisiti di purezza che dovrebbero essere
collegati alla costruzione di una sinagoga. In realtà a ben guardare sono molti i ritrovamenti
che appaiono contrastare questa intuitiva deduzione teorica. Per l'edificio di Bova Marina è
evidente che esso è stato costruito a breve distanza da una necropoli esistente ad Est della
sinagoga, che sappiamo essere presente fin dalle prime fasi di vita dell'edificio [21],
successivamente estesa a sud dello stesso durante i successivi periodi d'uso [22], e che, forse,
la sinagoga era essa stessa una abitazione civile. Esistono altri esempi in cui la sinagoga è
stata realizzata adattando un edificio civile, come il caso della sinagoga di Priene, anch'essa
databile al IV-V sec. [9]. Del resto, pure in una roccaforte della purezza qual era la Qumran
del I sec. a.C., il cimitero si trovava subito fuori l'abitato. Sono, comunque, moltissimi i casi
in cui le sinagoghe erano collocate in vicinanza di aree cimiteriali, ed è forse proprio da
Qumran che ci viene una possibile risposta a questa strana collocazione delle aree funerarie.
Dal Rotolo del Tempio [10] (cap. 48,11 e segg.), sappiamo infatti che le sepolture dovevano
avvenire in un luogo unico e ben definito fuori dal centro abitato: analoga sorte toccava alle
latrine (cap. 46,13), ma sappiamo anche che, durante la festività del sabato, non potevano
essere compiuti più di 100 passi. Sebbene le norme restrittive citate nei testi esseni di Qumran
già al tempo erano adottate con estrema flessibilità in ambito farisaico, e sebbene tale
flessibilità si sia con grande probabilità ulteriormente accentuata dopo la diaspora seguita alla
distruzione del 70 d.C., stante la necessità di adattarsi al contesto ambientale di chi si trovava
in esilio, è anche verosimile che, entro centri limiti, alcune regole fondamentali come quelle
del sabato si siano conservate. In particolare, è naturale attendersi che la sinagoga si trovasse
al centro delle aree abitate da comunità ebraiche, fungendo da punto di riferimento per la
realizzazione di nuovi edifici: ciò era chiaramente dovuto alla impossibilità di percorrere
cammini troppo lunghi nel giorno di sabato. Posizionando la sinagoga al centro dell'abitato si
poteva ridurre al massimo il percorso da compiere in quel giorno. Lo stesso probabilmente
avveniva nel caso dei cimiteri, per consentire che le sepolture potessero avvenire senza
allontanarsi troppo dal centro abitato, e forse anche per consentire di onorare il culto dei morti
anche nel giorno del prescritto riposo. C'è ancora da supporre, a nostro avviso, che piccole
sinagoghe fossero costruite lungo alcune linee di comunicazione, e che queste fossero
corredate anche di alberghi per i pellegrini poiché, tenendo pure conto dei mezzi di trasporto
dell'epoca, ci si potesse fermare nel giorno di sabato, e celebrare il rito religioso in sinagoga.
Ciò che, piuttosto, dovrebbe lasciare perplessi è la circostanza che in una civile abitazione
potesse esistere una sala dedicata a luogo di culto, il che indicava, chiaramente, che l'edificio
era già stato in origine costruito mantenendolo in asse con Gerusalemme, ma a ben guardare
nemmeno questo è un fatto raro. Se si osserva infatti la pianta di Qumran [11], è possibile
notare come tutte le strutture siano state orientate con asse verso la capitale di Israele e,
sebbene non siano state identificate aree destinate a fungere da sinagoga, è anche vero che,
stante l'orientazione degli edifici, in teoria qualunque casa o stanza sarebbe potuta servire
come luogo di preghiera, poiché tutte erano orientate verso Gerusalemme, e consentivano
quindi al fedele di rivolgere con sicurezza la preghiera verso il Tempio, orientando il corpo
lungo la direzione longitudinale della stanza.
Il problema della orientazione: cenni al dilemma del calcolo della longitudine
Tra i problemi affrontati nel corso della nostra breve indagine sulla Basilica dei Martiri,
partita dalla sua particolare orientazione, non possiamo non dedicare almeno qualche riga
all'annoso problema della orientazione precisa di un edificio nella direzione di una specifica
località, nel caso in esame Gerusalemme. Il problema già intuitivamente tutt'altro che banale
se si tiene conto della enorme distanza che separa Cimitile da Gerusalemme lo diviene ancor
di più se si tiene conto del periodo remoto in cui questa orientazione è stata realizzata, ed
all'errore davvero irrisorio (-27 gradi est anziché -26 gradi est) commesso dai costruttori. La
necessità di risposta a questo dilemma diviene ineludibile se si pensa che per calcolare la
corretta direzione occorrono latitudine e longitudine delle due località, e che mentre la
latitudine è calcolabile in maniera relativamente semplice attraverso l'azimuth astronomico
(inclinazione delle stelle rispetto all'orizzonte), il calcolo della longitudine appare quasi
impossibile con i mezzi del tempo: cerchiamo di capire il perché.
Data la enorme distanza delle stelle dalla terra si può ritenere che i raggi luminosi di queste
siano tutti perfettamente paralleli tra di loro, di conseguenza due località terrestri che si
trovano alla stessa latitudine vedranno il medesimo cielo stellato sebbene con una differenza
oraria derivante dalla loro relativa distanza (appunto longitudine) terrestre. Tutto sembrerebbe
risolto se si riuscisse a calcolare questa differenza oraria, ma qui interviene un problema
davvero oneroso: la misura del tempo nelle due località è legato al calcolo del giorno e della
notte, e quindi alla rotazione terrestre, in pratica essa viene effettuata proprio mediante la
posizione degli astri, in particolare del sole, ed ha un valore locale relativo e non assoluto. In
buona sostanza, leggendo i rispettivi orologi (che danno il tempo relativo a quella località)
due città sul medesimo parallelo vedranno il medesimo cielo stellato alla medesima ora
locale. Ciò che serve calcolare è, quindi, lo scarto di fuso orario. Se si tiene conto che per una
rotazione completa di 360 gradi la Terra impiega 24 ore, è chiaro che dopo un'ora la Terra
avrà compiuto una rotazione di 15 gradi, cioè che essa si muove alla velocità di 1 grado ogni 4
minuti. Orbene, la distanza in gradi di Cimitile da Gerusalemme è di circa 20. Se avessimo
voluto utilizzare uno strumento per il calcolo orario assoluto (candele, clessidre, lampade ad
olio, ecc., ma non meridiane, poiché esse misurano solo l'ora locale), avremmo dovuto
avviarlo in partenza da Gerusalemme, misurare l'ora locale all'arrivo, e confrontarla con
quella ricavata da questo "cronometro". Il problema è che, se si desidera ottenere un errore nel
calcolo della longitudine di un grado al massimo, sarebbe stato necessario avere un
"cronometro" in grado di mantenere un errore massimo di 4 minuti durante le settimane di
viaggio che occorrevano per arrivare da una località all'altra usando per esempio una nave
dell'epoca. E' evidente che questa strada è impraticabile, qualunque fosse lo strumento di
misura del tempo ipotizzabile, e compatibile con l'epoca in esame. D'altro canto sappiamo
anche che, in tutto il mondo, le sinagoghe venivano orientate con un ottimo grado di
approssimazione: in Italia, ad esempio, la sinagoga di Ostia presenta una inclinazione di -30
gradi est rispetto a -29 gradi est, mentre quella di Bova Marina presenta una inclinazione di
-20 gradi est anziché -18 gradi est. Sappiamo pure che Eratostene, nel famoso esperimento
con il quale pervenne al calcolo della circonferenza terrestre con una precisione davvero
impressionante (40.000 Km anziché 40.009 Km effettivi), partì dalla ipotesi che Syene ed
Alessandria d'Egitto si trovassero sul medesimo meridiano, e quindi alla medesima
longitudine. In pratica ciò che appare certo è che nell'antichità il problema era stato, in
qualche modo, risolto, ma come se non con un cronometro, ovvero con il metodo del trasporto
del tempo? Potremmo evitare di rispondere alla domanda, e limitarci ad osservare che,
qualunque fosse il modo, è certo che un metodo fosse noto, ma vogliamo comunque dar conto
di una riflessione e di una serie di scambi di vedute che abbiamo avuto con il caro prof.
Bartocci (Univ. Perugia) e con l'amico dr. Papi, preparato astronomo dilettante.
Ragionando per diverse vie e separatamente, siamo pervenuti ad una medesima soluzione che
sembra l'unica praticabile, sebbene ciascuno abbia proposto differenti metodi per metterla in
pratica: l'uso del nostro satellite naturale, la Luna. La Luna, infatti, impiega 29,5 giorni per
compiere un'orbita completa intorno alla terra, e ruota adoperando un piano che è quasi
coincidente con il piano di rotazione terrestre. La velocità di movimento della Luna è, quindi,
di mezzo grado circa l'ora. In buona sostanza la Luna segue le stelle nella rotazione notturna
da est ad ovest. Ora, come detto, due città con la medesima latitudine vedono nelle stesse ore
della notte il medesimo cielo, ma se esse distano in longitudine di 15 gradi (quasi come
Cimitile e Gerusalemme) e cioè di un'ora, vedranno la Luna spostata le cielo di 30 gradi l'una
rispetto all'altra. Il problema sembrerebbe, pure nel presente caso, risolto, se si disponesse
però di uno strumento in grado di misurare con precisione frazioni di grado: si perviene così
ad affrontare un altro dettaglio che appare abbastanza complesso, dovendosi tenere in conto
che, per ottenere un'accuratezza sufficiente a giustificare la precisione delle orientazioni di
Ostia e Bova Marina, sarebbe necessario per questa via discernere differenze angolari da 1/4
ad 1/6 di grado, cosa difficile ma forse non impossibile con strumenti meccanici mobili. Si
può pensare comunque a dispositivi o fenomeni che amplifichino gli effetti della differenza di
posizione lunare, e quello che appare più probabile, secondo l'opinione dei citati amici, con i
quali in ciò concordo pienamente, è la differenza di percezione oraria nel fenomeno delle
eclissi lunari o solari, e su tale questione limitiamoci a questi pochi cenni.
Errati restauri rendono difficile l'approfondimento archeologico
Se da un lato la proposta interpretazione dell'impianto architettonico della Basilica dei Martiri
nel complesso paleocristiano di Cimitile e la convergenza di tutti gli altri indizi raccolti non ci
consentono di affermare di essere in possesso di una prova definitiva della congettura che la
basilica fosse in origine una sinagoga, dall'altro tale ipotesi ci pare, in maniera oggettiva,
estremamente seria, e degna pertanto di ulteriori approfondimenti che andrebbero condotti
principalmente sulla Cappella di San Giacomo. E' singolare notare come lo stesso nome di
questa cappella, che rammentiamo secondo la nostra ricostruzione fungeva da Sancta
Sanctorum per la sinagoga, sia quello del capo della comunità giudaico-cristiana di
Gerusalemme: Giacomo il giusto, che nelle scritture neotestamentarie viene spesso
identificato con l'appellativo "fratello di Gesù", ad indicare una stretta parentela.
Purtroppo va subito detto che in maniera davvero incomprensibile fu deciso, durante l'ultimo
restauro della Basilica dei Martiri, di ricoprire ogni centimetro della Cappella di San Giacomo
con un intonaco spesso ben 4 cm. Tale intonaco rende impossibile qualsiasi tipo di indagine
visiva sulle pareti, ma i danni prodotti da esso sono ben più gravi. L'intonaco applicato è a
base cementizia e, per lo scarso potere traspirante, mai andrebbe utilizzato, non solo su opere
di valore archeologico, ma pure in qualunque tipo di edificio civile, in quanto, come accaduto
nel caso della cappella, impedisce la traspirazione di umidità, facendola fuoriuscire dal lato
opposto: nell'edificio che ci sta a cuore, purtroppo attraverso gli affreschi della parete est, tra
cui quello raffigurante la Maddalena. Ecco, quindi, la causa della disastrosa situazione in cui
versano attualmente affreschi mantenutisi a lungo in ottime condizioni di conservazione,
come la Maddalena Incoronata e Sant'Eusebio, che notiamo oggi ricoperti di sali, vittime di
fenomeni di efflorescenza con inesorabili e continue perdite di intonaco dipinto.
Il senso di impotenza di fronte ad una possibilità di analisi è reso ancor più doloroso dalla
totale rimozione del pavimento di questa stanza. Tale scomparsa rende infatti impraticabile
un'investigazione tesa ad evidenziare la preesistenza di un impianto pavimentale musivo
tipico delle sinagoghe.
Nonostante tutto, comunque, le piste di indagine che possono essere tecnicamente ancora
percorse sono varie, e vanno dalle termografie sugli affreschi per evidenziare eventuali
sovrapposizioni pittoriche, alle scansioni con un georadar per verificare l'eventuale esistenza
di cavità per dolia, quali quelle rinvenute nella sinagoga di Bova Marina.
Il disinteresse e la pessima capacità di gestione ed azione sul bene archeologico testimoniata
da ogni singolo centimetro della Basilica dei Martiri non ci fanno, comunque, ben sperare per
il futuro. Ovviamente nessuna di queste analisi, salvo eventi fortuiti, potrà darci più di ciò che
ci è stato definitivamente tolto, e che era essenziale ai fini della corretta identificazione
dell'importantissimo sito.
Per quanto ci riguarda, considereremmo uno straordinario risultato se, nell'ambito degli
interventi di restauro che si spera vengano attuati, riusciremo a dirottare da lavori inutili se
non dannosi le poche centinaia di Euro che occorrono per la rimozione dell'intonaco
cementizio che sta distruggendo l'immagine della Maddalena Incoronata.
Figura 20: L'intonaco cementizio della Cappella di San Giacomo
come causa del degrado degli affreschi dei SS. Martiri
Note bibliografiche
[1] Lehmann T. - Lo sviluppo del complesso archeologico a Cimitile, Boreas, 1990, 13, 16, pp. 123134.
[2] Scala S. - Il culto gnostico della Maddalena dal mosaico di Otranto alle basiliche paleocristiane di
Cimitile, Episteme n. 6, ed. PORZI, 21 dicembre 2002.
rif. on-line: http://www.robotics.it/episteme
[3] Ebanista C., Fusaro F. - Cimitile: guida al complesso Basilicale e alla città, Comune di Cimitile,
2001.
[4] Korol D. - Il primo ritrovamento di un oggetto sicuramente giudaico a Cimitile: una lucerna con
rappresentazione della menorah, Boreas, 1990, 13, pp 94-102.
[5] Kurninsky S. - "Creativity and the Jews - Fact Papers on the Technological and Artistic
Contributions of the Jews to the Evolution of Civilization", in The Jews of Aquileia: a Judaic
Community - Lost to History, Paper Fact, 28.
rif on-line: http://www.hebrewhistory.org/factpapers/aquileia28.html
[6] Moraldi L. - Pistis Sophia, Biblioteca Adelphi, 1999; Appendice, pp 329-332.
[7] Cosentino A. - La sinagoga di Bova Marina
rif on-line: http://utenti.lycos.it/AugustoCosentino/Calabria.html
[8] Belting H. - Die Basilica dei SS.Martiri in Cimitile und ihr frumittelalterlicher Freskenzlus,
Wiesbaden, 1962.
[9] Murray M. - Was there religious coesistence or competition in ancient Priene?, CCBS, Maggio
2001 - Draft Copy, Bishop's University, Religious Rivalries Seminar.
[10] Moraldi L. - I Manoscritti di Qumran, TEA, 1999.
[11] Charlesworth H.J. - Gesù e la comunità di Qumran, Piemme,1997.
[12] Delibera comunale n. 125 del luglio 2002 ed allegato progetto esecutivo per il PIT "Valle del
Clanis - Antica terra di miti e di dei".
[13] Testini P. - Note per servire allo studio del complesso paleocristiano di S.Felice a Cimitile (Nola),
MEFRA Antiquitè 97, 1985, 329-371 - menzionato in [1].
[14] Krautheimer R. - Architettura paleocristiana e bizantina, 1986, 140, 221-223 - menzionato in [1].
[15] http://www.ancientlamps.com/fafrica.html
[16] G.Pohi, in J.Werner (editore), Aus Bayerns Frühzeit, Studi in onore di F. Wagner, 1962, 220.
[17] L. Anselmino - C. Pavolini - in EAA, Atlante delle forme Ceramiche, menzionato in [3].
[18] C. Adler, J.M. Casanowicz, A.W. Brunner, Ark of Law, Jewish Encyclopedia.
rif on-line: http://www.jewishencyclopedia.com
[19] M. Tameanko - "The original Chanukah Gelt", American Israel Numismatic Association.
rif on-line: http://amerisrael.com/articles_chanukah_gelt_1.html
[20] D. Korol - I Sepolcreti paleocristiani e l'Aula soprastante le tombe dei santi Felice e Paolino a
Cimitile/Nola, Didattica e Territorio, 30mo distretto scolastico, 30 marzo-8 giugno 1988.
[21] Liliana Costamagna - "La sinagoga di Bova Marina (RC): una proposta di interpretazione delle
strutture", in 1983-1993: Dieci anni di archeologia cristiana in Italia, Atti del VII Congresso
Nazionale di Archeologia Cristiana, Cassino, 20-24 settembre 1993, a cura di Eugenio Russo, 2003, p.
806.
[22] Alla p. 803 del lavoro indicato nella precedente nota 21, la Prof.ssa Costamagna segnala la
presenza di una fascia di 7 mt che distanziava la sinagoga dalla necropoli evidentemente ritenuta
sufficiente ad assicurare la purezza dell'edificio. Viene, inoltre, segnalata la non visibilità della
necropoli che si sviluppò nello spazio retrostante l'edificio, cosa analoga a quanto avviene a Cimitile,
ove la tomba di San Felice è opposta agli antichi ingressi della Basilica dei Martiri, e la sua vista
veniva occultata dalla mole della stessa.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 6 di Episteme.]
[email protected]
10
I Veli di Marmo di Raimondo di Sangro
Principe di San Severo
(Lino Lista)
<<Ma il gran zelo, che io ho per inalzare quanto più mi fia
possibile la nobiltà de' Caratteri, de' Geroglifici e de' Segni, che
fan l'oggetto della presente mia lettera, mi spinge a ricercarne più
addietro l'antichità>> R. di Sangro, Apologetica
Chi non conosce la Cappella San Severo? Chi, tra quelli che l'hanno visitata, non è rimasto
incantato dal sibillino splendore delle sue sculture? Il Cristo Velato, il capolavoro della
chiesa gentilizia di Don Raimondo di Sangro, addirittura lascia l'osservatore senza fiato, tal
è la meraviglia del velo marmoreo che, con la sua innaturale trasparenza, lascia intravedere
il corpo sottostante del Figlio deposto1. Non per caso Antonio Canova, pur non essendone
l'autore, tentò di acquistare la scultura; non accidentalmente il maestro Riccardo Muti
adottò l'immagine per la copertina di un CD del Requiem di Mozart.
L'interesse che la Cappella ha suscitato nei secoli, stimolato dalle leggende metropolitane
sorte intorno all'enigmatica figura del Principe, va però ben oltre il valore estetico delle opere
ivi conservate.
Gli amanti del sapere esoterico hanno assegnato al Tempietto di Raimondo di Sangro una
posizione preminente nel loro vasto universo di luoghi dedicati alla "cultura alchemica":
l'annoverano, infatti, tra le dimore filosofali assieme alle Cattedrali di Notre-Dame de Paris e
d'Amiens, con le quali tentano di evidenziare i simbolismi comuni interpretati nell'ambito
degli insegnamenti iniziatici.
I seguaci delle scienze occulte, alimentandosi dell'ingiuriosa fama di stregoneria in
cui è stata avvolta la memoria del Principe, sfruttano la Cappella per diffondere la
fama di una Napoli Noir, città magica al pari di Torino, Praga e Lione.
Gli esperti (anche affermati) di critica dell'arte, trovando più conveniente attingere alle
opinioni dominanti anziché lambiccarsi il cervello al fin di chiarire ciò che limpido non è, non
palesano dubbio alcuno nel ricondurne le allegorie scultoree nel filone della cultura
illuministica radicale e dell'ideologia massonica.
Difatti, oggigiorno, mentre la personalità eclettica e geniale di Raimondo di Sangro appare
ammantata d'ombra e riposta in un cantuccio buio della storia, il suo Tempio è stato
trasformato in un lapideo manuale del Corpus Massonicum.
Non sempre è stato così.
Il nome della Cappella, invero, è quello di Pietatella (derivazione popolare di Santa
Maria della Pietà) e la sua genesi è in un quadro raffigurante, per l'appunto, una
Pietà, con la Madre seduta col Figlio deposto sul grembo, dinanzi ad una croce con
una corda penzolante ed una scala poggiata.
Fu il dipinto della Pietà a stimolare, sul finire del XVI secolo, la costruzione del
Tempietto. E' tramandato, infatti, che il quadro fuoriuscì dal muro di cinta del giardino
di Palazzo di Sangro. Cesare d'Eugenio Caracciolo 2 descrisse l'evento nel seguente
modo:
<<...E' dunque da sapersi, che passando per questo luogo, ov'è hoggi la presente
chiesa un uom di nation Ragoseo, che n'andava innocentemente carcerato, e nel
passar cascò il muro del predetto giardino nella pubblica strada, e incontanente si
vide il Volto Santissimo della Beata Vergine...>>.
Nel proseguimento del racconto è narrato che il prigioniero ingiustamente accusato
fece voto, qualora fosse stata riconosciuta la sua innocenza, di onorare l'effigie con
una lapide d'argento. La richiesta fu esaudita e, dopo poco tempo, l'uomo riacquistò
la libertà. Il miracolato mantenne fede alla promessa e da quel momento l'immagine
sacra, non rimossa dal luogo dov'era comparsa, fu considerata prodigiosa e diventò
oggetto di culto.
Altre grazie furono, secondo l'antica tradizione della Cappella, elargite dalla Madonna
della Pietà. A lei si rivolse anche Giovan Francesco Paolo di Sangro, primo principe
di San Severo e padrone del giardino del muro crollato, gravemente ammalato.
Neppure le sue preghiere rimasero inascoltate e, guarito completamente, al pari
dell'accusato innocente, il miracolato dimostrò gratitudine ed ordinò la costruzione
nello stesso sito di una chiesa la quale divenne, negli anni successivi, meta di
pellegrinaggi e sepolcro della famiglia di Sangro. In occasione della prima Messa,
celebrata nel sacello il 15 agosto del 1608, papa Paolo V concesse, addirittura,
l'indulgenza plenaria a quanti l'avessero visitata.
Al dipinto della Pietà, seppur non più oggetto di devozione popolare, ancora oggi è
assegnata una posizione preminente all'interno dell'ex chiesa, essendo esso
alloggiato in alto, sulla parete dietro l'Altare, all'interno di una cornice ovale dorata
sostenuta da angeli di gesso.
Fu con Raimondo di Sangro, VII principe di San Severo, che la Pietatella assurse
agli attuali fasti. L'impegno profuso dal nobile, sia in termini d'energie sia di risorse
economiche, fu tale che egli rischiò il tracollo finanziario. Non di semplice
magnanimità si trattò perché, è da tutti condiviso l'asserto, il Principe fu il vero
ideatore del disegno scultoreo, oltre che il committente dei numerosi artisti che si
susseguirono nell'esecuzione del progetto.
L'importanza che il mecenate attribuì all'opera si evince dalle sue disposizioni
testamentarie. Nel lascito fu dedicato più spazio alla Cappella che ad ogni altro
stretto congiunto. Nelle ultime volontà, con le quali Raimondo di Sangro impose ai
discendenti di non alterare il complesso simbolismo insito negli arredi di varie
sculture (non modificandone ornamenti, bassorilievi, iscrizioni e nomi), taluni leggono
la conferma dell'esistenza di un messaggio codificato, di una comunicazione celata
nei veli di pietra delle allegorie del Tempio.
E' opinione comune degli studiosi che, se messaggio esiste, esso è in gran parte
trasportato da dodici monumenti, tutti adagiati lungo le perimetrali d'ingresso e
laterali dell'unica navata a pianta longitudinale della Cappella. Le dodici statue,
collocate nelle medesime coordinate spaziali di profondità e livello, furono appellate
con nomi di virtù e stati d'animo: il Disinganno, la Pudicizia, il Decoro, la Liberalità,
l'Educazione, la Sincerità, la Soavità del Giogo Maritale, il Dominio di Se Stesso, lo
Zelo della Religione, l'Amor Divino, la Mestizia, l'Angelo (che nel seguito chiameremo
Meditazione) attribuito all'artista Francesco Celebrano.
L'insieme d'arredi simbolici, con i quali le sculture sono adornate, è di dimensione
rilevante; è impossibile, quindi, a meno di non individuare lo specifico database
iconologico al quale il Principe si riferì, tentare l'esegesi del complesso monumentale.
In effetti, fino ad oggi, compreso il coraggioso tentativo esperito da Lina Sansone
Vagni3 di perseguire una traccia d'indagine differente da quella filomassonica
dominante, le interpretazioni proposte vagano nei percorsi segnati da concezioni
esoteriche basate su convinzioni personali piuttosto che su criteri ermeneutici,
zoppicano nelle strade dei maestri che vogliono indicare ai profani le vie da seguire
nei cammini iniziatici, sprofondano nelle sabbie mobili delle filosofie sincretiche,
precipitano nel vuoto del "non dire perché non si sa" e del "non dire perché non si
può".
La Cappella di San Severo, di conseguenza, è ancora un mistero e i veli di pietra del
Principe restano saldamente fissati alle sculture del suo Tempio della Pietà.
Io non ho spazio sufficiente, in Episteme, per tentare di sollevare quei veli. Potrò
soltanto, nelle dimensioni consone ad un articolo, coerentemente con l'obiettivo che
mi prefissai nel proporre l'argomento, insinuare un dubbio sulla natura del velo del
Cristo. Non mi esimerò, però, dall'indicare un possibile metodo a chi vorrà cimentarsi
nella decodifica delle allegorie della Pietatella.
La via che suggerisco, guarda caso, se ne rallegreranno i curatori della rivista che
ospita il presente commento, porta a Perugia.
Pochi esperti delle arti figurative ignorano che in questa città, intorno al 1560, nacque il
Cavalier Cesare Ripa, autore di una raccolta d'icone mercé la quale, affermò Émile Mâle, "si
può spiegare la maggior parte delle allegorie che ornano i palazzi e le chiese di Roma".
Quasi tutti i commentatori della Cappella, però, sembrano aver ignorato o
sottovalutato un fondamentale indizio: Raimondo di Sangro finanziò una ricca
edizione dell'Iconologia di Ripa4, illustrata dall'Abate Cesare Orlandi e stampata in
cinque tomi, dal 1764 al 1767, giustappunto a Perugia. Pur quando qualcuno abbia
ben tenuto a mente la circostanza, come Rosanna Cioffi 5, il fascino esercitato da un
Principe supposto filosofo massone ha purtroppo prevaricato il dato oggettivo: quello
di un progetto scultoreo fondato sul più convenzionale codice di rappresentazione
artistica. Un codice che, parafrasando Émile Mâle, se è valido per spiegare la
maggior parte delle allegorie che ornano le chiese di Roma, pur qualche risultato
dovrebbe addurre nello studio di una cappella progettata dal mecenate di un'edizione
settecentesca dell'Iconologia.
Di là dell'uso che Raimondo di Sangro potette fare degli emblemi di Ripa, se volle
avvalersene semplicemente quale "sorta di codice pittografico per il riconoscimento
delle immagini", come afferma Rosanna Cioffi, o quale linguaggio iconografico per la
comunicazione di messaggi crittografati [* - Nota di Redazione], come ipotizzo io,
una considerazione è incontestabile: tutti i tentativi d'interpretazione delle allegorie
delle Pietatella hanno, finora, scavato nel vuoto. L'allegoria, però, tanto insegnò
Edgar Wind, similmente alla natura ha orrore del vuoto e, quando in un percorso
s'incontra davanti il vuoto, occorre mutare direzione.
L'Angelo di Francesco Celebrano, che suggerisco di chiamare Meditazione perché
non ho rinvenuto altro nome nei testi consultati, sembra voler indicare una differente
via per la rivelazione degli arcani.
E' quest'Angelo attribuito al Celebrano un monumento, situato immediatamente a
destra dell'attuale ingresso del Tempio, che funge da acquasantiera. Esso si mostra
seduto sopra un basamento di pietra, col capo reclinato in avanti ed il mento posato
sul dorso della mano destra. Col gomito sinistro sta poggiato ad una lapide nella
quale sono narrate le gesta di Giovan Francesco de Sangro, l'antenato di Raimondo
di Sangro al quale la scultura fu dedicata.
Per l'Angelo ho suggerito il nome di Meditazione per un motivo evidentissimo: la
Meditazione è un emblema dell'Iconologia che si presenta con postura ed
atteggiamenti somigliantissimi. A parte i comprensibili arredi funerari, poche sono le
differenze dell'Angelo del Celebrano al confronto con la Meditazione di Ripa: esse
consistono, essenzialmente, nel fatto che quest'ultima non siede su un tronco di
pietra bensì su un monte di libri ed ha un volume in mano.
Che cosa narra l'epitaffio scolpito accanto all'Angelo della Meditazione, epitaffio che
appare degno di riflessione, considerata la posa dell'Angelo?
L'iscrizione racconta una storia di guerra tra l'avo del Principe, fedele ad un re
spagnolo, ed i francesi nemici del Regno di Napoli.
Non è questo l'unico accenno, nel libro di pietra della Cappella, alle lotte intraprese
da antenati di Raimondo di Sangro, fedeli a sovrani spagnoli, contro antagonisti
francesi. Che cosa intende significare, questa ricorrenza?
Una più attenta lettura delle sculture potrebbe, alla luce dell'Iconologia del perugino,
spiegarlo. Altre nove statue, delle dodici prima citate, sono indiscutibilmente
riconducibili agli emblemi di Cesare Ripa 6: la Pudicizia, la Liberalità, l'Amor Divino (in
Ripa è Amor verso Dio), la Soavità del Giogo Maritale (in Ripa è Benevolenza et
Unione Coniugale), la Sincerità, il Decoro, il Dominio di Se Stesso, lo Zelo della
Religione, l'Educazione.
Il criterio di decodifica, che suggerisco ai lettori intrigati dai veli di pietra del Principe
di San Severo, è quello di una lettura iconografica per particolari, criterio illustrato in
un mio precedente lavoro7. Il metodo fonda sul Circolo Ermeneutico di
Schleiermacher, il quale assume che "...Il senso di una parola in un dato passo deve
essere determinato secondo la sua coesistenza con quelle che la circondano... ogni
particolare può essere capito solo a partire dall'universale di cui è parte e viceversa".
E' evidente che nelle arti figurative, e specialmente in un libro di marmo qual è la
Cappella, nella citazione potremo mutare il vocabolo "parola = segno linguistico" nel
sostituto segno grafico, senza stravolgerne il concetto.
Ed ecco, allora, che Schleiermacher potrà aiutare a comprendere l'undicesimo
arcano della Pietatella, un emblema che non si ritrova (se non nel nome, assimilabile
al Dispregio del Mondo) nell'Iconologia di Ripa: la bellissima scultura del Disinganno
delle Cose Mondane, opera di Francesco Queirolo, che raffigura un uomo che si
libera da una rete, simbolo di prigionia nel peccato. Sia pur nelle differenze figurative,
anche in tal caso il riferimento all'Iconologia è immediato: se Ripa rappresentò
l'Inganno con una rete in mano8, il Principe fece scolpire un Disinganno che si libera
dalla medesima rete.
Il Disinganno, ragionando di veli, è sconvolgente.
Al primo livello di lettura, così com'è esplicitato nella dedica, esso ricorda il padre di
Don Raimondo, Antonio di Sangro. Questi soltanto in tarda età, dopo una vita di
dissolutezze, si convertì rinunciando ai titoli nobiliari e agli averi e trascorse gli ultimi
anni di vita da abate della Cappella.
A livello anagogico il Disinganno si spersonalizza e diventa immagine di una Virtù, il
Dispregio del Mondo a favore delle cose celesti.
Nel livello analogico, però, oltre allo scultore Francesco Queirolo che raffigurò il
proprio volto nella statua, nel monumento del Disinganno c'è Raimondo di Sangro.
Volendo rievocare Schleiermacher, l'interprete del Tempio non avrà bisogno, per
innalzarsi al livello dell'autore, di ricercare i presupposti oggettivi e formali che
agirono nell'inconscio dell'artista durante la fase creativa, oltre il suo intendimento. Il
Disinganno è un momento topico della vita dell'autore, se Disinganno l'autore ha
vissuto: l'intera sua opera, allora, sarà cosparsa di cotale esperienza di rinnovamento
che egli deliberatamente rievocherà, sotto molteplici aspetti in differenti luoghi.
Il Disinganno della Pietatella ha un'incisione nella quale sono fusi più brani biblici
(Nahum 1,13; Sapienza 17,2; Sapienza 17, 1...20; I Lettera S. Paolo ai Corinzi).
L'iscrizione riferisce, da notare anche l'assonanza con l'episodio del prigioniero e del
quadro fuoriuscito dal muro, un avvenimento di liberazione ed ingresso nel mondo
della luce:
<<VINCULA TUA/DISRUMPAM /VINCULA/TENEBRARUM/ ET LONGAE NOCTIS/
QUIBUS ES COMPEDITUS/UT NON CUM/HOC MUNDO DAMNERIS>>
(Romperò le tue catene/prigioni delle tenebre e della lunga notte/dalle quali sei
impedito/affinché tu non sia condannato insieme con questo mondo).
Volendo applicare il Circolo Ermeneutico di Schleiermacher, allora, dal particolare
della scultura occorrerà passare all'universale dell'autore, di cui il Tempio è parte.
Nell'universale dell'autore, oltre il marmo, prima dell'Iconologia di Ripa, c'è la Lettera
Apologetica, la più importante opera letteraria del Principe di San Severo 9.
L'Apologetica, giudicata eretica dalla Congregazione dell'Indice e censurata, fu
difesa a spada tratta dal Principe il quale giunse, pur di difenderne l'ortodossia, a
rivolgersi con una supplica a papa Benedetto XIV.
Nella Lettera Apologetica, come nei tomi dell'Iconologia perugina finanziati da
Raimondo di Sangro, c'è il particolare che spiega l'universale della Cappella.
Scrisse il Principe nell'Apologetica messa all'indice10:
<<Vi parrà forse strana, ben lo veggo, questa ingenua mia confessione; ma pur così
è: anzi della stessa sincerità usando vi dirò ancor di più; io discerno ora, e tanto
chiaro, quanto il giorno, tutte le sconcezze del mio passato pensare; ciò che è pure
un'indubitata pruova del perfetto mio disinganno>>.
E' innegabile, allora, che il Disinganno delle Cose Mondane, prima ancora di essere
rappresentato nella scultura commissionata a Francesco Queirolo, fu realmente
vissuto dal Principe e consegnato alle pagine della Lettera Apologetica, la quale fu
approvata dai Censori e Deputati della Crusca nel settembre del 1750, almeno
quattro anni prima della realizzazione della statua che è databile 1754-1755.
Nella Lettera Apologetica di Raimondo di Sangro, è logico allora supporre volendo
ancora dar credito a Schleiermacher, potrebbe esistere il particolare che spiega il
gran mistero della Cappella: il mistero del velo che avvolge il Cristo marmoreo,
scolpito da Giuseppe Sanmartino successivamente all'agosto del 1752, quindi due
anni dopo la stampa dell'Apologetica.
E' noto il sospetto, che si sussurra ovunque eccetto che nella navata della Pietatella,
dove basterebbe un'analisi (non distruttiva) dei materiali per fugare ogni dubbio: il
velo leggero e trasparente, in cui è involto il corpo di nostro Signore deposto, non
sarebbe di marmo ma di stoffa finissima marmorizzata. La sua esecuzione, quindi,
non andrebbe attribuita a Sanmartino, che si sarebbe limitato a scolpire le forme
sottostanti, bensì ad un processo chimico elaborato dal Principe.
La tesi è sposata in numerosi testi.
Vladimiro Bottone, in un romanzo intitolato Rebis, l'ennesimo libello che sembra
ideato a bella posta per infangare la memoria di Raimondo di Sangro e dei suoi
migliori scultori, un libercolo che nemmeno cito nelle note ad evitare che qualcuno
possa volermene per essere stato indotto ad acquistarlo, imbastì intorno al lenzuolo
un'indecorosa storiella.
Clara Miccinelli, una giornalista divenuta autrice grazie all'interesse che suscita ogni
produzione letteraria concernente il Principe di San Severo, affermò di aver ritrovato
un documento dell'Archivio Notarile di Napoli, rogato in data 25 novembre 1752, nel
quale Raimondo di Sangro indicò le istruzioni per marmorizzare un velo. Per
completezza d'informazione espongo formula e procedimento, disponibili in vari siti
della rete:
<<Calcina viva nuova 10 libbre, acqua barilli 4, carbone di frassino. Covri la grata
della fornace co' carboni accesi a fiamma di brace; con ausilio di mantici a basso
vento. Cala il Modello da covrire in una vasca ammattonata; indi covrilo con velo
sottilissimo di spezial tessuto bagnato con acqua e Calcina. Modella le forme e
gitta lentamente l'acqua e la Calcina Misturate. Per l'esecuzione: soffia leve co'
mantici i vapori esalati dalla brace nella vasca sotto il liquido composito. Per quattro
dì ripeti l'Opera rinnovando l'acqua e la Calcina. Con Macchina preparata alla
bisogna Leva il Modello e deponilo sul piano di lavoro, acciocché il rifinitore Lavori
d'acconcia Arte. Sarà il velo come di marmo divenuto al Naturale e il Sembiante del
modello Trasparire>>.
In qual modo commentare? Grazie al Cielo, nell'inconsapevolezza della natura dello
"spezial tessuto", essendo oramai defunto Giuseppe Sanmartino e non più operante
il pensiero del Principe, il Cristo Velato rimane un pezzo inimitabile.
In assenza di prove empiriche, non potendo alla stregua di San Tommaso saggiare il
costato del Cristo, al fine d'indagare la possibile natura del velo non resta che una
possibilità: seguire i suggerimenti della Meditazione di Ripa, che pensa stando
seduta su una pila di libri, e dell'Angelo di Celebrano, che a sua volta specula assiso
sulla pietra. Con un'avvertenza: ogni processo di comprensione dell'Opera altrui si
presenta come compito infinito e può esser dato per certo soltanto in termini
probabilistici, fintantoché ogni nuovo elemento scoperto s'incastra nello scenario
raffigurato. L'interpretazione, a mio parere, rimane quindi un atto di fede, più o meno
verosimile, che soltanto al limite si consegue con sicurezza.
Il primo quesito da sciogliere concerne i campi d'indagine e le conoscenze del
Principe di San Severo. Possedeva egli la scienza per produrre un marmo sintetico,
quarant'anni dopo che J. F. Böttger aveva individuato la giusta alchimia per ottenere
la porcellana dura? E' possibile che Raimondo di Sangro, forse come Böttger alla
ricerca della pietra filosofale, abbia potuto scoprire una sostanza speciale, abile se
spalmata a divenire impalpabile e trasparente come un velo tessuto, in grado di
liquefarsi e solidificarsi alla stregua di una cera, capace di fondersi indissolubilmente
con una materia sottostante? Fu egli, in definitiva, in grado di attuare l'antico motto
dell'alchimia "SOLVE ET COAGULA"?
In relazione alla capacità del principe-scienziato di produrre sostanze sintetiche, non
esistono dubbi di sorta. Numerosi mastici e stucchi, di sua invenzione, ancor oggi
sono esposti nella Cappella. Ancora visionabile è, soprattutto, una porzione del
rivestimento che, sino alla fine dell'ottocento, ricopriva il suolo della navata. Il
pavimento, figurato con un motivo a labirinto, presentava un cordone di marmo
bianco che si sviluppava, continuo e privo di giunture, per centinaia di metri all'interno
di tarsie marmoree policrome. E' comunemente accettata la tesi che il Principe formò
la striscia bianca con una sostanza originale la quale, versata allo stato fuso in
apposite canaline, si rassodò realizzando il cordone di marmo artificiale.
Sulla capacità di produrre tessuti speciali, è Raimondo di Sangro stesso a
testimoniare, nella Lettera Apologetica11, sull'invenzione di un Pekin partenopeo di
color bianco:
<<...nel nuovo e gran ritrovamento del Bianco senza corpo alcuno; di che finora
Ritrovator non v'è stato. Si fa questo color bianco, la cui bianchezza è tale, che
sovrasta ogni altra candidezza, da due limpidissime acque né corrosive né acide, le
quali col mescolarsi insieme arrivano in istante a giusta consistenza di ricotta. Molti
valentissimi Fisici, che han veduta una tale sperienza, ne sono rimasi altamente
sorpresi; e appunto questo impalpabile color bianco è quello, che perfetto cotanto ha
fatto il suo Pekin Partenopeo12...>>.
Si dilettò, il Principe, di lavorare in maniera originale anche la lana, al fine di figurare i
più vari Personaggi:
<<Un'altra spezie di tappezzeria di lana non tessuta, ma soprapposta, che in
Germania, e in Inghilterra si lavora, non solamente si è contentato d'imitare..., ma
all'ultima sua perfezione l'ha pur condotta col sospignerne l'arte di lavorarla infino a
figurare... ogni specie di Personaggi13...>>.
Rimane l'ultimo nodo da sciogliere. Era in grado il Principe, con le sostanze e coi
tessuti ideati, di formare un velo, candido e trasparente, bianco ed impalpabile, col
quale ricoprire <<...la statua di marmo al naturale di nostro Signor Gesù Cristo
morto, involta in un velo trasparente pur dello stesso marmo, ma fatto con tal
perizia, che arriva ad ingannare gli occhi de' più accurati osservatori; e rende
celebre al mondo il giovine nostro Napolitano Signor Giuseppe Sanmartino14...>>?
Nella Lettera Apologetica, Schleiermacher ne sarebbe esaltato, c'è la risposta al
quesito:
<<Degno sopra ogni altra cosa da lui ritrovata è lo scherzo di sua propria mano
formato in un quadro lavorato di lana alla sua maniera rappresentante una divota
Immagine di nostra Donna, nella sua maggior parte ricoperta da sottilissimo
velo, il quale, quantunque finto sia, e con la divisata Immagine insieme formato,
pure ad ingannare arriva anche i più ben avvisati Riguardanti, parendo loro da
quella distinto e sovrapposto...conciossiaché finora non havvi Persona che professi o
no l'arte del dipignere, che caduta non sia nel divisato inganno, non potendosi nel
vederlo, trattenersi dall'impeto naturale di muoversi a sollevarlo 15...>>.
La testimonianza, perché fornita dall'Autore stesso, è incontestabile: già nel
settembre del 1750, mese nel quale l'Apologetica fu "certificata" dall'Accademia della
Crusca, due anni prima della certa datazione del Cristo Velato, Raimondo di Sangro
possedeva la scienza per formare un velo, apparentemente sovrapposto e distinto
dalla materia sottostante, di fatto formato insieme con la divisata (cioè separata)
immagine.
L'immagine velata di "nostra Donna" fu donata a Carlo III e da questi allogata a
Palazzo Reale, nella propria stanza da letto. Del quadro, almeno per quanto a mia
conoscenza, si sono perse le tracce. Nondimeno è stato oscurato il passo testé
citato, che ne narra la realizzazione: sebbene il brano sia chiaramente esposto
nell'Apologetica, nonostante il testo sia, per quanto concerne l'inganno che il velo
induce negli osservatori, incredibilmente simile alla descrizione che Raimondo di
Sangro fece del Cristo Velato nella Lettera a Giovanni Giraldi, non l'ho ritrovato citato
in nessuno dei lavori che trattano le opere della Pietatella.
Sorge, allora, veramente il dubbio che le convenienze ideologiche ed economiche
che gravitano intorno alla Cappella abbiano, finora, prevaricato il diritto al rispetto
della memoria del Principe di San Severo, condannato ad essere per taluni un
massone, per altri un traditore della Massoneria 16, per i più un negromante.
Quali veli di marmo, allora, occorrerà sollevare per rendere a Raimondo di Sangro la
dignità d'eminente pensatore del secolo dei lumi che gli compete? Quali allegorie
bisognerà interpretare per restituirgli il decoro?
L'inquietante monumento dedicato all'avo Cecco di Sangro, che incombe da sopra la
piattabanda dell'attuale portone d'ingresso alla Cappella, pare essere il più indicato a
svelare la verità del Principe.
Cecco di Sangro, che fu scolpito armato di spada e nell'atto di fuoriuscire da un
cassone, sembra saperla lunga.
Questa di Cecco, però, è un'altra storia del Principe dei Veli di Pietra.
Note
* [Si veda anche quanto se ne dice in Stevan Dedijer, "The Rainbow Scheme - British Secret Service
and Pax Britannica", Episteme N. 2, 2000: http://itis.volta.alessandria.it/episteme/ep2ded.htm - NdR].
1
Il presente lavoro, purtroppo, non è corredato di foto. Gli attuali gestori della Cappella, che non sono
discendenti in via diretta del Principe di San Severo, rilasciano l'autorizzazione alla pubblicazione
delle immagini soltanto dopo aver giudicato l'uso al quale sono destinate. Per le informazioni esposte
nel seguito ho ritenuto improponibile la richiesta di un loro beneplacito. Non si possono biasimare: il
valore di un capolavoro di marmo, da un punto di vista meramente venale, è immensamente superiore
a quello di una scultura alchemica. Poco varrebbe a compensare le perdite, per chi non ne perpetua il
cognome, l'elevazione di Raimondo di Sangro al grado di scienziato eccelso. Di conseguenza, a coloro
che vorranno gustare la bellezza delle opere che più frequentemente citerò, siccome i link non sono
perseguibili per violazione dei diritti d'immagine del settecento (sic!), suggerisco di visionare il sito:
http://www.museosansevero.it/
2
CESARE D'EUGENIO CARACCIOLO, Napoli Sacra, Napoli, 1624.
3
L. SANSONE VAGNI, Raimondo di Sangro principe di San Severo, Ed. Bastogi, Foggia, 1992.
4
RAIMONDO DI SANGRO, Iconologia del Cavaliere Cesare Ripa Perugino, Stamperia di
Piergiovanni Costantini, Perugia 1764 -1767.
5
ROSANNA CIOFFI, La Cappella Sansevero. Arte Barocca e Ideologia Massonica, Ed.
10/17, Salerno, 1994.
6
Numerosi emblemi, tratti dall'edizione citata dell'Iconologia e purtroppo privi delle didascalie a
commento delle immagini, sono disponibili nel sito:
http://www.humi.keio.ac.jp/~matsuda/ripa/catalogue/ripa_illus_html/043k0001w.html
7
LINO LISTA, "Il Mistero del Vino di Cana", in Episteme n. 7, Perugia 2003. L'articolo, nel quale è
esposto il cosiddetto criterio ermeneutico mosaicale, è disponibile all'indirizzo:
http://itis.volta.alessandria.it/episteme/ep7/ep7-cana.htm
8
Per osservare l'Inganno:
http://www.humi.keio.ac.jp/~matsuda/ripa/catalogue/ripa_illus_html/043k0299w.html
9
RAIMONDO DI SANGRO, Lettera Apologetica dell'Esercitato Accademico della Crusca
contenente la Difesa del Libro Intitolato Lettera d'una Peruana per rispetto della supposizione de'
Quipu..., Napoli, 1750.
10
LEEN SPRUIT (a cura di), Lettera Apologetica..., di Raimondo di Sangro, Alός Edizioni, Napoli,
2002, pag. 75.
1
Si annota che Raimondo di Sangro, nel corso di una lunga nota dell'Apologetica nella quale descrisse
le proprie invenzioni, discusse di se stesso in terza persona, con l'appellativo d'Autore.
12
Ibidem, pag. 180.
13
Ibidem, pag. 180.
14
La descrizione del Cristo Velato, effettuata dallo stesso Principe di San Severo successivamente alla
realizzazione della scultura, è tratta dalla quarta delle Lettere che il nobile inviò a Giovanni Giraldi,
membro dell'Accademia della Crusca e suo amico. L'intera corrispondenza è nell'opera: R. DI
SANGRO, Lettere del Signor Raimondo di Sangro Principe di Sansevero sopra alcune scoperte
chimiche indirizzate al Signor Cavaliere Giovanni Giraldi Fiorentino, Napoli 1753.
15
LEEN SPRUIT (a cura di), op. citata, pag. 180-181.
16
E' noto che Raimondo di Sangro, divenuto massone e Gran Maestro nel 1750, a seguito della Bolla
di Scomunica promulgata da Benedetto XIV e dell'Editto antimassonico di Carlo di Borbone,
consegnò al sovrano le liste dei Liberi Muratori aderenti alle Logge del Regno e, appena un anno dopo
l'adesione, ripudiò la Massoneria. In una famosa Epistola al Papa, commentando gli avvenimenti, il
Principe scrisse: "...Ma alla perfine dall'ottimo, e Prudentissimo nostro Re, cui più che ogni altro sta a
cuore la quiete dei Popoli, e la volontà del Pontefice, talmente è stato a quest'affare provveduto, che
ne sarà senz'altro per perire fin anche il nome presso dei Napoletani, né potrà mai ripullularvi".
Riconoscimenti:
Al mio amico Lino Barberio che mi educò, per primo,
all'arte di leggere e collegare i Segni dell'Antico Libro.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 6 di Episteme.]
[email protected], [email protected]
http://www.philia.it/
11
12
De Mysteriis
Iniziazione virtuale ed iniziazione effettiva
(Bruno d'Ausser Berrau)
Quell'insieme di ife1 fungine che - strettamente intrecciate e protette da membrane ispessite, contraddistinte da
un evidente colore purpureo e dall'appariscente foggia a sperone, formano l'acuto sclerozio, parassita di molti
cereali, noto ai micologi sotto il nome di Claviceps purpurea e che è ormai, ovunque, conosciuto col termine
francese di ergot - in Italia, per il suo tipico aspetto, ha, da sempre, caratterizzato come segale cornuta la
graminacea da esso infestata.
Negli anni che precedettero l'inizio della seconda Guerra Mondiale, a Basilea, presso gli stabilimenti
farmaceutici della Sandoz, il chimico Albert Hofmann, nel quadro di analisi intese a vagliare le eventuali
possibilità per l'utilizzazione farmacologica di alcune essenze vegetali, gli dedicava grande attenzione. Nelle
formule relative agli alcaloidi dell'ergot, un nucleo, in quasi tutte presente, è quello dell'acido lisergico. Allo
scopo di produrre un analettico, tra i vari derivati di quest'acido, sintetizzati nel corso di tali ricerche, ci fu la
diatelamide del medesimo ovvero, secondo l'abbreviazione tecnica LSD-25 ma, in seguito, universalmente
risaputa soltanto come LSD.
Benché, da tempo, s'avesse coscienza delle potenzialità psicotrope di questo fungo, 2 fu con grande stupore ed
allarme dello Hofmann, che un pomeriggio del 1943, dopo una mattina passata in laboratorio, egli avvertì,
caratterizzato da insolite modificazioni nella realtà circostante, il progredire di un indefinibile "stato
secondo", tanto che, per il suo aggravarsi, si vide costretto a lasciare il lavoro ed a tornare a casa.
Al chimico esperto, la tranquilla certezza sulla presenza di ogni precauzione e protezione a tutela dei ben
condotti impianti della Sandoz, faceva escludere i rischi di contaminazioni importanti mentre le minime
particelle, all'occasione assorbite, non sembravano ragionevolmente sufficienti a provocare quell'inarrestabile
insorgere di singolari immagini contraddistinte da una straordinaria e seducente plasticità. Accertato però, nei
giorni successivi, che l'origine degli strani sintomi era, senz'ombra di dubbio, da ricondurre alla diatelamide
dell'acido lisergico, della quale, pure a dosi infinitesime, risultava ormai evidente l'inusitata efficacia, decise, con
più robuste quantità, di procedere ad una precisa autosperimentazione.
Quello che ne seguì fu drammatico e tale era l'entità del processo in atto che egli non solo pensò di essere in
procinto d'impazzire ma fu letteralmente preso da un'insopprimibile angoscia da morte imminente di cui però, un
medico subito intervenuto, non ebbe a verificare alcun positivo riscontro. Si trattava insomma di una
fenomenologia tutta interiore ma della quale, ci interessa mettere qui in rilievo come, in essa, fosse dominante la
sensazione di sentirsi al di fuori del corpo, unitamente a quella di trovarsi
<<in un altro mondo dove le nozioni di tempo e di spazio erano differenti>>.3
Naturalmente, la prima volta che Hofmann ebbe questa che, per l'impatto emotivo e
sconvolgente, potremmo definire come una vera e propria rivelazione, il contesto fu
assolutamente casuale ed inatteso ma, anche in seguito, soprattutto quando, per continuare
nelle verifiche personali degli effetti causati dalla sostanza sintetizzata, si associò a Ernst
Jünger, fatta salva per quest'ultimo una certa, pregressa dimestichezza nell'induzione di
modeste alterazioni della coscienza,4 l'episodio si svolse al di fuori di ogni ritualità e senza il
sostegno o la guida di qualcuno dotato di specifica esperienza. In altre parole, a dirigere i
nostri avventurosi ricercatori, non ci furono sciamani di sorta.
E' concetto unanime delle diverse vie tradizionali e, ai nostri giorni, in particolare, di quelle a carattere religioso
come, appunto, sono le tre confessioni monoteiste, distinguere - con molta nettezza - tra l'ambito exoterico
ovvero l'aspetto più esteriore, aperto a tutti e quello elitario, rivolto ai pochi e qualificati.
È poi solo quest'ultimo che apre la strada verso una realizzazione spirituale della quale, per il momento, ci
limitiamo ad affermare come il suo scopo sia di permettere la comprensione della natura ultima della realtà. E,
per comprensione non si deve qui intendere un qualcosa di nozionistico ma, come di fatto, viene espresso dallo
stesso rapporto linguistico in essere tra realizzazione e realtà, si tratta insomma di giungere
all'annullamento intellettuale della distanza che - ex solito - sembra esistere tra concepente e concepito.
A ragione della tripartizione dell'essere umano in corpo, psiche ed intelletto, per pervenire ad operare questa
µετάνοια sarà giocoforza incominciare dal basso ossia, attraverso le vie sensibili, accedere alla dimensione
psichica.
È chiaro quindi che, pur non rappresentando nient'altro che l'initium di un lungo processo, il quid, trasmesso nel
passaggio dalla vita ordinaria o profana che dir si voglia a quella di una dimensione altra o sacrale, dovrà essere
un flash, uno shock, già di per sé sufficiente a modificare, nel recipiendario,5 quella visione del mondo,
quel rapporto tra la propria individualità e la realtà che lo circonda, tale da permettergli, non solo di dubitare
della volgare Weltanschaung sino allora vissuta, ma di avere lo sconvolgente pregusto sia di un diverso sentire,
sia di una diversa, intima natura dello stesso reale. Non a caso, a tal proposito, René Guénon così s'esprime:
<<le changement qui donne accès à l'ordre initiatique correspond à un degré supérieur de réalité>>. 6
Altra caratteristica assolutamente importante è che tale transito sia, spesso e nei più diversi contesti, qualificato
come morte iniziatica. Ecco come, riguardo alla quale, lo stesso autore tenga a specificare:
<<cette "mort", bien loin d'être "fictive" est au contraire, en un sens, plus réelle même que la
mort entendue au sens ordinaire du mot>>.
Del resto, Plutarco, invertendo il discorso, su questa prossimità dei due stati non è meno esplicito:
<<Al momento della morte l'anima prova un'esperienza simile a quella di coloro che sono iniziati ai misteri ... Da
principio un vagare smarriti, un faticoso andare in cerchio e paurosi percorsi in un buio che non conduce in alcun
luogo. Prima della fine, il timore, il brivido, il tremito, i sudori freddi e lo spavento sono al culmine, poi una luce
meravigliosa si offre agli occhi, si passa in luoghi puri e prati dove echeggiano suoni, dove si vedono danze. Nel
contempo, solenni, sacre parole e visioni divine ispirano un rispetto religioso. 7 Là l'iniziato, ormai perfettamente
liberato e sciolto da ogni vincolo, s'aggira, incoronato da una ghirlanda, celebrando la festa insieme agli altri
consacrati e puri mentre, dall'alto, guarda la folla non iniziata, non purificata, perdersi nel fango e nelle tenebre e, per
timore della morte, attardarsi fra i mali invece di credere nella felicità dell'aldilà>>. 8
Ancora Guénon, in merito all'argomento, di cui all'ultimo periodo del brano citato, con
nitidezza sintetizza e universalizza il concetto:
<<nous nous contenterons de rappeler, à cet égard, que toutes les traditions insistent sur la
différence essentielle qui existe dans les états posthumes de l'être humain selon qu'il s'agit du
profane ou de l'initié>>.9
Ritornando quindi alle perigliose esperienze di Hofmann, è indubbia una qualche similitudine tra gli effetti
psichici riscontrati e quelli del medesimo ordine, che descrivono le modalità dell'iniziazione.
A questo punto, col soffermarci molto brevemente, su quant'avviene durante il corrispondente rito massonico, 10
cerchiamo di entrare nel merito della pratica iniziatica. Pur nelle, non eccessive, differenze esistenti tra il sistema
prevalente nel mondo anglosassone e quello più frequente nei paesi latini, lo scopo comune è di produrre, nel
candidato, una forte impressione ossia proprio il predetto shock, il cui impatto dovrebbe, appunto, facilitare
l'attivazione del quid spirituale trasmesso col rito.
Nel momento cruciale, le tenebre - tangibile apparenza dell'oscuro caos psichico, caratteristico della condizione
interiore d'ogni profano - tenebre che hanno dominato sin dal principio, sono rotte da un improvviso,
lampeggiante passaggio alla più vivida luce accompagnato dal sonoro schiocco, provocato dal colpo del
maglietto11 del Venerabile e, da questi eseguito con un ampio gesto saettante. 12 In tal modo, si mima quel fulmen
Jovis che, sul piano macrocosmico, corrisponde al fiat lux della cosmogenesi.13
Certo, con tutta la buona volontà, sul piano psichico, gli effetti trasmutativi dei riti
muratori, non sembrano all'altezza degli elevati paragoni cui possono essere
simbolicamente rapportati. Vero si è che l'iniziazione è soltanto l'ingresso in una via
la cui percorrenza corrisponde al passaggio dalla virtualità all'atto e che, pertanto, la
realizzazione si dovrà estrinsecare in tutto un lavoro successivo al superamento di
quella soglia.
Superamento che tanto più sarà facilitato, quanto più forte sarà stata la rottura con le consuete connessioni
logiche alla base della comune visione del mondo. Perché è proprio da tali nessi ovvero dal prendere coscienza
di un rapporto, scaturito a sua volta dalla relazione intercorrente con altri due - come avviene nel sillogismo - che
si produce il pensiero razionale14 ed è questa una funzione, ancorché specifica dell'essere umano, strettamente
limitata alla dimensione individuale.
Scopo invece del processo realizzativo è quello di raggiungere un livello di conoscenza il quale, nel superare la
distanza implicita nella condizione di rapporto, sia - come s'è già detto - essenzialmente identificazione e ciò,
con evidenza, trascende ogni possibile ambito della funzione raziocinante. Si deve insomma operare non più nel
contesto individuale della mens ma accedere a quel superiore livello che è l'intuizione attivata dall'intelletto.
Per verificare come questo sia alla base di analoghi processi, presenti in ogni civiltà, basti pensare al Giappone,
dove la pratica Zen (
) di quei maestri fa sistematico uso del paradosso e del non sense. Figure retoriche che
costituiscono l'essenza dei brevi apologhi aventi nome di Koan (
),15 pei quali si deve avere ben presente
che it is believed that such answers arise from the mysterious, irrational or paradoxical nature of truth. 16
È questo dunque il soprarazionale (non irrazionale!) dominio della conoscenza metafisica il cui oggetto, a
differenza del raziocinio, sarà non il generale ma l'universale, con la conseguente immediata (non mediata, non
un rapporto dunque) conoscenza dei principi primi. Nella lezione aristotelica:
<<L'intelletto (νο¬ς ποιητικός) pensa se stesso per partecipazione dell'intellegibile, giacché esso stesso diventa
intellegibile venendo a contatto col suo oggetto e pensandolo, di modo che intelletto e intellegibile vengono ad
identificarsi. E', infatti, l'intelletto il ricettacolo dell'intellegibile ossia dell'essenza e l'intelletto, nel momento in cui ha
il possesso del suo oggetto, è in atto e, di conseguenza, l'atto piuttosto che la potenza, è ciò che di divino l'intelletto
sembra possedere>>17
Chiaramente, l'esposizione di questi temi ed ancor più quando, dell'esperienza di quest'immediatezza, si voglia,
con veste diversa da quella del koan, dare riscontro ad altri, l'uso del linguaggio, per sua stessa natura legato alla
facoltà del raziocinio, produrrà quell'ambivalenza connessa al concetto stesso di rivelazione dove, appunto,
rivelare ha in sé il senso di velare di nuovo: ri-velare, così producendo, anche nel corpo
stesso di una parola tanto ricca di implicazioni, ancora un paradosso.
Si comprende quindi come, per passare dall'esteriore all'interiore, dalla conoscenza indiretta a quella diretta, si
debba accedere all'ineffabile e come ciò non sia ottenibile né coi mezzi dell'ordinaria erudizione, né con quelli
devozionali. Tutte vie queste che hanno in sé il rischio di condurre ad una sincope della volontà e della
determinazione intellettuale per sopravvenuta, insondabile tiepidezza o sorniona, faticata indifferenza ed il cui
lento insorgere è subdolo come il disastroso insinuarsi dell'umidità in un edificio. 18 È quella temutissima malattia
dell'anima che i
<<…veteres egritudinem dixerunt, quam accidia moderni>>.19
Da qui, per necessità, la peculiarità, la "stravaganza" dei riti iniziatici e delle tecniche
realizzative. Basti ricordare Francesco, che amava definirsi «giullare al servizio di Dio», gli
jurodivye ovvero i «folli in Cristo» dell'Ortodossia o le bizzarrie di Sabbatai Zevi 20 e,
nell'Islam, le confraternite dei Malāmatiyya, la «gente del biasimo e del disprezzo», la
cui ostentazione di atti illeciti o disgustosi era tanto maggiore quanto più fosse elevato, si
pensava, il loro grado spirituale.
Cerchiamo ora di meglio mettere in luce alcune caratteristiche tracce di tale stravaganza. Abbiamo verificato, nel
koan. il motivo dell'uso del non sense e del paradosso ma, nei più diversi contesti tradizionali, il provocatorio
impiego dello strumento linguistico spazia secondo tutte le sue vastissime potenzialità d'elaborazione. Il giocare
con le parole, in modo da suggerirne differenti significati e applicazioni o il servirsi di omofoni aventi sensi tra
loro dissimili nonché l'inserzione nel dire di vocaboli esotici o artatamente deformati sì da far comprendere il
discorso ai soli destinatari, prende, in francese, nome di argot. Il vocabolo è strano in quanto la sua origine
appare assai dibattuta, certo è che, storicamente, risulta essere lingua convenzionale per malfattori, mendicanti,
zingari, giocolieri e, genericamente, la si sa compresa da tutti gli emarginati.
La cosa si presenta interessante perché tali apparenze, in specie, sembra, quelle di giocoliere (ioculator)
potevano essere assunte da chi avesse voluto dissimulare ben altro e l'accezione secondo la quale intendere cosa,
in tal caso, fosse giocato, non è tanto quella facente riferimento all'attività del prestigiatore, quanto a quella del
joker ovvero, secondo l'etimo, di chi si produca nello iocus: lo scherzo verbale. Ma, sebbene iocus e ioca
con serium e seria, nell'immediato, appaiano antitetici, possono, non a caso, creare - in asindeto - come nella
frase di Cicerone, una coppia dotata di senso:
<<At quicum ioca, seria, ut dicitur, quicum arcana, quicum occulta omnia?>> 21
Cosicché colui che appariva come un buffone - singolare personaggio, un tempo, chiamato anche "il
folle" - dietro la sua oralità artificiosa e bizzarra nascondeva, per chi fosse in grado di coglierla, una più alta
saggezza.
Tra i due estremi, tertium datur ed esso è quell'aurea mediocritas,22 quella gravitas del ne quid nimis,23 quel
donum fortitudinis, cui s'addicono il solido raziocinio, la logica e l'ordine. Ciò che, parimenti, la cultura greca, col
concetto di σωφροσ◊νη,24celebrava, nella temperata misura per la quale non è tanto l'impatto dirompente di
un'idea a dover essere apprezzato, quanto la profondità e l'intensità con cui essa può essere fatta propria e
vissuta. In un vivere così equilibrato, il rovescio della medaglia è però il rischio, sempre in agguato pel suo
possibile degenerare in un greve "buon senso", del male oscuro dell'accidia. 25 Dunque
<<Great wits are sure to madness near allied,
and thin partitions do their bounds divide>>26
Del resto, per Giamblico27 il furor melancholicus è capace di degradarci 28 come la più vile ubriachezza o di
esaltarci29 nell'estasi profetica.
Tale apparente toccarsi degli opposti è il riflesso, sul nostro piano d'esistenza, di una realtà più vasta, la quale fa
sì che la condizione umana sia, per il suo inscindibile legame con la Gestalt, il piano di separazione tra due
domini informali: quello superiore, essenziale, sede delle pure idee intellettuali e quello soggiacente e caotico
della sostanza. In ambedue, non valgono le regole della logica e del raziocinio: nel primo, perché esse trovano lì
il loro a priori ovvero i postulati fondanti la cui accettazione è eminentemente intuitiva; nel secondo, perché più
nel medesimo ci s'inoltra e più crescono confusione ed oscurità ma, dal profano, nella stessa incomprensibilità,
sono accomunati entrambi.30
È l'iniziazione che, come abbiamo visto nella sua analogia con l'ordinativo fiat lux cosmogonico, dovrebbe
mettere in grado chi la riceve di procedere verso una sempre maggiore intelligenza della realtà ovvero, come
tappa introduttiva, di dare armonia a ciò che, in precedenza, senza distinzioni, gli appariva associato
all'incomprensibile, al caos. È proprio in questo lavoro d'introiezione di una norma e di un equilibrio che consiste
il primo compito dell'uomo ed è qui che, presso gli antichi, si trovava il presupposto della gerarchia tra
piccoli31 e grandi misteri.32 L'iniziato ai piccoli doveva dunque sviluppare la pienezza della sua
individualità e da ciò la necessità dell'esercizio di un'arte o dello studio filosofico; basilare era in ogni modo
l'educazione al raziocinio ed al pieno controllo di sé.
Il fondamento ontologico di questa condotta stava nel concetto di µο∅ωσιΗ.33
È, infatti, per la similarità, esistente tra le operazioni logiche e cognitive e la stessa struttura del nostro
attuale piano d'esistenza, che l'uomo può capire, descrivere ed operare nel suo mondo. Attenzione però; per
comprendere il tema nella sua interezza, dobbiamo aver sempre presente come - da un punto di vista
epistemologico ed al fine di procedere alla distinzione tra vero e falso - la stessa µο∅ωσιΗ ossia la
proporzionalità, l'analogia e l'isomorfismo sussistenti tra le cose e la loro rappresentazione, in alcun modo
garantiscano, per i criteri che se ne possano trarre, la loro scontata estensione anche all'interno dei due regni
soprastanti e soggiacenti al nostro mentre, tra i medesimi, come afferma la TABULA, sussiste un'analogia inversa.
E ciò è così palese che la fisica contemporanea, supportata da procedimenti eminentemente razionali e
massimamente matematizzati, avendo sempre più "affondato" le sue indagini verso gli abissi della substantia,
vede - per l'irrisolvibile eterogeneità tra oggetto e strumenti conoscitivi utilizzati - compromesso lo stesso
rapporto di causa / effetto, pervenendo così ad un livello d'esperibile inintelligibilità. 34
Ritornando ai comportamenti del savio è evidente come tutto venisse praticato in una prospettiva avente lo scopo
d'evitare di lasciarsi prendere da quel materialismo - di fatto o dottrinario 35 che fosse - ai cui rischi degenerativi
abbiamo già accennato.36
Il fine positivo dei piccoli misteri era di ricondurre l'individuo a quella completezza dell'umana natura quale
dovette sussistere prima dell'abbandono dell'età dell'oro o, in termini giudeo-cristiani, prima della caduta.
Naturalmente, ciò va inteso nei limiti di una mera interiorità perché, nella sua interezza, la ricostituzione di fatto
di tale condizione, presupporrebbe un contesto macrocosmico appartenente alla modalità sottile e, in epoche
successive alla fase iniziale del ciclo presente, assolutamente non riproponibile se non nel post mortem del
singolo.
Per tutte queste ragioni, un ambito operativo non destinato al superamento dei limiti individuali ma volto a dare
ad essi l'equilibrio e la stabilità propri alla condizione centrale dell'uomo, si rispecchia nella attenuate
caratteristiche che abbiamo riscontrato nel blando shock iniziatico com'è ancor oggi praticato da
un'organizzazione di mestiere qual è quella muratoria.
Ben diverso pertanto doveva essere ciò che accadeva nel caso dei grandi misteri, i quali, del concetto
d'iniziazione, sono l'epitome ed il compimento. Per giungere a dare uno sguardo su quanto doveva avvenire ad
Eleusi, è prima indispensabile tornare a soffermarci sulla strana lingua dello ioculator, quell'argot che poi, con i
suoi giochi verbali, non era caratteristico solo di eccentrici personaggi da rustica kermesse fieristica37 ma, a ben
vedere, si può affermare che così, ancora, si verifica in qualsivoglia mestiere, professione e scienza, fino a
permetterci di concludere che tutti gli accidenti della gerarchia sociale come qualunque forma d'intelligenza, di
fatto, ne abbiano uno.
La generalizzazione non lo sminuisce ma ci fa anzi entrare nelle stesse motivazioni e nei più intimi meccanismi
del linguaggio dove, da sempre, dominano metafora e assonanza. Un esempio manifesto delle confusioni che
possono ingenerarsi ove non si comprendano questi procedimenti soggiacenti ad ogni dire, ci è fornito dalla
bizzarra attribuzione al popolo dei Goti dell'omonimo stile architettonico medievale. Aggettivazione peraltro
solo linguistica essendo, originariamente e pei più, da intendersi nella non lodevole accezione di arte
barbarica.
Tale stile nacque, invece, dalla felice confluenza in terra di Sicilia di elementi costruttivi arabi con caratteri
romanico-normanni, preesistenti nel ducato di Normandia e poi, per i noti avvenimenti (inizio dell'XI sec.),
trasferiti nell'Isola. L'apporto islamico proveniva, a sua volta, dalle tecniche edificatorie di Bisanzio mentre il
peculiare arco a sesto acuto sembra fosse originario dell'Iran. In seguito, tale complesso patrimonio tecnico, da
maestranze siculo-normanne, fu riportato in Francia dove conobbe grande fioritura e continentale diffusione. 38
A questo punto, emerge, in maniera molto verosimile, che gotico, gothique, sia l'errata assimilazione o, per
omofonia, la banale contrazione linguistica di chi sapeva essere le cattedrali opere di art argothique, in quanto
espressioni della maestria di quelli che, per la loro appartenenza corporativa, facevano uso dell'argot..39
Appare adesso evidente il legame tra l'argot ed i più diversi ambienti iniziatici ma c'è ancora, assai significativa,
anche un'altra designazione per questo gergo: 40 lingua degli uccelli.41 Naturalmente la prima
spiegazione è che, questo strano linguaggio, come nel caso dei motivi cantati dagli uccelli, voglia esprimere
qualcosa che risiede al di là delle parole e della voce stessa, cosicché, pur intendendolo non lo si comprende.
Inoltre, approfondendo, si può aggiungere come gli uccelli, per l'elemento che è loro proprio, siano stati spesso
presi a simbolo degli stati superiori dell'essere.
Questo modo d'esprimersi è dunque un idioma basato sull'assonanza e nel quale è tuttavia presente la musica.
Essa, non trattandosi solo di musicalità delle parole, vi è sottesa cosicché sono la cadenza e la scansione del
discorso ad essere in analogia con l'armonia ed il contrappunto del fraseggio musicale. Inoltre, il fatto che i
parlanti - curiosamente - affermassero che essa avesse le stesse caratteristiche della lingua usata da Adamo è
perché i loro giochi di parole erano come un pallido riflesso di ciò che fu la lingua primordiale, a sua volta
proiezione, nella condizione umana, di quel Verbo che, attraverso il fiat lux pone, come abbiamo visto, in
relazione iniziazione e cosmogenesi.42
Ma argot ha anche un'altra accezione ovvero è le chicot cioè può designare la partie de bois
mort au-dessus de l'œil d'une branche dans un arbre imparfaitement élagué43 è insomma
l'ancienne forme de ergot e la cosa non si riduce ad una semplice coincidenza linguistica
perché anche in inglese a play on words è reso con il verbo to pun la cui origine è nel lt.
punctum da intendere a sua volta come puntura, pungitura. Del resto, il lt. argutus sta
per pénétrant, pointu, expressif, fin, subtil, rusé44 e chi abbia
queste qualità è anche chiaro e brillante come lo è l'argentum. Tale splendente
chiarezza si ritrova in ργυροΗ, ργυφοΗ e nel skr. árjunah.45 È dunque la metafora di
un parlare pungente, che graffia, che lascia il segno, che fa segni…
che fa simboli e, nel contempo, può chiarire, dimostrare e convincere.
La √ arg è singolare perché, mentre sinora ne abbiamo visti gli esiti in i.e., si ripresenta, ai fini
del nostro argomentare (argumentum!), con non minore pregnanza, anche in ambito
semitico.46 Infatti, in accadico47 argamannu è purple mentre, in ittito (area i.e.), per la
preziosità delle stoffe di red purple wool, con la stessa connotazione economica sottesa
all'argentum, che diventa poi esplicita nel fr. argent, ha assunto significato e ruolo di
tribute.48
La rarità della porpora la rendeva segno di maestà e perciò era strettamente connessa al potere
regale (GIUD. 8.26). A Bisanzio, vi era una sala, la Porphira, interamente rivestita di
porpora e nella quale partorivano le imperatrici. Da qui il nome di porfirogenito, nato
nella porpora, riservato, tra i regnanti, solo a coloro che erano, a loro volta, figli di
imperatori.
Tale sacralità, connessa al colore, si riflette anche sulla roccia di porfido: in Egitto, il più
antico nome di sovrano, quello di Narmer, dietro il quale si cela forse lo stesso leggendario
Menes, colui che unificò i regni del Basso e dell' Alto Egitto, è stato trovato a Saqqara, inciso
su un vaso ricavato da tale pietra. A Roma, nella scultura, l'uso del porfido, emanazione
visibile di quella ideologia di potere, era limitato alla rappresentazione delle statue degli
imperatori, o di soggetti, a tale maestà, comunque correlati.49
Nelle chiese, l'altare non è tale se non c'è una pietra di porfido (Pietra Santa) cosicché
essa è presente anche negli altari mobili utilizzati per le Messe al campo. In alcune
descrizioni, il Graal risulta essere anche una pietra ed un calice con dentro una pietra
rossa era l'emblema - vas sanguinis - dei Chevaliers du divin Paraclet.50
Mentre un grande vaso ansato di porfido - ancora un'evidente immagine del Graal, di esso
si racconta sia stato donato da un'improbabile regina Eugubea di Cipro - appare in bella
evidenza ed appositamente incorniciato da una notevole struttura gotica (primi anni del XIV
sec.), a forma di trilobata edicola a baldacchino, nella Basilica inferiore di Assisi. 51 Le
motivazioni dell'importanza di questa pietra purpurea vengono chiaramente espresse dai
rituali noachici di un high degree del sistema massonico anglosassone: The Royal Ark
Mariner di netta impronta marinara e non muratoria . A differenza di quant'avviene
di norma, in questo rituale, nel Tempio non c'è la Bibbia; ecco come viene motivata tale
mancanza:
Worshipfull Commander: Son Japheth, on what is a Royal Ark Mariner Lodge properly opened?
Senior Warden: On the mysterious Porphyry Stone.
W. Comdr.: Son Shem, why on the Porphyry Stone and not on the Volume of the Sacred Law?
Junior Warden: Because, at the period whence we deduce the origin of this Degree, the Sacred Writings were
not in existence.
Questa è dunque una delle ragioni, poi s'aggiunge:
W. Comdr.: Son Japheth, I presume there are traditions with reference to the Porphyry Stone sufficiently
important to justify its use as that upon which a Royal Ark Mariner Lodge should properly be opened?
S. W.: There are.
W. Comdr.: Relate them.
S.W.: The traditions connected with the Porphyry Stone associating with this Degree are three in number:
First: Upon this stone the Patriarch Noah reposed when the daily returned from his pious labour in building the
Ark, and it was placed by him in the centre of the Ark when finished.
Secondly: With this Stone as an Anchor of Hope did Noah fix the station of the Ark when it rested on Mount
Ararat. Thirdly: Upon this Stone Noah made his first offering to the Lord in thankfulness for his safe
deliverance; and he desired that it should be fixed at the foot of Mount Ararat until the first of his descendants
should be called upon to travel again by either land or water.
Di tale natura era tra l'altro anche la pietra (a outcropping rock) di Giacobbe52 sulla quale, in seguito, s'incentrò il
Kadosh Kadoshim del Tempio sorto sul monte Moriah e dove, ora, si trova la moschea di Omar detta anche,
appunto, della Roccia.
Queste complesse e convergenti ragioni spiegano perché l'elemento fondamentale dell'altare abbia le predette
caratteristiche ma, soprattutto, bene illustrano la sacralità e maestà connessa alla porpora e come, a tutto ciò
che di questo colore si veste, tanto strettamente essa si leghi. Invece, per ben comprenderne i motivi, è necessario
ricordare come tale colore non sia solo della Claviceps ma anche di un altro fungo con analoghe proprietà,
l'Amanita muscaria (vd. infra). Poiché, sia per l'uno, sia per l'altro, l'ingestione provocava gli straordinari effetti
di una possessione divina e, in epoca arcaica, la funzione sacerdotale si fondeva con quella regale nella figura del
re-pontefice53 mentre le tecniche sacrali erano del tipo che oggi si suole definire sciamanico, un manto siffatto,
per chi l'indossasse, stava quindi a dimostrare e nel modo più evidente, l'identificazione col dio con cui si era
soliti avere commercio.
Presso i germani, il blu era preferito ma non si deve dimenticare come, al tatto, il color porpora di questi miceti
tenda a virare all'indaco e al blu.
Tutte queste variazioni di colore sono sottese al termine ebraico tekheleth (
) attribuito alla tappezzeria del
Tempio54 ed alle coperture dei sacri utensili.55 Colore che, nella sua versione ultima, il blu, oltre ad essere
presente nei bordi dei bianchi paramenti liturgici (tallith), in forme analoghe, è poi diventato anche il colore
nazionale.56 Del resto, questa nostra digressione sul blu non è certo oziosa perché
<<Tekheleth's regular companion in the Tora is argaman [red- purple/violet], argewan is the alternative spelling found in 2 Chronicles,
in Akkadian tekheleth = takiltu and argaman =argamannu.>> 57
E, nel contempo, la nostra articolata escursione, ha voluto mettere in luce una serie di concordanze che, partite
dalle esperienze di Hofmann e passando per analisi che, avendo investito i concetti di straordinarietà (la
Seigle ivre e il furor melancholicus), d'acutezza (ergot/argot) e di cromatismo (purpura) rinvenibili e
ricollegabili alle proprietà psicotrope 58 - ma per gli ultimi due anche all'aspetto formale - racchiuse
nell'acuminato sclerozio della Claviceps purpurea, ci rendono adesso meglio possibile affrontare il tema di
quello che dovette esserne un preciso uso rituale.
In un nostro precedente articolo59 abbiamo scritto come, indizi dei quali abbiamo trattato in tale sede, ci facciano
ritenere che, in tempi lontanissimi, il rapporto con il soprasensibile, si realizzasse unicamente per mezzo della
volontà e della capacità di concentrazione 60 e, soltanto in seguito, sorse la necessità d'altri strumenti, che, in
qualche modo, aiutassero l'uomo a superare l'ormai sempre più spessa barriera per lui rappresentata da ciò che la
Bibbia chiama la <<tunica di pelle>>61 ovverosia il corpo carnale in cui è caduto dopo la cacciata
dalla sede originaria.62
Per questa decadenza, che il Mazdeismo definisce un passaggio dallo stato mênôk, sottile, allo stato gêtik,
grossolano,
<<…n'est-il plus possible aujourd'hui aux humains, comme il le fut à l'origine, de passer d'un keshwar 63 à
l'autre.>>64
non è infatti più possibile cavalcare
<< …[l']animal mythique maintenant conservé en un lieu secret jusqu'au Frashkart [la greca
π λιγγενεσ∅α, rinascita ovvero il «nuovo cielo e la nuova terra» 65] où il doit être sacrifié et son corps
servir à la composition du breuvage d'immortalité>>
Era con quest'immagine equestre che veniva indicata tale perduta possibilità degli uomini primordiali di
liberamente accedere a tutti i recessi delle "terre" 66 da allora nascoste e la cui presenza poté ormai rendersi
visibile ed il cui spazio essere percorso esclusivamente attraverso virtù eroiche o godendo di specialissime
situazioni non certo ottenibili soltanto ex voluntate. Le sopra accennate, sopravvenute, difficoltà ad accedere ai
particolari stati liminari, necessari per trasferire, in stato di veglia, la coscienza nel mondo sottile, determinarono
il ricorso a tecniche e sostanze di supporto ed è così molto interessante constatare come, nell'era post-diluviana,
Noè s'identifichi con lo scopritore del vino e lo sperimentatore dei suoi poteri.67
Qui giunti, ci sembra il momento d'assistere al ritorno sulla scena del Dr. Hofmann: il sipario si alzò la mattina di
un venerdì, il 28 Ottobre 1977, al Fort Warden State Park Conference Center, in un idilliaco ambiente naturale
sito presso Port Townsend, sulle coste settentrionali del Pacifico, nello stato di Washington. La scelta non era
peregrina trattandosi della Second International Conference on Hallucinogenic Mushrooms.
L'intervento di Hofmann s'accompagnava a quelli di altri due studiosi: R. Gordon Wasson 68 e Carl A. Ruck.69 Le
loro tesi, nell'anno successivo, furono pubblicate in un volume collettaneo sotto lo stimolante titolo THE ROAD TO
ELEUSIS: UNVEILING THE SECRET OF MYSTERIES.70
Per meglio apprezzare la teoria esposta dai nostri tre autori, sarà bene ricordare alcuni tra gli elementi essenziali
al culto eleusino. Eleusi71 era città e demo dell'Attica, posta a Nord di Atene ed ai bordi della Pianura Rariana.
Incentrati nel grandioso santuario dedicato a Demetra, vi si svolgevano importanti festività: le Eleusine, le quali
erano di due tipi ma nessuna aveva carattere esoterico; anch'esse si partivano in Grandi e Piccole mentre la loro
alternanza seguiva un calendario passabilmente complicato.
Le Piccole si tenevano in Primavera mentre, quando ogni cinque anni ricorrevano le Grandi, il loro ultimo giorno
coincideva con l'inizio dei Grandi Misteri. Questi invece avevano luogo ogni anno, all'equinozio di Autunno 72
mentre i Piccoli, con sede a Agra, seguivano una cadenza primaverile 73 e, sembra avessero funzione preparatoria
ai maggiori.
La partecipazione ai riti presentava un'unica restrizione: l'accesso era consentito ai soli ellenofoni ma, a parte ciò,
la condivisione era assolutamente panellenica e l'iniziazione, come il concetto è recepito ancor oggi, non era
ripetibile, sicché, con la prima presenza, essa s'intendeva ottenuta una volta per tutte.
Per i Grandi Misteri, chi, in seguito, vi tornava, ben espresso anche dal titolo attribuitogli, aveva altro ruolo:
ζΕπ∉πτηΗ, spettatore da interpretare nell'accezione più elevata di colui che ha visto ma
soprattutto d'ispettore.
Per circa 2000 anni, ogni anno, la celebrazione fu mantenuta senza che niente davvero trapelasse riguardo al
momento culminante. Fatta salva quella fase terminale, l'intero processo era ben conosciuto: la processione che,
partita da Atene, anticipata da precise abluzioni, si snodava per circa 30 Km lungo quella che era chiamata Via
Sacra.74
Terminata la marcia, i Μ⇔σται,75 si radunavano nel Τελεστ″ριον76 avvolto nell'oscurità, dove, insieme,
avrebbero passato la notte e, soprattutto, avrebbero avuto la visione - chiamata τ {Ιερ , le cose sante che, nelle pregnanti espressioni di Aristide il Retore77 viene definita:
<<nuova, stupefacente e inaccessibile alla cognizione razionale>>
Appare evidente come tutte queste parole ci rimandino a quanto abbiamo sinora
esposto. C'è da aggiungere che era fatto divieto a chiunque, pena la morte, di
rivelarla.
Sui Misteri, la nostra principale fonte è l'inno A DEMETRA78 d'attribuzione omerica.
Il contenuto è relativo al mito di fondazione, per volontà appunto di una dea, Demetra, dalla purpurea veste,79
dell'iniziazione eleusina. La storia s'incentra sul ratto della di lei figlia Persefone - chiamata anche Core 80 - da
parte del dio degli Inferi, Ade.
Questi, d'improvviso apparso sul suo carro alato, le aveva sottratto la ragazza mentr'ella giocava con le figlie di
Oceano sui prati di Enna. Da quel momento, disperata, Demetra, con fiaccole in mano, vaga per il mondo alla
sua ricerca, sino a che, dopo nove giorni, apprende da Elio, che tutto vede, come, nella triste sorte toccata alla
figlia, Zeus stesso sia stato complice di Ade. Sdegnata dal tradimento, la dea si reca allora nel mondo degli
uomini e, precisamente, alla fonte di Eleusi. Lì, incontra le figlie del locale re Celeo, le quali la invitano alla
reggia. Entrata, si siede addolorata su uno sgabello sopra al quale l'ancella Iambe ha posto una pelle di montone
e, nel vederla così triste, con scherzi, la giovane cerca di consolarla. 81 È presente anche Metanira, figlia del re. A
questo punto Demetra chiede che le venga offerta come bevanda acqua con farina d'orzo insieme a menta.
Metanira prepara il ciceone (κ⇐κεων) e lo porge alla dea come ella aveva richiesto. Quindi Demetra decide
di prendersi cura del figlio di lei, il piccolo Demofonte che nutre d'ambrosia e che, per affetto, vuole rendere
immortale. Per ottenere ciò vorrebbe immergerlo nel fuoco ma Metanira, che s'accorge di quanto sta accadendo,
temendo per la vita dell'infante, le impedisce di continuare. La dea s'adira e, a lei rivolta, per mettere in evidenza
l'umana stoltezza, incapace di comprendere la durezza del fato di gioie e dolori che ineludibile incombe sulla vita
di tutti i mortali, spiega come, essendo stato interrotto il rito salvifico, Demofonte, a tale destino, non potrà ormai
più sfuggire. Però, avendo avuto le cure e l'abbraccio di una dea, egli, in vita, riceverà onori particolari. Poi, in
tutto il suo fulgore divino, si rivela agli Eleusini, impone la costruzione di un tempio in proprio onore e, nel
contempo, procede all'insegnamento dei sacri riti dei quali dovrà essere sede. Infine, quasi a marcare una
differenza coi culti dionisiaci, la dea proibisce la consumazione del vino che, a lei stessa, era vietato. Ma, non
essendo comunque riuscita a trovare la figlia, Demetra, che presiede alle messi, in urto con gli altri dei, decide di
cessare dai suoi compiti, cosicché la Terra precipita nella sterilità. Allarmato, Zeus, tramite Ermes, invita allora
suo fratello Ade a restituire Persefone alla madre. Ade sembra accettare, ma fa sì che la fanciulla gusti quattro
chicchi (i mesi infruttiferi della cattiva stagione) di melograno 82 e, per questo sortilegio, la rapita è costretta a
rimanere per sempre negli Inferi. Appreso ciò, costernata Demetra, giunge infine ad un compromesso, per il
quale, due terzi dell'anno sarebbero stati spesi con la madre mentre il tempo residuo (i quattro mesi predetti)
Core lo avrebbe passato con Ade.
Da qui la stagionale alternanza tra periodi fruttiferi ed infruttiferi.
Con l'avvento del Cristianesimo e la sua diffusione nell'Impero, i Misteri
sopravvissero per poco. Conobbero un periodo di tranquillità sotto Giuliano (361-363)
ed erano apprezzati dalle correnti neoplatoniche. Anche con Valentiniano I e Valente
(364-365) non ci furono problemi.
La distruzione del Santuario e la fine dei riti avvennero, più tardi, ad opera di monaci
e, precisamente, tra il 395 ed il 396 ma, nonostante tutto, i Misteri sostenevano un
ruolo così importante nella società del tempo che, l'aver sino allora ed a lungo
convissuto con la presenza cristiana, non può del tutto escludere l'esistenza di
reciproci rapporti. Infatti, risulta che, mancando alla tradizione classica l'esclusivismo
caratteristico delle "religioni del libro", anche molti convertiti alla nuova fede abbiano
ottenuto l'iniziazione e, singolarmente, anche questi non sembra abbiano mai tradito
il segreto richiesto ai partecipanti. Diverso è il giudizio dei Padri della Chiesa la cui
ostilità è sempre stata manifesta. Tertulliano li definisce
<<diaboliche scimmiottature delle verità cristiane>>
poi, sebbene forzando la realtà ed esprimendosi secondo i ricorrenti τ∉ποι della sessuofobia cristiana, altrove
rincara la dose
<<…i famosi riti di Eleusi […] vige il silenzio su ciò di cui ci si vergogna […] per cui sulla
lingua è posto per intero il sigillo del segreto [tuttavia si rivela] una rappresentazione del
membro virile>>
Altrettanto ostile è Agostino, così Cipriano ed altri.
La ragione di questo ostentato disprezzo oltre che nell'esclusivismo e nell' ovvia
rivalità sta forse, a nostro avviso, in ragioni di ordine più sottile la cui cognizione
doveva essere ristretta a ben pochi e che resta oggi difficilmente definibile con
sufficiente chiarezza. Tale ostilità poteva dunque risiedere anche nella precisa
proibizione del vino disposta dalla dea al momento della istituzione dei riti. Quel vino
che è invece proprio al centro del sacrificio cristiano e - ancorché con ben diverse
modalità - altrettanto importante è pure nel culto dionisiaco. E qui viene da pensare
all'enigmatica frase di Plutarco
<<…Dionysos, qu'une opinion alors83 répandue pensait identique au dieu des Juifs>>.84
Un altro punto d'attrito emerge anche da quant'afferma Eraclito85 di Efeso (VI sec. a. C.);
<<… se essi non allestissero il corteo in onore di Dioniso e non rivolgessero a lui il canto fallico, questo sarebbe il
più vergognoso dei comportamenti: Ma lo stesso dio è Ade e Dioniso, per il quale infuriano e si comportano come
baccanti quando celebrano le Lenee>>.86
Per il filosofo, nella sua pubblica, scontata accettazione, tale identità 87 appariva così
fuori discussione da utilizzarla per teorizzare la coincidentia oppositorum. È proprio
per questo suo specifico punto di vista dottrinario che l'unità mitica di Dioniso e Ade il rapitore di Persefone - appare di tutta rilevanza.
Del resto, nell'attributo dionisiaco di Χθ∉νιος,88 si potrebbe trovare un'ulteriore
conferma del rapporto e, di conseguenza, per giustificare l'interdizione del vino da
parte dell'ostile ed addolorata Demetra. Però il mito non è un sistema filosofico ed i
legami tra la religio eleusina ed i culti dionisiaci benché sottaciuti, in profondità,
sussistevano altrimenti, in quello stesso contesto ed in senso positivo, alla fine delle
Antesterie, durante i Piccoli Misteri, non si sarebbe creduto alla facoltà di generare il
fanciullo divino Ade-Plutone-Dioniso.
Le sopra riportate critiche patristiche, se superficialmente associate alle posizioni
ecclesiastiche attuali, potrebbero far pensare ad un'estraneità di fondo della
Cristianità al concetto stesso d'esoterismo. Di fatto però, negli scritti dei Padri greci,
la frase "ciò è noto agli iniziati" è assai frequente. Ad esempio, Dionigi Areopagita
mette in guardia i cristiani, passati attraverso le µυστ γωγ∅α, dal lasciarsi andare a
confidenze e, nell'affrontare l'argomento, raccomanda invece d'attenersi sempre a
grande prudenza. Quindi le ostilità erano selettive e pertanto si trattava
semplicemente di sostituire una strada con un'altra. Infatti, tale diffuso linguaggio,
unito al generale, preesistente apprezzamento dei Misteri del mondo antico, molto
favorì le conversioni.
Nelle prescrizioni, che la dea dispone in ordine ai rituali iniziatici da condurre nel tempio eleusino, al primo
posto c'è la preparazione della speciale bevanda la cui assunzione da parte dei Μ⇔σται è indispensabile
affinché seguano τ {Ιερ . Infatti, il predetto ciceone dell'inno è letteralmente una mistura in quanto
sostantivo del vrb. κυκε ν, agiter, mélanger des liquides ma che va inteso ègalement au sens géneral de
«bouleverser»89 Riscontro linguistico alle forti dichiarazioni di Aristide il Retore sugli effetti sconvolgenti della
visione che sarebbe seguita all'ingestione.
Per la mancanza di chiare radici i.e. non sono, al solito, da trascurare anche altri ambiti: in elamita, kukunnum
est le temple-haut de la Zigurrat et, pars pro toto, peut désigner la Zigurrat elle-même mentre in accadico
gegunûm is a sacred building erected on terraces also poetic designation of the temple tower. 90 La
connessione sacrale appare evidente. Per lo stretto rapporto concettuale e non solo funzionale intercorrente tra
templum e sacer ci siamo già diffusamente espressi in un nostro precedente lavoro.91
Serve ora qui ricordare soltanto l'estrema pericolosità sottesa a sacrum. Una realtà bouleversante che,
avvicinata in modo indebito, può distruggere o contaminare e, nel contempo, subirne essa stessa
profanazione o danno. A riprova di ciò abbiamo il sacer mons, la sacra via, il sacer clivus ma anche
espressioni solo apparentemente ad esse opposte come il sacer morbus92 o auri sacra fames93 o eum qui eorum
cui nocuerit Jovi sacrum sanciri94 oppure ancora homo sacerrimus: il criminale.
Di conseguenza, appare chiara l'esistenza di un pericolo e tanto rischio non può certo essere lasciato senza
tutela, per cui un'attenta indagine rivela come il senso di sanctum sia proprio quello di designare tutto quanto si
collochi alla periferia del sacrum e che serva a tenerlo lontano da ogni indebito contatto, cosicché la funzione
isolante, di limes, del sanctum, diventa ben leggibile nel sanctuarium, nel murus sanctus ed anche nella lex
sancta, dato che il medesimo contengono o delimitano ma non gli s'identificano.
Tornando al ciceone, dall'inno, sappiamo che esso consisteva in acqua e farina d'orzo95 con
l'aggiunta di menta.96 Da tale composizione, Hofmann arguisce che gli alcaloidi psicotropici ed idrosolubili
dell'ergot (ergina, ergonovina…), nella liquida preparazione descritta, si siano separati da quelli tossici ed
insolubili del gruppo ergotamina/ergotossina, rendendo così attiva e senza rischi la bevanda. Ma, addirittura,
suppone che, per l'infuso, possa essere stato adoperato l'ergot infestante un orzo selvatico appartenente ad una
specie della famiglia Paspalum ed avente la caratteristica di produrre solo alcaloidi psicotropi. Inoltre, sul piano
del folklore, appare evidente, dai già citati nomi di Tollkorn e seigle ivre, come, tali peculiari proprietà dell'ergot
fossero note sin dalla più remota antichità.
Assai impressionante, nella sua congruità con la tesi esposta è il fatto che Demetra sia spesso chiamata
ζΕρυσ∅βη,97 ergot e che la porpora sia il suo colore caratteristico. Inoltre una spiga era il simbolo dei
Misteri.
Nell'opera collettanea dei tre autori, Ruck sviluppa anche la tesi che alcuni tra i più famosi casi giuridici della
Grecia classica, siano scaturiti dalla profanazione dei Misteri e quindi a causa della privata consumazione del
ciceone e, a tal proposito, cita i processi contro Socrate e Alcibiade. 98
Nel Τελεστ″ριον, dopo una serie di atti rituali (δρ∉µηνα) che, accompagnati da appropriate giaculatorie
(λεγ∉µενα), precorrevano il momento dell'iniziazione, i µ⇔σται, imitando lo ierofante (⊇εροφ ντηΗ),99 dopo
aver bevuta la mistura, attendevano la visione (τ {Ιερ ) i cui sintomi premonitori - sudori freddi e vertigine
- mostravano, in maniera abbastanza esplicita, d'essere originati dall'assunzione di una droga. 100
In ogni caso, l'uso di sostanze psicoattive, non era certo estraneo al mondo classico e, in questo senso potrebbe
anche essere letta la tradizione che voleva Perseo protagonista del seguente episodio fungino:
<<Ho anche sentito raccontare che, una volta, assetato, [Perseo] ebbe l'idea di strappare un fungo da terra;
sgorgatane acqua, ne bevve e, avendone provato piacere, diede al luogo il nome di Micene>>. 101
A questo proposito Giorgio Samorini e Gilberto Camilla così commentano:
<<La precisazione di ‘provare piacere' in seguito alla bevuta dell'acqua sgorgata dalla depressione sul terreno lasciata
dal fungo, potrebbe indicare, nel linguaggio metaforico della mitologia, le proprietà visionarie ed estatiche del fungo
in questione. Pausania fa dunque derivare la parola Mycenae (o Mykenai) direttamente da mykes, ‘fungo', e ancora oggi
questa è l'etimologia più largamente accettata dagli studiosi. Il fatto che il nome di questa antica popolazione, così
come quello di una delle sue più importanti città, siano associati così intimamente con il motivo del fungo, non può
indicare altro che rapporto affatto secondario dei Miceni con i funghi>>.102
Un'altra curiosa considerazione scaturisce dall'acrostico ottenibile dai nomi degli ingredienti del ciceone:
µ∅νθα, ⇐δωρ, κ⇐κεων, λφι ossia µυκα venga ad essere, con non casuale pregnanza, la forma accusativa
arcaica di µ⇔κηΗ, fungo. L'ipotesi è formulata da Robert Graves nella prefazione ad un'edizione riveduta di
GREEK MYTHS,103 dove egli suppone che il fungo in questione, utilizzato in remoti culti dionisiaci, sia l' Amanita
muscaria. Sembra infatti che a Centauri, Satiri e Menadi dionisiache sia attribuita la consumazione rituale di
quel fungo purpureo, maculato di bianco, il quale, oltre a scatenare la libido, aveva il potere di sviluppare
un'incredibile forza fisica e, soprattutto, di dare il dono della profezia.
Attingendo all'immenso, inconscio deposito del folklore, in Germania, troviamo una strana filastrocca
infantile:104
Ein Mannlein steht in Walde
Ganz still und stumm.
Er hat von lauter Purpur
Ein Mantlein um.
Sag' wer mag das Mannlein sein
Das da steht auf einem Bein?
Gluckspilz! Fliegenpilz!
C'è dunque, nel bosco, un silenzioso ometto che, vestito di porpora, sta ritto su una gamba sola ed altri non è che
un fungo ma, guarda un po', esso è il fungo della felicità, il fungo che fa volare ovvero proprio la nostra Amanita.
A questo punto c'è da constatare come la zoppaggine, che, in molti casi, si maschera dietro il cosiddetto
monosandalismo105 (condizione imposta al recipiendario106 massonico), sia una costante di coloro che
appaiono in grado di introdurci o stanno per essere introdotti dans le monde à côté. Gli esempi sono
innumerevoli, basti qui citare il caso di Giasone, il quale - quando rimane con un solo sandalo - riuscirà
nell'impresa e conquisterà il vello d'oro.
Quel vello sulla cui reale natura - nell'apprendere che esiste una varietà del nostro fungo dal cappello di un
giallo brillante, cui ben s'addice la metafora aurea - non possono non sorgere dubbi. Sospetti che s'infittiscono
nell'apprendere, pel medesimo, l'esistenza di un tipo il cui attributo floccocephalus è piuttosto esplicito tanto che,
in antico, questo fungo era spesso descritto come una piccola pecora giacente ai piedi degli alberi e, in un
vaso di terracotta d'epoca micenea, si può addirittura ammirare un montone dall'insolito manto a chiazze rosse
bianche.107
Del resto, alla connessione psicotropa dell'onomastica nazionale, non sembra sfuggire nemmeno il nome arcaico
dei Greci - Argivi (Αργε℘οΗ) - dove, come nel mezzo di trasporto (la nave {Αργ) per il viaggio di
Giasone e dei suoi compagni, compare ancora quella √arg sulle cui sconcertanti valenze ci siamo già soffermati.
C'è poi da aggiungere che l'habitat preferenziale di tale fungo si trova o in regioni dell'Europa settentrionale 108 o
in affini ambienti montani.109 Non era insomma la Grecia storica quella dove lo si poteva raccogliere con
maggiore facilità.
Questo sembrerebbe dover farci propendere a non avere certezza dell'uso, però, se invece ci volgiamo verso
l'ipotesi di Felice Vinci,110 che assegna una patria scandinava agli antichi Achei, tale habitat farebbe supporre
che, in quella fase proto-ellenica, per accedere a certi stati secondi, le sostanze privilegiate fossero
scaturite dalla risorsa fungina e dall'idromele, mentre, si può supporre che solo più tardi e nelle sedi
storiche, per procedere ai viaggi iniziatici111 fosse avvenuta la loro sostituzione con l'ergot (in quanto
associato alla cultura dell'orzo112) e con il vino.
In ogni caso, c'è da dire, sebbene queste possano essere molto ragionevolmente intese quali aggiunte e correzioni
tardive, operate dagli aedi della catena di trasmissione, che vino ed orzo compaiano anche nei poemi omerici
mentre, di sicuro l'INNO A DEMETRA è, per quello che riguarda Omero, una falsa attribuzione risalendone la
composizione intorno al VI sec. a. C. Del resto, il nome di Micene (Μυκ″νη o Μυκ↑ναι) ancor oggi risuona
nella più occidentale delle isole Faroe, la piccola Mykines, 113 nel cui arcipelago (Μυκ↑ναι è un plurale), sempre
il Vinci, basandosi su Plutarco, 114 individua l'Ogigia di Ulisse.
Dopo questa sommaria rassegna, riteniamo che ora possa apparire piuttosto evidente quanto sia connessa alla
stessa concezione tradizionale del reale, la necessità di usufruire di strumenti atti al conseguimento di un'assenza,
di un'estraneità, di un superamento insomma degli stati ordinari della coscienza, poiché - secondo tale punto di
vista - l'unica validità di questi ultimi starebbe solo nella loro limitata rispondenza alle peculiari e ristrette
condizioni del mondo sensibile ma, se al sentire delle élites, poteva apparire scontato che
<<Muoiono le città, muoiono i regni,
copre i fasti e le pompe arena ed erba,
e l'uom d'esser mortal par che si sdegni:
oh nostra mente cupida e superba!>>115
risulta allora palese che, per quello stesso sentire, la mente, a quei confini, non dovesse certo limitarsi.
Quindi, per ottenere tale perdita di contatto, spinta fino a raggiungere una diversa percezione
della stessa realtà, da una data fase del ciclo in avanti, le sostanze psicotrope hanno giocato un
ruolo fondamentale.
È su questa base che si è prevalentemente strutturata la pratica sciamanica e della quale, oggi,
più o meno manifesto ma attivo in tutte le civiltà, resta uno sfuggente substrato. In epoche ai
limiti della storia, le relative tecniche hanno cominciato a profanizzarsi determinando gravi
alterazioni nell'intero corpo sociale.
Le vie, attraverso le quali tale volgarizzazione è avvenuta, come sappiamo dalle succitate
violazioni dei Misteri eleusini, stanno sempre a dimostrare come, in origine, queste pratiche
fossero ristrette ai gruppi iniziatici e che, da essi, si siano poi diffuse tra i comuni con effetti
assolutamente dissolventi. Una traccia storica relativamente recente ed esemplare per la
linearità del processo, ci è fornita da un recente studio sull'uso e consumo della cannabis
(qinnab,×≤) nell'Islam:116 la frequente utilizzazione, a fini estatici, 117 dell'erba
(hashish, ℵ ο ), per lo stretto contatto - da sempre intrattenuto dalle turuq118 con gli strati più
popolari della società mentre, nel contempo, esse ricevevano la massima considerazione e
stima da quelli più elevati - ha fatto sì che tale centralità favorisse la diffusione della sostanza
nell'intera compagine sociale. Compagine che, ovunque, per la sua stessa fondamentale
passività e piatta conformità alla dimensione sensibile, ha soprattutto necessità di equilibrio e
di ordine. Per essa, i rapporti col sacro debbono limitarsi alle pratiche devozionali altrimenti
la natura essenzialmente perigliosa che gli è propria può erompere in forme incontrollabili.
Strumento del tutto analogo e del quale, parimenti, si è sempre cercato di circoscrivere e
limitare la potenza, è il sesso. 119 Così come la realizzazione spirituale, attraverso la morte
iniziatica, si propone il superamento dell'individualità, parimenti, come traspare dai versi di
Jalāluddin Rūmi,
<<My heart, when thou shalt see
The Beloved, instantly
At His advent in anguish die:
How long wilt thou sigh?
For so it is, when the face
Of the sun shines forth in grace,
If the candle be nod dead,
'Tis extinguished.>>120
così opera la tensione amorosa. In essa dunque, per esaltazione, si verifica uno
spostamento del piano cosciente, di conseguenza gli amanti, letteralmente, vivono com'anche appare negli stereotipi del più comune linguaggio amoroso - tra sogno e
morte121 e ciò fa sì che l'eros sia, a livello fenomenologico ed anche per le persone
comuni, quanto che di più prossimo alle condizioni estatiche 122 venga dato di provare.
Si può anzi affermare con palesi riscontri che sia quella la più frequente situazione
nella quale, anche alle masse, sia concessa la possibilità d'esperire il superamento di
sé. Ed è per ciò che, a livello devozionale, l'amore divino e l'imitatio, delle
compassionevoli proiezioni filiali, profetiche ed avatariche del Principio, gioca, nella
storia dell'umanità, un sì gran ruolo.
Le analogie della sessualità con quello che, in merito alle sostanze psicoattive
abbiamo esposto, sono incontestabili. Così come incontestabili, perché a tutti
evidenti, non solo per la storia ma per la cronaca, sono le conseguenze egualmente
distruttive di una pratica di entrambe al di fuori di precise norme di controllo. 123 Del
resto, come abbiamo veduto, anche l'aurea mediocritas presenta sia a livello della
società, sia per l'individuo, rischi oscuri e, nel suo subdolo agire, non meno
devastanti. Questa è però la condizione dell'uomo, la cui esistenza - sospesa tra
dharma e karma - è sottoposta a continue tensioni che rendono lo stesso equilibrio,
nella sua estrema relatività, illusione e prigione...
Note
1
Filamenti di cellule cilindriche formanti il corpo vegetativo dei funghi.
2
A livello della popolare nomenclatura botanica dell'infestazione, indicativi sono i nomi di Seigle
ivre, segale ebbra e Tollkorn, grano folle. Il motivo sotteso all'aggettivazione stava nelle
vere e proprie epidemie allucinatorie e convulsive (Ergotismus Convulsivus) che tale intossicazione
poteva provocare; inoltre, essa era suscettibile di dare luogo ad una forma cancrenosa degli arti. In
quest'ultimo caso, noto sia come Ignis sacer, sia come Fuoco di Sant'Antonio, l'ergotismo era solo una
delle sue due possibili diagnosi, per l'altra - un tempo non differenziabile - la causa risiedeva invece
nella presenza di un virus erpetico ed è quella la patologia, oggi, denominata, appunto, Herpes Zoster.
3
Albert Hofmann, LSD, MEIN SORGENKIND, Ernst Klett, Stuttgard, 1979. Trad. it. LSD, IL MIO BAMBINO
Urra-Apogeo, Milano, 1998. Per le esperienze condotte insieme a Ernst Jünger, vd. di
quest'ultimo ANNÄHERUNGEN. DROGEN UND RAUSCH, Ernst Klett, Stuttgard, 1970. Trad. it. AVVICINAMENTI,
DROGHE ED EBREZZA, Multhipla Edizioni, Milano, 1982.
DIFFICILE,
4
Per i precedenti dello scrittore tedesco, vd. il testo citato supra alla n. 3.
5
È il termine tecnico con il quale massoni - e, nel passato, anche i carbonari - chiamano l'iniziando.
Pur provenendo dal lt. recipiendus, esso starebbe però ad indicare soprattutto il receptor, quindi
recettore sarebbe meglio detto. Nei dizionari spagnoli è presente con questa definizione: persona
que es recibida en sesión solemne celebrada para ello como miembro de una corporación.
6
Ch. XXVI de APERÇUS SUR L'INITIATION, Éd. Traditionnelles, 1964.
7
Singolare questa coincidenza di visioni con le cosiddette near-death experiences (NDE) che, dalla
prima raccolta di testimonianze, redatta dall'americano R. Moody (THE LIGHT BEYOND, Bantam Books,
NY, 1988), ha ampiamente proliferato con ulteriori lavori dello stesso autore e con quelli di innumeri
epigoni in molti paesi.
8
FRAGMENTA 168, a cura di F. H. Sandbach, da [Giovanni] Stobeo, ANTHOLOGION, 4.52.49.
9
Ibidem;supra, n. 6.
0
Il ns. riproporre, come in altri articoli, esemplificazioni tratte da questa forma iniziatica, trova motivo
soltanto nel mero dato di fatto che essa sia oggi l'unica strada di quest'ordine percorribile nei paesi di
cultura occidentale, fatta, ovviamente, salva la più recente presenza di analoghe organizzazioni la cui
origine esotica le colloca però in un contesto culturale alieno.
11
È il nome tecnico del piccolo martello magistrale. Diminutivo di maglio dal lt. malleus.
12
Il tracciato del gesto, che fa Apprendista il profano, è simile a quello della lettera ebraica lamed
‫לּ‬, il cui nome  significa exercise in, learn. Pressoché eguale è anche il fulmineo tracciato
della runa sowilo. E sowilo - for the sound represented by the Roman letter "S"
- means "sun" and Sig and its variations, except for Sigel which
means sun, mean "victory." Sig- was a common prefix for both men's
and women's names in Germanic countries.
13
14
Vd. il ns. Ατοπον nel n. 6/1 di EPISTEME.
Ratio proviene da reor, contare, calcolare dove il suo senso relazionale di rapporto è
evidente.
15
In ancient China, the koan [dal cinese: gongan,
] was an official document that handed down
an important judgment, a final determination of truth and falsehood. Adapting and subverting this
notion, Zen [cinese: chan,
] Masters to this day make use of all sorts of stories, problems and
situations, the more shocking the better, in order to cultivate their students' awareness. The method
usually consists of a question and an enigmatic answer. It is believed that such answers arise from the
mysterious, irrational or paradoxical nature of truth. Only an apparently illogical answer can reveal
it.
16
Per ben rendere tutto questo:
<<…consider the famous 'Mu koan': a monk asked Master Joshu, "Does a dog have Buddha-nature?" Joshu
replied, "Mu." Doctrinally, its answer is 'yes' as all beings can evolve towards enlightenment (Buddha-nature).
But Joshu deliberately does not answer with an unequivocal 'yes' or 'no' so as to demolish the monk's dependence
on scriptural logic. 'Mu' [
] is the Chinese ideogram for 'nothing' which might also be interpreted as 'nothing' or emptiness. With a single syllable, Joshu has revealed no-thingness as the core of existence>>
da Swati Chopra, THE SOUND OF ONE HAND CLAPPING in LIFE POSITIVE, Dec. 2000.
17
METAFISICA, 12.7.1072b29-1072b30.
18
Vd. Bernard Forthomme, DE L'ACÉDIE MONASTIQUE À L'ANXIO-DÉPRESSION, Institut d'édition Sanofi Synthélabo, 2000. In teologia morale è uno dei sette vizi capitali, cui fanno riscontro le quattro virtù
cardinali. Vd. C. Casagrande e S. Vecchio, I SETTE VIZI CAPITALI, STORIA DEI PECCATI NEL MEDIOEVO,
Einaudi, 2000.
19
Petrarca, OPERE LATINE, a cura di A. Bufano, UTET, Torino, 1977.
20
Gershom Scholem, SABBATAÏ TSEVI, LE MESSIE MYSTIQUE, Verdier, 1983.
21
DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM, LIBER SECUNDUS, 85.
22
Orazio, ODI, II. 10. 5
23
Terenzio, ANDRIA, I. 61.
Vd. Platone, FEDRO, 68b-69e, 237d-238b. Il suo contrario è la ◊βρις, la perdita di
controllo, l'intemperanza, da cfr. con il lt. ebrius. Entrambi non hanno etimi i.e. ma trovano
senso solo in ambito semitico. Il concetto che li accomuna è il superamento di un limite,
di una norma: accad. ēberu, to cross over e ubāru, violence nonché l'ebr. 'abbir,
strong.
24
25
Non dimentichiamo che Dante, se accostiamo - per la presenza di un comune umor melanconico questo vizio all'ignavia, egli, per ben tre volte, condanna tale disposizione d'animo: INF. III. 51, VII.
123 e PUR. XVIII. 132.
26
John Dryden, DRYDEN'S POETICAL WORKS, Astor Edition, 1899. Per intendere correttamente questa
citazione del Dryden (1631-1700), è bene ricordare come, prima del XIX sec., nel fare riferimento a
personalità eccezionali, la madness non fosse necessariamente da intendere in senso patologico,
quanto, piuttosto, fosse da recepire nell'accezione platonica di µ ν∅α ossia nel frutto dell'entusiasmo
(l'ƒνθουσ∅α, la possessione divina), cioè la madre dell'ispirazione; vd. in FEDRO, 244a:
<<I maggiori beni ci sono elargiti per mezzo di una pazzia che è un dono divino>>
Altrimenti, per esemplificare, nel caso di Michelangiolo, non avrebbe avuto significato il suo darsi del
pazzo.
27
DE MYSTERIIS, III, 8. 25.
28
Ibidem: ƒπ∅ τ∉ χε℘ρον.
29
Ibid: ƒπ∅ τ∉ βƒλτιον.
30
SMARAGDINA HERMETIS TABULA ; INCIPIT:
<<Verum sine mendacium, certum et verissimum, quod est inferius est sicut quod est superius, et quod est superius est sicut
quod est inferius ad perpetranda miracola Rei Unius. Et sicut omnes res fuerunt Uno, meditatione Unius: sic omnes res
natae fuerunt ab hac Una re adaptatione.>>
31
τ µικρ , a Agre.
32
τ µεγ λ , a Eleusi.
33
Su quest'argomento vd. di Franco Lo Piparo, ARISTOTELE E IL LINGUAGGIO, Laterza, 2003. Per
Aristotele: MET. X, 3, 1054 b 3. Il concetto, ovviamente, è fondamentale anche per la geometria greca:
Euclide, EL. VI, def. 1, 3; def. 11, ecc. Infine, nell'accezione di assimilazione, da Platone sino a
Dante e Bruno, importantissimo è il suo ruolo come µο∅ωσιΗ 1ε che è poi il fine ultimo della
realizzazione spirituale e dei grandi misteri.
34
Così inquadrati i problemi posti dalla fisica, superano le semplicistiche affermazioni relative alla
"falsità" della Relatività e della Quantistica ma, giustamente collocati, trovano, negli sconcertanti
risultati di questi sviluppi, importanti indicazioni sulla natura ultima del reale. A tutta questa tematica
vd. il ns. contributo SOLVET SAECLUM IN FAVILLA apparso nel n. 6/1 di EPISTEME.
35
Altra non meno importante conseguenza del situarsi dello stato umano, soprattutto nella sua presente
limitazione alla normale percepibilità della sola modalità grossolana, del suo porsi insomma tra due
caos (cfr. di R. Guénon, LES ÉTATS MULTIPLES DE L'ÊTRE, Éd. Véga, ch. XII), tra due domini sfuggenti alle
regole prevalenti nel mondo ordinario, è l'apparente ragionevolezza e positività di un'interpretazione
materialistica. Con evidenza, è da qui che, in chi abbia fatta propria tale chiusura, deriva poi il rifiuto
sia della metafisica, sia delle conclusioni cui è giunta la scienza contemporanea: in entrambe e,
paradossalmente non a torto, questi vedono solo "follia".
36
Vd. anche il cassinense Costantinus Africanus, OPERA MEDICA (Basel, 1536), DE MELANCHOLIA, liber II,
p. 287:
<<…timor de re non timenda, cogitatio de re non cogitanda, sensus rei quae non est>>
37
Vd. Piero Camporesi, IL LIBRO DEI VAGABONDI, Garzanti, 2003 e di Bronislaw Geremek: POVERTY: A
HISTORY, Blackwell Publishers, 1997; THE MARGINS OF SOCIETY IN THE LATE MEDIEVAL PARIS, Cambridge
University Press, 1987.
38
Ipotesi formulata dall'Arch. Michele Palamara, che ha svolto attente ricerche sull'arte in Sicilia; vd.:
http://www.retesicilia.it/arte/architettura/palamara.html
39
È Fulcanelli che, ne LES DEMEURES PHILOSOPHALES (deux tomes, Éd. Pauvert, p. 55), in forza della
paranomasia tra gotique e argotique, suggerisce questa soluzione.
40
Gergo: jargon ma, sia in tale vocabolo, sia in argot, la radice significante e della quale ci
occuperemo più avanti, è *arg.
41
Vd. Richard Khaitzine, LA LANGUE DES OISEAUX, Dervy, 1996. Esiste un'ulteriore sinonimo: langue
verte, il quale potrebbe spiegare la designazione spregiativa di setta verde utilizzata in Italia, nei
sec. XIX e XX, per nominare la Massoneria. Più semplicemente, alcuni l'attribuiscono ai regalia di
detto colore che, in prevalenza, a differenza dell'azzurro imperante altrove, nella penisola invece, da
parte di varie Obbedienze, sono ancora i preferiti. Vd. di F.M. Enigma, [Lodovico Macinai, di parte
cattolica], LA SETTA VERDE IN ITALIA, ed. PiZeta, 2000; riedizione di una pubblicazione del 1906.
42
Non a caso, poesia viene da πο∅εω, creo. C'è qui da precisare come tutto questo sia però da
intendere su un piano eminentemente teorico mentre, di fatto, nelle sue bizzarrie, tale modo
d'esprimersi - in quella che, detta nell'antico francese, avrebbe dovuto essere la gaye-science o il gayscavoir - era, invece dello spirituale strumento anagogico sopra illustrato, piuttosto frutto di reale
confusione e piatta ignoranza. Comunque, tra autentici cerretani (dal borgo di Cerreto presso Spoleto;
detti però anche ciarlatani perché, esperti in medicina ed altre arti, quando queste non
bastavano, erano abili ad aiutarsi con il loro ciarlare) e vagabondi, neppure la presenza di qualche
iniziato poteva sempre garantire che, in tali contesti, si superasse, di quanto prima esposto, la mera
virtualità. Un esempio tra i tanti: nell'Old Charge della Massoneria operativa c'è menzione di un tal
Peter Gore che è solo la trascrizione fonetica di Pitagora. Ma tra i FF. quanti lo sapevano e poi, perché
mai nasconderlo? Siamo insomma nella fattispecie del folklore, nel quale sono sempre presenti
indubbi elementi sapienziali ancorché spesso deformati, menomati o - per le innumeri intrusioni ex
tempore dalle più disparate provenienze e motivazioni - tanto frammentati che, per ricomporre il
perduto mosaico conoscitivo, importante compito del maestro massone sarebbe proprio quello di
raccogliere ciò che è sparso.
43
DICTIONNAIRE DE L'ACADÉMIE, 8ème édition.
44
A. Ernout, A. Meillet, DICTIONNAIRE ÉTYMOLOGIQUE DE LA LANGUE LATINE, éd. Klincksieck, 1959.
45
Sul versante i.e. l'etimo di argaman / argewan potrebbe avere una base nel skr. ragamen e ragavan,
aggettivi entrambi derivati da raga, red colour, redness.
46
È nostra opinione che, sebbene le due grandi famiglie si presentino storicamente assai lontane,
abbiano, in effetti, in una fase remota, conosciuto un periodo di stretta comunanza ed i risultati più
evidenti di tale arcaico melting pot siano ancora leggibili soprattutto nell'antica lingua accadica.
47
A CONCISE DICTIONARY OF AKKADIAN, Harrosowitz Verlag, 2000. Inoltre, cfr. ebr. argaman con lo stesso
significato dell'ittito mentre è porpora nell'ugaritico argmn e nell'aram. argwn.
48
Cfr. Plutarco, VITA DI ALESSANDRO; 36.1. Dove si racconta che, a Susa, nel tesoro di Dario, si trovava
un deposito di stoffe colorate a porpora, dal valore di 5000 talenti. Inoltre, è specificato che, dopo due
secoli di immagazzinamento, colore e tessuti non avessero assolutamente perso la loro freschezza.
49
Così i sarcofagi di porfido erano concessi solo agli imperatori sia nella Roma tardo-antica, sia a
Costantinopoli mentre, a Ravenna, nel porfido, fu sepolto Teodorico e parimenti avvenne in Sicilia per
i sovrani normanni e svevi. Di porfido è anche il sepolcro di alcuni pontefici medievali.
50
Si tratta di una sopravvissuta ma ristrettissima organizzazione iniziatica cattolica, incorporata ad un
gruppo ancora più riservato denominato Estoile Internelle. Essa, ma non l'altro organismo
rimasto latente, fu rivitalizzata in Francia negli anni '30 per poi ricadere "in sonno" alla data del 31
Dicembre 1951. Vd. http://www.cesnur.org/paraclet/paraclet.htm
51
Da GUIDA D'ITALIA, UMBRIA, TCI, 1978, p.228.
52
GEN. 28.11.
53
Nell'Estremo Oriente, i due ruoli sono, riassunti nella singola persona dell'imperatore: il Wang nella
tradizione cinese ed il Tenno in Giappone (Shinto). Nei due sistemi di scrittura, sono entrambi
rappresentati dallo stesso ideogramma 王 ; il quale, visivamente unendo cielo e terra, ben esprime la
loro funzione pontificale. Singolare che proprio una croce segni la collocazione mediana e
mediatrice del figlio del cielo, il quale viene qui a trovarsi rappresentato con lo stesso
segno del figlio dell'uomo.
54
Per il Tabernacolo: ES. 25.4, 26.1, 28.5-6, 28.33, 35.25. Per il Tempio: 2CR. 2.6 e 2.13-14.
55
NU. 4.6-12.
56
Si ricorda che esso è anche il colore dei regalia massonici; vd. supra n. 41.
57
Da: Hakham Meir Yosef Rekhavi, THEY SHALL MAKE FOR THEMSELVES SISITH [Fringe/Tassel], testo
caraita in http://www.karaite-korner.org/rekhavi/sisit.shtml.
58
Sempre più spesso, in testi appartenenti alla cultura di lingua inglese ed in ambienti positivamente
orientati verso gli allucinogeni, per essi e con evidenti intenti eufemistici, viene usato, tratto dal gr.
♣νθεοΗ, divinamente ispirato (cfr. supra n. 26), il neologismo entheogens, da
en·theo·gen: God's birth within. Autore del medesimo è R. Gordon Wasson; vd. infra n. 68.
59
DE VERBO MIRIFICO in EPISTEME, n. 5.
60
In India, questo nucleo arcaico è individuabile nella parte che potremmo definire più propriamente
vedica della tradizione mentre i Tantra sono sicuramente una apporto acquisito dalle civiltà indigene
del sub-continente aventi, come principale riferimento, la razza nera. Cfr. tutte le numerose opere sui
Tantra di Arthur Avalon (Sir John Woodroffe) ed anche J.Evola; LO YOGA DELLA POTENZA, Ed.
Mediterranee, 1968.
61
GEN. 3.21.
62
Denominata a seconda delle tradizioni pervenuteci: Pardes, Agarttha, Erân Vêj, Shambala, Paradiso
terrestre…
63
Le sette modalità sottili del nostro mondo che, nel loro insieme, costituiscono la terra totale. Sono i
sette dvîpas indù, i keshvar iranici, le sette terre della Cabala e dell'Islam ed in Dante, i sette ripiani
della montagna del Purgatorio.
64
H.Corbin; CORPS SPIRITUEL ET TERRE CÉLESTE, Éd. Buchet/Chastel, 1960, p.42.
65
AP. 21.1.
66
Per un'altra illustrazione della molteplice struttura terrestre, rappresentata in forma ovviamente
mitica, vd. Platone, FEDONE, tutto il SECONDO MITO ESCATOLOGICO ed in particolare da 108 C a 113 C.
67
GEN. 9.20. Sperimentatore ed anche prima vittima di essi. Nell'episodio si sottintende a quella che,
per la sensibilità odierna, è un'inquietante gerarchia tra le razze.
68
R. Gordon Wasson (1898-1986) was an international banker, amateur mycologist, and author. He
studied at the Columbia School of Journalism and at the London School of Economics. In 1926, RGW
married Valentina Pavlovna Guercken (TW), a pediatrician. The Wassons went on to integrate
mycological data with data from other fields: history, linguistics, comparative religion, mythology,
art, and archaeology, exploring all aspects of mushrooms. The R. Gordon Wasson Archives contain
correspondence (original and carbon copies), notes, memoranda, lists, notebooks, diaries,
translations, drafts, typescripts, proofs, illustrations, maps, charts, stamps, artifacts, original art
work, film, audio tapes, video tapes, photographs, negatives, slides, and mounted exhibit materials
relating to Tina and Gordon Wasson's ethnomycological research as well as to RGW's literary and
political interests. Vd. Thomas J. Riedlinger, (Editor), THE SACRED MUSHROOM SEEKER: ESSAYS for R.
Gordon Wasson, Portland, OR: Dioscorides Press, 1990. Gli archive di RGW sono depositati presso
gli Harvard University Herbaria.
69
Carl A. P. Ruck is a classical scholar specializing in the ethnobotany of ancient Greece, Professor
of Classical Studies, College of Arts and Sciences, Boston University.
70
Publish. by Helen & Kurt Wolff Book, Harcourt Brace Jovanovich, Inc. 1978. Trad. it. ALLA
MISTERI ELEUSINI, ed. Urra- Apogeo, Milano, 1996.
SCOPERTA DEI
ζΕλευσ∅Η, non ha etimi accettabili in i.e., parimenti avviene per gli ζΗελ⇔σιον πεδ∅ον, la
residenza dei beati. Considerata la fattispecie, per entrambi, il riferimento all'accad. elēşu,
rejoice, make joyfull, s'impone come del tutto soddisfacente.
71
72
Al 19 del mese di Βοηδροµιν: Settembre - Ottobre. Il 19 cadeva agli inizi di Ottobre.
73
Mese di ζΑνθεστηριιν: Febbraio - Marzo.
74
Vd. Pausania, GUIDA ALLA GRECIA: 1.36.3 - 38.7.
Μ⇔σται da µ⇔ω, taccio (cfr. supra n. 16, il cinese mu), era il nome dato ai partecipanti. Il
riferimento è, in prima istanza, al segreto ma quello più importante è all'ineffabilità
dell'esperienza. Però sembra che così venissero già definiti coloro che erano ancora soltanto
candidati.
75
Il senso di τƒλος è compimento, fine, realizzazione; nel nostro caso, si tratta di un
luogo nel quale si porta a termine qualcosa, i.e. l'iniziazione.
76
77
Publio Elio Aristide Teodoro Eudemione (II sec. A.D.), nacque a Adriani nella Misia; la frase è
tratta dagli {Ιερο∅ λ∉γοι.
78
In INNI OMERICI, Fondazione Lorenzo Valla, 1975.
79
Mentre per Demetra purpureo è il peplo, per Ade, il rapitore, tale è la chioma; la dea è invece
bionda: ξανθ← ∆ηµ″τηρ. Interessante, pel contesto di tutto il nostro discorso e riguardo agli attributi
della dea, anche quello che ne scrive Sir James G. Fraser nel cap. XLV, THE CORN-MOTHER AND THE
CORN-MAIDEN IN NORTHERN EUROPE del suo THE GOLDEN BOUGH. Se ne riporta il significativo incipit:
It has been argued by W. Mannhardt that the first part of Demeter's name is derived from an alleged Cretan word deai,
"barley," and that accordingly Demeter means neither more nor less than "Barley-mother" or "Corn-mother"; for the root of
the word seems to have been applied to different kinds of grain by different branches of the Aryans. As Crete appears to have
been one of the most ancient seats of the worship of Demeter, it would not be surprising if her name were of Cretan origin.
80
Κορη, fanciulla.
Da qui le feste denominate Tesmoforie (τ Θεσµοφορ∅α) che, ogni anno, verso la fine di
Ottobre, dal 10 al 14 del mese di Pianepsione (Πυανεψιν), si celebravano sempre a Eleusi
ma all'esterno del santuario.
81
82
Il melograno (Punica granatum) è un noto simbolo massonico essendone, festoni dei suoi frutti,
l'ornamento sommitale delle due colonne del Tempio salomonico (1RE, 7.20 e GER. 52.22). Nel mito di
Persefone, è segno di morte ancorché morte iniziatica mentre, per la Bibbia, lo è di
bellezza e prosperità: CT. 4.3, 4.13, 6.7. Inoltre, per l'interna conformazione in otto "logge"
del frutto, nel quale sono contenuti i granuli scarlatti, è un'immagine della comunità massonica e
della solidarietà ed unione fraterna. Il fiore, il cui calice è una grossa bacca fibrosa, persistente nel
frutto, prende nome di balaustra o balausta (dal lt. balaustium o balaustrium a sua volta dal gr.
βαλα⇔σιον), da questo vocabolo desueto proviene il curioso nome di balaustra che, in alcune
obbedienze italiane, è dato alle comunicazioni interne del Gran Maestro. Il senso è che esse
contengano grani di saggezza. Βαλα⇔σιον non ha etimi i.e. ma, vista la forma e la
dimensione del frutto è possibile il rif. semitico all'accad. ba'ālu, grande e allanū, ghianda, oppure
direttamente all'ebr. balut, , ghianda; cfr. l'it. ballotta, castagna lessata.
83
84
Egitto: Tolomeo III regnante: -246 / -221.
J. Hani; LA RELIGION ÉGYPTIENNE DANS LA PENSÉE DE PLUTARQUE, Les Belles Lettres, 1976, p.170. Per tutto
quest'argomento vd. il ns. precitato DE VERBO MIRIFICO.
85
FR. n. 15, in (a cura di H. Diels e W. Kranz) DIE FRAGMENTE DER VORSOKRATIKER, Berlin, 1951-1952.
τ Λ″ναια: da λ″νος che era il nome del torchio per spremere l'uva. Feste invernali,
proseguimento delle Piccole Dionisie.
86
87
In merito alla serie di equazioni: Dioniso = Dio degli Ebrei = Ade, cfr. anche, per quest'ultimo, l'ebr.
0&$!, Signore, Adon, reso in it. con Adonai. Intorno a questa tesi identitaria, sulla quale non
possiamo diffonderci oltre vd. anche di Graziano Biondi, DIONISO È LO STESSO CHE ADE, in IDEE, RIVISTA
DI FILOSOFIA, Università di Lecce; n. 48, 2001.
A quest'aspetto del dio erano dedicate le lugubri Τριετηρικα∅ che si celebravano ogni tre anni. Si
diceva che Dioniso scendesse nel sotterraneo palazzo di Persefone e lì prendesse dimora come colui
che presiede ad uno stato di morte: vd. supra il concetto di "stato secondo" e le
implicazioni connesse a quello di "morte iniziatica". Nel corso dei riti, intesi al
"risveglio" del dio, potevano accadere anche atti fuori dalla norma (cfr. supra la
stravaganza e l'estremizzazione sempre
presenti nelle tecniche
di
realizzazione) sino a veri e propri sacrifici umani. Anche i simboli itifallici, che tanto
turbavano i Padri, erano connessi al tema della resurrezione del dio.
88
89
Vd. P. Chantraine, DICTIONNAIRE ÉTYMOLOGIQUE
attestata in Omero, in ionico e nell'attico.
DE LA LANGUE GREQUE,
90
G. Semerano, DIZIONARIO DELLA LINGUA GRECA, Olschki, 1994.
91
Vd. DE VERBO MIRIFICO.
92
Cael. Aur. TARD. 1, 4.
93
Virg. ENEIDE, 3.57.
Klincksieck, 1990. Accezione
94
Liv. 3, 55. La tradizione giuridica romana richiama a questo proposito soprattutto una lex tribunicia
antecedente al 494 a.C., in occasione della prima secessione plebea (Fest., s.v. Sacer mons, L. 422) e
questa era sicuramente un plebiscito rafforzato da un ius iurandum, come emerge chiaramente dal
testo citato.
Il testo dell'inno ha λφι che è, appunto, l'indicazione specifica di un tipo di farina d'orzo
mentre l'orzo è κριθ″ e la farina λευρον. {Αλφι coincide, per evidenti ragioni cromatiche, con
l'umbro alfu, alba, il quale corrisponde al lt. albus e, in germanico, all'antico nome del cigno: albiz.
Gli unici etimi credibili sono nel sum. alba e nell'acc. ĥalpū, frost, ice, nei quali, evidentemente,
trovano spiegazione anche le Alpi. L'orzo - come il grano, l'avena, la segale, il mais, il granoturco ed
il riso - appartiene alla vastissima famiglia delle graminacee, tant'è che ad un vasto genere di queste,
grazie alla storia dei Misteri, è stato dato nome di Eleusine. Tutte, sebbene in misura diversa,
possono essere infestate dall'ergot.
95
Il testo parla di γλ″χων, probabilmente si trattava del Puleggio, la Mentha pulegium (µ∅νθα) che
cresce in luoghi freschi e umidi ed è una tipica pianta mediterranea che caratterizza le nostre coste e,
in particolare, le regioni centro-meridionali ma è un elemento essenziale della macchia arbustivoerbacea di tutta l'Italia peninsulare. Essa è conosciuta anche nelle Americhe e, in Perù, gli sciamani, in
virtù della sua tenue azione psicotropa, la bruciano in onore di Pachamama. È questa una dea
personificante la Terra, il cui culto, che oggi si confonde con quello della Vergine, risale agli Incas.
96
97
Esattamente: ruggine, cosicché, nel nome, anche il colore viene espressamente, messo in
evidenza. Pure significativa la convergenza semantica dell'accadico erēshu, wish, object of
desire, strettamente legato a ♣ροΗ la cui etim. in i.e. è, infatti, sconosciuta.
98
Plutarco, VITE, parte III.
99
Nel momento che precedeva la libagione, lo ierofante, alla luce delle fiaccole, levava in alto una
spiga. Erano così presenti i due simboli dei Misteri (vd. Plutarco, DE PROFECTIBUS IN VIRTUTE, 81d e
Ippolito, REFUTATIO CONTRA OMNES HAERESES, V. 8. 39-40) e, per il ruolo che abbiamo visto svolgere
dall'omofonia in the play on words, è interessante constatare come, in Massoneria, la "parola di passo"
del Compagno d'Arte, shiboleth,  , spiga (da GDC.12, 5-6), con σ⇔µβολον, simbolo, sia
consonante.
100
Plutarco, FRAGMENTA 178, a cura di F. H. Sandbach, da [Giovanni] Stobeo, ANTHOLOGION, 4.52.49, p.
1089H e Temistio, ORATIONES, 20.235; in DISCORSI, a cura di Riccardo Maisano, UTET., Torino, 1995.
101
Vd. Pausania, GUIDA ALLA GRECIA: 2.16.3.
102
In ANNALI DEL MUSEO CIVICO DI ROVERETO, vol. 10, pp. 307-326, 1995.
103
In alcuni studi, il testo di riferimento è detto essere THE WHITE GODDESS ma a noi, nonostante i molti
richiami alla forza psicotropa di questo fungo, rinvenibili in tutta quell'opera, tale specifico rimando
non risulta. Per varie considerazioni, è pertanto ns. supposizione che la collocazione giusta sia invece
in una delle ultime prefazioni ai GREEK MYTHS. Inoltre, anche la successione dei vocaboli destinati a
sviluppare l'acrostico, non sempre è la stessa, pertanto, per quello che, in ordine a tale supposizione,
può valere, ne abbiamo qui data la scelta che ci è parsa migliore. In ogni modo, come - da un altro
testo di Graves (WHAT FOOD THE CENTAURS ATE, in STEPS, London 1958, p. 331) - cita Wolfgang
Schmidbauer in ANTAIOS (HALLUZINOGENE IN ELEUSIS? vol. 10, pp. 18-37, 1968-69):
<<Myka ist eine frühere Form von Mykes (»Pilz«). Ein ähnliches Ogham hat Graves aus der alexandrinischen
Beschreibung der Zusammensetzung von Ambrosia, der Speise der Götter, gelesen: Meli, Ydor, Karpos, Elaios,
Turos, Alphita (Honig, Wasser, Frucht, Olivenöl, Käse, Gerstenmehl). Dieses Ogham hätte auf die Frage
geantwortet: »Was essen die Götter?« Antwort: Myketa - den heiligen, halluzinogenen Pilz>>
Dove, in quest'ulteriore acrostico, compare una variante dell'onomastica micologica con
Myketa, µ⇔κητα.
104
La filastrocca del fungo personificato è un remoto Lied germanico senza autore però lo si può
leggere, debitamente musicato, in una raccolta di ottanta analoghe composizioni redatta da Anna
Barry, SOUNDINGS, REPERTOIRE FOR THE FRETTED DULCIMER oppure nell'articolo di Steve Berlant, THE
PREHISTORIC PRACTICE OF PERSONIFYING SACRED MUSHROOMS nel numero uscito a Dicembre 1999 de THE
JOURNAL OF PREHISTORIC RELIGION.
105
Carlo Ginzburg, STORIA NOTTURNA, Einaudi, 1989, p. 211.
106
Vd. supra n. 5.
107
Vd. Coleman, Robert. 1987. EARLY GREEK SYNCRETISM AND THE CASE OF THE DISAPPEARING -PHI. In: John T.
Killen, José L. Melena and Jean-Pierre Olivier (eds.) STUDIES IN MYCENAEAN AND CLASSICAL GREEK
PRESENTED TO JOHN CHADWICK (Minos 20-22). Salamanca: Universidad de Salamanca. 113-125.
108
Amanita islandica e Amanita arctica.
109
Infatti, è di norma associato a conifere e, solo talvolta, a querce.
110
OMERO NEL BALTICO, ed. F.lli Palombi, Roma, 3° ediz. 2003. Dello stesso autore, su questi temi, vd.
inoltre la sua collaborazione a EPISTEME.
111
Ancor oggi l'iniziazione massonica è contraddistinta da deambulazioni del candidato chiamate
viaggi.
112
L'Orzo è conosciuto da più di otto millenni e sembra essere originario dell'Asia occidentale e
dell'Africa settentrionale e occidentale. Da tali zone, si diffuse rapidamente in tutto il bacino
Mediterraneo ma oggi può essere coltivato sino a 70° di lat. N. Narra comunque Plinio che la sua
espansione iniziò storicamente quale cibo speciale per i gladiatori, tant'è che essi venivano chiamati
hordearii, cioè mangiatori d'orzo. Fu uno tra i rimedi più citati da Ippocrate che ne tesse gli
elogi in riferimento alle forme acute (da REGIME II, Cap. 37-38):
<<Sembra dunque che il decotto d'orzo sia stato correttamente prescelto tra le vivande cereali in questi
morbi e io lodo quelli che lo hanno prescelto. Il suo glutine infatti è liscio, consistente e confortante,
fluido e umido misuratamente, dissetante e di facile escrezione, se ce ne fosse bisogno; non comporta
astringenza né brutta agitazione, né rigonfia il ventre.>>
113
Vd. http://heima.olivant.fo/~mykines/indexde.htm Supra, alla nota n. 103, compare una variante:
µ⇔κητα; per altre significative accezioni da analoghi lemmi: in Teocrito (IDILLI, 8.6) µυκατ Η ,
muggente e in Cornuto (NATURA DEORUM. 22), µ⇐κητ∅αΗ, rombo sismico; esse possono
alludere sia al prorompere dell'effetto psicotropo, sia al rombo delle grandi onde oceaniche nelle isole
dove il fungo cresceva.
114
Plutarco, DE FACIE QUAE IN ORBE LUNAE APPARET, cap. XXVI.
115
T. Tasso, GERUSALEMME LIBERATA, 15.20.
116
Fabio Zanello, HASHISH E ISLAM, Cooper Castelvecchi, 2003.
117
Per facilitare il la condizione
realizzative (maqam).
estatica (hal) e l'acquisizione delle stazioni
118
Pl. di tariqa, via; sono le catene (silsilat) iniziatiche che, scaturite dal Profeta, formano il
Tasawwuf ossia l'esoterismo islamico. Nei testi occidentali sono, di norma definite,
confraternite.
119
Cfr. J. Evola, METAFISICA DEL SESSO, Ed. Mediterranee, 1969. L'utilizzazione della potenzialità
erotica a fini realizzativi ha avuto estesi sviluppi nell'Induismo (Tantra) e nel Taoismo. Nel mondo
classico, sostanze e sesso concorrevano entrambi ai culti dionisiaci.
120
RUBAIYAT. 14, in [trans. by Coleman Barks] THE SOUL OF RUMI, Harper Collins Pbl., 1995.
121
In francese, l'orgasmo è chiamato anche petite mort.
122
Sono note quelle rappresentazioni artistiche occidentali dell'estasi mistica dove la medesima
presenta tutti i segni di un orgasmo in atto mentre nell'Islam, esso è espressamente considerato una
pregustazione dei piaceri del Jannah, il Paradiso: vd. ch. VII di Abdelwahab Bouhdiba, LA
SEXUALITÉ EN ISLAM, PUF, 1975. Inoltre, a marcare, sull'argomento, la differenza con la prospettiva
cristiana, è il concetto stesso di matrimonio, che viene dai più erroneamente posto sul medesimo
piano mentre, nel nikah ( ∴♦ℵ≥ lett. accoppiamento), il fulcro non sta nella procreazione ma
nella relazione sessuale; la riprova ne è che anche i figli nati extra-nikah siano sempre
considerati legittimi: vd. Giorgio Vercellin, TRA VELI E TURBANTI, Marsilio, 2000. Il ns. matrimonium, in
conformità a tutti i derivati in -monium, vuole invece significare una precisa ed esclusiva
condizione giuridica, cioè quella incentrata sulla funzione di mater familias ovvero di
colei che procrea.
123
Il rischio è connesso alla stessa struttura dell'individualità, dove, un impianto solo apparentemente
unitario cela una tutt'altro che stabile natura composita. In mancanza di un suo trascendimento, il
pericolo è dato dalla possibile disgregazione delle sue componenti cioè da quella che oggi la scienza
psichiatrica chiama schizofrenia: da σχ∅ζω, scindo,lacero e φρ″ν, mente. È
nell'evento patologico che tale architettura interiore viene chiaramente in luce e, sebbene in altro
contesto, è anche quanto, dietro il velo della possessione, s'intuisce nel <<mi chiamo Legione perché
siamo in molti>> di MC. 5.9 e LC. 8.30.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme.]
[email protected]
13
14
La culture de l'incinération en Pologne
(Magdalena Gajewska)
"Oui, tu es poussière
et à la poussière tu retourneras" (Gn, 3,9)
L'action de brûler les corps des morts est une pratique funéraire connue depuis longtemps.
Elle est apparue plusieurs fois dans l'histoire de l'Occident n'exprimant pas seulement
l'attitude de l'homme par rapport à la mort et par rapport au corps humain, mais surtout par
rapport au phénomène de décomposition, qui s'attache à la perception de la mort. Selon LouisVincent Thomas "le discrédit qui s'attache à l'image du corps mort pourrait expliquer deux
attitudes qui commencent à prendre de l'importance: le don du corps à la science et
l'incinération. (...) L'incinération est à la fois un procédé technique de destruction du cadavre,
et un mode de sépulture (mise en urne) Malgré la levée de son interdiction par le pape Jean
XXIII, et en dépit des efforts des crématistes pour que ce procédé reste moins coûteux, qu'il
est plus conforme aux règles d'hygiène et n'exige que peu de place pour les restes, il faut bien
avouer, que, dans les funérailles laïques, la crémation offre peu de prises à l'imaginaire
occidental. (...) En l'absence d'un contexte symbolique approprié, elle est seulement vécue
comme procédé d'élimination rapide du mort." 1 La manière de regarder la mort et
l'incinération évoluait pendant des siècles. La crémation est passée d'une pratique
traditionnelle d'enterrement par la symbolique exterminatrice pour refluer aujourd'hui dans sa
forme moderne. "La pratique traditionnelle et rurale de l'ensevelissement, de l'enfouissement
du cadavre dans la terre connaît aujourd'hui la concurrence de la crémation ou de
l'incinération, pratique plus urbaine. Nous sommes aujourd'hui devant des poussières entrant
en concurrence. A la poussière lentement produite par décomposition dans la terre se trouve
opposée une autre poussière, produite par le feu, qui sera cendre cette fois."2
L'histoire de l'incinération en Pologne a ses racines dans la culture païenne. Elle était très
connue dans les tribus, qui avaient vécu sur le territoire de la Pologne, avant des siècles du
christianisme. Les païennes pendant "taryzm" (c'est le nom d'une cérémonie d'enterrement)
ont brûlé rituellement du cadavre et ils ont entreposé les cendres dans l'urne. Ensuite l'urne a
été enterrée dans une tombe. Les tombes païennes étaient localisées à côte des routes, dans les
forêts ou sur les champs. Cette forme d'enterrement avait progressivement disparu pendant le
moyen âge avec la diffusion progressive du christianisme. L'église, elle a voulu déraciner le
paganisme, et elle s'est opposée à l'action de brûler les corps des morts. Dans le moyen âge,
l'église a interdit les inhumations dehors des villes. Enfin les "taryzm" ont disparu en Pologne
environ XII siècle.
La logique chrétienne a fermé les morts avec les vivants au cœur du village ou de la ville. Les
cimetières au début du moyen âge, c'étaient des espaces ouverts et publics. Alors la mort a
accompagné les vivants, et l'a influencé par sa présence dans la vie quotidienne. L'homme a
véçu dans son ombre.
L'attitude de l'homme par rapport à son corps a changé également pendant cette période.
L'église a également sacralisé le corps des morts. Ils sont devenu un espace de l'âme, qui était
prédestinée à la vie éternelle. Au même temps l'idée du Jugement Dernier a été accompagnée
par un visage corporel des morts. Le moyen âge a présenté la mort comme un état de
sommeil. "Cette image correspond à l'eschatologie commune des premiers siècles du
christianisme: les morts qui appartenaient à l'église et lui avaient confié leur corps (c'est-à-dire
qu'ils l'avaient confié aux saints) s'endormaient comme les sept dormants d'Ephèse (pausantes,
in somno pacis) et reposaient (requiescant) jusqu'au jour du second avènement, du grand
retour, où ils se réveilleraient dans la Jérusalem céleste, soit au Paradis. (...) Toute une
population, quasi biologique, la population des saints, était ainsi assurée de la survie glorieuse
après une longue attente dans le sommeil."3 Alors si le corps du mort était dans le sommeil,
l'incinération du cadavre est devenu impensable. Depuis la seconde partie du moyen âge on
observe le processus de l'individualisation de la mort et la naissance de l'idée d'une mort
appropriée, qui correspond à une mort acceptée, attendue et préparée.
A l'inverse de cette logique, la crémation était symboliquement liée aux situations extrêmes et
traumatiques également pour la société, que pour l'individu. Elle a suivi la peste noire, les
guerres ou plus récemment des camps d'extermination et leurs images, encore trop vives, des
fours crématoires nazis. Elle a évolué de symbolique purificatrice à la symbolique, qui
agissait de se débarrasser au plus vite des ennemis potentiels. Pendant des siècles la culture
occidentale a construit une vision de la crémation. Elle était considérée comme un outil
d'extermination très efficace également pour les épidémies ou pour effacer les crimes et leurs
traces. La symbolique de la purification, qui s'attache à la crémation, a subsisté de jours.
Aujourd'hui l'incinération devient de plus en plus populaire dans toute l'Europe. Elle apporte
un signe des changements, qui se sont passés dans nos sociétés. "Simplification, disparition,
privatisation - La vie urbaine, avec ses impératifs de temps, d'espace, de rentabilité et de
profit, et la réduction de la famille au couple et à ses enfants, a modifié sensiblement les rites
d'hier"4. La mort et les morts deviennent moins en moins sacrées. Mais l'homme moderne est
en train de construire de nouveaux sacrés et de nouveaux rites. "Le culte moderne des morts
est un culte du souvenir attaché au corps,à l'apparence corporelle (...) Assimilé aussi bien par
les églises chrétiennes que par les matérialismes athées , le culte des morts est devenu
aujourd'hui la seule manifestation religieuse commune aux incroyants et aux croyants de
toutes les confessions. Il est née dans le monde des Lumières, il s'est développé dans le monde
des techniques industrielles (...)"5. L'attachement moderne au corps et l'incinération ne sont
pas contradictoires.
La crémation est considérée par l'homme moderne comme "la protection" contre une
putréfaction et une déconstruction du corps, après la mort. L'incinération est d'abord
considérée comme le moyen le plus radical de se débarrasser des morts. "Des raisons
positives d'abord: le gain de place (aucune commune mesure entre la niche du columbarium et
le tombeau), à plus forte raison s'il'y a dispersion des cendres; un coût moindre surtout si l'on
décède non loin d'un four crématoire et que l'on ne tienne pas à un cercueil somptueux; et bien
sûr, la garantie de l'hygiène totale. Des raisons affectives ensuite: qu'y a-t-il de plus
intolérable que de savoir l'être cher pourrir au fond du caveau?"6
Probablement c'est la contradiction entre l'image du défunt, que l'on garde dans les souvenirs
plus proches et l'image du corps pourri dans la terre, qui fait, que de plus en plus on choisit
l'incinération aujourd'hui. Ce contraste est trop fort pour le sens esthétique de l'homme
moderne. Nous vivons dans l'époque où tout ce qui est contradictoire à l'idéal esthétique, qui
contient la vitalité et la jeunesse, implique des réactions négatives. La société moderne rejette
le phénomène de la décomposition, que l'on pense aujourd'hui plutôt par des catégories
rationnelles, plus que par celles ritualisées. La vision scientifique, un rationalisme du monde
moderne et les concepts esthétique décident, que: "Le processus de décomposition dans qu'il y
peut avoir de macabre, et de morbide,sera abordé comme une obstacle épistémologique
auquel substituera une rationalité positive. La décomposition pensée comme une déliaison
organique, est une victoire sur les imageries du putréfié, du purulent, du dégoûtant, et du
mortifère. (…) La poussière n'a pas donc le même statut épistémique, pour le scientifique ou
pour celui qui la ritualise. Pour celui-ci, la poussière est une image, un "atome" d'éternité
ouvert aux promesses de l'inconnaissable, cas irréductiblement singulier. Pour celui-là, la
poussière est l'intuition d'une idée, phénomène objectif rentrant sous une loi générale. Le rite
vise l'éternité ou une forme d'intemporalité, là où le concept désigne un temps déterminable.
"Selon cette déscription,quelle on retrouve chez J.P. Pierron dans Rites funérailles et la
poétique des elements (dans L'Avenir de la mort, Études sur la mort, 2002, N° 121, p. 73-83)
la poussière dans le monde de la rationalité cartésienne a reçu un caractère métaphysique.
Dans cette symbolique l'homme découvre tout ce qui est hors de sa rationalité, tout ce qui est
indéterminé, unique, secret et mystérieux. Cette démarche philosophique est en même temps
éternelle où la mort est toujours impossible à déterminer; toujours impensable pour l'homme,
elle s'exprime aujourd'hui par des nouveaux rituels, qui sont en train de se construire par
rapport à la symbolique de la poussière et de l'incinération. Le fondement philosophique
retrouve son reflet dans la réalité. Dans le paragraphe qui va suivre, je présenterai les
conséquences de ce phénomène, qui est envisagé par des changements dans les attitudes et les
rites de la société polonaise.
Incinération en Pologne
Actuellement en Pologne ils fonctionnent sept crématoires: deux au Nord (Gdańsk, Szczecin),
trois au Centre (Warszawa, Łódź, Poznań), et deux au Sud (Wrocław, Ruda Śląska). Ce n'est
pas assez pour un pays, qui a 38 millions des habitants. Cette disproportion et également une
popularisation de l'incinération impliquent plusieurs problèmes. Les directeurs des cimetières
veulent construire des crématoires dans chaque grande ville et dans chaque cimetière
communal. Dans l'incinération ils voient la seule solution pour les problèmes d'une manque
d'espace pour nouveaux cimetières. Mais la loi polonaise ne permet pas de réaliser ce projet.
Parfois le lieu de la crémation n'est pas le même que celui de l'enterrement. Cela ne change
pas seulement les coûts mais aussi les rites funéraires. La phase de la séparation n'est pas
évidente. La famille perd contact avec son mort. Les seules cendres n'évoquent pas les mêmes
émotions, que le fait d'assister du processus de l'incinération du cadavre ou de son
inhumation.
La question de la crémation n'est pas réglée par la loi polonaise. La "loi de la tombe" de 1959
ne répond pas aux besoins actuelles d'une société moderne. Malgré une situation, qui est mal
précisée par la loi, chaque année la quantité des incinérations en Pologne augmente prés de
25%. Pour donner un exemple: en 2000 c'était 6 milliers et pour 2001 environs 8 mille pour
toute la Pologne. L'autre statistique, du cimetière de Gdynia, montre la même tendance: en
2000, 43 enterrements avec incinération; en 2001, 48; en 2002, 84; et enfin, en 2003 96.
Cette loi doit être changée après l'entrée de la Pologne dans la Communauté Européenne. Elle
sera adaptée à la loi européenne. L'incinération deviendra légale sous la forme d'enterrement
mais sera-t-il aussi populaire que dans les autres pays de l'Europe? Cette question reste encore
ouverte.
Selon la règle générale respectée dans plusieurs pays d'Europe, la décision d'être incinéré
après la mort appartient à l'individu. La volonté d'être incinéré doit être exprimée dans le
testament ou exprimée aux membres de la famille. Après une identification du défunt, qui est
toujours obligatoire, la famille décide si elle réalisera la dernière volonté de son mort et
choisira telle ou telle forme d'enterrement. Aujourd'hui la loi polonaise ne protége pas la
dernière volonté du mort, le bien de la famille est plus important. Alors la famille peut choisir
une forme d'enterrement différent de celle-là choisie par le mort.
Les familles n'accompagnent pas souvent à la crémation, soit à cause de la distance entre le
crématoire et la ville où se passe l'enterrement, soit pour des raisons personnelles. Les
cérémonies dans le crématoire peuvent durer au maximum une demi heure. C'est le temps
pour dire un "dernier mot" au mort. Cette cérémonie a un caractère très personnel et familier.
Ce comportement est souvent impliqué par l'architecture d'un crématoire. Il n'y a ni assez
d'espace ni du temps pour organiser la cérémonie publique. Par exemple dans le crématoire de
Gdańsk une salle où se trouve le catafalque peut contenir environ 30 personnes.
Après trente minutes une équipe du crématoire déplace le cercueil dans une autre pièce. La
plus proche famille (2-4 personnes) a la possibilité d'observer l'incération dans le four
crématoire par la fenêtre d'une autre pièce dont la surface, qui a environ 10 m².
Les proches attendent rarement jusqu'à la fin du processus de brûlure du corps, qui dure 2 à 3
heures. Ces sont les fonctionnaires de l'entreprise qui organise l'enterrement, ceux qui
cherchent les cendres dans le crématoire juste avant l'enterrement. Souvent la date de
l'incinération et la date d'enterrement sont très éloignées. L'urne avec les cendres peut être
gardé plusieurs jours. Les poussières dans le crématoire peuvent rester trois mois. Tout ça
évoque une rupture dans les rites funéraires. Il'y a aussi beaucoup des exemples où les
personnes gardent l'urne à la maison ou dans le jardin. Des statistiques disent, que 10% des
cendres est gardé illégalement dehors des cimetières.7
L'incinération a ouvert la porte devant deux nouveaux types d'enterrement:
1) enterrement dans le columbarium;
2) dispersion des cendres sur le champ de mémoire.
Ces nouvelles formes ont grande influence sur les rites de la commémoration et l'architecture
des cimetières. Des columbariums ou des champs de mémoires changent radicalement la
manière de soigner des tombes, parce que le columbarium n'exige pas le même engagement,
que la tombe traditionnelle. La symbolique du cimetière est minimalisée et l'imagination
mythologique des morts est en train de changer. "Dans un jardin crématoire, dans la salle de
souvenir,ou l'on peut accroche une plaque en souvenir du défunt,une plaque seulement, sur 40
incinérations,portant le nom de mort,fut accrochée; 14 autres incinérés eurent seulement leurs
noms inscrit sur le livre du souvenir et pour le 25 autres, aucune trace visible n'a été laissée".
Comme écrit Jean Didier Urbain dans La société de conservation, p. 446: "A l'évacuation des
morts corresponde l'évacuation des signes (…) il suffit pour la vérifie d'aller se promener dans
un Columbarium. (…) Le texte absent ou le texte miniaturisé,voilà à nouveau l'atrophie des
signes,la réduction du texte,réduction qui cette fois passe par la réduction préalable du
référentiel lui-même, à savoir la mort (…) Après la crémation, lorsque les cendres ne sont pas
dispersées, les morts symboliquement plus que discrets deviennent illisible. Ils sont perdus la
foule immense des alvéoles du columbarium comme peuvent l'être des livres dans les obscurs
rayons d'une bibliothèque."
Qui et pourquoi?
La décision d'être ou n'être pas incinéré se trouve encore dans la gestion de l'individu. Alors
on doit la considèrer comme une choix individuelle. Les plus grands groupes de gens, qui
déclarent la volonté d'être incinéré après sa mort, se place dans deux populations: les
personnes jeunes (18-30 ans) et les personnes âgées (plus que 60 ans).
Chez le gens dans l'âge 18-30 ans cette volonté est accompagnée par la forte opposition en
vis-à-vis l'ordre social. Elle est justifiée par des arguments écologiques, qui forment un
contraste à la tradition et à la religion. Elle est liée à l'idée, que le corps humain même après la
mort se trouve dans la gestion de l'individu. La société (les autres) ne doit pas avoir influence
sur cette décision. Selon cette logique la mort correspond à l'individualisation de la mort et
surtout à la liberté individuelle.
Les personnes âgées exposent des motives différents. Ils présentent cette décision comme la
plus pratique. Par "plus pratique" il faut entendre:
1) plus pratique pour ceux qui auraient l'obligation de s'occuper de la tombe;
2) c'est plus facile de transporter les urnes avec les cendres, qu'un cercueil avec le défunt.
Dans sa justification, les personnes âgées expriment surtout la volonté de n'être pas "soucis"
pour leurs proches. Cette manière de penser se rapporte à l'intérêt familial et social. Le plus
important rôle est joué par la communauté. Ils se décident pour être incinérés et enterrés dans
un columbarium, la dispersion des cendres étant trop étrangère pour des personnes âgées. Ils
préfèrent de n'être pas dispersées. La disparition totale est pour eux impensable.
La relation entre le niveau d'éducation et le niveau des incinérations n'a était pas encore
mesurée en Pologne. Les cimetières ne font pas ce genre de statistique. La même remarque
concerne la relation entre la religiosité et le nombre des incinérations. Le problème de la
crémation n'est pas assez étudié en Pologne. Il'y a seulement des statistiques des cimetières,
qui nous montrent que l'incinération devient de plus en plus populaire, et que la société
contemporaine polonaise change ses images de la mort et des morts.
Des questions autour de l'incinération
En Pologne existe une très grande nécessite de recherches complexes, qui faisaient l'analyse
profonde de l'attitude des polonais par rapport à l'incinération. Un ancien sondage du CBOS 8
montre que 37% des polonais n'a rien contre la crémation. On observe aussi l'augmentation de
la quantité des enterrements catholiques avec l'incinération, malgré une opinion infavorable
de l'église polonaise. En Pologne il n'y a pas encore des recherches sur la relation entre la
religiosité et le choix personnel d'enterrement de nouveau type. Pourtant les résultats des
recherches dans les autres pays d'Europe Centrale peuvent suggérer que la religiosité joue un
petit rôle dans ce cas là. Par exemple dans la République Cheque, 60% de la société déclare
son athéisme, et le niveau de l'incinération est 70%. Pour comparaison, 60% des Slovaques
déclare son catholicisme, et le niveau de l'incinération est également 70%.
Les donnés précédents suggèrent, que ce sont peut être des autres facteurs, ceux qui mieux
expliquent la popularisation de l'incinération en Europe, qu'on observe aujourd'hui. Alors il
peut être que le plus important rôle est joué par la force de la tradition religieuse, pas par la
force actuelle de la religion. Dans ces pays où l'incinération n'est pas encore devenue la
principale forme d'enterrement, comme en Pologne et en Italie9, la tradition religieuse et son
attitude par rapport au corps sont encore très liées, et elles ont de l'influence décisive sur les
coutumes.
La tradition catholique pendant des siècles a construit la vision du corps comme la temple de
l'esprit, qui est destiné à une vie éternelle. Le corps pour les catholiques est toujours sacré.
Selon le mythe du Dernier Jugement, le gens se présenteront devant Dieu dans leur forme
corporelle. Par conséquence de cette idée, le corps est part d'eschatologie.
On peut retrouver une situation très différente dans les pays protestants. Dans le
protestantisme les corps des mortes perdent leur importance. L'idée de Dernier Jugement est
liée avec l'idée de la prédestination, qui implique le rationalisme et la simplicité. Elles
constituent ensemble le fondement d'une logique économique, qui a été décrite par Max
Weber dans "L'éthique protestante et l'esprit du capitalisme". Elle s'exprime par la manière de
traiter les corps, les cadavres et par la construction et l'image des cimetières protestantes. Ce
différent point de vue explique la grande popularité de l'incinération dans les pays avec une
tradition protestante comme l'Angleterre, l'Allemagne, la Norvège ou la Suède. Dans ces pays
on observe un'autre attitude par rapport au corps, et également un différent caractère de
l'administrer. Ce caractère devient de plus en plus présent de même dans la vie des
catholiques. Ça c'est une consequence constructive de l'esprit du monde moderne. L'individu
est le seul responsable de sa vie et de sa mort. Le discours qu'on observe aujourd'hui autour la
crémation en Pologne, est sorti de la logique économique. Les arguments qu'on entend
évoquent surtout l'insuffisance d'espace pour les nouveaux cimetières, due aux valeurs
économiques de la terre dans les grandes villes. Au même temps, les médias sont en train de
construire l'image de l'incinération comme l'enterrement de l'avenir.
En abaissant les prix des cérémonies sans l'inhumation, les directeurs des cimetières font la
vraie promotion de la crémation et des columbariums. Les argumentes économiques suivent
les argumentes écologiques. Selon eux les cendres sont moins toxiques pour l'environnement
et pour la société. Cette logique dit, que grâce à la crémation, on peut protéger l'espace
naturelle, qui ne sera plus arrachée par l'agrandissement des cimetières.
Dans la volonté d'être dispersé après la mort on peut retrouver la conscience que le corps
humain fait partie de la nature, et que comme cela il doit revenir dans son cycle. Souvent on
veut être dispersé dans le lieu avec lequel on avait une relation émotionnelle. Cette idée du
"recyclage" correspond à un'autre phénomène moderne. Le phénomène du corps, qui doit
surtout "être utile". On observe également la sacralisation de la substance ou de la matière,
précisément de l'atome même. L'homme moderne ne veut pas plus être vivant dans la
mémoire collective des autres, mais dans le cycle de la nature immortelle. Le cadavre humain
n'est pas plus sacré. En fin, il est devenu un outil pour garantir la continuité de la vie. Le corps
fait partie de l'univers et peut être pour cette raison les cendres humaines sont déja envoyées
parfois dans l'espace cosmique. On fait déja cela par exemple aux État Units. La société
moderne est en train de changer ses visions de la mort et des morts: elle change les cadavres
avec les cendres, et les pierres tombales avec les photos et les documents électroniques.
Notes
L.V. Thomas, Autour des rites funéraires, in La mort aujourd'hui, Actions et Recherchés Sociales,
Paris, Novembre 1985, N° 3, p. 66-79.
2
J.P. Pierron, Rites funérailles et la poétique des éléments dans L'Avenir de la mort, Études sur la
mort, 2002, No 121, p. 73-83.
3
P. Ariès, Essais sur l'histoire de la mort en Occident du moyen âge à nos jours, Seuil, Paris 1975, p
33-34.
4
L.V. Thomas, La mort, Paris 1988, p. 98.
5
Ibidem, p. 155.
6
Ibidem, p. 100.
7
I.T. Miecik, "Smierc bez pogrzebu" (La mort sans enterrement), Polityka, nr 31/2001.
8
Bureau Centrale d'Opinion Sociale en Pologne.
9
La situation en Italie et en Pologne semble d'être intéressante parce que comme écrit L.V.Thomas:
"L'incinération apparue en Italie dès la période préhistorique, elle se développe sous la République et
aux deux premières siècles de l'Europe. Elle s'effectuait [...] sur des bûchers. On brûlait séparément les
personnage importantes ou riches, mais on groupait les pauvres: 10 cadavres d'hommes, les plus gras
dessous et pour hâter la combustion on ajoutait un cadavre de femme. Mais cette pratique fut
abandonnée à cause des dépenses qu'elle engendrait que pour des motives religieux, et elle était
devenu rare sous le siècle d'August (63 av. J.C-14 ap. J.C). Après la chute de l'Europe Romain, le
Chrétiens n'abolirent pas le bûcher, celui-ci n'était pas en contradiction avec la Genèse". Mais
progressivement dans le moyen âge le bûcher a reçu une signification hérétique. On brûlait les
sourciers et les hérétiques. (L'Anthropologie de la mort, p. 258).
Bibliographie
1. Ariès P., Essais sur l'histoire de la mort en Occident du moyen âge à nos jours, Seuil, Paris, 1975.
2. L'Anthropologie de la mort aujourd'hui, Revue de l'Institut de Sociologie 1999/1-4, L'université de
Bruxelles, Bruxelles, 2002.
3. L'Avenir de la mort, Etude sur la Mort, L'Esprit du Temps, Paris, 2002.
4. Mourir Aujourd'hui, Revue interuniversitaire de sciences et pratiques sociales, Nov. 1985, N° 3.
5. Nathan T., Rituels de deuil, travail du deuil, La pensée sauvage, à Aubenas d'Arche, 1995.
6. Thomas L.V., L'anthropologie de la mort, Payot, Paris, 1980.
7. Thomas L.V., La mort, Presse Universitaires de France, Paris 1988.
8. Urbain J.D., La société de conservation, Payot, Paris, 1978.
9. Weber M., Etyka protestancka i duch kapitalizmu, (L'ethique protestanté et l'ésprit du capitalisme)
PWN, Warszawa 2001.
10. PRESS:
1. "Polityka": nr 30/1995; nr 45/2000; nr 31/2001;
2. "Wprost": nr 2/1995;
3. "Dziennik Bałtycki": 2 mars 2004; 3 mars 2004; 5 mars 2004.
----Magdalena Gajewska (1978), è laureata in filosofia all'Università di Danzica
in Polonia, «summa cum laude». Sta per laurearsi in sociologia presso la stessa
università. Sta scrivendo anche una tesi di laurea di ricerca scientifica. Per
questo scopo ha ricevuto una borsa di studio del governo francese. La sua tesi
sarà diffusa all'Università "Marc Bloch" di Strasburgo, in Francia. Si è
classificata al secondo posto in un concorso letterario nazionale. E' attualmente
affiliata con il:
Department for Logic, Methodology and Philosophy of Science
University of Gdańsk, ul. Bielańska 5
80-952 Gdańsk, Poland.
[email protected]
15
The Scientific Basis for the Development
of Human Consciousness
(Amrit Sorli, Ilaria K. Sorli)
Abstract - For the scientific development of the human consciousness its "functional aspect" is of the
same importance as its "bio-physical aspect": it is important to search for the bio-physical origin of
consciousness, but it is also important to practice techniques that help to awaken human
consciousness. One of the main techniques that awakes consciousness is watching (witnessing).
Human beings have capacity to watch and become aware the way mind functions, to watch and
become aware of body movements and breathing. Watching is an individual research method that
leads into conscious experience of the world. It is a method that allows human being to grow beyond
religious, national and racial conditioning.
Introduction
In common scientific experience perception and experience are separated through the
rational activity of the mind. Information enters the senses, goes into the rational part of the
mind where it is elaborated through logic and mathematics, and then becomes an experience:
rational experience
universe - perception (senses) - elaboration (mind) - rational experience
Let's do a simple experiment. You observe for a few moments a plant in your room or one
that is outside the window, and then close your eyes. Inside yourself you observe many
thoughts, like how big the plant is, what colour it is, and so on. The mind's elaboration creates
a gap between perception and experience. The question arises: is it possible to experience the
plant directly as perceived by the senses without the mind elaborating on it? Direct experience
requires us to become aware of all thoughts, emotions and images that are associated with the
object or situation that we experience.
Human beings have the capacity to watch how mind elaborates perception. By watching the
way mind elaborates perception he or she becomes aware of how mind influences the
experience of the experiment. With this awareness rational experience of the experiment is
enriched with conscious experience. Having conscious experience one grasps exactly what
one perceives. Conscious experience is direct, as the mind does not interfere between
perception and experience. Rational experience is enriched with conscious experience by
simply allowing the observer to watch the mind. Watching the mind and becoming aware of
its elaboration is the function of consciousness.(1)
conscious experience
universe - perception (senses) - conscious experience
Conscious Experience And Evolution of Human Being
Human mind we can compare with an optical prism which bends the horizontal ray of light
(see the picture below). Horizontal ray of light we can compare with the information that
reach into senses. This "horizontal information" is an authentic information of reality. It is
first elaborated by the mind and after experience occurs.
Elaboration of the mind creates an "elaboration angle" (further on only EA) between authentic
and experienced information. By passing the "mind prism" the "horizontal information "
changes direction. We do not experience the information as it has entered into senses. EA
depends on the similarity between the "picture of the world" and the world itself. In physics
EA is minimal, in psychology is already bigger; different schools see human being
differently. In sociology EA is increasing; the idea of how society should function depends on
cultural background; the difference between Christian and Muslim background seems
unbridgeable.
Common "picture of the world" is a mixture of scientific and cultural input. When educational
input is nonscientific, strongly influenced with religious or racial background, the EA can
become big; distortion between perception and experience is huge.
Educational input composed out of aggressive ideas and negative emotions can create "picture
of the world" through which one experiences the world as "aggressive and without justice".
Such a person will create conflict, violence and destruction.
perception
elaboration
senses
authentic
information
experience
mind
conscious experience
physics
EA
psychology
violence religious
philosophy
extremism common experience
Consciousness has the capacity to watch and to become aware the way mind elaborates
information. It brings awareness that also "scientific picture of the world" and the world itself
are two different things. By using this method authors improve understanding of time in
Special Relativity.(2)
Watching (witnessing) the mind is an individual research method that diminishes EA. With
developing of a total awareness of the mind elaboration EA becomes zero. One experiences
exactly what he/she perceives. One enters into conscious experience of the universe that
reaches beyond duality "subject-object". One discovers sacredness of the world.
By accepting "watching the mind" as an "individual research method", scientific education
will have an useful instrument for overcoming religious and cultural conditioning that are
dividing today human civilization. We need an education on the planetary level that will
include "conscious experience" as its consistent part. Such an education will grow individuals
free of any religious and cultural extremism.
The Law Of Dynamic Equilibrium And Society
Einstein emphasizes in his work (1918-1930) that space has its physical properties;
gravitational force was attributed to space. He came to the conclusion that cosmic space could
play a role in the formation of elementary particles. The idea opens new views of the
interaction between matter and space as well as the evolution of life and human society.
He came to the conclusion that space can be the origin of the matter. In his article "The
Concept of Space" in Nature from 1930 he would say: We have now come to the conclusion
that space is the primary think and matter only secondary; we may say that space, in revenge
for its former inferior position, is now eating up the matter.(3)
In his book "Einstein and the Ether" Ludwik Kostro comments: What a fundamental change
in Einstein's views! Having started from denial of the existence of space and time, he finally
came to the conclusion that four-dimensional space (the space-time continuum) constitutes a
reality ontologically primary even to matter. At this point, he believed that matter was born
from space-time.(4)
According to astronomical calculations the star that is 3,2 time bigger of our sun develops in
"black hole" that has a tendency to shrink in mathematical point and disappear from material
universe. The question arises: where black hole is disappearing?
According to the first law of thermodynamics energy can not be created or destroyed.
Considering this law the idea arises that in black holes the energy of matter disintegrates into
the energy of space. In black holes matter disappears into space and in the big bang matter
appears from it. In the universe energy is constantly circulating, it is never created or
destroyed. Big bangs are cyclic. The universe is a self-renewing system. It has no beginning
and no end.(5)
That big bangs are cyclic is confirmed by new cosmologic theory of Turok from Cambridge
and Steinhardt from Princeton.(6)
Dynamic equilibrium (further on only DE) is a basic universal law. The DE between
gravitational and tangential forces make it possible for planets to orbit around the sun, the
water circulation "ocean-evaporation-clouds-rain-rivers-ocean" is in DE, life circles of fauna
and flora are in DE.
In Taoism dynamic equilibrium is presented by Ying and Yang, In Hindu philosophy as
breathing of Brahma, in European esoteric tradition as snake that eats his own tail.
As human society is a part of the universe and life, it should also follow the law of DE
according to which energy is flowing freely and transforming continuously, there is no big
accumulation. In today's society there is a disproportional accumulation of money and goods;
some people are dying of obesity and others of hunger. The economy still functions under the
laws of profit that are based on the "ego"; the bigger the ego the more one will accumulate to
feel safe and in power. On a psychological level ego means accumulation and resistance while
awakening of consciousness means entering in the harmony with the universal flow.
The future economy should follow the law of dynamic equilibrium according to which the
main purpose of the economy is not to create profit and accumulation, but to create free flow
of products and natural resources in order to provide a good life for the entire population of
the planet. This kind of economy needs a society composed of conscious individuals.
The real meaning of dynamic equilibrium you can experience in conscious experience that is
ego less, you become one with the whole existence; this oneness brings understanding that the
big accumulation of money and goods is against the cosmic laws and does not bring you
fulfillment and happiness.
Conclusions
Mind without consciousness is like boat without rudder. History teach us that violence can not
be uprooted with violence. Politics and religion did not have much of success into bringing
peace and harmony. It seems that humanity's only chance is a scientific development of
human consciousness.
References
1. Sorli A. (2002). Conscious Experience of The Universe.
The Journal of Psychospiritual Transformation, Num 3, PSRI PRESS, New York,
http://psychospiritualresearchinstitute.com/journalofpsychospiritualtransformation.htm
2. Sorli A. (2004). Time Is Change. Episteme, Perugia, Number 8,
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/ep8/ep8.htm
3. Einstein A. (1930). The Concept Of Space, Nature, 125, p. 897-898
4. Kostro L. (2000). Einstein And The Ether, Apeiron, p. 113
5. Sorli A., Sorli I.K. (2004). Evolution As A Universal Process, Frontier Perspectives,
Vol. 13, Num 1
6. Steinhardt P. J. ,Turok N. (2002). A cyclic model of the universe.
http://pupgg.princeton.edu/www/jh/news/STEINHARDT_TUROK_THEORY.HTML
----[For a presentation of Amrit Sorli see at the end of his comment on "Time is
Change", published in this same number of Episteme. Ilaria K. Sorli is cofounder of the SpaceLife Institute.]
SpaceLife Institute
Podere San Giorgio 16, 53012 Chiusdino (Siena), Italy
[email protected]
16
[Episteme è lieta di presentare ai suoi lettori uno scritto desunto dal Bollettino del Fronte
Tradizionale: http://groups.yahoo.com/group/Bollettino_FT/, che appare in significativa
sintonia con il precedente articolo di Amrit e Ilaria K. Sorli. Pur non rinunciando infatti alla
consueta linea di "razionalità cartesiana" della rivista, si tratta di ammettere la possibilità di un
superamento del "dualismo" di Descartes e di Kant (in particolare, quello tra fenomeno e
noumeno), un dualismo che opiniamo può essere accettato ancora oggi quale descrizione del
tutto appropriata della "condizione ordinaria" di un essere umano. Un superamento che
avverrebbe però non attraverso "teorie" dell'universo (più o meno sperimentalmente fondate)
che possono ben dirsi "irrazionali", in quanto non facenti ricorso alle usuali condivise nozioni
di spazio, tempo e causalità, bensì mediante una sorta di "esperienza diretta", o di "esperienza
cosciente", le cui indicazioni allora non potrebbero non tenersi nella giusta considerazione. In
altre parole, il citato dualismo sarebbe da giudicarsi valido soltanto in "prima
approssimazione", con riferimento cioè a una effettiva tra le manifestazioni dello spirito
umano ("incarnato"), appunto quella che si può definire "ordinaria", ma che non sarebbe
l'unica, neppure nella medesima comune situazione esistenziale...]
Conoscenza e potenza
("L'Arco e la Clava")
Nessuno vorrà affermare che l'uomo attesti una qualsiasi superiorità quando, usando un
qualunque mezzo tecnico, egli si rende capace di questo o di quello: nemmeno come signore
della bomba atomica o come colui che premendo un tasto potrebbe far disintegrare un pianeta
egli cessa di essere uomo e soltanto uomo. Vi è di peggio: se per un qualche cataclisma gli
uomini del kali-yuga venissero privati di tutte le loro macchine, nella grandissima
maggioranza dei casi essi di fronte alle forze della natura e agli elementi si troverebbero
probabilmente in uno stato di maggiore impotenza che non il primitivo non civilizzato:
appunto perché le macchine e il mondo della tecnica hanno atrofizzato le loro vere forze. Si
può ben dire che è da un vero miraggio luciferico che l'uomo moderno è stato sedotto con la
«potenza» di cui dispone e di cui è fiero.
Il tantrismo, nel particolare valore che, come si è visto, dà all'azione realizzatrice, riprende in
forma accentuata una concezione, o ideale, del conoscere che può dirsi «tradizionale» in
quanto è attestato non solo nell'area indù fin dalle origini, ma anche in altre civiltà tradizionali
di tipo superiore, quali si sono sviluppate prima dell'avvento della civilizzazione moderna,
dovunque si è trattato di un conoscere non profano, ma metafisico. Non sarà inutile indicare
brevemente le implicazioni di questa concezione.
Per quel che riguarda l'India, essa ha conosciuto una metafisica la cui base è la «rivelazione»
(âkâçâni, çruti), termine che qui però va preso in un senso diverso da quello proprio alle
religioni monoteistiche, nelle quali esso si riferisce a qualcosa che la divinità ha fatto
conoscere all'uomo e che questi deve accettare puramente e semplicemente, una data
organizzazione (come la Chiesa cristiana) custodendone il deposito sotto specie di dogma.
La çruti corrisponde invece alla esposizione di ciò che è stato «visto» ed è stato rivelato (fatto
conoscere) da alcune personalità, dai cosidetti rshi, l'alta statura dei quali fa da base alla
tradizione. Rshi, da drç = vedere, vuol dire appunto «colui che ha veduto». Gli stessi Veda,
considerati come il fondamento di tutta la tradizione ortodossa indù, si chiamano così da vid,
termine che significa vedere e, nel contempo, sapere: un sapere in senso eminente e diretto,
assimilato per analogia ad un vedere: il che, peraltro, trova riscontro anche nell'Occidente
antico, nell'Ellade, dove la stessa nozione di «idea», per la sua radice id, identica a quella del
sanscrito vid (da cui Veda), rimanda in pari tempo ad un conoscere vedendo.
La tradizione come çruti registra dunque e propone quel che i rshi hanno direttamente
«veduto» secondo una visione riferentesi ad un piano superindividuale e superumano. Nel suo
aspetto interno e essenziale la base di tutta la metafisica indù non è stata diversa.
Di fronte ad un sapere che si presenta in cotesti termini, l'atteggiamento da prendere non è
diverso da quello da assumere di fronte a chi afferma che in un continente che non si conosce
vi sono determinate cose, o al fisico che espone i risultati di certe sue esperienze. Si può
prestar fede, rimettendosi all'autorità e alla veridicità di chi parla; oppure ci si può accertare
personalmente della verità di ciò che vien fatto conoscere, nell'un caso intraprendendo un
viaggio, nell'altro raccogliendo tutte le condizioni necessarie per compiere da sé
quell'esperimento da laboratorio. Nei riguardi di ciò che dice un rshi, a meno di non volersi
occupare, di disinteressarsi di tutto ciò che ha attinenza con una «metafisica», questi sono i
due soli atteggiamenti sensati, perché non si tratta di concetti astratti, di «filosofia» nel senso
moderno, o di dogmi, bensì di materia di possibile esperienza, e la tradizione offre anche i
mezzi e indica le discipline grazie ai quali è possibile «verificare», in evidenza diretta
personale, la realtà di quanto viene comunicato. Sembra che nell'Occidente cristiano un simile
punto di vista sperimentalistico sia stato ammesso solamente nei riguardi della mistica (la
quale, tuttavia, non va identificata al genere di conoscenza in quistione, a causa del suo fondo
prevalentemente più emotivo che noetico, e del quadro «religioso», e non metafisico, di essa)
quando la teologia l'ha definita come una cognitio experimentalis Dei, tanto da indicarla come
qualcosa che va di là sia dal semplice «credere», sia dall'agnosticismo.
Ebbene, l'orientamento dei Tantra rientra in tale linea. Essi affermano sempre di nuovo che la
semplice esposizione teorica della dottrina non ha valore alcuno; quel che importa, per loro, è
soprattutto il metodo pratico della realizzazione, l'insieme dei mezzi e dei «riti» con l'aiuto dei
quali determinate verità possono venire riconosciute come tali. Per questo, essi amano
definirsi come un sâdhana-çâstra - sâdhana viene dalla radice sâdh, che vuol dire applicazione
del volere, sforzo, allenamento, attività rivolta al conseguimento di un dato risultato. È di un
autore tantrico il rilievo (Woodroffe, Shakti and Shâkta), che «la causa dell'incomprensione
nei riguardi dei principi del tantrismo (tantra-çâstra) risiede nel fatto che essi non si rendono
intelligibili che attraverso il sâdhana». Così, ad esempio, non basta tenersi alla teoria che l'Io
profondo - l'âtmâ - e il principio dell'universo, il Brahman, sono la stessa cosa «e restare a far
nulla pensando vagamente al grande etere fatto di coscienza»; a ciò i Tantra negano il valore
di conoscenza. L'uomo deve invece trasformarsi, quindi agire, per conoscere davvero. Donde
kriya, ossia l'azione, come parola d'ordine. A questa idea è stata data una cruda espressione
plastica dal tantrismo buddhista, dal Vajrayâna, col simbolo del congiungimento sessuale del
«metodo efficace» - upâya - e del sapere, nel quale il primo ha la parte del maschio.
Va rilevato che nelle forme superiori del tantrismo questo punto di vista viene applicato anche
al culto e, poi, non solo alla metafisica, alla conoscenza sacra e trasfigurante, ma altresì alla
conoscenza della natura.
Per il primo punto, vedremo il senso speciale che nel tantrismo assume pûjâ, ossia il culto,
con un insieme di evocazioni e di identificazioni rituali e magiche. Peraltro, è principio
tantrico che non si può «adorare» un dio che «divenendo» quel dio, cosa che riporta parimenti
allo sperimentalismo di contro ad ogni culto di tipo dualistico religioso.
Per quanto riguarda le scienze della natura, il discorso sarebbe lungo e dovrebbe portarsi, in
genere, sull'opposizione fra la conoscenza a carattere «tradizionale» e la conoscenza del tipo
cosidetto «scientifico» moderno. Qui non entra in quistione il solo tantrismo; a tale riguardo il
tantrismo si rifà a precedenti tradizioni di cui nel tracciare la sua cosmologia e la sua dottrina
della manifestazione esso ha ripreso, adattato e sviluppato gli insegnamenti e i principi
fondamentali.
In breve, la situazione è la seguente. Secondo il punto di vista moderno (che dal punto di vista
indù verrebbe definito come quello caratterizzante la fase più spinta dell'«età oscura») l'uomo
può conoscere direttamente la realtà soltanto negli aspetti rivelatigli dai sensi fisici e da quei
prolungamenti di essi che sono gli strumenti scientifici: secondo la terminologia di certa
filosofia, nei suoi aspetti «fenomenici». Le scienze «positive» raccolgono e ordinano i dati
dell'esperienza sensoriale e dopo aver effettuato una determinata scelta fra essi (escludendo
quelli che hanno un carattere qualitativo, assumendo essenzialmente quelli suscettibili a
essere misurati e «matematizzati») giunge induttivamente a certe conoscenze e a certe leggi,
che in sé stesse hanno un carattere astratto, concettuale: ad esse non corrisponde più
un'intuizione, una percezione diretta, una intrinseca evidenza. La loro verità è indiretta e
condizionata; essa dipende da verifiche sperimentali che ad un dato momento possono anche
imporre tutta una revisione e il ridimensionamento del precedente sistema.
Nel mondo moderno oltre alle scienze della natura vi è la «filosofia»; ma in essa è ancor più
visibile il carattere di astrattezza e di una mera speculazione concettuale che, peraltro, si
spezza nella molteplicità discorde dei sistemi dei singoli pensatori, essa non conoscendo
nemmeno i freni posti alla divagante soggettività dei «filosofi» dal metodo scientifico
moderno. Questo mondo della filosofia è da dirsi dunque in alto grado «irrealistico». Il
divario sembra essere il seguente: o una conoscenza diretta e concreta legata al mondo
sensoriale, o una conoscenza che presume di andare di là da questo mondo «fenomenico» e
dell'apparenza ma che è astratta, cerebrale, soltanto concettuale o ipotetica (filosofia e teorie
scientifiche).
Ciò significa che l'ideale del «vedere», ossia di un conoscere diretto il quale si porti tuttavia
sull'essenza della realtà, avendo un carattere «noetico» oggettivo, ideale che ancora si era
conservato nella concezione medievale della intuitio intellectualis, è stato accantonato. È
interessante che nella cosidetta filosofia critica europea (Kant) l'intuizione intellettuale viene
bensì considerata, appunto come la facoltà che potrebbe cogliere non i «fenomeni» ma le
essenze - la «cosa in sé», il noumeno - ma solo per escluderla per l'uomo (come aveva già
fatto la scolastica) e per chiarire, mediante una contrapposizione, ciò che, secondo Kant,
sarebbe unicamente possibile per l'uomo: la semplice conoscenza sensoriale e il sapere
scientifico, di cui abbiamo indicato il carattere astratto, non intuitivo, e il fatto che essa può
indicare, con un alto grado di precisione, come agiscono le forze di natura, ma non quel che
esse sono.
Ebbene, dagli insegnamenti sapienziali, quindi anche da quelli indù, una tale limitazione viene
considerata superabile. Come vedremo, lo Yoga classico nelle sue articolazioni (yoganga) può
dirsi che offra i metodi per il superamento sistematico di essa. La posizione di fondo è la
seguente: non esiste un mondo dei «fenomeni», delle apparenze sensibili, e dietro ad esso,
impenetrabile, la realtà vera, l'essenza; esiste un unico dato, che presenta diverse dimensioni,
ed esiste una gerarchia di forme possibili di esperienza umana (e superumana) in relazione
alle quali queste varie dimensioni via via si dischiudono, fino a dar modo di percepire
direttamente la realtà essenziale. Il tipo o ideale del conoscere, che è quello diretto
(sâkshâtkrta, aparokshjnâva) di una esperienza reale e di una evidenza immediata (anubhâva),
si conserva sempre in tutti questi gradi. Come si è detto, l'uomo comune, specie quello dei
tempi ultimi, del kali-yuga, una conoscenza di tal genere l'ha solamente nell'ordine della realtà
fisica sensoriale. Il rshi, lo yogî o il siddha tantrico vanno oltre, nel quadro di ciò che si può
definire uno sperimentalismo integrale e trascendentale. Da questo punto di vista non esiste
una realtà relativa e, di là da essa, una realtà assoluta impenetrabile, bensì un modo finito
relativo, condizionato, e un modo assoluto di percepire l'unica realtà.
La diretta connessione fra questa teoria tradizionale del conoscere e l'esigenza pratica messa
in primo piano dal tantrismo è ovvia. Infatti, a questa stregua la via verso ogni conoscenza
superiore appare condizionata da una trasformazione di sé stessi, da un mutamento
esistenziale e ontologico di livello, quindi dall'azione, dal sâdhana. Da ciò deriva un netto
contrasto con la situazione generale presentata dal mondo moderno. Infatti, è evidente che la
moderna conoscenza di tipo scientifico», nelle sue applicazioni tecniche conferisce bensì
all'uomo moderno possibilità molteplici e grandiose sul piano pratico e materiale, ma che essa
lo lascia, dal punto di vista concreto, così come è. Ad esempio, se nel campo della scienza
moderna egli viene a sapere dell'andamento approssimativo e delle leggi di costanza dei
fenomeni fisici, non per questo la sua situazione esistenziale è cambiata. In primo luogo, gli
elementi fondamentali della fisica ultima non sono che integrali e funzioni differenziali, ossia
entità algebriche astratte, delle quali, di rigore, l'uomo non può dire di avere non pure una
immagine intuitiva ma nemmeno un concetto, essendo puri strumenti di calcolo (l'«energia»,
la «massa», la costante cosmica, lo spazio curvo, ecc. non sono che simboli verbali). In
secondo luogo, dopo aver «conosciuto» tutto questo, non è che il rapporto reale dell'uomo coi
«fenomeni» sia cambiato, il che vale anche per lo stesso scienziato elaboratore di conoscenze
di tale tipo e per lo stesso creatore della tecnica: il fuoco continuerà a bruciarlo, modificazioni
organiche e passioni a turbare il suo animo, il tempo a dominarlo con la sua legge, nulla di
diverso gli dirà lo spettacolo della natura, al contrario, esso a lui dirà perfino di meno che
all'uomo primitivo perché la «formazione scientifica» dell'uomo civilizzato moderno
desacralizza interamente il mondo, lo pietrifica nel fantasma di una pura, muta esteriorità la
quale, oltre al sapere del tipo anzidetto, ammette al massimo, come in frange soggettive, le
emozioni estetiche e liriche del poeta e dell'artista, le quali evidentemente non hanno valore
né di scienza, né di metafisica.
L'alibi più corrente della scienza di tipo moderno riguarda la potenza, e questo argomento, nel
presente contesto, merita di venire considerato, data la parte che la Çakti, interpretata come
potenza, e le siddhi, i «poteri», hanno nel tantrismo e in analoghe correnti. La scienza
moderna fornirebbe la prova della sua validità coi risultati positivi da essa raggiunti, in
particolare col mettere a disposizione dell'uomo moderno una potenza di cui, si dice, non si
vide mai nulla di simile nelle precedenti civiltà.
Ora, qui si equivoca circa quel che si intende per potenza, non si distingue una potenza
relativa, esteriore, inorganica e condizionata dalla vera potenza. È evidente che tutte le
possibilità offerte dalla scienza e dalla tecnica all'uomo del kali-yuga sono esclusivamente del
primo tipo; l'azione riesce solamente perché essa si conforma a determinate leggi che la
ricerca scientifica le ha indicato e che essa presuppone e rispetta scrupolosamente. L'effetto,
dunque, non è connesso direttamente all'uomo, all'Io, alla sua libera volontà, come alla sua
causa: fra l'uno e l'altro vi è invece una serie di intermediari non dipendenti dall'Io e di cui
tuttavia si ha bisogno per conseguire quel che si vuole. Non si tratta soltanto di ordigni e di
macchine, ma appunto di leggi, di determinismi naturali che sono così come potrebbero essere
altrimenti, che nella loro essenza restano incomprensibili, per cui siffatta potenza di tipo
meccanico resta, in fondo, del tutto precaria. In nessun modo essa è un possesso dell'Io, è una
sua potenza. Anche per essa vale quanto si è detto per la conoscenza scientifica: essa non
muta la condizione umana, la situazione esistenziale del singolo, né presuppone e esige un
qualsiasi mutamento del genere. È qualcosa di aggiunto, di giustapposto, che non comporta
nessuna trasformazione di quel che si è. Nessuno vorrà affermare che l'uomo attesti una
qualsiasi superiorità quando, usando un qualunque mezzo tecnico, egli si rende capace di
questo o di quello: nemmeno come signore della bomba atomica o come colui che premendo
un tasto potrebbe far disintegrare un pianeta egli cessa di essere uomo e soltanto uomo. Vi è
di peggio: se per un qualche cataclisma gli uomini del kali-yuga venissero privati di tutte le
loro macchine, nella grandissima maggioranza dei casi essi di fronte alle orze della natura e
agli elementi si troverebbero probabilmente in uno stato di maggiore impotenza che non il
primitivo non civilizzato: appunto perché le macchine e il mondo della tecnica hanno
atrofizzato le loro vere forze. Si può ben dire che è da un vero miraggio luciferico che l'uomo
moderno è stato sedotto con la «potenza» di cui dispone e di cui è fiero.
Diverso è l'ideale di una potenza che non segue le leggi di natura, ma che le piega, le altera e
le sospende, e che è un possesso diretto di determinati esseri superiori. Di questa potenza,
come della conoscenza vera di cui si è detto, la condizione è però la rimozione della
condizione umana, del limite costituito da quell'Io che gli Indù chiamano «fisico» bhûtâtmâ =
Io degli elementi). L'assioma di tutto lo yoga, del sâdhana tantrico e di analoghe discipline, è
il nietzschiano «l'uomo è qualcosa che può essere superato», ma preso molto sul serio.
Analogamente che nell'iniziazione in genere, non si ammette la condizione umana come un
destino, non si accetta di essere soltanto uomini. Il superamento della condizione umana,
considerato da tali discipline, è, nei suoi vari gradi, anche la condizione per la potenza
autentica, per l'acquisizione delle siddhi; propriamente, non è che queste siddhi rappresentino
lo scopo (anzi il considerarle come tali viene spesso ritenuto una deviazione) ma esse
derivano come una conseguenza naturale dal superiore status esistenziale e ontologico
raggiunto e, lungi dall'essere qualcosa di sovrapposto e di estrinseco, contrassegnano una
superiorità spirituale (è interessante che siddhi, oltre che poteri estranormali, significa
«perfezioni»). Pertanto, sono sempre qualcosa di personale e di intrasferibile, di non
«democratizzabile». Ecco, dunque, il divario profondo che distingue due mondi, quello
tradizionale e quello moderno. La conoscenza e il potere coltivati dal mondo moderno sono
«democratici», sono a disposizione di ognuno che abbia una certa intelligenza per appropriarsi
negli istituti di istruzione le conoscenze delle moderne scienze della natura, e basta un certo
addestramento che non impegna affatto il nucleo più profondo del proprio essere per poter
adoperare i mezzi d'azione messi a disposizione dalla tecnica: una pistola produrrà gli stessi
effetti in mano sia di un pazzo, sia di un soldato, sia di un grande uomo di Stato, allo stesso
modo che essi tutti possono venire egualmente trasportati in poche ore da un aereo da un
continente ad un altro. E si può ben dire che proprio questa «democrazia» è stata il principioguida nell'organizzazione sistematica della scienza di tipo moderno e della tecnica. Per contro,
come abbiamo visto, nell'altro caso la differenziazione reale degli esseri è la condizione per
una conoscenza e per un potere inalienabili, non trasferibili, dunque esclusivi ed «esoterici»
non artificialmente ma per la loro stessa natura: si tratta, pertanto, di culminazioni eccezionali
di cui non si può far parte al tutto di una società. A questa possono essere aperte solamente
possibilità di ordine inferiore, appunto quelle sviluppate fino all'estremo nell'età ultima, in una
civiltà che effettivamente non trova riscontro in nessun'altra. A parte queste possibilità
materiali (la limitatezza delle quali era dovuta essenzialmente al poco interesse che si aveva
per esse) - d'altronde, oggi ci si è dovuti stupire per il constatare, nello stesso mondo
tradizionale, alcune realizzazioni che sembrerebbero implicare cognizioni come quelle del
sapere scientifico moderno, anche calcoli algebrici complessi, ecc. Evidentemente, si era
giunti a tanto per una diversa via -, in civiltà tradizionali potevano venire sviluppate da
chiunque lo volesse attività artistiche (spesso in misura notevole - specie nell'architettura) e,
in genere, esse erano caratterizzate dalle varietà di una vita essenzialmente orientata dall'alto e
verso l'alto. Questo clima, pel tutto di una civiltà, si è mantenuto in più di un'area fino a tempi
relativamente recenti.
Abbiamo ritenuto opportuno, in via introduttiva, procedere a questa messa a punto critica e
teoretica ai fini di un orientamento del lettore nel mondo spirituale dove dovremo condurlo.
Venendo più da presso al nostro soggetto, aggiungeremo soltanto due considerazioni. La
prima riguarda ancora la scienza della natura. Come si è accennato, nei dati forniti
dall'esperienza comune la scienza moderna ha giudicato oggettive e utilizzabili pei suoi fini
soltanto le cosidette «qualità prime» matematizzabili, ossia l'estensione e il movimento; le
cosidette «qualità seconde», cioè le qualità in senso proprio delle cose e dei fenomeni, sono
state escluse come tali, sono state considerate di carattere soltanto psicologico e soggettivo.
Senonché nella realtà nessun oggetto o fenomeno si presenta nell'esperienza diretta dell'uomo
con le sole qualità di estensione e movimento ma viene percepito insieme alle altre qualità.
Ebbene, in India è stata elaborata una fisica qualitativo-psicologica con «atomi» e «elementi»
che non si riferiscono alla realtà considerata sotto le sole specie di estensione e movimento,
ma alle qualità corrispondenti ai vari sensi; tali sono i mahâbhûta, i paramânu e i tanmâtra,
principi del mondo della natura che però non sono nemmeno astrazioni speculative ma, pur
avendo il valore di principi esplicativi del sistema del mondo, sono oggetti possibili di una
esperienza diretta, possono venire colti dalle facoltà speciali sviluppate dallo yoga e dal
sâdhana. Allora ad essi corrisponde anche un significato, una forma di evidenza o di speciale
illuminazione.
Il grado perfetto, liminale, nella conoscenza superiore è quello in cui l'essere si identifica col
conoscere, in cui la contrapposizione fra soggetto e oggetto, fra Io e non-Io (che sussiste in
tutte le varietà del sapere scientifico moderno, essendone addirittura la premessa
metodologica) viene rimossa. Nel suo ultimo grado, col samâdhi, lo yoga della conoscenza
tende a ciò. Se però ci rifacciamo non allo yoga di Patañjali bensì alla metafisica tantríca,
l'essenza, il fondo di una cosa è una çakti, un potere: da qui il collegamento con la dottrina
delle siddhi, dei poteri sovranormali. Viene offerto anche un quadro generale con l'idea di un
processo del mondo nel quale la çakti, che nella manifestazione si è, in un certo modo,
svincolata, si è esteriorizzata nel regno del non-Io, si è oscurata ed è divenuta inconscia, per
gradi si ridesta, riveste una forma cosciente (cidrûpinî-çakti), si congiunge col suo principio o
«maschio» (Çiva) e fa tutt'uno con lui. Come vedremo, con lo hatha-yoga tantrico, questo
processo viene ripetuto entro l'uomo.
È lo sfondo, anche, di una speciale dottrina della certezza. Ce lo indica un commentatore
tantrico. Le cose - egli dice - sono potenza e «la potenza di una cosa non aspetta il suo
riconoscimento intellettuale». L'uomo può divertirsi quanto vuole a chiamare il mondo
illusione, irrealtà e simili, «ma karma, la forza dell'azione, lo costringerà a credere in esso».
Sempre ci si potrà chiedere, nei riguardi di qualsiasi cosa: perché è così, e non altrimenti ? «In
realtà, lo stesso Signore (Îçvara) non sfuggirebbe a queste domande, le quali sono la
caratteristica naturale dell'ignoranza». Questi problemi si affacciano finché si resti in un
rapporto di estraneità, ed anzi di passività, rispetto alle manifestazioni della Çakti nel mondo.
Hanno fine, afferma l'autore tantrico ora citato, solamente quando il singolo, grazie al suo
sâdhana, realizza in sé il principio «Çiva», controparte luminosa e dominatrice della potenza
primigenia. In lui sorgerà, allora, un tipo particolare, sovrarazionale, di evidenza e di certezza,
legata ad un potere. Così, tornando ad accentuare l'esigenza fondamentale, che riguarda la
pratica, viene affermato: «Ogni scrittura è un puro mezzo. Non serve per chi non conosce
ancora la Devî [la Dea = Çakti] e non serve per chi l'ha già conosciuta». Del resto, è un tema
anche upanishadico che «vanno in una cieca tenebra coloro che praticano il non-sapere; in una
più cieca tenebra vanno però coloro che si accontentano del sapere» e che chi ha studiato,
quando consegue la conoscenza vera «getta i libri come se bruciassero».
Più sopra, la battuta polemica contro chi considera il mondo come illusione aveva
evidentemente in vista quella corrente di pensiero la cui forma estremistica è costituita dalla
dottrina vedântina di Çankara. Non è privo di interesse vedere già ora come questa polemica
viene condotta. Il Vedânta sostiene che è reale soltanto l'Assoluto nudo, nel suo aspetto senza
attributi e senza determinazioni - il cosidetto nirgûna-Brahman. Il resto, il mondo e tutta la
manifestazione, è «falso», è un mero prodotto dell'immaginazione (kalpana), una semplice
parvenza (avastu): è il noto e molto abusato concetto della mâyâ, del mondo come mâyâ.
Viene così statuito uno iato: nulla unisce il reale, il Brahman, con la manifestazione, col
mondo. Fra i due non vi è nemmeno una antitesi, perché, appunto, l'uno è e l'altro non è.
Nella polemica svolta a tale riguardo dai Tantra si conferma il loro orientamento verso la
concretezza. Certo, dal punto di vista dell'Assoluto la manifestazione non esiste in sé stessa,
perché non può esservi un essere al di fuori dell'Essere. Viene però chiesto che cosa è colui
che professa l'accennata dottrina della mâyâ: se è lo stesso Brahman ovvero uno degli esseri
che si trovano nel regno della mâyâ. Finché si è un uomo, ossia un essere finito e
condizionato, non si può dire di certo di ssere il nirgûna-Brahman, ossia l'immutabile puro
Principio senza determinazioni e senza forme. Allora egli sarà mâyâ, la premessa essendo
appunto che fuor dal nirgûna-Brahman non vi è che mâyâ. Ma se egli - il sostenitore del
Vedânta estremista - nella sua realtà esistenziale, ossia quale uomo, jîva, essere vivente, è
mâyâ, mâyâ - ossia parvenza e falsità - sarà anche tutto ciò che egli afferma, epperò anche la
sua teoria che ciò che è reale è soltanto il nirgûna-Brahman e il resto è illusione e falsità.
Questo argomento, che fa uso di una sottile dialettica, è ineccepibile. I Tantra dicono che il
mondo quale lo conosciamo potrà anche essere mâyâ dal punto di vista del Brahman ed anche
del siddha, ossia di colui che ha completamente superato la condizione umana. Non così dal
punto di vista di ogni coscienza finita, epperò anche dell'uomo comune, per il quale esso è
invece una indiscutibile realtà da cui in nessun modo può prescindere. Finché resta tale,
l'uomo non è affatto autorizzato a chiamare mâyâ nel senso vedântino il mondo. In un
commento all'Îça-upanishad viene messo in luce che con l'insistere in quella dottrina della
mâyâ e nell'idea dell'assoluta contraddizione fra il Principio e tutto ciò che è determinato e
che ha forma, la stessa possibilità dello yoga e del sâdhana, di rigore, resterebbe pregiudicata:
perché «è impossibile che qualcosa possa trasformarsi in un'altra che ne è la contraddizione».
«Noi siamo mente e corpo; se mente e corpo [in quanto appartenenti al mondo di mâyâ] sono
falsi, come sperare di conseguire per loro mezzo ciò che è vero?». i rigore, la dottrina della
mâyâ del Vedànta estremistico andrebbe dunque a negare al singolo la stessa possibilità di
innalzarsi verso il Principio, perché una tale possibilità presuppone che fra l'uno e l'altro non
vi sia uno iato, un rapporto da non-essere ad essere, bensì una certa continuità. È così che,
anche per la preoccupazione di fissare le premesse necessarie allo yoga e, in genere, al
sâdhana, alla pratica realizzatrice, e per prevenire ogni evasionismo contemplativo il
tantrismo è andato a formulare una dottrina del «Brahman attivo» a carattere metafisico non
meno di quella vedântina, introducendo la nozione della çakti e ridimensionando la teoria
della mâyâ. È di questa dottrina che ora, per prima cosa, vogliamo occuparci...
----<<Il Bollettino del Fronte Tradizionale informa con notizie riguardanti
direttamente l'interesse della comunità vivente e scritti, saggi, recensioni di testi
comunque inerenti ad argomenti quali metapolitica, geopolitica, filosofia,
teologia, poesia, Arte, storia, religione, leggi ed ordinamento giuridico italiano
ed internazionale, Tradizione, modernità, globalizzazione e relative forme di
resistenza culturale. Non una comunità esoterica, non un partito politico ma un
gruppo di uomini che ha deciso di porre in reciproco possesso delle informazioni
spesso celate all'opinione pubblica da chi da troppo tempo domina la formazione
della cultura italiana. Per questo tutti i nostri corrispondenti possono interagire
con il moderatore inviando articoli, recensioni, segnalazioni e quant'altro possa
venir valutato come di comune interesse. I contributi vanno spediti a:
[email protected]>>
17
(Jules Verne)
Jules Verne e l'astronautica
(Francesco Vitale)
Nato a Nantes nel 1828, il francese Jules Verne (la cui fama nel nostro paese ne ha fatto
italianizzare il nome), contrariamente a quanto lascerebbero pensare le sue opere più note,
frequentò il liceo classico, laureandosi poi in giurisprudenza. Tuttavia, non volle intraprendere
la carriera giuridica, come avrebbe voluto il padre, e la sua prima attività fu quella di autore di
opere teatrali. Soltanto a partire dal 1862 si dedicò, fino a tarda età, all'attività di romanziere,
raggiungendo un enorme successo in tutta l'Europa. Morì ad Amiens nel 1905.
È del 1865 l'opera "Dalla Terra alla Luna", che si completa con l'altra "Intorno alla Luna", il
cui contenuto, con le conquiste dell'astronautica, è diventato quanto mai attuale. Tuttavia
crediamo che, nel rileggere queste due opere di Verne, occorra tenere conto delle conoscenze
tecniche e del senso comune di quell'epoca, che impedivano di immaginare soluzioni e
situazioni alle quali l'astronautica ci ha ormai abituati.
Nel racconto, i componenti del "Club del cannone", con sede a Baltimora, negli Stati Uniti,
decidono di inviare sulla Luna un enorme proiettile nel quale avrebbero preso posto tre audaci
viaggiatori: Barbicane, presidente del club, il capitano Nicholl e il bizzarro Michel Ardan,
francese. Il mostruoso cannone, che avrebbe impresso al proiettile la necessaria velocità
iniziale, viene costruito dopo tre anni di preparativi e realizzato rivestendo di ghisa le pareti di
un pozzo profondo 274 m. Il sito scelto per il cannone avrebbe dovuto trovarsi ad una località
avente una latitudine compresa tra 0° e 28°, in modo da colpire la Luna col cannone puntato
allo zenit. Viene scelta una località, in Florida, avente coordinate: 27° 07' N e 81° 05' W. Sul
fondo del cannone quattrocentomila libbre di fulmicotone avrebbero espulso il proiettile con
una velocità sufficiente a fare arrivare sulla Luna il proiettile. Quest'ultimo è costituito da un
cilindro di alluminio cavo, del peso di 19.250 libbre (8.732 kg), del diametro di 2,74 m e con
la parte superiore di forma tronco-conica; l'altezza complessiva è di 3,66 m. Quattro finestrini,
dotati di vetri molto spessi, avrebbero consentito l'osservazione in tutte le direzioni. Il
pavimento, costituto da un disco di legno scorrevole e aderente perfettamente alla superficie
interna del proiettile, è munito di grossi tamponi elastici (simili ai respingenti dei carri
ferroviari). Il disco galleggia sull'acqua contenuta in alcuni tramezzi destinati a rompersi con
l'urto iniziale, mentre l'acqua sarebbe stata via via espulsa all'esterno (figura 1).
(Figura 1)
(Legenda - a: tramezzi contenenti acqua - c: cannoncini per i razzi
f: finestrini - t: tamponi elastici - p: pavimento scorrevole)
L'acqua, comprimendosi, avrebbe fornito una resistenza elastica pressoché istantanea, mentre
la sua meno rapida espulsione avrebbe fornito una resistenza viscosa: così sarebbero stati
neutralizzati quasi completamente gli effetti dello spaventoso colpo che avrebbero subìto i
viaggiatori al momento della sparo. Infine, i potenti tamponi elastici avrebbero evitato un urto
violento del pavimento contro il fondo del proiettile quando l'acqua sarebbe stata espulsa. Alla
partenza, i viaggiatori si sarebbero distesi su tre cuccette solide e ben imbottite.
Verne fu costretto a ipotizzare l'uso di un cannone e non di un razzo per colpire la Luna per
due motivi. Il primo è che i razzi, ai suoi tempi, erano utilizzati soltanto per i fuochi d'artificio
e avevano una velocità assai modesta rispetto a quella dei proiettili delle armi da fuoco:
infatti, la velocità di uscita di un proiettile da un fucile, anche nell'Ottocento, superava quella
del suono e per i cannoni le velocità erano ancora più alte. I razzi presentavano inoltre
traiettorie molto instabili e quindi assolutamente imprevedibili. Nonostante tutto, Verne nel
suo racconto li utilizza, ma soltanto per frenare il moto del proiettile nel momento in cui
sarebbe stato sottoposto a forze alquanto modeste. Tuttavia, è abbastanza evidente che, al
momento dell'esplosione nel cannone alla partenza, nessun essere vivente rinchiuso in quel
proiettile sarebbe sopravvissuto. Tanto per fare qualche conto, supponiamo che, nel caso più
favorevole per i viaggiatori, il proiettile abbia percorso l'interno del cannone con un moto
uniformemente accelerato, cioè con una velocità crescente con legge lineare; la velocità media
del proiettile sarebbe dunque stata la metà di quella di uscita - che doveva essere di 10.972
m/s - cioè di 5.486 m/s. Il proiettile, tenendo conto della presenza dell'esplosivo, avrebbe
percorso nell'interno del cannone un tratto di circa 215 m. Questo spazio sarebbe stato perciò
percorso in 215/5.486 = 0,039 secondi. L'accelerazione costante, alla quale il proiettile e i
viaggiatori sarebbero stati sottoposti, avrebbe avuto un valore di:
10.972/0,039 = 281.333 m/s2, pari a 28.678 volte quella di gravità (9,81 m/s 2). Abbiamo
quindi trovato, attraverso semplici calcoli, che la terribile forza di compressione avrebbe
trasformato il proiettile cavo - costituito da un cilindro dello spessore di 30 cm - in un cilindro
molto corto, quasi privo di spazio, perché la sollecitazione alla quale sarebbe state sottoposte
le pareti mentre veniva accelerato dai gas che si espandevano nell'interno del cannone,
sarebbe stata quasi dieci volte superiore alla sollecitazione limite (chiamata "carico di
rottura") dell'alluminio; i corpi dei viaggiatori si sarebbero invece ridotti ad uno strato
sanguinolento di spessore esiguo. Verne era consapevole di questo punto debole del suo
racconto, ma immagina che, nonostante i dubbi che apertamente esprime, i dispositivi
impiegati per attenuare l'urto abbiano funzionato. Barbicane riporta lievi ferite, ma, soccorso
dai suoi compagni, che sono rimasti illesi, si riprende subito; muore invece uno dei due cani
che erano stati portati a bordo.
In effetti, soltanto un'accelerazione relativamente bassa e quindi sopportabile dai viaggiatori,
conferita al proiettile per un periodo di tempo relativamente lungo, avrebbe evitato la
catastrofe iniziale. Ciò poteva ottenersi soltanto se il veicolo spaziale fosse stato spinto da un
razzo. Tuttavia, dopo Verne, non fu necessario attendere molto. Nel 1857 nasceva Konstantin
Edvardovic Tsiokhovskij, il padre del volo spaziale, che nel 1903 pubblicò il primo scritto in
cui, per investigare lo spazio, menzionò i propulsori a razzo che aveva cominciato a studiare
molti anni prima. Questi avevano la forma curiosa di goccia, perché allora si riteneva che,
conferendo alla parte anteriore una forma emisferica, si sarebbe ottenuta una minore
resistenza di attrito con l'atmosfera (figura 2):
(Figura 2)
Ma torniamo al nostro racconto. Intanto, per poter scorgere il proiettile sulla superficie lunare,
viene costruito un telescopio di inusitata grandezza, collocato sulle Montagne Rocciose. Pur
vivendo in un'epoca in cui i telescopi rifrattori (nei quali l'obiettivo, che raccoglie la luce, è
costituito da lenti) per la loro alta qualità dominavano incontrastati negli osservatori
astronomici, Verne propende per i telescopi a riflessione, che impiegavano come obiettivo
uno specchio metallico lucidato. Egli però indica come soluzione economica il ricorso a
specchi di vetro con la superficie argentata. Questa scelta, diversi anni dopo, fu adottata per
costruire i grandi telescopi quando l'argentatura degli specchi fu sostituita dalla più durevole
alluminatura. Lo specchio del telescopio descritto nel racconto ha un diametro di 16 piedi
(4,86 m).
Messisi a loro agio nel proiettile, i protagonisti, attraverso i finestrini trasparenti, assistono
con terrore all'avvicinarsi di un asteroide orbitante in 3 h 11m intorno alla Terra a 8.000 km di
distanza dalla sua superficie; ma nel racconto è detto che la presenza di questo corpo era stata
soltanto ipotizzata dagli astronomi. Lo scontro è evitato per un soffio, ma l'attrazione del
corpo modifica inevitabilmente la traiettoria del proiettile che non potrà più raggiungere la
superficie della Luna. Durante il tragitto, quasi per scherzo e per soddisfare la curiosità di
Michel Ardan, Barbicane decide di rifare il calcolo della velocità iniziale da conferire al
proiettile per fargli raggiungere il punto in cui l'attrazione della Terra diventa uguale a quella
della Luna; punto che Verne colloca correttamente a 9/10 della distanza che ci separa da essa
e al di là del quale il proiettile sarebbe caduto sulla Luna per effetto della sola gravità da essa
prodotta. Chi legge il racconto si trova così di fronte ad una formulaccia, sulla quale Verne si
compiace di discutere senza spiegare nei particolari il procedimento adottato per ottenerla, e
che qui riportiamo.
1 2
r
m'
r
r
(v - vo2) = gr [ - 1 +
(
)]
2
x
m d− x d− r
Nella formula, d è la distanza dal centro della Terra al centro della Luna; r è il raggio della
Terra e m è la sua massa; m' è la massa della Luna; g è la gravità sulla superficie della Terra;
x è la distanza, variabile, che separa il proiettile dal centro della Terra e v è la velocità che ha
il proiettile a quella distanza; infine, vo è la velocità che ha il proiettile all'uscita
dall'atmosfera.
La formula non è affatto inventata, come qualcuno sarebbe portato a credere, ma è
rigorosamente esatta. Per venire incontro a coloro che volessero tentare di ricavarla, diciamo
che la sua dimostrazione è soltanto un po' più complessa di quella che si trova in tutti i testi di
meccanica razionale (materia inserita nei corsi universitari di ingegneria e di scienze
matematiche e fisiche) nella parte in cui è trattato il metodo della determinazione della
velocità di fuga da un pianeta mediante il Teorema dell'Energia. Per calcolare allora la
velocità v del proiettile ad una fissata distanza dalla Terra dalla quale è partito con velocità
iniziale vo, basta imporre la condizione che la differenza di energia cinetica, dovuta alla
variazione della velocità da vo a v, sia uguale alla differenza del potenziale gravitazionale
calcolato per la distanza fissata, tenendo conto, in questo caso, sia dell'attrazione terrestre che
di quella lunare. Ricordiamo (utilizzando per le grandezze lettere diverse da quelle adottate da
1
Verne) che l'energia cinetica Ec di un corpo di massa m e velocità v è Ec = mv2 , mentre il
2
potenziale gravitazionale U di un corpo di massa m, il cui baricentro si trova alla distanza d da
kmM
quello di un corpo di massa M, è U =
, essendo k la costante di gravitazione universale.
d
Potendosi, infine, con buona approssimazione ritenere che sulla superficie terrestre, per un
kmM T
corpo di massa m, la forza di attrazione gravitazionale F =
coincida col peso P = mg,
2
RT
essendo MT la massa della Terra, RT il suo raggio e g l'accelerazione di gravità, si può porre la
kM T
quantità
che compare sviluppando i calcoli uguale a gRT. Così si ricava con pochissimi
RT
e semplici passaggi la formula riportata da Verne.
Imponendo che la velocità v si annulli alla distanza del punto di uguale attrazione, Barbicane
ottiene la formula finale che gli consente di ricavare la velocità vo da conferire al proiettile per
portarlo in quel punto e che è riportata nel racconto:
vo2 = 2gr [1 -
10r
1 10r
r
(
)]
9d 81 d
d− r
Nicholl si occupa di effettuare i calcoli, che esegue con prodigiosa rapidità. Il valore ricavato
è di 11.051 m/s, che differisce di pochissimo dal valore della velocità di fuga dalla Terra in
assenza dell'attrazione lunare, che è di 11.170 m/s. Una finezza di Verne, quindi, ed è ovvio
che sarebbe stato assai difficile preventivare l'esatta quantità di esplosivo da introdurre nel
cannone per ottenere la velocità richiesta per il proiettile. Ebbene, i nostri viaggiatori, alla fine
dei calcoli, scoprono che la velocità che il cannone avrebbe dovuto conferire al proiettile per
fargli raggiungere la Luna avrebbe dovuto essere maggiore di quella effettivamente raggiunta,
determinata teoricamente dall'Osservatorio di Cambridge e poi ottenuta dalle
quattrocentomila libbre di esplosivo introdotte nel cannone. Tuttavia, la maggiore velocità di
cui sembra animato il proiettile (che, fortunatamente, prosegue verso la Luna senza rallentare)
è attribuita da Barbicane alla riduzione della massa totale del proiettile dopo l'espulsione
dell'acqua dai tramezzi.
I viaggiatori possono così raggiungere il punto di uguale attrazione dove vivono la curiosa
esperienza dell'assenza di gravità. Anche questa è una sciocchezza perché, una volta raggiunta
la velocità di fuga dalla Terra all'uscita dal cannone, il proiettile sarebbe sfuggito ad ogni
azione gravitazionale e fin dai primi istanti i viaggiatori avrebbero volteggiato nel proiettile
come oggi fanno gli astronauti. Noi crediamo che qui Verne, come autore di opere teatrali,
abbia voluto tenere conto del senso comune dei suoi lettori, che avrebbero trovato poco
gradita una situazione così anomala durante tutto il viaggio.
Il proiettile raggiunge quindi la Luna, ma, a causa della deviazione iniziale provocata
dell'asteroide, passa a soli 50 km dal suo polo nord. Durante la fase di avvicinamento del
proiettile al nostro satellite, quando non si potevano verificare episodi significativi, Verne ne
approfitta per descrivere dettagliatamente le varie configurazioni lunari via via osservate dai
protagonisti, prendendo come riferimento la nota carta lunare di Beer e Mädler. Tuttavia, il
proiettile non si perde nello spazio oltrepassando la Luna, come temevano i viaggiatori, ma
gira intorno a questa sorvolandone l'emisfero non visibile dalla Terra, che in quel momento
non era illuminato dal Sole. Soltanto la provvidenziale esplosione di un bolide apparso
improvvisamente consente ai viaggiatori di vedere per la prima volta la faccia nascosta del
nostro satellite. Noi preferiamo non riportare quella fugace e straordinaria apparizione, che va
letta sul testo di Verne.
Il proiettile prosegue il suo giro passando per il polo sud della Luna e, dopo averne sorvolato
la parte illuminata rivolta verso la Terra, si allontana dirigendosi verso il punto di uguale
attrazione. I viaggiatori, non volendo rinunziare a scendere sulla Luna, decidono di arrestare il
moto del proiettile quando quest'ultimo si sarebbe trovato in quel punto, utilizzando la spinta
di venti razzi per fuochi artificiali contenuti in altrettanti cannoncini sporgenti dal suo fondo;
ma il loro effetto è irrilevante. Per il proiettile inizia quella spaventosa caduta verso la Terra
che lo porterà a entrare nell'atmosfera con la stessa velocità con la quale ne era uscito.
Intanto, la corvetta statunitense Susquehanna sta scandagliando il fondo del Pacifico a 27° 7'
N e a 147° 22' W. Nel cuore della notte un corpo luminosissimo cade nel mare sfiorando la
nave e spezzandole il bompresso: è il proiettile rientrato sulla Terra! Le ricerche per il
recupero durano molto tempo, perché si riteneva che il proiettile fosse affondato; invece
galleggiava e i viaggiatori trascorrono il Natale di quell'anno nel proiettile in balia delle onde,
prima di essere recuperati il 29 dicembre e portati in trionfo in tutti gli Stati dell'Unione.
Per quanto riguarda la data del viaggio fantastico, Verne si limita a dire: "nell'anno 186..."; ma
l'opera fu pubblicata nel 1865 e se immaginiamo che da allora partano i tre anni richiesti per
preparare l'impresa, arriviamo al 1868. Ebbene, nel dicembre del 1968, esattamente cento anni
dopo, tre americani - il colonnello Frank Bormann, il capitano James Lovell e il maggiore
William Anders - partono dal Centro Spaziale J. F. Kennedy di Cape Canaveral, in Florida
(28° 33' N; 82° 22' W), a cento chilometri circa dal punto in cui Verne colloca il suo cannone)
e lasciano la Terra a bordo dell'Apollo 8, spinto da un razzo Saturno 5, alto 86 m (il percorso
del proiettile nel cannone [215 m] è esattamente due volte e mezza questo valore). La capsula,
di forma conica, ha un diametro di 4 m ed è alta 3,5 m (è la stessa altezza del proiettile di
Verne). Anche la capsula è dotata di finestrini con vetri trasparenti. I motori del primo, del
secondo e del terzo stadio dell'enorme razzo spingono il terzo stadio, la navicella e il modulo
di servizio in un'orbita di parcheggio intorno alla Terra a circa 190 km di altezza. I motori del
terzo stadio, poi distaccatosi, portano la capsula ed il modulo di servizio in orbita lunare.
Il veicolo, giunto in prossimità della Luna, le ruota intorno, sorvolandone la faccia nascosta.
Si accendono i motori del modulo di servizio in modo da far compiere al veicolo dieci giri
intorno alla Luna a 112 km dalla sua superficie. Gli astronauti possono così scattare a breve
distanza molte fotografie della faccia del nostro satellite non visibile dalla Terra. Poi il motore
a razzo del modulo di servizio viene riacceso e il veicolo lascia l'orbita lunare per iniziare la
caduta verso la Terra. La capsula, staccatasi dal modulo di servizio, entra nell'atmosfera
terrestre con una velocità di 10.964 m/s; protetta da uno scudo termico e frenata da alcuni
paracadute, cade all'alba del 27 dicembre nel Pacifico 2000 km a sud della Hawaii, a poca
distanza dalla portaerei americana Yorktown inviata per il recupero.
Con il volo dell'Apollo 8 l'uomo è uscito per la prima volta dal campo gravitazionale terrestre
ed è entrato in quello di un altro corpo del Sistema Solare e per la prima volta è riuscito ad
osservare la faccia nascosta della Luna.
Il più grande telescopio del mondo in servizio in quell'anno era il riflettore Hale di Monte
Palomar, negli Stati Uniti, realizzato nel 1948 con uno specchio di vetro del diametro di 200
pollici (5,07 m), diametro quasi uguale a quello del telescopio descritto nel racconto.
I lettori avranno notato che le numerose analogie col viaggio immaginato da Verne sono
sconcertanti. Egli, vissuto in un'epoca nella quale gli unici mezzi per volare erano i palloni
aerostatici, predisse in altri racconti la vittoria dei mezzi più pesanti dell'aria (elicotteri ed
aerei) su quelli più leggeri (aeròstati) e il sommergibile a propulsione elettrica. Le sue opere,
troppo ricche di descrizioni tecniche, insolite per che avrebbe dovuto avere soltanto una
cultura umanistica e riguardanti macchine che sono state effettivamente realizzate poco dopo
la sua morte, lasciano veramente perplessi e non escludiamo, perciò, che qualcuno sarebbe
portato a credere che il nostro autore possedesse particolari doti di premonizione. Ebbene,
dobbiamo dire che Verne sembra proprio volerci privare del beneficio del dubbio, gettando
addirittura la maschera. Infatti, i suoi biografi riferiscono che, poco prima di morire, consegnò
il manoscritto della sua opera "Dalla Terra alla Luna" ad un nipote - vivente fino ad alcuni
anni fa - dicendogli: "Conservalo con cura, perché io so che tu assisterai al viaggio degli
uomini verso la Luna e potrai così giudicare l'esattezza delle mie previsioni".
----Francesco Vitale è nato a Torre Annunziata (NA) nel 1944. Dopo aver
conseguito la maturità classica, si è laureato a Napoli in ingegneria elettronica
nel 1969. Oltre a svolgere molteplici attività, si occupa, da diversi anni, di
archeologia e di astronomia, dedicandosi in particolare allo studio dei corpi
minori del Sistema Solare. È anche collaboratore scientifico di varie riviste ed è
attivo, come conferenziere, nella divulgazione delle varie discipline che sono
oggetto delle sue ricerche. Ha scritto due libri, pubblicati dalla casa editrice
CLEUP di Padova: Astronomia ed esoterismo nell’antica Pompei e ricerche
archeoastronomiche a Paestum, Cuma, Velia, Metaponto, Crotone, Locri e Vibo
Valentia e Accampamenti romani nel Veneto (vedi la presentazione che si fa del
secondo in questo stesso numero di Episteme, sezione "Pubblicazioni e
informazioni ricevute").
Indirizzo:
Via Nazionale, 144
89060 SALINE JONICHE (RC)
Tel. e fax: 0965 782184
18
La dimostrazione matematica pre-euclidea:
tra costruzione e rigore logico
(Flavia Marcacci)
«La vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose
differenze fra le cose», scrive Aristotele nella prima pagina della sua Metaphysica (A 1
980a24-26), l'opera che più di tutte lo consegna ai vertici del pensiero classico. Altrove, in
un'opera forse meno conosciuta ma contenente la sintesi di ciò che lo Stagirita intendeva per
scienza, gli Analitici Secondi, si legge che «sapere è il conoscere mediante dimostrazione» (I
2 71b18), affermazione che viene meditata, approfondita e compresa appieno nel corso di
tutta la trattazione. Sono i due corni del dilemma su come si debbano effettuare la conoscenza
e il sapere: se mediante il ricorso ai sensi e in particolare al primo tra essi, la vista, o se
mediante la mediazione della dimostrazione così come intesa da Aristotele, cioè assiomaticodeduttiva.
Certo è che l'idea di "dimostrazione" non fu inventata da Aristotele; tanto meno fu inventata
da Euclide, nonostante la sua celebrità lo abbia consegnata alla storia come simbolo della
matematica greca e nonostante le dimostrazioni degli Elementi abbiano rappresentato per
secoli il modello di riferimento. Poter dimostrare significa possedere un sapere certo e
incontrovertibile: il rigore logico delle deduzioni è ciò che sembra procurare la conquista di
questo sapere. Eppure sfogliando gli Elementi si ha la sensazione che si incominci con la
preponderanza di una geometria "per immagini semplici" (geometria piana, libri I-IV), fino ad
approdare ad una geometria fatta di "oggetti più complessi" (geometria solida e poliedri, libri
XI-XIII); come se si iniziasse da dimostrazioni più "visibili" fino a dimostrazioni di più
difficile comprensione, nelle quali è necessaria l'astrazione formale e il rigore deduttivo.
Secondo Szabó, l'idea di "dimostrazione matematica" distingue profondamente la matematica
pre-ellenica e quella ellenica1. Von Fritz sostiene che proprio per riuscire a distinguere tra i
tanti risultati esatti e inesatti della matematica orientale, i Greci «dovettero crearsi nuove basi.
Di qui il bisogno di dare di tutto, ma soprattutto degli enunciati più elementari, una
dimostrazione esatta, non importa come»2.
Ma quali caratteristiche dovesse avere la "dimostrazione matematica", se fosse possibile
formulare delle regole per rendere la procedura dimostrativa sempre più rigorosa,
trasmissibile, utilizzabile devono essere state le domande che hanno dato origine ad un lungo
dibattito, visto che i primi tentativi di dimostrazione inizialmente richiamati hanno
caratteristiche diverse dalla nostra idea preconcetta di "dimostrazione" (che, chiaramente, è di
sapore aristotelico-euclideo). Non è neanche da escludere l'ipotesi che ogni singolo pensatore
si organizzasse come poteva, proponendo tipi di dimostrazioni molto diversi fra loro.
Sempre Von Fritz ha distinto nella scienza greca il procedere per epagoge dal procedere per
apagoge, ad indicare due diverse vie praticate dagli antichi greci per dimostrare, prima che si
configurasse come via regia la forma deduttiva data alla dimostrazione da Aristotele ed
Euclide. Epagoge letteralmente significa "accostamento", ovvero un metodo in cui per
verificare determinate proprietà vengono "avvicinati" gli oggetti matematici in discussione,
quasi per facilitare la presa visione di quel passaggio logico e poter poi passare al successivo
o addirittura alla conclusione. Apagoge3, che letteralmente indica l'atto di allontanare, è il
metodo indiretto di riduzione: "allontanare" poiché nel processo dimostrativo si allontana
un'ipotesi per dimostrare quella opposta, e lo si fa lavorando esclusivamente su concetti
astratti, senza ricorrere costantemente all'intuizione e all'evidenza come nell'epagoge.
La compresenza di queste due tendenze, che in modo indicativo potremmo anche chiamare
"tendenza al concreto" e "tendenza all'astratto", si ritrovano costantemente nel primo pensiero
matematico greco: capire come sia stato possibile farle convivere oltre che un problema
teoretico, è anche un problema di precise origini storiche.
L'uso della figura e di meccanismi pratici nelle prime dimostrazioni della matematica
greca
Un fondazionalista accorderebbe il giudizio platonico verso quanti «in modo ridicolo [...],
parlano sempre di disegnar quadrati, di costruire figure e di sommarle fra loro, […] mentre
tutta questa disciplina andrebbe sviluppata in vista della conoscenza» (Repubblica 527A-B):
tali parole sono la prova che l'idea di non introdurre figure nella dimostrazione, in modo da
eliminare qualsiasi ricorso all'intuizione, è perseguita fin nei nostri tempi4.
C'è un aspetto dell'uso della figura che è direttamente connesso con quanto sottolineava
Aristotele sul valore della vista nella costruzione del sapere. Osservare la figura permette di
comprendere più velocemente quale problema stiamo cercando di risolvere o quale è
addirittura la soluzione al problema. Ma mentre l'intuizione fa cogliere l'oggetto
immediatamente e in modo indistinto, la figura comporta già una mediazione: rappresentare
l'oggetto significa fare una inferenza, non deduttiva ma pur sempre un'inferenza e per di più
ampliativa, poiché significa estrapolare qualcosa che non è contenuto propriamente
nell'oggetto5.
Dunque, tra uso della figura e ricorso all'intuizione c'è differenza, nonostante il loro legame
sia strettissimo; ma l'uso della figura rimanda anche all'aspetto pratico che intercorre nella
costruzione della conoscenza. Tale uso dovette essere anche sistematico in molti casi: Netz ha
mostrato l'interdipendenza tra l'uso di figure (diagramma) e il testo in Apollonio 6. Ma ci
sembra che ciò accadeva già molto prima di Apollonio: l'esame della tradizione papirologica
greca sulle figure, nonostante non sia ancora studiata sistematicamente, ammette che il ricorso
a righelli, squadre e compassi fosse usuale per la rappresentazione di oggetti bidimensionali e
di alcuni oggetti tridimensionali, nonostante in quest'ultimo caso spesso si rappresentasse
separatamente la parte non visibile; più delicata è la questione della rappresentazione degli
oggetti tridimensionali di cui si cerca di dare comunque una rappresentazione figurale diretta,
che però a volte sembra più di tipo pittorico e meno tecnico. Se questa può sembrare una
questione oziosa, in realtà è di una certa importanza poiché significa capire fino a che punto le
figure volessero rappresentare oggetti reali, magari riproducendoli in scala, o fino a che punto
invece le figure fossero utilizzate in modo molto più informale. Ed in effetti sappiamo che
tentativi di ritrarre il mondo erano stati compiuti da Erodoto, che sa descrivere
ammirevolmente bene, con parole, il Nord Africa (ad es., Hdt. II 11, 12); inoltre Strabone ci
informa che tentativi di rappresentarsi la totalità del mondo erano stati già compiuti da
Anassimandro ed Ecateo mediante la compilazione di carte geografiche (D.-K. 12A6); e che
sia Anassimandro che Anassimene si avvalsero di modelli grafici per descrivere l'universo (la
colonna, il piatto: D.-K. 12A11(3); D.-K. 13A20, B2a). Netz ipotizza si usassero figure
"pittoriche" in ambiente privato, quando si discuteva dei risultati ottenuti dai matematici 7; se
questa è una tesi valida, si potrebbe anche pensare che viceversa le immagini pittoriche di
oggetti tridimensionali stimolasse la formulazione di problemi matematici, quasi in senso
costruttivista.
Un problema ancora più grave dell'impiego di figure nelle dimostrazioni è quello del ricorso
ad espedienti pratici: doveva esserci l'uso avvalso di dimostrare "mostrando" che
tecnicamente e praticamente una certa cosa era possibile, altrimenti non si giustificherebbe il
rimprovero rivolto da Platone ai suoi allievi Eudosso, Menecmo e Anfinomo «i quali
volevano ridurre il problema della duplicazione dei volumi su apparati strumentali e
meccanici (…) a portata solamente pratica»; così facendo essi distruggevano la geometria,
riducendola a cosa sensibile anziché facendola partecipare alle cose eterne e immutabili (12
D1e, Lasserre8). Dimostrare una proposizione geometrica magari costruendo nella realtà un
modello tridimensionale per osservarlo, sezionarlo, rovesciarlo e così via è più che mai una
soluzione da includere nell'ambito della matematica "pratica"; addirittura potrebbe far venir
pure il dubbio se considerare questo genere di esercizio "matematico".
L'alternativa che allora si pone è se adottare un preciso concetto di "dimostrazione" (che in
ultima analisi è di sapore aristotelico-euclideo) e dunque tagliar fuori da esso molti casi di
dimostrazioni pre-euclidee di carattere essenzialmente pratico; oppure partire dai dati storici e
riadattare, riformulare il concetto di "dimostrazione" nella scienza pre-euclidea.
Recentemente, rispondendo a Netz, Giardina propone l'idea di uno sviluppo "graduale" della
matematica deduttiva; per lo studioso americano si potrebbe parlare di "matematica greca"
solo in relazione al prototipo aristotelico-euclideo9. Ma questo atteggiamento porterebbe ad
escludere che anche una matematica neopitagorica o neoplatonica possano essere "vere"
matematiche10.
Inizieremo allora proprio da alcune di quelle dimostrazioni oggetto di perplessità, nella
convinzione che possano invece suggerirci molto di questo antico orizzonte matematico.
Senza valutazioni svolte secondo il concetto di "dimostrazione" rielaborato in seguito,
l'evidenza testuale fa riemergere dati della matematica di VI-V secolo su cui non possiamo
sorvolare, ma che vanno capiti e storicizzati: solo alla fine potremo provare a concludere su
cosa inizialmente si intendesse per "dimostrazione".
Le prime dimostrazioni
La centralità dell'esperienza diretta e dell'osservazione delle figure si rintraccia in dati storici
che non sono "dimostrazioni", ma sono comunque indice di questo riferimento al pratico: la
classificazione pitagorica dei numeri in numeri triangolari e numeri quadrati può essere in una
certa misura così intesa, ponendo in stretta correlazione numeri e figure11. Così anche la storia
del termine "gnomone", che dapprima è uno strumento astronomico, poi uno strumento per
disegnare angoli retti; in seguito diviene quella figura da aggiungere affinché un quadrato dia
luogo ad un quadrato più grande (Aristotele 12) fino ad essere in Euclide 13 quella figura da
aggiungere per dar luogo ad un qualsiasi parallelogramma; infine in Erone (Def. 58) lo
gnomone viene ad essere un numero o una figura da aggiungere a un numero o ad una figura
per produrre qualcosa di simile e di più grande 14. L'aspetto pratico e teorico sono addirittura
indistinguibili.
La prima dimostrazione matematica di cui gli antichi fanno menzione risale a Talete di
Mileto, del quale riferisce Proclo: «dicono che sia stato il famoso Talete il primo a dimostrare
che il cerchio è bisecato dal diametro. (…) Se si vuol dimostrare il fatto per via matematica,
immaginiamo condotto il diametro e sovrapposta una parte del cerchio all'altra» (Comm. a
Eucl. 157.10 = D.-K. 11A2015). Se uno dei due semicerchi, continua Proclo, fosse minore
dell'altro, le due semicirconferenze dovrebbero avere i raggi disuguali; ma ciò è impossibile,
dunque esse sono uguali, al pari dei relativi semicerchi, e il diametro biseca il cerchio.
Su questa testimonianza si sono sollevate più obiezioni circa l'uso del termine "dimostrò"
(apodeixai). Secondo Zeuthen, Hankel16, Heath17, Frajese18 probabilmente si trattava di una
sorta di prova pratica, fatta magari concretamente dividendo in due parti un cerchio realizzato
in un qualche materiale e poi sovrapponendole. Questo tipo di procedura poteva essere diffusa
al tempo, magari impiegata in lavori pratici e indicata come "dimostrazione": quindi in quel
"dimostrò" non va visto qualcosa di particolarmente innovativo o sorprendente.
Anche Tannery19, Hankel20 e Heath21 di nuovo esprimono delle perplessità sul senso di questa
"dimostrazione", basate sul fatto che lo stesso Euclide ne fa una definizione (I def.17:
«diametro del cerchio è una retta condotta per il centro e terminata da ambedue le parti dalla
circonferenza del cerchio, la quale retta taglia anche il cerchio per metà»), evitando di
dimostrarla.
Ma abbiamo detto che è proprio questo il senso da cogliere: cosa significasse "dimostrare" e
come il significato originario evolse in quello più definito e ricco di connotazione che
troviamo in Euclide. Certo Talete non intendeva per "dimostrazione" quello che poteva
intendere Euclide; inoltre Euclide sistema tra le definizioni ciò che veniva considerato
"dimostrato" appunto semplicemente perché "mostrato". Il fatto che ricorresse ad un
meccanismo pratico significa affidarsi all'evidenza e da lì trarre una conclusione generale di
carattere teorico22.
In questo senso già M. Cantor considerava seriamente possibile che Talete avesse preso
spunto dall'aspetto di certe figure circolari divise in un numero di settori equivalenti da 2, 4 o
6 diametri, rappresentate in alcuni monumenti egiziani o sui vessilli portati dai re tributari
asiatici sotto la XVIII dinastia 23. Ragionando su queste figure avrebbe ideato la sua
"dimostrazione", che a diritto può essere chiamata in questo modo.
In ogni caso, che Talete si sia potuto mettere a "mostrare" per sovrapposizione la congruenza
dei due semicerchi ottenuti spezzando realmente lungo il diametro una tavoletta circolare (ad
esempio di legno), già sarebbe significativo: esprimerebbe la volontà di capire fino in fondo,
di verificare ricorrendo ad un espediente pratico ciò che intuitivamente sembra vero, di
sottoporre a controllo una conoscenza istintivamente data per certa. Non solo senza questo
desiderio preliminare, la dimostrazione scientifica non sarebbe mai potuta nascere; ma
significa proprio che inizialmente il dato empirico rivestiva un ruolo centrale, poiché ad esso
si demandava la valutazione definitiva sul dato intuitivo.
D'altronde lo stesso Talete ci fornisce indizi per pensare che proprio questo atteggiamento
produsse le prime importanti conquiste, che destarono stupore già nell'antichità: Plutarco ci
ricorda infatti l'ammirazione del re Amasi vedendo che il Milesio era riuscito a trovare un
metodo generale con cui misurare l'altezza di una piramide (D.-K. 11A20), segmento che
sfugge ad una misurazione diretta e che richiede un ragionamento indiretto per il calcolo, e lo
avrebbe fatto usando l'ombra proiettata da un bastone.
Lo stupore cui Plutarco allude è comprensibile: pensare di ricorrere ad una grandezza
misurabile (l'ombra proiettata dal bastone) per determinare la misura di un'altra grandezza
inaccessibile (l'altezza della piramide) è un'idea estremamente interessante ed evidentemente
nessuno fino ad allora ci aveva pensato. Per capire però la fattività della procedura di Talete è
necessario approfondire il problema da un punto di vista geometrico.
Chiamando D l'estremo dell'ombra, non ha senso calcolarne la distanza dal lato di base (cioè
ID), perché non è quello il segmento equivalente all'altezza del monumento. Il segmento che
cerchiamo è HD, equivalente al segmento inaccessibile GH: come misurarlo?
AC: bastone
GH: altezza della piramide
Poiché Plutarco chiama in causa l'idea di proporzione, che sicuramente Talete non possedeva
in forma raffinata24, conviene rifarsi alle testimonianze di Plinio e Diogene Laerzio per
avanzare delle ipotesi:
Plin. N. H. XXXVI 82 (= D.-K. 11A21): «Talete di Mileto riuscì a determinare la misura
dell'altezza delle piramidi, misurandone l'ombra nel momento in cui suole essere pari al corpo
che la proietta».
D.L. I 27 (=D.-K. 11A1): «Ieronimo [di Rodi, n.d.a.] dice che misurò anche l'altezza delle
piramidi dall'ombra, avendo osservato quando la nostra ombra ha la stessa altezza del corpo».
Assumiamo allora che Talete abbia misurato l'ombra proiettata dalla piramide in un preciso
giorno e ora dell'anno, esattamente allorché l'ombra di un oggetto qualsiasi, al mezzogiorno
della latitudine in questione, è lunga quanto l'altezza dell'oggetto. Per determinare il momento
esatto in cui operare Talete avrebbe semplicemente confrontato la lunghezza di un bastone
(AC) e l'ombra da esso proiettata sul terreno (BC). Misurando la lunghezza dell'ombra della
piramide in quell'istante, e sfruttando la particolare orientazione delle piramidi da sud a nord,
Talete avrebbe potuto risalire alla misura dell'altezza della piramide, vediamo come. Detto H
il piede dell'altezza, che cade esattamente al centro del quadrato di base 25, il segmento HD è
equivalente al segmento inaccessibile GH (GH = HD), e somma a sua volta del segmento
pure inaccessibile HI più il segmento misurabile ID. Ma HI vale manifestamente la metà del
lato della piramide, un dato quindi misurabile dall'esterno, e il gioco è fatto.
È verosimile che Talete abbia potuto lavorare su un modello di piramide, ragionando sul quale
avrebbe cercato di capire come trovare il segmento EF, equivalente all'altezza GH non
misurabile. Avrebbe cioè ricostruito la situazione per renderla "sperimentabile" e studiarla a
fondo. Si sarebbe quindi accorto della possibilità di costruire il quadrato HDEF equivalente al
quadrato di base della piramide, abilità commisurabile alle conoscenze geometriche di quei
tempi in quanto non presuppone altro che la padronanza delle proprietà della semplicissima
figura del quadrato e la capacità di riprodurla sul terreno. Ma è indubbio che tutta la
rielaborazione teorica prende spunto dall'osservazione concreta e che probabilmente si
svolgeva mediante modelli disegnati o appositamente costruiti26.
Ma arrivando alla metà del V sec., un'altra attestazione del sistematico ricorso alle figure nella
dimostrazione ci viene fornito dalla questione della quadratura delle lunule, notoriamente di
proprietà di Ippocrate di Chio27, autore anche dei primi Elementi (D.-K. 42A1). La quadratura
delle lunule o metodo dei segmenti 28 - si sa - trova spazio nella ricerca del più generale
problema della quadratura del cerchio, uno dei problemi speciali la fama dei quali arrivava fin
nelle arene, se addirittura Aristofane ne faceva parlare ai suoi personaggi 29. Quadrare una
lunula significa trovare una superficie poligonale piana equivalente (e dunque dall'area più
facilmente calcolabile), in modo da ottenere indirettamente anche la misura della superficie
della grandezza curvilinea.
Simplicio ci riporta il resoconto che della dimostrazione di Ippocrate offriva la perduta Storia
delle geometria di Eudemo; una dimostrazione considerata generale poiché valevole nei casi
in cui l'arco esterno della lunula è pari, minore o maggiore di una semicirconferenza. Il primo
caso è quello in cui l'arco esterno è pari ad una semicirconferenza. Il caso è particolarmente
interessante ai nostri scopi poiché la dimostrazione viene svolta dichiaratamente mediante il
ricorso ad una figura (apedidou…perigrapsas, da Simplicio, ad. h. l. 60, 22 61-62), cioè
"circoscrivendo" un semicerchio intorno ad un triangolo rettangolo isoscele e costruendo sulla
base un segmento circolare simile a quelli tagliati fuori dai lati del triangolo» (ibid. 59-64). La
seguente figura, utilizzata per la dimostrazione, manca nei codici ed è stata riprodotta solo
dall'edizione Diels, apportando delle aggiunte per facilitare la comprensione30.
Al ragionamento svolto sul disegno, Eudemo premette la proposizione per cui segmenti
circolari simili stanno fra loro come i quadrati delle loro basi [A]31, provata in base
all'ulteriore principio per cui i quadrati dei diametri stanno fra loro come i loro circoli [B];
un'altra premessa è che segmenti simili comprendono anche angoli uguali, per cui deriva che
l'angolo in un semicerchio è retto.
Da qui si procede sulla figura. Dal disegno risulta chiaro che la lunula in questione (β+δ+γ)
risulta uguale al triangolo ΑΒΓ. Infatti, applicando il teorema di Pitagora esteso alle lunule
(presupponendo le proposizioni date), si ha β + γ = α . Quindi:
β + γ + δ = (β + γ ) + δ = α + δ = Α Β Γ .
Anche la dimostrazione del caso in cui la lunula ha il segmento esterno maggiore di una
semicirconferenza viene svolta mediante la costruzione di una figura (ibid. 72-98). La lunula
viene ricavata partendo da un trapezio avente tre lati uguali tra loro e la base maggiore tale
che il quadrato sia il triplo del quadrato di uno dei lati minori 32. Prima di riportare il metodo di
dimostrazione a quello del primo caso, viene puntualizzata la condizione che il trapezio sia
maggiore del semicerchio (ibid. 75 ss.). Sempre per costruzione e ricorrendo alle figure
Ippocrate continua dimostrando i casi in cui l'arco esterno della lunula sia minore di un
semicerchio, assumendo però l'ulteriore condizione che la figura che rende possibile la
dimostrazione, un trapezio, sia minore della semicirconferenza (ibid. 99-160); ultimo caso è
quello in cui sono da quadrare un cerchio e una lunula insieme (ibid. 161-206)33.
Cambiano ha messo in luce come i passaggi eseguiti da Ippocrate nelle sue dimostrazioni
siano in direzione opposta a quelli che avrebbe eseguito Euclide. Innanzitutto la proposizione
assunta a principio e ricorrente in tutte e quattro le dimostrazioni, [A], non viene assunta come
indimostrabile, bensì è una proposizione che Ippocrate dimostra mediante un'altra, [B]; ma
anche quest'ultima deve essere stata dimostrata da Ippocrate, nonostante non sappiamo in che
modo34. Per Ippocrate il principio non è necessariamente indimostrabile, ma può invece essere
una qualche proprietà dimostrata di un certo ente geometrico.
Soprattutto però il matematico procede per problemi, che prima pone e poi via via esamina e
risolve. Euclide invece avrebbe cominciato dimostrando la proposizione più elementare [B],
poi quella derivata [A], quindi avrebbe scelto come principio delle dimostrazioni seguenti [B]
e non [A], ed infine avrebbe enunciato il problema (i diversi casi di quadratura) e avviatane la
soluzione35. Le dimostrazioni del secondo e terzo caso fanno anche pensare alla questione del
διορισµϕ, di cui si attribuisce l'invenzione all'accademico Leone (6 T1 e D1, Lasserre) e
che invece qui viene messo in pratica: infatti, Ippocrate procede nelle dimostrazioni solo dopo
aver dato le condizioni affinché il problema sia risolubile.
Di volta in volta si procede a risolvere il problema valutando sul momento quale principio
usare, disegnando e cercando la soluzione nella figura stessa. La necessità logica delle
quadrature, allora, «non fa intervenire esclusivamente parole e concetti. La dimostrazione si
avvale non solamente della relazione logica tra le tappe intermedie ma anche
dell'osservazione di una figura; la necessità della conclusione segue dall'osservazione della
figura», sottolinea Netz36. In tutte e quattro le dimostrazioni riportate da Eudemo, Ippocrate
procede per costruzione basandosi su [A]. Siamo lontani dal sistema assiomatico-deduttivo
euclideo.
Questa modalità di risoluzione è detta anche dagli antichi apagoge, intendendo però ora con
questo termine l'analogo latino di reductio37: un problema complesso viene risolto riducendolo
ad un problema più semplice (Procl. Comm. a Eucl. 213,1ss: «la riduzione è un passaggio da
un problema o teorema ad un altro, per mezzo del quale, sia esso già noto o sia stato risolto,
anche quello proposto risulterà evidente).
Ippocrate spinse il suo metodo di riduzione fino a tentare di risolvere il problema della
duplicazione del cubo mediante l'inserzione fra due grandezze di due medie proporzionali in
proporzione continua a e 2a (D.-K. 42B4)38: purtroppo non disponiamo (o Ippocrate non
diede) di questa soluzione39. Fu invece Archita a percorrere la via giusta 40, nuovamente
procurando una soluzione pratica: infatti il segmento del cubo di volume pari al doppio del
cubo di partenza si trova introducendo e muovendo tre superfici (un semicilindro, un cono
retto e un toro41). Si tratta dunque di un diagramma mobile, un po' come quello che generava
la quadratrice di Ippia42, la quale appartiene ugualmente a questo genere di geometria pratica.
Proprio quel tipo di soluzioni pratiche che Platone rimprovera ai suoi allievi, come ricordato
sopra.
Non riportiamo il testo di Eutocio che descrive la dimostrazione di Archita, ma daremo in
breve la soluzione nel più rapido linguaggio della geometria analitica, restando però fedeli al
senso della dimostrazione originale43.
Siano AC = a, AB = b le lunghezze tra le quali trovare le medie. Poniamo su AC l'asse delle x;
poniamo invece l'asse delle y su una normale ad AC per A nel piano ABC; l'asse delle z sarà
invece una retta parallela a PM e passante per A. Si trova il punto P:
a2
(1) x 2 + y 2 + z 2 = 2 x 2 (cono)
b
2
2
(2) x + y = ax (cilindro)
(3) x 2 + y 2 + z 2 = a x 2 + y 2 (toro).
Da (1) e (2) troviamo
( x 2 + y 2 )2
(4) x 2 + y 2 + z 2 =
.
b2
Da (3) e (4)
(5)
a
x2 + y 2 + z 2
=
x2 + y 2 + z 2
x2 + y 2
=
x2 + y 2
.
b
Cioè
AC : AP = AP : AM = AM : AB
Da cui
AC : AB = ( AM : AB)3 . Ovvero, il cubo di lato AM sta al cubo di lato AB come AC sta ad AB.
Ponendo il caso particolare AC = 2 AB si ha AM 3 = 2 AB3 , e avremo dunque raddoppiato il
cubo44.
Analogamente doveva procedere Antifonte sofista nella sua quadratura del cerchio:
«Antifonte, descritto un cerchio, vi inscrisse uno qualsiasi dei poligoni tracciabili in esso»
(D.-K. 87B13), e da qui continua. La dimostrazione venne giudicata non geometrica, poiché
assume che «le grandezze sono divisibili all'infinito». In ogni caso, quello che ci interessa è
che abbiamo sempre una dimostrazione che prende spunto dalle figure, come anche quella di
Brisone45.
E' appropriato menzionare adesso il Menone di Platone, nel quale Socrate vuol far dimostrare
ad uno schiavo che il doppio di un quadrato si trova costruendo sulla sua diagonale un altro
quadrato (82C-84A, 84D-85A). Durante l'esperimento Socrate fa ricorso passo dopo passo a
delle figure che rendono evidenti i passaggi matematici da compiere 46. Lo schiavo è
sconcertato dal constatare che raddoppiando il lato del quadrato la superficie si quadruplica
(Men. 82B-84A). Vedendo la difficoltà nella quale sembra arenarsi, Socrate gli suggerisce:
«Se non vuoi fare i calcoli, indicaci almeno da quale [lato si origina il quadrato doppio,
N.d.a.]» (Men. 84A): gli propone cioè di aggirare l'ostacolo lavorando sulla figura, indicando
quale sia concretamente il segmento risolutivo. Ma lo schiavo risponde espressamente di non
saperlo. Così Socrate lo conduce a vedere che la soluzione sta nel costruire sulla diagonale del
quadrato un ulteriore quadrato che avrà superficie doppia (Men. 84D-85B).
Trarremo un ultimo esempio da Ippaso, pitagorico del quale le fonti ci tramandano solo vaghe
notizie sul fatto che ebbe a che fare sia con gli irrazionali sia con il dodecaedro, ossia con la
superficie poliedrica regolare formata da dodici facce pentagonali (D.-K. 18A4): Von Fritz ha
ipotizzato una reale connessione tra queste due possibili scoperte di Ippaso 47. Infatti, cercando
il rapporto tra la diagonale e il lato nel pentagono regolare, Ippaso potrebbe aver osservato
che le cinque diagonali vanno a formare un ulteriore pentagono. Provando a sottrarre
reciprocamente lato a diagonale e diagonale a lato, sarebbe stato facile giungere alla
conclusione che le due grandezze non hanno una misura comune, cioè non sono riducibili
l'una all'altra, quindi sono incommensurabili. Nella dimostrazione matematica bisogna
avvalersi del teorema per cui nel triangolo isoscele gli angoli (e i lati) alla base sono uguali
per poter applicare il metodo della sottrazione reciproca, teorema che la tradizione attribuisce
a Talete. Ma ancor prima bisogna osservare attentamente la figura: è la figura che suggerisce
che la riproduzione dei pentagoni può andare avanti all'infinito, motivo per cui Von Fritz
giudica questa dimostrazione chiaramente epagogica.
L'altra faccia della dimostrazione: rigore e astrazione
Già nel VI-V sec. dovevano circolare dimostrazioni di carattere diverso, nelle quali il ricorso
alla pratica e all'evidenza era molto più debole se non addirittura assente. In fondo anche l'uso
delle figure, abbiamo detto, significa procedere ad una prima riflessione, estrapolando
dall'oggetto immediato qualcosa che inizialmente l'oggetto non ha. La tendenza all'astratto dei
Greci ha però spinto questo fino alla smaterializzazione degli enti geometrici che diventano
dunque enti immateriali e razionali sui quali poi potrà innestarsi l'ideale della forma
dimostrativa.
In ambiente pitagorico doveva essersi prodotta una nota dimostrazione dell'irrazionalità della
2 (data da Aristotele in An. Pr. I 23 41a25 ss. e da uno scolio al libro X di Euclide 48), che,
proprio per il rigore che la connota e per l'astrattezza che la rende facilmente formalizzabile, è
giudicata apagogica da Von Fritz.
Sia dato il quadrato di lato l e diagonale d tale che, per assurdo, il rapporto d/l sia uguale a
quello m/n di due numeri interi primi tra loro.
Per il teorema di Pitagora si ha: d2 = l2 + l2, e da qui si trae che: (m/n) 2 = 2, ovvero m2 = 2n2. m
sarebbe quindi necessariamente pari, essendo il suo quadrato divisibile per due, ed n sarebbe
necessariamente dispari, essendo primo con m. Ma si potrà scrivere m = 2p, e sostituendo
nell'identità m2 = 2n2, si otterrebbe: 4p2 = 2n2, da cui n2 = 2p2, e pure n dovrebbe quindi
risultare pari. Giungiamo dunque all'assurdo che n è simultaneamente dispari e pari. Ciò
significa che non esiste un numero razionale, un rapporto di interi, capace di esprimere il
rapporto tra diagonale e lato, grandezze le quali pertanto risultano incommensurabili, ragion
per cui si desume l'irrazionalità di 2 .
Ma il matematico che più di tutti innestò la sensibilità e la possibilità per la matematica greca
di essere astratta e formalizzata è senza dubbio Eudosso di Cnido. A lui si deve la
precisazione e l'approfondimento del concetto di proporzione, concetto che in qualche modo
già doveva essere usato - pensiamo alla testimonianza di Plutarco su Talete o alla media
quadratica di Archita - ma che era usato in maniera grossolana e non cosciente. Un famoso
scolio al V libro di Euclide 49 attribuisce ad Eudosso la formulazione dei contenuti di quello
stesso libro, ovvero la teoria delle proporzioni: che tale teoria rappresentasse un salto di
qualità nella matematica del tempo, quanto a rigore e profondità, lo stesso Euclide doveva
averlo ben presente, se ritardò la sua introduzione al libro V e cercò di esporre il maggior
numero di argomenti nei primi quattro libri50.
Eudosso doveva aver raffinato il concetto di rapporto che già diffusamente si usava,
anticipando in modo approssimativo quello di proporzione: si pensi al problema dell'altezza
delle piramidi di Talete, o ai tentativi di quadratura del cerchio e di duplicazione del cubo.
Ecco dunque la definizione di proporzione data da Euclide, corrispondente a V def. 5, e che
appunto «non sembra sia opera personale di Euclide, ma viene attribuita concordemente al
grande matematico Eudosso di Cnido»51:
V def. 5: «si dice che [quattro] grandezze sono nello stesso rapporto, una prima rispetto ad una
seconda ed una terza rispetto a una quarta, quando risulti che equimultipli della prima e della terza
[presi] secondo un multiplo qualsiasi, ed equimultipli della seconda e della quarta [presi pure] secondo
un multiplo qualsiasi, sono gli uni degli altri, cioè ciascuno dei due primi del suo corrispondente fra i
secondi, o tutti e due maggiori, o tutti e due uguali, o tutti e due minori, se considerati appunto
nell'ordine rispettivo (= quando cioè presi equimultipli qualunque della prima grandezza e della terza
ed equimultipli qualunque della seconda e della quarta, secondo che il multiplo della prima sia
maggiore, uguale o minore del multiplo della seconda, l'equimultiplo della terza è
corrispondentemente maggiore, uguale o minore dell'equimultiplo della quarta»52.
È noto che tale definizione è stata contestata da Galilei a causa della sua scarsa semplicità e
che dunque non produce «nel lettore qualche concetto aggiustato alla natura di esse grandezze
proporzionali»53. Eppure proprio questa mancata semplicità probabilmente produce uno dei
primi risultati di matematica astratta. Si è detto che il rapporto tra grandezze era un'idea già
utilizzata, e troviamo quest'uso non solo nei primi matematici greci, ma addirittura potremmo
risalire indietro fino alle matematiche dei popoli mesopotamici ed egizi 54. Euclide premette
alla definizione di proposizione, allora, quella di parte, maggiore, minore, multiplo (V def. 1,
2), rapporto (V def. 3, 455). Allora si può dire finalmente dire (V def. 5) che due grandezze A e
B sono nello stesso rapporto di due grandezze C e D quando, dati due interi (positivi)
qualunque (cioè infiniti56) m e n, si ha concordanza nei segni nelle espressioni:
mA < = > nB ⇔ mC < = > nD. Basta che non si verifichi una sola concordanza di segni
(dunque per un solo valore di m ed un solo valore di n) per concludere che i rapporti non sono
uguali e dunque non sussiste proporzione.
Il segno di uguaglianza sussiste solo nel caso di grandezze commensurabili, in cui l'infinità
dei valori di m ed n è un dato sovrabbondante. Se m = 3 ed n = 2 , ad esempio, si avrebbe:
2
3 A = 2 B e 3C = 2 D , e dunque A : B = C : D = .
3
Per quelle incommensurabili bisogna procedere invece verificando infinite disuguaglianze. È
un modo geniale per aggirare un ostacolo che generava un timore enorme nella speculazione
greca: se m ed n possono assumere infiniti valori, ecco infatti che l'infinito entra in gioco. Ma
Eudosso elabora un metodo per "imbrigliarlo" 57, "circuirlo", "circoscriverne" usi ed effetti;
riesce a rendere rigoroso, astratto, formale un metodo che inevitabilmente si deve rifare
all'infinito58. È lo stesso meccanismo che gli permette di elaborare il metodo per esaustione,
che per motivi di brevità non richiamiamo, data anche la sua notorietà59.
Platone preferisce espressamente la matematica nelle sue vesti astratte. La severità del
rimprovero - già ricordato - che il filosofo rivolge a coloro che fanno geometria «in modo
ridicolo [...]» (527A-B) fa però contrasto con l'assiduo ricorso alle figure nel Menone. Inoltre
la geometria viene considerata uno strumento per ricordare ciò che già si possiede
(anamnesi60), di contro a quanto viene dichiarato nella Repubblica dove la geometria è tra le
discipline che restano come «sonnambuli nei confronti dell'essere, di modo che per esse è
impossibile vederlo così com'è» (533B-C).
Cambiano sostiene che tra le due opere rappresenta uno spartiacque la svolta assiomatica di
Eudosso e i dibattiti successivi. Platone, che poteva aver preso confidenza con il metodo di
riduzione di Ippocrate, polemizza contro la decisione di fare della matematica un sistema
formale basato su degli assiomi scelti per intuizione, propendendo per una scienza matematica
procedente per ipotesi sempre perfettibili e migliorabili61.
Hösle reputa che sia erroneo cronologicamente collocare i lavori assiomatici di Eudosso
prima della stesura della Repubblica. Piuttosto lo studioso reputa molto più probabile che
siano stati i lavori di Leodamante di Taso, allievo di Platone, a mettere in discussione il
maestro: infatti Leodamante, su invito di Platone 62, sarebbe stato spinto ad applicare il metodo
per ipotesi "fino in fondo", fino cioè agli assiomi 63. Se così fosse, sarebbero ancora più
evidenti i motivi del cambio di prospettiva di Platone: ultimando il procedimento per ipotesi e
trovando le "premesse prime" dei ragionamenti, diveniva ovvio che la geometria non poteva
mostrare l'essere nella sua pienezza ma solo indicarlo approssimativamente. La questione
allora si incentra sul senso ontologico che Platone poteva voler dare agli assiomi. Infatti per
Platone ogni tipo di dimostrazione fa uso dello stesso metodo: l'anabasis. Cambiano però le
assunzioni iniziali, cambia il punto dove fermarsi, e su ciò non avrebbe potuto non scontrarsi
con quanti in Accademia sembravano voler decidere in maniera definitiva gli assiomi della
matematica. Su questo Platone è molto duro, vedendo qui il motivo del sonnambulismo delle
discipline come la geometria, l'astronomia e la musica («finché almeno si servono di assiomi
che lasciano indimostrati solo perché non sanno darne ragione», Repubblica 533C).
Nella logica di Platone c'è dunque spazio solo per la l'anabasis, e la vera scienza è la
dialettica. Il procedimento è solo di "risalita" dalla realtà, realtà alla quale, una volta compresa
come fonte di conoscenza, non si torna (a meno che non si voglia intendere come ritorno la
successiva riflessione/contemplazione nella realtà che svela la divisione degli enti di natura "a
discesa" da quanto prima guadagnato "risalendo" la catena delle Idee). Oggetto ultimo di
intuizione sono le Idee, non certo la natura. È fortemente comprensibile, dunque, il perché nel
Filebo (55C-57A) il filosofo distingua due aritmetiche: una materiale ed una formale. La
prima, l'aritmetica «dei più», che altro non sarebbe che l'aritmetica applicata, si rivolge ai
diversi oggetti materiali da misurare/contare ed in base alla diversa natura di questi oggetti fa
uso di una diversa "unità" (ad esempio, l'unità con cui si contano due eserciti è diversa da
quella con cui si contano due buoi); l'aritmetica formale, l'aritmetica «dei filosofi», fa uso di
una sola unità.
La polemica si sarebbe allora potuta incentrare sul valore metodologico dell'intuizione: un
conto è usare l'intuizione per definire gli assiomi a cui fermarsi; altro è usarla per continuare il
processo di risalita fino alla contemplazione dell'Idea. È chiaro che si tratta di un modo
diverso di concepire la matematica, e conseguentemente anche la natura e la realtà.
Probabilmente si può considerare conclusiva la VII Lettera: il filosofo fa consistere l'oggetto
della conoscenza nel «vero essere» (342B): gli strumenti che noi adoperiamo (il nome, la
definizione costituita di nomi e verbi e l'immagine costruita con riga e compasso - 342B-C)
sono indispensabili, ma fallaci e decisamente inferiori all'intuizione intellettuale, che invece ci
fa avvicinare all'essenza di ciò che vogliamo conoscere.
Intermezzo: le influenze del primo pensiero filosofico sul primo pensiero matematico
Prima di provare a trarre qualche conclusione sulla dimostrazione pre-euclidea, ci sembra
importante fare un passo indietro e recuperare il contesto culturale nel quale operavano i primi
pensatori di VI-V sec, poiché la tendenza all'astratto deve molto al pensiero non
peculiarmente matematico. In quel tempo non si avevano una scienza matematica e una
filosofia nettamente distinte, come d'altronde non si aveva l'astronomia, non si aveva la
geografia, non si aveva la biologia. Eppure, si aveva una preziosissima abbondanza di
conoscenze, più o meno particolari, diverse, prodotte ed elaborate in commistione: è la
cosiddetta polymathia di VI-V sec.64 I primi pensatori greci manifestarono abbondantemente
la capacità di fissare, far circolare ed espandere molte conoscenze in ambiti diversi. Con
particolare riguardo alla matematica, produssero saperi disparati, variegati, con i problemi
pratici (D.-K. 11A1, 20, 21) e i teoremi (D.-K. 11A20) di Talete; con la scoperta degli
irrazionali65, l'algebra geometrica, il teorema di Pitagora66 e molto altro; ci sono poi i problemi
speciali, tra i quali abbiamo appena sfiorato quello della quadratura del cerchio, problemi che
costituirono l'arena di alterchi e confronti tra Enopide, Ippocrate, Ippia, Antifonte, Brissone,
Archita67; infine troviamo Democrito, che è noto principalmente per aver trovato il volume
della piramide e del cono68 e che scrisse molti trattati tra cui uno Sulla tangente e Sulla
costruzione prospettica dei raggi (Diog. Laert. IX 47-48). E molto ancora.
L'interesse dei Presocratici fu eterogeneo e a tutto tondo e produsse una quantità smisurata sia
di logoi che di doxai, che troppo spesso vengono dimenticati a vantaggio di sezioni scelte di
sapere. Anche in ambiti che sembrano lontani dalla scienza e che per questo potrebbero
sembrare inutili ai nostri fini, gli antichi Greci misero in luce un modo nuovo di guardare alla
realtà69.
Nonostante rimanga un sapere variegato e composito, la polymathia attesta espressamente che
c'era il desiderio di spiegare e capire la complessità della realtà, introducendo nella storia
dell'umanità un modo nuovo di guardare agli eventi naturali, che non sono più il veicolo
dell'ira degli dei bensì fenomeni da esaminare e ricondurre a cause naturali 70: si pensi alla
famosa critica di Senofane all'antropomorfismo degli dei71. All'interno di questo panorama si
pongono anche domande curiose, incalzanti, apparentemente paradossali o di risoluzione
impossibile: Talete vuole misurare l'ampiezza angolare del sole e dopo lui si inizia a cercare
l'arche, Eraclito osservando un fiume sentenzia che non vi ci si può bagnare due volte, i
Pitagorici si interrogano sull'armonia dei cieli. Il genio greco si spinge fino a domande
apparentemente inutili, che non soddisfano nell'immediato ad una qualche esigenza pratica: è
l'episteme per l'episteme.
A fianco a questo o forse in conseguenza, si cominciano a cercare teorie generali: "non voglio
sapere la causa di questo fenomeno, ma la causa di tutti i fenomeni" (la dottrina del principio);
"come respirano tutti gli animali" (Empedocle); "come costruire un calendario in cui dar
conto dei cicli solari e di quelli lunari" (la questione del "grande anno" 72). Ciò avviene ancor
più evidentemente in ambito matematico: "non mi interessa l'altezza di quella precisa
piramide: voglio poter calcolare l'altezza di tutte le piramidi" (Talete); "non mi interessa
sapere il valore approssimativo dell'area della superficie di questo cerchio: voglio sapere
come quadrare tutti i cerchi" (i problemi speciali); "non mi interessa sapere come
rappresentarmi una certa costruzione solida: voglio sapere quali sono i solidi perfetti"
(Pitagorici). Il carattere universale dei problemi posti è senza dubbio una novità nel panorama
della cultura del tempo e non credo sia avventato dire che rappresenti una "scoperta" che
qualificò il pensiero occidentale. Prendendo le mosse dall'osservazione della realtà, il genio
greco rese quella stessa realtà ancor più sorprendente, cercando di comprenderne in profondità
la struttura, senza evitare di ricorrere ad ardue astrazioni.
Nella conoscenza matematica ciò è quanto mai evidente: le prime riflessioni vertono su
problemi concreti ma subito si rivolgono a questioni dotate di una certa universalità e
apparente "inutilità". A ciò si deve aggiungere una preponderante degli inizi della matematica,
consistente nel suo legame con problemi di tipo geometrico. Questo legame potrebbe
motivarsi nel fatto che la geometria è la scienza che più nell'immediato traduce la realtà che ci
circonda: guardiamo l'orizzonte, il sole o la luna e vediamo un cerchio; tracciamo i confini di
un terreno e riproduciamo un rettangolo; costruiamo un monumento e riproduciamo un cubo;
e così via. Non sono di certo pochi gli esempi che rendono evidente l'etimologia del termine
stesso "geo-metria" e che in parte giustificano alcune riduzioni della prima matematica greca
ad agrimensura73. È cioè quanto di più naturale potesse avvenire e rimanda a tutto ciò che si è
detto sull'uso dell'intuizione e dell'evidenza nelle prime dimostrazioni.
Contrasta con questa lettura Netz che, adducendo a prova le dimostrazioni di Ippocrate e
l'aferesi, sostiene che in questo periodo la matematica non aveva ancora troppo stretto le sue
sorti con la geometria e che il nostro punto di vista è alterato da quello dei matematici del IV
secolo, che erano interessati a dimostrazioni e figure e dunque non presero in considerazione
risultati di natura aritmetica74.
Se ha senso sostenere che non si possa parlare di "matematica greca" come una disciplina
autonoma fino al IV secolo, poiché l'approccio al sapere era del tipo della polymathia,
torniamo a dire che il rischio è di identificare la matematica greca con quella specificatamente
aristotelico-euclidea, mentre invece si è visto che non era l'unica matematica, che pur fu
quella ad avere nei secoli maggior successo.
Sta di fatto che ci vuole del tempo affinché le diverse discipline si differenzino e si possa
dunque avere una "scienza matematica" tout court. Cosa ne permise l'emergere se i suoi
risultati erano accumulati (forse dispersi) nel sapere della polymathia o come riuscì la
matematica a configurarsi come disciplina autonoma, mantenendo insieme l'aspetto pratico e
quella forte tendenza all'astratto che innegabilmente la rese "greca" sono interrogativi ai quali
è importante rispondere. Per provare a comprendere meglio questa spinta al sapere "inutile ed
universale", questo innesto dell'astratto sul reale e avere luce sulle origini dell'idea di
dimostrazione deduttiva ci sembra che non si possa prescindere da Parmenide e l'Eleatismo.
La prassi è di citare tra gli Eleati solo Parmenide e Zenone nelle storie della matematica o
della logica75 per l'invenzione del principio di non contraddizione o della prova per assurdo.
Per via di quest'ultima Szabó attribuisce all'Eleatismo un posto d'onore nel processo di
costituzione sistematica della matematica, per spiegare il passaggio da una matematica di
carattere empirico - come poteva essere non solo quella orientale ma anche quella ionica - ad
una matematica astratta76. In effetti che tale dimostrazione ebbe una risonanza di non poco
conto nella storia del pensiero è confermato anche dal fatto che venne ampiamente utilizzata
negli Elementi.
La centralità che Szabó attribuisce all'Eleatismo nella nascita della matematica potrebbe far
sorgere diversi dubbi: ad esempio come mai i matematici greci non aderirono alla filosofia
eleatica77. Ci sono anche ulteriori osservazioni: primo, non tutta la matematica precedente a
Parmenide era così "materiale" come sembra passare in questa interpretazione - basta
interrogarsi sul senso delle generalizzazioni matematiche di Talete; secondo, non tutta la
matematica successiva a Parmenide sarà soltanto astratta - basti pensare al filone applicativo
che poi riemergerà con Archimede fino ad Erone.
Ciò a cui Parmenide e l'Eleatismo diedero un contributo considerevole è senz'altro la stessa
idea di "dimostrazione rigorosa": ed è proprio l'idea che tra tutte le discipline e le scienze
contraddistingue la matematica. Con l'Eleatismo il salto di qualità, rispetto alla polymathia
nella quale anche i Milesi sembravano disperdersi, è senza dubbio sorprendente.
Va notato con forza che indubbiamente Parmenide propone un nuovo modo di "dimostrare" e
propone una maniera nuova di "astrarre"78. Per quanto riguarda l'emergere del desiderio di
controllare il sapere e renderlo incontestabile, sembra infatti che l'apporto di Parmenide vada
oltre la scoperta del principio di non contraddizione. Questo principio - o meta-regola - è stato
infatti la pietra angolare sulla quale il Poema sviluppa un sistema comunicativo veramente
significante ed efficace. Con Parmenide il sapere viene esibito in forma "non contraddicibile":
il giovane filosofo ascolta la dea con attenzione, e la dea parla svelando la forza delle sue
conoscenze, indiscutibili, certe. Su cosa si basa la forza persuasiva del discorso della dea?
Non certo sulla trascendenza del sapere di cui la dea è depositaria, bensì sull'evidenza del
ragionamento: mediante un esame dettagliato del Poema e della struttura delle argomentazioni
della dea, Rossetti ha messo in evidenza che nel Poema di Parmenide:
«…la sua dea costruisce veri e propri itinerari argomentativi, sa cosa sono le premesse, le questioni
preliminari, gli stessi errori di prospettiva, si dedica a sgomberare il campo da simili intralci e sa di
farlo; la sua dea sa fornire indizi e prove, e sa svolgere corollari rendendosi conto della specificità di
queste componenti; la sua dea sa individuare il punto cruciale e il passaggio dell'argomentazione e non
manca di segnalarlo»79.
Inutile dire quanto tutto ciò sembri anticipare le regole dell'assiomatica: porre premesse,
svolgere l'argomento in demostrandum e conseguire la certezza del provato. Parmenide mira
ad esibire un ragionamento indiscutibile, incontrovertibile perché basato sugli strumenti della
ragione tanto che Rossetti ne definisce l'atteggiamento come di un antisocratico "so di
sapere"80.
Così le distanze verso un sapere ben costituito, ben fatto, giustificato nelle sue parti sembrano
raccorciarsi rapidamente. Il salto di qualità è ragguardevole: se la polymathia veicolava un
sapere molteplice, curioso e spesso geniale, ciò che in essa poteva timidamente affiorare come
un ideale da raggiungere - ovvero l'astrattezza e l'universalità di certe conoscenze, la
versatilità e l'applicabilità a molti casi di uno stesso ragionamento - con Parmenide diviene
quasi una richiesta preliminare, una regola alla quale la conoscenza deve sottostare. La forza
di un sapere va a risiedere nella capacità di dimostrarlo.
Verso dove si direziona il discorso parmenideo? Da dove trae il suo rigore e la sua forza?
Dall'essere. La strada proposta dalla dea, la strada dell'essere, è paradossalmente l'unica via
per sapere tutto «sia della verità rotonda il sapere incrollabile sia ciò che sembra agli uomini,
privo di vera certezza. Saprai tuttavia anche questo, perché le parvenze dovevano
plausibilmente stare in un tutto, pur tutte restando» (fr. 1 vv. 26-30). Nonostante già Platone
dovesse ritenere superflua la parte del Poema di Parmenide dedicata alla filosofia della natura,
e nonostante studiosi come Zeller o Gomperz vi abbiano analogamente sorvolato,
l'abbondanza dei versi ad essa dedicati ed affermazioni come quella appena riportata
dovrebbero far riflettere: segue questa direzione Cerri, che riabilita il Parmenide erede delle
dottrine ioniche come perfettamente coniugabile con il Parmenide della dea. «Il discorso
scientifico cerca di seguire la via dell'essere, elaborando i dati dell'esperienza fin dove gli è
possibile, unificando tutto l'unificabile»81.
Con Parmenide si inizia ad argomentare mostrando la ratio che accomuna tutti i fenomeni e
ne svela la verità: l'essere. Tutti i fenomeni prima di essere fenomeni semplicemente sono. La
Curd sembra spingere questo discorso al punto da affermare che «il suo [di Parmenide, n.d.a]
"è" è un "è" predicazionale di tipo particolarmente forte piuttosto che un "è" esistenziale».
Come dire: se anche Parmenide fu monista, non lo fu in senso numerico (ovvero nel senso che
"esiste una cosa sola"), piuttosto in senso predicazionale. Il monismo predicazionale è
«l'affermazione che ogni cosa esistente può essere soltanto una cosa; e deve esserlo in un
senso particolarmente forte»82.
Ma anche senza scendere nella questione se l'essere di Parmenide vada preso secondo una
valenza più epistemologica o più ontologica, va rilevato che, in ogni caso, è lo stesso
procedere argomentativo che deve rispecchiare la logica intrinseca alle cose: muovendo da
premesse, tramite passaggi logici si costruisce un'argomentazione che rispecchia la realtà
profonda delle cose e dunque è essa stessa essere. Il discorso è vero qualora riflette la verità
della realtà. Emerge la valenza fondativa del discorso scientifico: il discorso ben fatto e ben
condotto diviene veicolo della struttura profonda della realtà. Consegue che saper dimostrare
diventa essenziale per colui che pretende di sapere: paradossalmente è svolgendo la sua
capacità "dimostrativa" che Socrate conduce l'altro all'ammissione di non-sapere.
Più noti i paradossi di Zenone, con i quali si afferma sempre più l'ideale della verità
conquistato mediante la logicità del ragionamento: di fronte al paradosso la ragione si trova a
prima detta schiacciata, e solo con una argomentazione altrettanto logica si può pretendere di
affermare il contenuto opposto. Diventa, dunque, importantissimo imparare l'uso degli
strumenti logici e dialettici per argomentare bene e far vincere le proprie opinioni, anche se
indubbiamente in Zenone è del tutto assente l'idea di sistema assiomatico-deduttivo, poiché le
sue confutazioni sono rivolte ad una singola proposizione, e non certo ad un sistema di
proposizioni83. Ma se ancora in Zenone l'uso della dimostrazione non è circoscritto a una
scienza specifica ma - potremmo dire - è trasversale al sapere in generale, con Melisso questo
uso si cala in un ambito ben più specifico, tanto che sembra inventarsi una disciplina a parte
con un suo linguaggio proprio: la metafisica84.
Quest'ultimo non viene mai citato nelle storie del pensiero matematico né nei tentativi di
ricostruzione storica dell'idea di dimostrazione 85. Invece, spingendo all'estremo il pensiero di
Parmenide e sfociando in un assoluto monismo ontologico, Melisso ripropone i suoi
argomenti86 secondo un rigore che sorprende per il tempo, addirittura inventando un nuovo
linguaggio, nuovo perché scrive in prosa e scrive di ontologia. I fr. 7 e 887 sorprendentemente
sono una successioni di asserzioni condizionali con l'antecedente al congiuntivo
(controfattuali), che ipotizzano ciò che sarebbe accaduto (o non sarebbe accaduto) nel caso
del verificarsi (o non verificarsi) di determinate condizioni: se fosse soggetto… non potrebbe
essere, se fosse alterato… non sarebbe perito, e così via, via a dimostrare una per una le tesi
volute88.
Conclusioni: l'emergere della ratio mathematica e l'idea di dimostrazione
Giungiamo dunque ad un punto cruciale per il nostro discorso. La polymathia del VI-V secolo
aveva raccolto una quantità smisurata di conoscenze in tanti e diversi abiti di sapere. Per
quanto riguarda la matematica erano stati ottenuti risultati di rilievo sia nelle ricerche di
ispirazione puramente aritmetica e geometrica come anche lavorando nell'ambito
dell'astronomia e della tecnica. Si trattava di conoscenze scollegate, spesso estremamente
diverse, fortemente ancorate all'esperienza e alla visione diretta.
D'altro canto l'eleatismo aveva innestato la tendenza a strutturare le conoscenze esibendone la
ratio caratteristica e a dimostrare la capacità e la certezza del proprio ragionamento. L'idea di
dimostrazione diventa sempre più centrale nel pensiero filosofico greco. Ora, era chiaro che la
ratio individuata da Parmenide (l'essere) era troppo vasta e soprattutto non permetteva di
sistemare adeguatamente in un unico quadro organico le tante scoperte fatte.
Il materiale matematico disponibile aveva questo pregio: poteva cioè esibire in modo
abbastanza immediato una ratio particolare. I dati dell'aritmetica e soprattutto della
geometria89 presentavano una comunanza quasi naturale, una specificità che di certo li
distingueva dai risultati della medicina, della storiografia, della meteorologia. Da qui
immaginare di sistematizzarli non doveva essere troppo assurdo. È cioè realistico credere che
gli ingegni greci cominciarono a lavorare, discutere, ragionare per mettere insieme tutto ciò di
cui disponevano.
C'è di più. Questo materiale sembrava particolarmente adatto ad essere "dimostrato", ad
essere esposto o provato con dimostrazioni. La matematica era in grado di individuare una
ratio semplice, immediata. E soprattutto le dimostrazioni che "giravano intorno" alla ratio
delle cose matematiche "funzionavano": questo non poteva che suscitare fascino.
Ma dovette suscitare anche aspre polemiche. L'ideale di un sapere universale, rigoroso e
quindi astratto andava in contrasto con un modo di procedere che continuamente ricorreva alle
immagini e alle soluzioni pratiche. D'altra parte si è visto che anche nell'ambito
dell'Accademia doveva esistere un dibattito così animato sul valore e sull'organizzazione della
matematica da far pensare che già si era molto lavorato e le opinioni che si erano andate
formando tra VI e IV secolo dovevano essere già molto varie. Erano attivi nell'Accademia
Leodamante di Taso, considerato inventore del metodo per ipotesi (2 D1-2, Lasserre);
Teeteto, considerato ideatore di molti dei contenuti del libro XIII di Euclide (3 D32-41, 42f,
Lasserre), libro che procede in gran parte per problemi (prop. 12-18). Ma molti geometri
dell'Accademia dovevano andare in direzione diversa: Teudio cercava di generalizzare
proposizioni particolari, probabilmente risalenti a Ippocrate (14 F2, Lasserre); Anfinomo
cercava di distinguere i teoremi dai problemi (18 D2, Lasserre), e a loro volta i problemi in
problemi a prescrizione, problemi intermedi e problemi senza prescrizione (18 D3, Lasserre),
fino a chiedersi anche come poter invertire termini generali e particolari (18 D4, Lasserre) 90;
anche Filippo d'Oponte studia come distinguere teoremi e problemi (20 F20, Lasserre).
In certi casi la contrapposizione doveva anche essere netta: si pensi alla diversa concezione
delle proposizioni della geometria, per cui secondo Anfinomo sono teoremi e dunque vertono
su cose eterne (18 D2, Lasserre), mentre per Menecmo sono problemi e dunque sempre
rivisitabili (12 D5, Lasserre). L'attività degli Accademici doveva in ogni caso incuriosire e
stimolare, probabilmente lo stesso Aristotele, che si trovava finalmente a confrontarsi con un
concetto di scienza diverso rispetto a quella platonico91.
La dimensione empirica di un certo sapere matematico non fu abbandonata velocemente o
improvvisamente92; tutt'altro, visto il riemergere dell'interesse per le applicazioni pratiche
dimostrato, come già detto, in autori più tardi quali Archimede o Erone.
Le vesti astratte del ragionamento scientifico vengono dunque tessute lentamente e
progressivamente, sopra dimostrazioni di genere diverso nelle quali il ricorso all'evidenza
intuitiva e alle figure era decisivo. Le due radici - epagogica ed apagogica, per dirla con Von
Fritz - della dimostrazione a lungo si intrecceranno, tenendo insieme elementi deduttivi ed
elementi induttivi e ricorrendo contemporaneamente sia a passaggi astratti che a figure
appositamente costruite.
Vogliamo concludere questa tentata ricostruzione dell'idea euclidea di "dimostrazione"
tornando ad Aristotele, dal quale siamo partiti e sul quale si proverà a tracciare qualche
riflessione e fare qualche ipotesi senza alcuna pretesa di conclusività. In diverse occasioni è
stata messo in luce la stretta corrispondenza tra la struttura della scienza così come pensata e
delineata dallo Stagirita negli Analitici Secondi e gli Elementi di Euclide93. Se Aristotele
distingue definizioni, assiomi, nozioni comuni, teoremi, problemi, Euclide anche distingue
postulati, termini, nozioni comuni, dimostrazioni, problemi e così via94.
Inoltre Aristotele provvede a teorizzare ampiamente la necessità per la scienza di svolgere
deduzioni rigorose e svolgerle correttamente solo all'interno di un intero sistema di
proposizioni tra le quali alcune di esse almeno parzialmente irrevocabili. La stessa sillogistica
di Aristotele mostra la verità di questo presupposto, poiché le varie tesi del sistema danno per
validi alcuni assiomi95. Solo il riferimento ad un sistema rende possibile anche la stessa
confutazione di tesi sbagliate: se così non fosse, Zenone avrebbe avuto ragione, mentre invece
Aristotele lo critica muovendo dal suo proprio sistema96.
In secondo luogo, il metodo analitico non può procedere da solo ma ha comunque bisogno di
fermarsi ad un punto e "essere subordinato" a quello sintetico, per permettere alla conoscenza
di progredire deducendo mediante l'inventio medii97. Per questo il sistema di Aristotele
potrebbe essere definito analitico-deduttivo: diverso, dunque, dal sistema ipotetico-deduttivo
così come oggi potremmo pensarlo, poiché la ricerca degli assiomi non va indefinitamente a
ritroso ma può tornare alla realtà. Questo ideale di dialogo con la realtà costituisce il cuore
della stessa scienza. «Uno sa ciò che impara» (An. Sec. I 1 5-7): è questo il movente della sua
critica alla dottrina dell'anamnesi, la quale delega ad un misterioso passato - su cui in fin dei
conti non si ha alcun potere - la ragione del mio conoscere (cf. An. Post. I 71b5-8)98.
Affermazioni di Aristotele come: «chi è esperto in geometria non trae tuttavia alcuna
conclusione per il fatto che tale linea concreta sia la linea di cui egli ha parlato, ma si deve
piuttosto dire che le sue conclusioni sono chiarite da questi oggetti concreti» (An. Sec. 10
77a1-3) vengono illuminate da un portato teoretico di sfondo che non abbandona la
conoscenza, nata mediante l'esercizio pratico ad un ruolo non ben delineato. Il geometra non
può fare a meno di ricorrere all'astrazione (se infatti disegna una linea che deve essere lunga
un piede, non è necessario che sia lunga un piede, né che sia precisamente retta) ma al
contempo non può privarsi di rimandare al concreto (le conclusioni del suo ragionamento
devono essere poi confermate e rese chiare dalla realtà). Analogamente non si può rinunciare
alla visione concreta delle cose in geometria: «…se, infatti, fosse già tracciata la parallela ad
un lato del triangolo, alla semplice visione della figura la cosa risulterebbe immediatamente
evidente» (Metaph. Θ 9 1051a24-27). La vista può pretendere di decidere l'autenticità di una
affermazione, come risulta ancor più chiaramente in Metaph. Θ 9 1051a21-33: «anche i
teoremi di geometria si dimostrano per mezzo dell'atto, infatti si dimostrano operando delle
divisioni nelle figure (…)».
Ciò non significa che Aristotele rimandi tutto alla vista e all'evidenza nella costituzione della
sua scienza, come già emerge nella citazione appena letta. "I teoremi della geometria si
dimostrano all'atto": è mediante l'atto che viene mostrata la validità di un teorema, come
mediante l'atto si possono trovare i primi principi dai quali discende la deduzione
dimostrativa. Volendo correggere Platone, infatti, lo Stagirita intende rifiutare il regresso
all'infinito nella ricerca degli assiomi, nella consapevolezza che ad ogni modo questa ricerca è
un continuo e perfettibile viaggio, nel quale l'intuizione ha un ruolo significativo insieme al
raziocinio. È il nous che intuisce i principi della scienza e fa ciò che la ragione deduttiva non è
in grado di fare99.
Ma il nous aristotelico che viene coinvolto nella costituzione del sistema assiomatico della
scienza (discusso in particolare in An. Pr. II 23, An. Sec. I 23, II 19) non è intuizione
"psicologica", non una facoltà innata, bensì una exis, un habitus ottenuto mano a mano che
acquisisco e produco scienza100. Questo fa sì che gli axiomata aristotelici ottenuti mediante
l'intuizione non sono fondati su di un'evidenza di tipo cartesiano, come Cellucci sembra
intendere101; o per lo meno, non tutti. Se infatti possono godere di evidenza visiva certi
principi primi della geometria102, i tre principi di identità, non contraddizione e terzo escluso
godono di un altro tipo di evidenza, prodotta mentre lo stesso intelletto si pone in atto 103. I tre
principi, così, permettono la conoscenza scientifica ma anche lo stesso umano pensare; da lì
ogni scienza poi cerca i suoi propri principi, ma nella consapevolezza che ci potrebbero essere
altre possibilità104. Per dimostrare questo delicato passaggio occorrerebbe chiarire il
significato dell'induzione in Aristotele, cosa che per ragioni di spazio non è conveniente
svolgere ora105.
La complessità di questo processo di costituzione degli assiomi e del ruolo dell'evidenza che torniamo a ripetere - andrebbe ulteriormente indagato ed approfondito, ovviamente ad Euclide
non interessa. D'altronde Euclide è un matematico, e il suo compito storico è stato quello di
mettere ordine in maniera pregevole a tutte quelle conoscenze particolari che nel corso di più
di due secoli erano state accumulate.
Per secoli l'impianto euclideo resterà modello di scienza matematica deduttiva 106, e già presso
i Greci dovette certo suscitare estrema ammirazione, poiché finalmente sembrava
concretizzarsi l'ideale di un sapere apparentemente incontrovertibile.
Note
Á. Szabó, Les débuts des mathématiques grecques, Libraire Philosophique J. Vrin, Paris 1977, p. 200:
«que nous n'ayons découvert aucune trace d'une mathématique systématico-déductive dans les
civilisations préhelléniques ne saurait être dû à des lacunes dans nos connaissances».
2
3
K. Von Fritz, Le origini della scienza in Grecia, Il Mulino, Bologna 1988, p. 212.
Come si legge anche in H. G. Liddell - R. Scott, A Greek English Lexicon, Clarendon Press, Oxford
19969, p. 174 il primo significato di apagoge è proprio quello di «leading away» e «separation».
Come ultimo significato il Liddell-Scott riporta anche quello logico di «shifting of the basis of
argument» e di reductio, significato che richiameremo in seguito.
4
Cf. C. Cellucci, Filosofia e matematica, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 256.
5
Ibid., pp. 261-262.
6
Cf. R. Netz, The Shaping of Deduction in Greek Mathematics. A study in cognitive history,
Cambridge University Press, New York 2003, pp. 26-35.
7
Ibid., pp. 17-19.
8
Utilizzo la raccolta di F. Lasserre (edition, traduction et commentaire), De Léodamas de Thasos à
Philippe d'Oponte. Témoignages et fragments, Bibliopolis, Napoli 1987.
9
Netz è fermo nello stabilire l'origine di una "matematica greca" vera e propria addirittura in Platone e
Aristotele. R. Netz, La matematica nel V secolo in Storia della Scienza. Vol. I La scienza grecoromana, Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2001, pp. 754-763, p. 763.
10
G. R. Giardina, Erone di Alessandria. Le radici filosofico-matematiche della tecnologia applicata.
Definitiones, traduzione e commento, Symbolon - Università di Catania, Catania 2003, p. 96. La
studiosa catanese interpreta la matematica greca come luogo di compresenza tra due tradizioni: quella
pitagorico-platonica e quella aristotelica-euclidea. Entrambe le tradizioni producono "matematica",
sebbene di carattere diverso: ma non possiamo favorirne una per dimenticare l'altra, se vogliamo avere
una visione completa e rispettosa della matematica greca. Cf. ibid. pp. 96-102.
11
Nonostante il numero pitagorico abbia i caratteri dell'arche, non è detto che questo arche non abbia
radici in un forte riferimento all'orizzonte esperienziale. Ciò sarebbe in continuità con una eventuale
interpretazione dell'arche di Talete, che ho proposto in F. Marcacci, Il riduttivismo di Talete in
«Aquinas» 3 2004. Cf. P. H. Michel, De Pythagore a Euclide. Contribution a l'histoire des
mathématiques préeuclidiennes, Société d'Édition «Les Belles Lettres», Paris 1950, pp. 295-312.
12
Cat. XIV 15a29-32: «il quadrato ad esempio risulta bensì accresciuto, una volta che attorno ad esso
sia stato applicato lo gnomone, ma rispetto alla qualità non risulta per nulla modificato».
13
Elem. II def. 2: «si chiami gnomone, in ogni parallelogramma, uno qualsiasi dei parallelogrammi
posti intorno ad una sua diagonale insieme coi due complementi (= la somma di uno qualsiasi dei
parallelogrammi posti intorno ad una sua diagonale e dei due complementi).
14
Cf. T. L. Heath, A history of Greek Mathematics. Vol. I. From Thales to Euclid, Dover Publications,
New York 1981 (rist. anast. dell'ed. Clarendon Press, Oxford 1921), pp. 78-79.
15
Per i frammenti e le testimonianze sui Presocratici si fa riferimento alla raccolta I Presocratici.
testimonianze e frammenti. Vol. I e II, a c. di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 2002 (tr. it. di
A.A.V.V. di H. Diels - W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker. Griechischen und Deutsch,
Berlin 196612; sigla D.-K.).
16
Cf. H. Hankel, Zur Geschichte der Mathematik in Alterthum und Mittelalter, 1874 cit. in G. Loria,
Le scienze esatte nell'antica Grecia, Cisalpino-Goliardica, Milano 1987 (rist. anast. dell'ed. Hoepli,
Milano 1914), p. 17.
17
Heath, Gr. Math., p. 131.
18
A. Frajese, Talete di Mileto e le origini della geometria greca, BUMI 1941, pp. 7-8.
19
P. Tannery, La géometrie grecque, comment son histoire nous est parvenue et ce que nous en
savons. Essai critique. Histoire générale de la géométrie élémentaire, Olms, Hildesheim 1988 (rist.
anast. dell'ed. Gauthier-Villars, Paris 1887), p. 90.
20
Cit. in Loria, Le scienze esatte..., p. 17.
21
Heath, Gr. Math., p. 131.
22
Russo semplicemente ammette questo primo senso del termine apodeiknumi come "mostrare",
"esporre". L. Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna,
Feltrinelli, Milano 20012.
23
Moritz Cantor, Geschichte der Mathemathik, cit. in Heath, Gr. Mat., p. 131.
24
Se ne parlerà più avanti a proposito di Eudosso, § L'altra faccia della dimostrazione... .
25
Conoscenza di certo posseduta già dagli Egiziani in quanto necessaria per la progettazione delle
piramidi. Addirittura essi erano in grado di calcolare il volume di un tronco di piramide. Cf. C. B.
Boyer, Storia della matematica, ISEDI, Milano 1976, pp. 23-24.
26
L'ipotesi dell'impiego di strumenti da parte di Talete è esplicitamente formulata e adottata da
Bretschneider per risolvere la questione del calcolo della distanza delle navi dalla riva. Cf. C. A.
Bretschneider, Die Geometrie und die geometer vor Euclides. Ein historisches versuch, Sändig
Reprint, Vaduz 1988 (Ripr. facs. dell'ed. Leipzig, Teubner 1870). Il tipo di strumento descritto da
Bretschneider, cioè un cilindro cavo con un filo a piombo, è in realtà identico ad uno strumento
utilizzato dagli egiziani per le misurazioni di estensioni lineari. Non sappiamo se lo studioso tedesco
ne fosse a conoscenza, ma la coincidenza del dato conferma la fattibilità dell'impiego di strumenti. Cf.
O. A. W. Dilke, Mathematics and Measurement, British Museum Publications Ltd, London 1987, pp.
7-8.
27
È discusso se Ippocrate avesse avuto maestri pitagorici o se invece fosse stato contaminato dalle
dottrine pitagoriche nel corso del suo lungo soggiorno ad Atene; in ogni caso è sicuro che ebbe stretti
contatti con la Scuola; cf. M. Timpanaro Cardini (a c. di), Pitagorici. Testimonianze e frammenti fasc.
II, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1962, pp. 28-31. Sul pitagorismo di Ippocrate cf. in particolare
D.-K. 42A2, 5.
28
La lunula (= menisco o anche segmento di cerchio) è quella parte di piano racchiusa tra due archi di
cerchio, di raggio diverso ma con i medesimi estremi. Questa figura sembra essere un'invenzione di
Ippocrate, escogitata proprio per il problema della quadratura. Euclide infatti riporta la definizione di
lunula come segmento di cerchio, cioè quella figura compresa tra un arco di cerchio e la corda sottesa
(III def. 6). Solo nel 1903 si è pervenuti al calcolo del numero (finito) delle lunule quadrabili (cf. A.
Piccato, Dizionario dei termini matematici, Rizzoli, Milano 1987, p. 264).
29
Metone e Pistetero ne Gli uccelli (nell'edizione di Aristofane, Tutte le commedie, a c. di G. Padano ed. integrali, Newton, Roma 1991, p. 244).
30
Cf. Timpanaro Cardini, Pitagorici, pp. 46-47.
31
Euclide non conserva nei suoi Elementi questa proposizione, che probabilmente era contenuta negli
Elementi di Ippocrate, mentre invece mantiene quella sul rapporto tra i cerchi e i quadrati dei diametri
(XII.2).
32
33
Simplicio fornisce una dimostrazione erronea per la costruzione di un trapezio siffatto.
Alessandro di Afrodisia ci riporta anche altre due dimostrazioni che giudica ippocratee. Ma queste
contengono delle contraddizioni così evidenti che sembra difficili sia veramente del geometra di Chio;
piuttosto, si può pensare che Aristotele si riferisse a questi errori quando giudicasse erronee le
dimostrazioni di Ippocrate (D.-K. 42A3), pur giudicandolo altrove valente geometra (D.-K. 42A2). Cf.
Heath, Gr. Mat., pp. 184-185.
34
Heath presuppone che in qualche modo Ippocrate anticipò il metodo di esaustione, poiché anche
Euclide dimostra questa proposizione mediante esaustione, appoggiando al principio di Archimede
(XII 2). Cf. Heath, Gr. Math., p. 202.
35
G. Cambiano, Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, Rivista di
Filosofia, 1967, pp. 129-130.
36
Netz, La mat. nel V sec., p.760.
37
Non quindi apagoge nel senso iniziale dato da Von Fritz, che si richiama all'etimologia del termine.
38
Cf. Timpanaro Cardini, Pitagorici, pp. 60-63.
39
Sia a lo spigolo del cubo. Si tratta di trovare due segmenti x e t tali che a : x = x : y = y : 2a.
40
Cf. Timpanaro Cardini, Pitagorici, pp. 296-307.
41
Di diametro interno pari a zero, cioè tale che il suo asse di rotazione sia tangente al cerchio. Cf. P.
A. Giustini, Da Euclide ad Hilbert. Dal miracolo greco alle geometrie non euclidee, Bulzoni Editore,
Roma 1974, p. 50.
42
Si tratta di una curva che si origina mediante la combinazione di un moto circolare e un moto
curvilineo. La curva può essere utilizzata sia per quadrare il cerchio sia per risolvere l'altro "problema
speciale" della trisezione dell'angolo. Cf. Heath, Gr. Math., pp. 226-230.
43
La dimostrazione analitica è trascritta da Giustini, Da Euc. ad Hilb., pp. 51-52.
44
Un'altra soluzione fu data da Menecmo mediante le sezioni coniche. Cf. Loria, Le scienze esatte...,
pp.150-153.
45
Cf. Loria, Le scienze esatte..., pp. 94-98.
46
I vari passaggi mediante figure sono resi in modo molto chiaro nell'edizione del Menone tradotto e
commentato da G. Reale in Platone. Tutti gli scritti, a c. di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, pp. 968969. Inoltre cf. C. Cellucci, Le ragioni della logica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 279-283.
47
K. Von Fritz, Grundprobleme der Geschichte der antiken Wissenschaft, W. de Gruyter, Berlin-New
York, 1971, pp. 564-567.
48
Cf. Timpanaro Cardini, Pitagorici. Fasc. II, pp. 383-387.
49
Euclid, The Thirteen Books of the Elements. Vol. II, Books III-IX, translated with introduction and
commentary by T. L. Heath (1908), Dover Publications, New York, 1956 (rist. anast. della II ed.
Oxford University Press 1925), p. 112.
50
Cf. Euclide, Elementi, a c. di A. Frajese e L. Maccioni, UTET, Torino, 1970, pp. 291-292.
51
Ibid., p. 300.
52
Trascrivo la traduzione di Frajese-Maccioni in Euclide, Elementi, p. 299.
53
Riporto la citazione di Galilei adoperata da E. Giusti, Euclides reformatus. La teoria delle
proporzioni nella scuola galileiana, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 65. Sulla critica di Galileo
alla definizione eudossiana-euclidea cf. in particolare Ibidem, pp. 65-68 e A. Frajese, Galileo
matematico, Studium, Roma 1964, pp. 38-52.
54
Oltre all'uso di frazioni numeriche (quindi rapporti tra numeri), sappiamo che furono fatti tentativi
per la misura indiretta di grandezze, esprimendo poi il valore cercato in un rapporto numerico. Cf. A.
Mieli, La scienza greca. I Prearistotelici, Libreria della Voce, Firenze 1916, 12-14. Cf. anche F.
Hultsch cit. in Heath, Greek Math., p. 22.
55
La def. 4 è il cosiddetto "postulato di Archimede".
56
Entra in gioco l'infinito: questo è inevitabile nel caso di grandezze incommensurabili. Ricordiamo
che il libro V si propone di unificare la teoria delle proporzioni per grandezze commensurabili e non.
Non serve forse ricordare i problemi connessi all'infinito per la matematica greca.
57
Frajese definisce Eudosso l'«imbrigliatore dell'infinito», Euclide, Elementi, p. 931.
58
Per una breve e chiara esposizione del metodo di esaustione cf. G. Basti, Filosofia della natura e
della scienza. Vol. I, Lateran University Press, Roma 2002, p. 57 ss..
59
Cf. anche Euclide, Elementi, pp. 931-936 n. 2. Vogliamo aggiungere che sembra che già Democrito
avesse anticipato l'esaustione, nel procedimento che lo portò al calcolo del volume del cono. Cf.
Giustini, Da Euc. ad Hilb., pp. 59-64.
60
L'esperimento geometrico sullo schiavo serve infatti per dimostrare la dottrina dell'anamnesi (Men.
81 e ss.).
61
Cf. Cambiano, Il metodo..., p. 143.
62
È Proclo ad informarci, infatti, che il metodo per analisi sarebbe stato insegnato a Leodamante da
Platone, come si dirà più avanti.
63
Cf. V. Hösle, I fondamenti dell'aritmetica e della geometria in Platone, Vita e Pensiero, Milano
1994, pp. 131 ss.. La Repubblica risale infatti al 374 a.C circa; in quel tempo Eudosso aveva intorno ai
26 anni, mentre i suoi lavori di assiomatizzazione (della teoria delle proporzioni) si fanno risalire alla
sua maturità, durante il secondo soggiorno ad Atene (368 a.C). Non dovrebbe servire ricordare che
Platone usa il metodo per ipotesi, che è una forma del metodo analitico (cf. Cellucci, Le ragioni..., pp.
272-279).
64
Il termine polymathia compare la prima volta in Eraclito, che ne parla con tono disprezzante:
«sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza» (fr. 40), motivo per cui scredita intellettuali del
peso di Omero (fr. 56), Pitagora (fr. 81), Esiodo (fr. 57, 106).
65
Giamblico, che ci informa su questa notizia, è decisamente contraddittorio, qualora dice che Ippaso
fu cacciato dalla comunità o messo a morte dagli dei per aver scoperto l'incommensurabilità, oppure
per aver inscritto il dodecaedro in una sfera o semplicemente perché fu il primo a essere conosciuto
per certe scoperte quando fino ad allora venivano tutte attribuite a Pitagora (D.-K. 18 A 4).
66
Cf. Heath, Gr. Math., pp. 144-149.
67
Per un'esposizione esaustiva dei metodi di questi pensatori cf. Loria, Le scienze esatte..., pp. 80-105.
68
Sul metodo che Democrito avrebbe seguito i pareri degli studiosi sono discordi. Cf. Giustini, Da
Euc. ad Hilb., pp. 61 ss..
69
Prendiamo ad esempio la biologia. Di fronte ai fenomeni biologici gli antichi cominciarono a
chiedersene le cause e le dinamiche. È risaputo che Anassimandro formulò una sorta di teoria
evolutiva secondo la quale gli esseri umani «nacquero dai pesci e furono nutriti come gli squali» (D.K. 12A30), mentre Empedocle preferisce pensare ad una genealogia in quattro fasi in cui comunque
tutti gli esseri viventi nascono dalla terra (D.-K. 31A72). Così come ci si interrogava sul fenomeno
della riproduzione: Eraclito (D.-K. 22A19), Alcmeone (D.-K. 24A15), Parmenide (D.-K. 28B18). Ma
potremmo parlare di meteorologia e redazioni di calendari, con Talete (D.-K. 11A19), Anassimandro
(D.-K. 12A23), Empedocle (D.-K. 31A63); di storiografia con Ecateo di Mileto; di astronomia, con i
modelli elaborati nella cosiddetta Scuola di Mileto (D.-K. 11A12-15; 12A11; 13A20), con i Pitagorici,
con Anassagora (D.-K. 59A5).
70
È questa la tesi ampiamente sviluppata da G. E. R. Lloyd, La scienza dei Greci, tr. it. di A. Salvatori,
Laterza, Roma-Bari 1978. Lloyd sottolinea l'uso critico della ragione dei primi pensatori greci in
contrapposizione al pensiero mitico. A questo proposito cf. anche L. Rossetti, Se sia lecito incolpare
gli Dei (da Omero ad Aristotele) in Studi di Filologia classica in onore di Giusto Monaco, Università
di Palermo, Palermo 1991.
71
D.-K. 21 B 15. Senofane credeva anche nella progressività del sapere (D.-K. 21 B 19).
72
Si trattava cioè di mettere insieme il calendario solare con quello lunare. Il primo nome di scienziato
che tentò l'impresa è quello di Cleostrato, che ideò l'ottaeride (ciclo ottennale costituito da cinque anni
di 12 mesi e tre anni intercalari di 13 mesi, D.-K. 6B4); visto i limiti di quest'ultimo, molti astronomi
greci elaborarono sistemi di correzione (ciclo di 59 anni di Enopide di Chio, ritoccato poi da Filolao di
Taranto; il ciclo di 82 anni solari con 102 lunazioni di Democrito di Abdera) fino a giungere al ciclo di
19 anni di Metone. Andrebbe indagata la notizia secondo cui Eraclito propose un grande anno di
10.800 anni (D.-K. 22 A 13). Cf. G. Schiaparelli, Sui Parapegmi o Calendari astro-metereologici
degli Antichi, Annuario Meteorologico Italiano 1892 in Scritti sulla storia dell'astronomia antica,
Mimesis, Bologna 1925 e E. J. Bickermann, La cronologia nel mondo antico, La Nuova Italia, Firenze
1963.
73
Cf. Tannery, La geom. gr., pp. 90 ss..
74
Netz, La mat. nel V sec., p. 763.
75
Cf. M. Kline, Storia del pensiero matematico, Einaudi, Torino 1999, Vol. I, pp. 44-47; C. B. Boyer,
Storia della matematica, ISEDI, Milano 1976, p. 88; ed altri.
76
Szabó, Les débuts..., pp. 237-238.
77
Netz, La mat. nel V sec., p. 757.
78
L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Ed. Garzanti, Milano 1970, Vol. I, p. 54:
Geymonat elogia l'Eleate per «aver posto in primo piano il problema della verità del linguaggio e del
pensiero, il problema della "via", cioè del metodo, che linguaggio e pensiero dovevano percorrere per
giungere alla realtà».
79
L. Rossetti, Parmenide e il "saper di sapere" in Discorsi per Giuseppe Martano, Napoli 2002,
p.155.
80
Ibid., p. 158.
81
Parmenide di Elea, Poema sulla natura, a c. di G. Cerri, p. 76. In particolare nell'ampia introduzione
Cerri contestualizza il Poema tra le opere contemporanee e dimostra come la parte dedicata ai risultati
della scienza non è che un resoconto da leggere alla luce di quanto detto prima, e dunque nella
consapevolezza che l'esperienza è un punto di partenza necessario ed imprescindibile.
82
Faccio riferimento alle pagine antologiche di P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism
and Later Presocratic Thought, Princeton (New Jersey) 1998, riportate e tradotte da Cerri nella sua
edizione di Parmenide, Poema sulla natura, pp. 124-126.
83
Abbondante è la letteratura che ha trattato in maniera più o meno approfondita la figura e i paradossi
di Zenone. In particolare segnaliamo però G. Colli, Zenone di Elea, Adelphi, Milano 1998.
84
Va notato che prima di Melisso non esiste un linguaggio specifico per l'ontologia e la metafisica; per
di più Melisso è il primo a scrivere in prosa.
85
O almeno per quanto mi è finora pervenuto. Al massimo viene citato di passaggio, accanto a
Parmenide e Zenone, per precisare che faceva parte della stessa corrente filosofica come in Loria, Le
scienze esatte..., p. 56.
86
Sono stati fatti vari tentativi per sistemare i frammenti di Melisso, non solo dai moderni (Covotti,
Mullach, Diels, Reale, Vitali) ma anche dagli antichi (Aristotele, Simplicio, Anonimo del de M X G, i
dossografi). L'ordine con cui leggerli non è indifferente a ciò che Melisso avrebbe voluto comunicare.
Cf. R. Vitali, Melisso di Samo. Sul mondo o sull'essere, Argalia, Urbino 1973, pp. 91-111.
87
Mi attengo alla successione e traduzione dei frammenti di Vitali, Melisso di Samo... .
88
Ho approfondito il ruolo di Melisso nell'invenzione del linguaggio della scienza, ovvero
nell'invenzione di una modalità per cercare e comunicare ciò che è certo nella comunicazione
presentata al convegno dell'I.S.H.R. tenutosi a Madrid nel luglio 2003 con una comunicazione dal
titolo "Comunicare il sapere certo: Melisso di Samo".
89
Sul rapporto tra logica e dimostrazione geometrica citiamo lo studio F. Bellissima - Paolo Pagli, La
verità trasmessa, Sansoni, Firenze 1973.
90
Quest'ultima questione avrà una certa importanza in Aristotele, quando in De interpretatione (17b16
ss.) e Topici (109a3 ss.) il filosofo formula le leggi per rapportare proposizioni particolari e universali,
ovvero il quadrato logico. Cf. I. M. Bochenski, Ancient Formal Logic, North-Holland Publishing
Company, Amsterdam 1968, pp. 27-29 e 37-38; M. Malatesta, La logica delle funzioni. Strumenti per
un'indagine transculturale. Vol I. Logica dei predicati, delle classi e delle relazioni, Millennium,
Roma 2000, pp. 15-20.
91
Sull'argomento cf. V. Sainati, La matematica della Scuola Eudossiana e le origini dell'apodittica
aristotelica in «Atti del Convegno di Storia della Logica» tenutosi a Parma 8-10 ottobre 1972, Liviana
Editrice, Padova 1974.
92
Come vuole dimostrare F. Franciosi, Sulle origini del metodo assiomatico-deduttivo nella
matematica greca in «Homonoia» 1969 pp. 37-57, p. 37: «riteniamo che [il metodo assiomaticodeduttivo] nacque in seguito a un'improvvisa svolta del pensiero antico, nessuno ci dice esplicitamente
quando e per opera di chi questa sia avvenuta».
93
Cf. Cambiano, Il metodo...; E. Berti, L'analisi geometrica della tradizione euclidea e l'analitica di
Aristotele in La scienza ellenistica. Atti delle tre giornate di studio tenutesi a Pavia dal 14 al 16 aprile
1982, a c. di G. Giannantoni e M. Vegetti, Bibliopolis, Roma 1984, pp. 93-127; Russo, La
rivoluzione..., pp. 190-195; J. J. Sanguineti, Scienza aristotelica e scienza moderna, Armando Editore,
Roma 1992; e altri.
94
Chiaramente ciò non significa che il contenuto "filosofico" sia uguale. Ad esempio Aristotele ricorre
spesso al termine "assioma" per indicare i principi comuni, mentre in Euclide tale termine non è usato.
95
Cf. J. Łukasiewicz, Aristotle's Syllogistic from the standpoint of modern Formal Logic, Oxford at
the Clarendon Press, London 1957, p. 88.
96
Cf. Phys. IV 1.
97
Cellucci, Le ragioni..., pp. 291 ss..
98
La complessità della teoria con cui Aristotele si rappresenta il rapporto tra la memoria, l'io e le
immagini prodotte è comunque un argomento ancora molto discusso. Per una introduzione al
problema si legga J. Annas, La memoria e l'io in Aristotele (1992) in Aristotele e la conoscenza, a cura
di G. Cambiano e L. Repici, LEI, Milano 1993, pp. 119-144.
99
Cf. M. Mignucci, La teoria aristotelica della scienza, Sansoni Ed., Firenze, pp. 301-315; D. W.
Hamlyn, L'epagoge aristotelica (1976) in Aristotele e la conoscenza, a cura di G. Cambiano e L.
Repici, LEI, Milano 1993, pp. 263-285.
100
Cf. Aristotele, Organon, a c. di G. Colli, Adelphi, Milano 2003, p. 905 comm. a 85a1.
101
Cellucci, Le ragioni..., pp. 122-134.
102
Basta pensare ai primi tre postulati di Euclide.
103
Sono quelli che Tommaso chiamerà principi quoad omnes (In Post. An. I v 50 [7]), dotati di una
autoevidenza resa tale dall'intelletto in atto. Tale forma di "evidenza" non visiva può in qualche modo
rimandare alla conoscenza come azione interiorizzata di Piaget, senza però sfociare nel
comportamentismo (cf. J. Piaget, L'epistemologia genetica, Laterza, Roma-Bari 1983). Questa
conoscenza non visiva sembra rievocare la centralità con cui Aristotele considera il "tatto" e la
percezione della materia sensibile nella costituzione della conoscenza; ad esempio in De an. B 12
424b10-12: «sui corpi agiscono non già la luce e il buio, né il suono e l'odore, ma gli intermediari in
cui essi si trovano». Si tratta chiaramente di un problema che andrebbe adeguatamente indagato.
104
Le "altre possibilità" sono tutte quelle tracce di geometria non-euclidea presenti nel corpus
aristotelicum e notoriamente fatte emergere da I. Toth, Das Parallelen-problem in «Corpus
Aristotelicum» in «Archive for History of Exact Sciences» 4-5 1967 ; I. Toth, Aristotele e i fondamenti
assiomatici della geometria. Prolegomeni alla comprensione dei frammenti non-euclidei nel «Corpus
Aristotelicum» nel loro contesto matematico e filosofico, a c. di G. Reale, tr. it. di E. Cattanei, Vita e
Pensiero, Milano 1997 (l'opera è stata appositamente composta per la collana Temi metafisici e
problemi del pensiero antico. Studi e testi., n. 56).
105
I risultati della mia ricerca sull'induzione aristotelica sono esposti in F. Marcacci, L'approccio
all'Assoluto e le entità matematiche in Aristotele e in Euclide. Analisi storico-genetica e confronto tra
le due assiomatiche, Theses ad Doctoratum in Philosophia, PUL, Roma 2004. Per il momento rimando
ai risultati di Basti (1997): G. Basti, L'approccio aristotelico-tomista alle aporie dell'induzione in G.
Basti - F. Barone - C. Testi (Eds.), Il fare della scienza. I fondamenti e le palafitte, Padova, 1997 pp.
41-95.
106
Non solo nella scienza, ma anche nella filosofia. Si pensi per esempio all' Ethica more geometrica
demonstrata di B. Spinoza.
----Flavia Marcacci si è laureata in Filosofia antica presso l'Università di
Perugia, integrando gli studi filosofici con dei corsi seguiti presso la Facoltà di
Scienze matematiche, fisiche e naturali. Conseguirà il Dottorato in Filosofia
della Scienza con tesi sull'assiomatica da Aristotele ad Euclide presso la
Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense di Roma nel corso
dell'ottobre 2004. Svolge inoltre attività di Tutor per il corso di Informatica e
Informatica generale presso la Facoltà di Scienze della Formazione di Perugia.
Ha pubblicato diversi articoli riguardanti la matematica e le scienze degli
antichi Greci.
[email protected]
19
20
The historical evolution of the concept
of mathematical proof
(Jarosław Mrozek)
Abstract: This paper is an attempt to review the historically existing types of demonstration of
mathematical theorems. The author shows how the notion of mathematical proof changed throughout
time from the moment when mathematicians had realized (thanks to the philosophical method) the
necessity to justify their theses until a precise notion of a proof appeared in the framework of the
formal method.
Nicolas Bourbaki1 - the author of a treatise which reviews the whole mathematics of our
century, in the second sentence of the introduction to Book I, Chapter I, of his monumental
work The Elements of Mathematics, wrote: "what was a proof for Euclid remains a proof for
us".2 Perhaps it was an expression of his belief in the unity of mathematics throughout ages,
perhaps an expression of his respect for the greatness of Euclid himself, nevertheless this
declaration taken literally is evidently untrue. Bourbaki's style of practising mathematics,
because of its absolute accuracy, exceeds the canons known and practised by Euclid. Euclid,
for instance, used some notions which he didn't define, treating them as evident; the system of
axioms of his geometry was incomplete and his proofs usually enthymematic. Although some
analogies, connected not only with the title, can be found between these works, as regards the
problem of the proof, more than an epoch separates both treatises. It is a result of a
'revolution' which follows from the formalization of mathematics.
Mathematics is commonly perceived as a 'kingdom' of precision, and mathematical theorems
as absolute truth in the sense that, once proved, they are considered true forever. It seems,
however, that such a picture is a significant simplification, it is an idealization of the
historically existing demonstration procedures. Contrary to appearances, just as in many
empirical disciplines when verifying their achievements along with the new discoveries or
methodological changes, it was also in the case of mathematics that 'good' proofs happened to
be undermined, commonly acknowledged proofs to be rejected and unquestioned proofs
sometimes disappeared together with philosophical conceptions. For example, the
Pythagoreans considered as precise only the arithmetic proofs - the arithmetic intuition was a
criterion of correctness. Soon, however, the first crisis of the foundations of mathematics - the
discovery of the irrational numbers, or to be more specific, the incommensurability of some
line segments with a given one, led to the loss of faith in the certainty of arithmetic reasoning.
The solution of this crisis is connected with the proposal made by Eudoxos. Along with his
program of geometrization of arithmetic, geometric intuition gains its significance. This trend
in the development of mathematics reached its peak already in antiquity in the Elements by
Euclid. This work was considered for ages a pattern to be followed, however, a more precise
and critical contemporary analysis has shown that it is not devoid of inaccuracies and gaps.
What was precisely proved for Euclid, wasn't precisely proved for Descartes or Leibniz. Their
proofs didn't satisfy Cauchy or Weierstrass who, in turn, didn't appear to be satisfactorily
precise for Russell and Hilbert. Thus, the history of mathematics doesn't confirm the
conviction about the existence of the timeless contents of the notion of mathematical proof.
Let's trace how it developed throughout ages.
Let's deal with the essence of mathematical demonstration first. The emergence of a proof is
closely connected with the 'birth' of the very mathematics. It can be said that mathematics
arose together with the appearance of the idea of a proof. 3 To put it shortly, this idea in turn is,
as I think, the result of the application by the ancient Greek philosophers of a discourse about
the method, which arose on the philosophical background, to the practical abilities connected
with calculating and measuring, worked out in the ancient civilizations of Sumer, Babylon
and Egypt. As a result of this process, the ancient thinkers realized that there appeared a need
to justify, not only to notice, that for instance, a diameter divides a circle into two equal parts.
It was already most probably Tales and definitely Pythagoras who realized the need to prove
the formulated theorems in such a way that an average sane mortal could accept them.4
Such reasoning, one would think unnecessary from the point of view of practical applications,
led to an emergence of a new discipline of science - mathematics. Developing first in the
framework of philosophy, mathematics soon became an independent science, possessing its
subject matter and method. We can attribute its magnificent development not only to
philosophical influences but also to inspirations of religious nature (by which I mean
Pythagorean influences) and the unique Greek invention in the social sphere i.e. the
democratic state system (enabling discussions and thus forcing the necessity to establish the
true state of the matter in order to convince the opponents). In antiquity, thanks to the focus
on the problem of demonstration procedures, mathematicians were less and less interested in
the applications. Mathematics started to develop autonomously, transforming itself into a
theoretical science dealing with ideal objects.
Until the XIX century - maintains Alfred Tarski - the notion of a proof had had mainly a
psychological character. The proof was perceived as a mental activity which was to convince
oneself or others about the truth of the considered sentence. Especially, that the considered
sentence must be accepted as true if formerly some other sentences were accepted as true. The
reasoning used in proofs was to be intuitively convincing, but besides, no restrictions were
imposed.5 Let's add to Tarski's remarks that in this period mathematicians confined
themselves to the semantic proofs i.e. proofs such that they argue about notions which are
already interpreted (in fact, they confine themselves to arithmetic and geometry). Among the
semantic proofs we can distinguish the intuitive-psychological ones, constructive ones, and
mathematical experiments.
The first kind of proof consisted in argumentation basing itself on some truths commonly
accepted as evident (up to Euclidean times, not even mentioned explicitly), and it was also
based on the assumption of the general intelligibility of the applied notions. Such were the
proofs of the well - known and famous theorems of antiquity like the theorem that: in a right
angle triangle the area of a square built on the side opposite to the right angle equals the sum
of the areas of the squares built on the sides adjacent to the right angle, which was ascribed
to Pythagoras6, or the theorem about the existence of infinitely many prime numbers,
formulated and proved by Euclid in his famous Elements.7 This type of proof is common in
mathematical practice even nowadays, wherever there is no place, time or need to present a
complete - in the light of contemporary requirements - proof of the presented thesis.
Constructive proofs, in turn, pointed to definite procedures allowing to solve a given problem,
either concerning the existence of some objects, or of some identities, congruences, etc. These
were the most frequent proofs used in ancient times, connected with the construction tasks,
allowing only to use compasses and a ruler (without a scale). Whole treatises were devoted to
such problems. For example, Apollonius from Perga (around 260 - 170) undertook a
widespread research into problems like the following one: Let be given straight lines a and b
and, on them, points A and B. Find such a straight line which would pass through a point C
and would cross the former lines at A 1 and B1 so that the proportion AA1 :BB1 would have a
required value.
On the other hand, a mathematical experiment is such a form of justifying theorems, which
cannot be reduced to logical derivations from the initial assumptions; we carry out definite
operations having the character of abstract manipulations on certain objects and then we
interpret them drawing conclusions or we generalize the result by induction. The reasoning
proposed by Cauchy to justify Euler's theorem: In every convex polyhedron the sum of the
number of the walls S and the number of the vertexes W is twice as big as the number of its
edges K, i.e. S + W - K = 2, can be an example of such a mathematical experiment. Let's
present shortly the idea of his reasoning to understand better this form of justification. Cauchy
proposes to assume that the examined convex polyhedron is extensible in such a way that
after removing one of its walls we can extend it on the plane - deforming it but without losing
its walls, edges or vertexes. Having removed one wall, our formula for this flat network can
be presented as follows: S + W - K = 1. Next Cauchy proposes to divide the deformed
network of the polyhedron into deformed triangles as well. Let's notice that every added
diagonal increases equally both the set of the edges K and the set of walls S, so that the
expression S + W - K doesn't change. When we next start removing the triangles, in each case
we either remove one edge, thus removing one wall - the expression S + W - K doesn't
change, or we remove two edges and one vertex which causes the elimination of one wall the expression S+ W- K doesn't change again. At the very end of this reasoning procedure,
which we have called a mathematical experiment, there is left one triangle, for which the
expression
S + W - K = 1 applies. Let's notice, that this reasoning can be used with any convex
polyhedron; therefore Euler's theorem can be considered as justified.8
The reasoning procedures of all the semantic proofs use intuition, appeal to imagination or
common sense. In almost all without an exception (from some point of view 9, in fact in all),
there are many hidden assumptions. Then these are enthymematic proofs where not only the
hidden assumptions are important but also the absent ones, as they could be arbitrarily
chosen.10 Such proofs use everyday language, enriched by mathematical terms, hence it
possesses all the properties of the everyday language. It is polysemous and ambiguous,
frequently appealing to unclear terms. The consequence of this state of the matter is that the
semantic proofs use both mathematical and extramathematical categories such as cut,
deformation, movement. Besides, the frequent procedure used in semantic proofs is to appeal
to extralogical factors - among others to the impression of obviousness, clearness, intuitive
understanding. Moreover, in such proofs there appear gaps in the sequences of logical
conclusions (we say then that these proofs don't constitute a logical continuum). In connection
with the above, from the point of view of the contemporary standards of justification, the
proofs of the contents type are not proofs sensu stricto.
The above characteristics of the semantic proofs is a view from the peak of the contemporary
state of the metamathematical research. However, up to XIX century, mathematics was
conceived as the domain of objective truth, and the semantic proofs as credible.
Mathematicians in majority were convinced that their proofs uncovered absolute truths and in
this sense, for them, mathematics had the features of an episteme (foundation). They thought
that the theorems of mathematics should be clear and directly accessible for intuition, because
they contact truth without any mediation, at least in theory. Despite many 'revolutions of
precision' - by Euclid, Descartes, Cauchy or Weierstrass, this state of the matter lasted until
the axiomatic theories appeared.
To tell the truth, the very belief in the absoluteness of mathematics had been undermined
earlier - the reason was the emergence of non-Euclidean geometries - however, the character
of a mathematical proof didn't change immediately. Only thanks to the axiomatization of
arithmetic by Peano and the new precise axiomatization of geometry proposed by Hilbert, and
in particular, with the axiomatization of the set theory - considered as the new foundation for
the whole mathematics, a breakthrough occurred in the demonstration process. The proof of a
theorem began to be considered as the derivation of the consequences of the formerly
accepted axioms. We can ask the question: what is crucial in posing the problem in this way
if, already a long time ago, in his work Euclid used to prove his theorems on the basis of
axioms? However, in relation to what Euclid proposed, there is a little difference, which is
extraordinarily rich in consequences for the considered issue. Euclid's proofs, although they
are based on axioms, are semantic proofs, as Euclid only catalogued the truths which were
obvious for the ancient, and he enumerated them expressis verbis as axioms and postulates.
The axioms of the contemporary mathematical theories, in turn, don't have to and most
frequently are not either obvious or intuitive or true in classical sense (i.e. referring to
"something"). Instead, they have to meet other conditions, such as: consistency, completeness
and (eventually) independence. Demonstration based on some arbitrarily chosen sentences,
the so-called semi-formal proof, is methodologically radically different from the semantic
proof. The proof ceases to be regarded as an argument which directly concerns the only and
unconditioned truth, and becomes a simple derivation procedure of the type: if we accept
some axioms, then we can derive from them such and such theorems. Semi-formal proofs are
carried on by means of explicitly enumerated axioms, but they don't possess precisely coded
rules of interference. The demonstration procedure appeals to intuition and understanding of
primitive terms, has creative character and at its basis has a set of convictions - what is and
what is not allowed while proving a theorem. This set of convictions contains, for example,
the range of the permissible means of reasoning, the choice of the objects which can be used
and the way of operating on these objects. Such kind of objects appeared first in the
construction of non-Euclidean geometries, and in the earlier versions of the set theories, for
instance in the theory of Zermelo.
Let's notice that the appearance of non-Euclidean geometries can be interpreted as the result
of the considerations of the type: what geometrical theorems will we achieve, if we introduce
in the set of axioms - instead of Euclid's V postulate - its negation? Viewing the case
historically, mathematicians wanted to eliminate the fifth postulate by deriving it from the
remaining four; when the attempts to do it directly were not successful, there were attempts to
achieve contradiction by drawing conclusions from the first four and negating the fifth
postulate. In this way a number of new theorems was achieved, which later led to a new
theory because, to the astonishment of most mathematicians, contradiction couldn't be
achieved.
On the ground of the set theory, the idea of the traditional proof was shaken by the case of
appearance and application of a controversial axiom called the axiom of choice in
demonstration procedures. It states that for an arbitrary family of pair-disjunctive, non-empty
sets, there exists a set which contains one and only one element of each set. Not everybody
accepts this axiom, but it isn't universally rejected, either, so mathematicians always make an
explicit remark whether a given theorem can be proved with or without the application of this
axiom. The consequences of using this axiom are so great that mathematicians don't want and
can't simply renounce to it; therefore they modify the hitherto existing notion of a proof as a
procedure of reaching truth, and comprehend it as a hypothetical-deductive reasoning. This
fact is a confirmation of an approach to the problem of demonstration in mathematics, rather
different from the traditional one.
The consolidation of this kind of approach to the problem of demonstration is strengthened by
the fact that Cantorian set theory is a very rich theory which introduces the notion of actual
infinity, the notion of various cardinal numbers of infinite sets, and at the same time makes an
intuitive use of the law of tertium non datur, or of the previously mentioned axiom of choice.
When considering finite sets, all this is justified by the intuitiveness of the procedure, whereas
in case of infinite sets it can lead to ineffective (non-constructive) proofs. More precisely, I
mean here that ineffective are those existential proofs having the property that some of the
postulated objects, whose existence we use in these theorems, can be neither constructed nor
indicated. In mathematics it is often so that we want to have a guarantee of the existence of a
mapping satisfying some requirements, or of the existence of a solution of some given
equation, even when we cannot or don't have to determine it precisely. Brouwer's theorem
about the existence of a fixed point is an example of an existential and non-constructive
mathematical result: If B is a closed sphere in n-dimensional space Rn , and T : Bn → Bn is a
continuous mapping, then there exists a point x0 ∈ Bn such that T(x0) = x0.
Another, more intuitive example of the same type is a particular case of a theorem concerning
a continuous function possessing Darboux's property: If a real function f is continuous in a
closed interval < x1,x2 >, and the values of the function at the end points of the interval: f(x 1),
f(x2) have different signs, i.e [f(x1)∗f(x2)] < 0, then there exists a point x0 ∈ < x1,x2 > such that
the function has zero value in it, that is f(x0) = 0.
Indirect proofs making use of the reasoning called reductio ad absurdum are a little bit
different ineffective proofs. Such a 'purely' existential proof consists in arguing the existence
of some object or property on the ground of the supposition that its non-existence would lead
to a contradiction. For example, Cantor was proving the existence of the transcendental
numbers showing that an assumption about their non-existence led to a contradiction. Without
such an assumption, the real numbers would consist of only algebraic numbers, or there
would be only a few examples of transcendental numbers (Hermite proved in 1873 that e is
indeed a transcendental number, and Lindemann proved in 1882 that the same was true for π).
It can't be so, however, because it is known that there exist countlessly many real numbers,
whereas there are only countably many algebraic numbers. In this case, the assumption of the
non-existence of transcendental numbers leads to the conclusion that, on the one hand, there is
an uncountable number of real numbers, while on the other hand, there is only a countable
number of them: thus we are led to a contradiction, so we must assume that the assumption
(about the non-existence of transcendental numbers) is false.
The situation connected with the occurrence of the existential proofs was perceived by at least
some mathematicians as unsatisfactory. If we add to that the discovery of the famous
antinomies in the set theory, and the indication, by Poincaré and Klein, that non-Euclidean
geometries, from the formal point of view, are not "worse" than Euclidean geometry, then we
will achieve the picture which led to the collapse of the faith not only in the traditional
mathematical proof, but also in the obviousness and consistency of the whole mathematics.
The way out from this hitherto existing situation, which was proposed at the end of the XIX
century, was another "revolution of precision".
Mathematics based on the intuitive clarity and self-obviousness, after these pillars were
shaken, is forced to support itself by other methods. It can, for example, impose higher
requirements as to the formal-logical side of its reasoning, in order to be more independent
from subjective factors. The rapid development of mathematical knowledge delivered the
tools for the realization of this programme. A widespread application of the results of
mathematical logic in mathematics led to the formalization of notions, axioms and rules of
demonstration, and through that, to the emergence of the formalized mathematical theories.
They appeared within the framework of the so-called Hilbert's Program, the program of
constructing an 'absolute' proof of the consistency of mathematics. Hilbert was convinced that
every mathematical theory could be presented as a system of formulas linked together by a
finite number of structural relations, whose research can show that no contradictory sentences
can be derived from the axioms of the theory. To achieve this purpose in a formal way, we
have to clearly define first of all the language of the system we are going to use, and in it the
set of sensible expressions together with the sub-set of axioms, and assume that the initial
symbols do not have semantic meaning (or that we must abstract from the primitive meaning
of given symbols). The proofs in so defined a system, called formalized proofs, should be
conducted only on the basis of precisely defined rules of transformation of expressions,
referring not to their content but to their form. In other words, they are treated simply as a
sequence of distinguishable symbols, for example signs on paper, which are subject to
specific restrictions of formation and transformation.
Characterising the formalized proof in a different way, we could say that it is a finite
succession of 'mechanical' transformations conducted on the physical elements (graphic
signs). These elements are devoid of any semantic characteristic, apart from being
combinations of symbols, distinguishable from each other. A necessary property of
formalized proofs is their finitism and a lack of reference to obviousness and intuitiveness.
Each demonstration step is an application of some explicitly mentioned interference rule, and
this is the difference with semi-formal proofs, in which the very demonstration reasoning was,
at the contrary, of "intuitive" nature. A mathematical proof in this form loses some of its
comprehensibility because it appeals neither to content nor to intuition but only to the form of
expressions. The question about the adequacy of the proof can be asked only in the
framework of some methodological conception of a theory or of a proof, by assuming a
definite logical system. On the ground of this system, what can be proved, can be proved
absolutely precisely as far as the formal aspect is concerned, where all the methodological
rules defining the rules of creating proofs are explicitly formulated.
This doesn't imply that formalized proofs can't undergo criticism. When all the requirements
regarding the demonstration procedure are fulfilled, the convictions which lie at the
foundations of the conception of formal systems and, more widely, of the whole formalization
process, can become object of criticism. Unquestionably, the formalization method translates
content mathematics to the form in which it is easier to analyse it. It seems, however, that they
are not simply the equivalents of the theory of classical mathematics, but the deformed,
'wrung out pictures' of these theories, in which, on the one hand, the given theories are
presented in a precise form but, on the other hand, they always contain 'a little bit too much'
or 'a little bit too little', thus remaining inadequate towards the prototype. Contrary to
appearances, the formalization process isn't neutral to the formalized theory, it unnoticeably
subtracts some of the properties of the objects, previously comprehended intuitively or it adds
unexpectedly new properties to the seemingly well-known objects or notions. Mathematicians
know very well what intuitions are hidden behind such notions as: continuity, continuous
function, dimension. After formalization of these notions, i.e. after defining them precisely
and presenting them symbolically, it appeared that they gained some properties, totally
extraneous to their primitive intuition. The examples of such a type of inadequacy are: a
continuous function which is nowhere differentiable (everywhere 'hispid'), surfaces which
only admit the zero field, curves of fractional dimensions or totally filling the surface of a
square, etc..
Therefore it should be checked whether the formal theorems with their formal proofs can be
good representatives of their classical contents equivalents. This problem was raised by
Tarski, who was convinced that in order to properly evaluate the notion of formal proof, we
have to explain its relation to the notion of truth. It is something like coming back to the
problem connected with the primary task which had to be fulfilled by a proof, i.e. the task of
convincing about the truth of some mathematical assertions. Tarski asks the question if the
formal proof is really an adequate method of reaching the truth. With the help of reasoning
conducted in metalanguage, patterned on the method of the proof of the famous Gödel's
theorem, Tarski shows that the set of the provable sentences of a given formalized theory is
not identical with the set of the true sentences of the theory. There exist sentences formulated
in the language of a given theory, which are true but cannot be proved, in other words, the
notion of demonstrability cannot fully substitute the notion of truth in the domain of
mathematics. In connection with that, we have to take into account the possibility that in
every, a little bit richer mathematical theory (i.e., which contains at least the formal system of
arithmetic), there exist some interesting and non-trivial theorems which we won't be able to
prove in any formal way. This is really what Gödel11 showed in his famous incompleteness
theorem. This fact can be interpreted as a process of running out the heuristic possibilities of a
deductive demonstration method in mathematics.
Even if it was so, then the existence of the limits of applicability of some research method
doesn't disqualify it automatically. Sometimes the awareness of the limitations of the applied
research tools is treated as a higher stage of methodological knowledge, positively influencing
the whole research, since we know what we can and what we can't achieve using this method.
I think that we should treat the limitations connected with the formalized proofs in this way. If
we restrict ourselves to the theorems which are deductive consequences of some number of
axioms, accepted in our mathematical theory, then in force of Gödel's theorem we have no
chance to reach epistemologically some theorems which lie outside the limits of the formal
method.
However such a conclusion in the light of new facts is not unavoidable. Here I mean the more
and more clearly emerging possibility of applying computers in order to achieve qualitatively
new mathematical results. The contemporary computer technology is so advanced that we can
hope that the presently constructed computers will satisfy the requirements of a theoretical
abstract reasoning. I leave open this problem, because the question concerning the influence
of the application of computers in mathematics exceeds the limits of the present article.
Notes
1. The common pseudonym of a big group of contemporary mathematicians, mainly French.
2. I am citing after Zeeman, E. C., Research, Ancient and Modern, in: Bulletin of the Institute of
Mathematics and Its Applications 10, 1974.
3. It is a controversial thesis as there arises the problem of the so-called Babylonian or Egyptian
mathematics. In accordance with the conception of mathematics presented in this paper, the
achievements concerning calculations or measurements of the pre-Greek cultures cannot be called
mathematics but rather the exhibition of practical mathematical skills. Under the influence of
philosophy, in this empirical mathematics there occurred an epistemological cut, whose consequence
was that mathematics became theoretically oriented.
4. See Newson, C. V., Mathematical Discourses. The Heart of Mathematical Science, Prentice - Hall,
Inc., Englewood Cliffs, N. J. 1964.
5. See Tarski, A., Truth and proof, in: Scientific American 6, 1969.
6. See Davis, P. J. & Hersh, R. The mathematical Experience, Birkhäuser Boston, 1981.
7. See Garding, L. Encounter with Mathematics, Springer - Verlag New York Inc, 1977.
8. This theorem is analysed in detail by Imre Lakatos: Proofs and Refutations. The Logic of
Mathematical Discovery, Cambridge University Press, 1976.
9. From the formalistic point of view.
10. It is the problem of general assumptions concerning the accepted logic, the rules of interference,
and so on.
11. See Nagel, K. & Newman, J. R., Gödel's Proof, New York University Press, 1959.
-----
[A presentation of the author can be found in Episteme N. 6, Part II]
Department for Logic, Methodology and Philosophy of Science
University of Gdańsk, ul. Bielańska 5 - 80-952 Gdańsk, Poland
[email protected]
21
Kurt Gödel: un relativista incompleto
(Luca Umena)
A tutti i ragionatori coerenti che non potranno
mai dimostrare di esserlo. R. Smullyan
INTRODUZIONE
"Le implicazioni della parola gioiello - piccolezza preziosa, delicatezza non soggetta alla fragilità,
[…] limpidezza che non esclude l'impenetrabile, fiore per gli anni - ne rendono legittimo l'uso in tale
contesto".
Con questa metafora Jorge Luis Borges ha scelto di definire nel suo Discusión la perpetua
corsa di Achille e della tartaruga. La sua scelta, tuttavia, sarebbe non meno indicata a
descrivere un'altra gemma del pensiero umano: mi riferisco al teorema d'incompletezza di
Gödel. Non solo per la purezza logica e la luminosa semplicità che diffonde, ma soprattutto
per l'intrinseco valore di ostacolo e di apertura all'insondabile, che nel fondarne l'essenza lo
accomuna al geniale paradosso eleatico.
Dalla sua formulazione - avvenuta nel 1931 - il tentativo di ridurre la matematica ad un puro
meccanismo deduttivo è destinato a mostrarsi illusorio. Se un sistema assiomatico risulta
coerente (ovvero privo di contraddizioni interne) ne consegue che esso è necessariamente
incompleto (vale a dire costellato da proposizioni vere che non riesce a dimostrare e da
proposizioni indecidibili di cui non può stabilire la verità o la falsità). 1 In altri termini, cioè,
esistono delle limitazioni intrinseche che impediscono alla matematica di provare tutte le
verità in essa contenute. Non ultima quella relativa alla propria coerenza.
Ciò sta a indicare che persino nel suo mondo verità e dimostrabilità rimarranno sempre due
concetti distinti, separati inevitabilmente da una distanza incolmabile.
Nel lavoro che segue cercherò di mostrare che proprio la consapevolezza di tale distanza ha
permesso a Gödel di formulare il suo celebre teorema.
E' solo ammettendo l'esistenza di uno sfondo platonico su cui proiettare verità matematiche eterne, preesistenti ad
ogni processo inferenziale, che egli è riuscito a intravedere (e poi a dimostrare) l'intrinseca incompletezza dei sistemi
formali. Incompletezza che nella sua prospettiva, non implicava affatto un'inevitabile deriva relativistica (o peggio
ancora nichilistica) bensì uno stimolo prezioso a sviluppare forme di ricerca sempre più raffinate.
Di fronte all'inesauribile complessità della matematica, Gödel vedeva l'infinita capacità della mente umana di
decifrarla.
Non è dunque in chiave relativistica che egli ha concepito e interpretato il suo teorema. Se ciò è avvenuto, è
avvenuto suo malgrado e mistificando profondamente il suo pensiero.
VERITÀ, PLATONISMO E DIMOSTRABILITÀ2
All'epoca in cui Gödel formulò il suo teorema, 3 la distinzione tra verità matematica e
dimostrabilità non era così chiara. Malgrado la teoria elaborata da Tarski, il programma
formalista continuava ad identificare i due concetti, escludendo l'esistenza di verità
inattingibili dal punto di vista formale.
Il concetto di verità oggettiva era guardato con il massimo sospetto ed era in generale rifiutato
come privo di senso.4 Al punto che perfino Gödel, che in realtà era incline a ritenerlo
oggettivamente definito, aveva scelto di eliminarlo dai suoi risultati principali.
Eppure, come osservò lui stesso molti anni dopo, era stata proprio la percezione di tale
concetto a costituire il principio euristico che gli aveva permesso di concepire i suoi teoremi.
A partire da quello meno noto di completezza.
"Il teorema di completezza - confessava ad Hao Wang in una lettera del 1967 - dal punto di vista
matematico è in realtà una conseguenza quasi banale dell'articolo di Skolem del 1922. Tuttavia resta il
fatto che allora nessuno (nemmeno Skolem stesso) trasse quella conclusione (né da quell'articolo, né,
come feci io, da considerazioni analoghe svolte autonomamente). […] Questa cecità (o pregiudizio)
dei logici è davvero sorprendente, ma io credo che non sia difficile trovare la spiegazione nella diffusa
mancanza, a quei tempi, del necessario atteggiamento epistemologico verso la metamatematica,[verso
il concetto transfinito di verità], e verso il ragionamento non finitario".5
Infatti, prosegue Gödel:
"il ragionamento non finitario in matematica era per lo più ritenuto dotato di significato solo nella
misura in cui era interpretabile o giustificabile nei termini di una matematica finitaria. […] [Questo,
ovviamente], è un punto di vista che conduce […] a escludere il ragionamento non finitario dalla
metamatematica. Esso, infatti, per essere ammissibile, richiederebbe una metamatematica finitaria, che
in realtà sembra un doppione inutile e confusionario. Per di più, ammettere elementi transfiniti privi di
significato nella metamatematica è in contraddizione con l'idea stessa che di questa scienza si aveva
prevalentemente a quel tempo. Secondo questa idea, la metamatematica è la parte della matematica
dotata di significato, per mezzo della quale i simboli matematici (in sé privi di significato)
acquisiscono un qualche surrogato di significato, cioè le regole d'uso. Naturalmente l'essenza di questo
punto di vista consiste nel rifiutare qualsiasi genere di oggetti astratti o infiniti, quali sono ad esempio i
significati immediati dei simboli matematici. In altre parole, si riconosce un significato esclusivamente
alle proposizioni che parlano di oggetti concreti e finiti, come le combinazioni dei simboli.
Ora, però, la facile inferenza che si trae dall'articolo di Skolem del 1922 citato, è senz'altro non
finitaria, come lo è qualunque altra dimostrazione di completezza per il calcolo dei predicati. Perciò
queste cose sfuggirono all'attenzione o furono trascurate". 6
Già da queste righe emerge con evidenza l'originalità della posizione di Gödel rispetto a
quella formalista, e più in generale a quelle caratterizzanti lo spirito del tempo. Ma è il
commento successivo che costituisce il punto cruciale per afferrare la differenza
epistemologica tra il suo pensiero e quello hilbertiano.
"Posso aggiungere - sottolinea - che la mia concezione oggettivistica della matematica e della
metamatematica in generale, e del ragionamento transfinito in particolare, fu fondamentale anche per
il resto del mio lavoro nel campo della logica. Come infatti si potrebbe pensare di esprimere la
metamatematica nei sistemi matematici stessi, se si ritiene che questi ultimi consistano di simboli privi
di significato che acquistano un qualche surrogato di significato solamente attraverso la
metamatematica? […] Si dovrebbe notare che il principio euristico della mia costruzione, nei sistemi
formali matematici, delle proposizioni indecidibili di teoria dei numeri è il concetto transfinito per
eccellenza di verità matematica oggettiva in opposizione a quello di dimostrabilità con cui era
generalmente confuso prima del mio lavoro e di quello di Tarski. […] Di nuovo l'uso di questo
concetto transfinito conduce in fin dei conti a risultati dimostrabili finitariamente, per esempio ai
teoremi generali sull'esistenza di proposizioni indecidibili in sistemi formali coerenti. 7"[…]
Ovviamente con ciò [non intendo dire] - continua Gödel in un'altra lettera - che il punto di vista
formalista rendeva impossibili le dimostrazioni di coerenza per mezzo di modelli transfiniti, ma che
rendeva soltanto molto più difficile scoprirle, perché esse sono in qualche modo poco congeniali a
questo orientamento di pensiero.[…] I formalisti [infatti] consideravano la dimostrabilità formale
come un'analisi del concetto di verità matematica, e quindi si trovavano chiaramente in una posizione
che non consentiva loro di distinguere i due concetti. Vorrei aggiungere che c'era un'altra ragione che
impedì ai logici di applicare alla metamatematica non solo il ragionamento transfinito, ma il
ragionamento matematico in generale [e soprattutto, impedì di esprimere la metamatematica nella
matematica stessa]. La ragione è questa: la metamatematica per lo più non era considerata una scienza
che descrive stati di fatto matematici oggettivi, ma piuttosto una teoria relativa all'attività umana che si
occupa di maneggiare dei simboli". 8
Tale capoverso chiarisce definitivamente le ragioni per le quali Gödel credeva di essere
riuscito dove gli altri avevano fallito.
Una spiegazione più diretta, tuttavia, è contenuta in una lettera che egli aveva scritto in
risposta ad una missiva inviatagli da uno sconosciuto studente di dottorato. Nella minuta ( per
la verità mai spedita e sbarrata con un segno di cancellatura) Gödel chiariva perché il
formalismo non fosse pervenuto all'idea che alcuni enunciati matematici risultassero
indecidibili. Era sua ferma convinzione che ciò fosse avvenuto:
"a motivo dei pregiudizi filosofici dell'epoca. [E in particolare perché] 1) nessuno cercava una
dimostrazione di coerenza relativa, dal momento che era considerato assiomatico che una prova di
coerenza dovesse essere finitaria per avere senso; 2) [perché] il concetto di verità matematica
oggettiva in contrapposizione a quello di dimostrabilità era guardato con il massimo sospetto e dai più
rifiutato come privo di senso".9
A differenza dei formalisti, insomma, Gödel credeva che la verità matematica fosse una verità
oggettiva e non una mera costruzione della mente umana. Una concezione di tipo platonico
animava la sua ricerca, e proprio tale concezione gli aveva fatto raggiungere i suoi celebri
risultati. Il realismo platonico, tuttavia, era una filosofia della matematica fortemente
ostacolata dallo spirito del tempo, così egli non ne fece alcun cenno nella presentazione dei
suoi teoremi, ed arrivò addirittura (come abbiamo già visto) a cancellarne ogni riferimento,
seppur marginale, che ne potesse suggerire l'esistenza. Solo anni dopo, quando ormai la sua
grandezza di scienziato non era più in discussione, trovò il coraggio di dichiarare
pubblicamente il proprio platonismo, e lo fece con la consueta profondità in alcune pagine del
saggio filosofico La logica matematica di Russell. Tale lavoro era stato concepito per la
pubblicazione di un volume dedicato al pensiero del filosofo inglese ed era stato sollecitato da
Russell stesso, che considerava Gödel come l'allievo più dotato nel campo della logica. In
realtà nel suo saggio Gödel, pur elogiando la qualità del lavoro di Russell, ne attaccava
duramente il principio del circolo vizioso e il progressivo passaggio da una concezione
realistico-platonica ad una, più sfumata, in cui:
"le classi o i concetti non esistono come oggetti reali e gli enunciati che contengono questi termini
hanno senso solo se possono essere interpretati come una façon de parler, come un modo di parlare di
altre cose".10
In realtà osservava Gödel:
"Classi e concetti, si possono anche concepire come oggetti reali, e precisamente le classi come
pluralità di cose o come strutture che consistono di una pluralità di cose, e i concetti come le proprietà
e le relazioni fra le cose, che esistono indipendentemente dalle nostre definizioni e costruzioni.Sembra
a me - proseguiva Gödel nel suo saggio - che l'assunzione di tali oggetti sia altrettanto legittima dei
corpi fisici e che ci sia altrettanta ragione di credere nella loro esistenza. Essi sono necessari per
ottenere un soddisfacente sistema di matematica nello stesso senso che i corpi fisici lo sono per una
teoria soddisfacente delle nostre percezioni sensoriali e in entrambi i casi è impossibile interpretare le
proposizioni che si vogliono asserire su queste entità come proposizioni sui dati, cioè nel secondo caso
sulle effettive percezioni sensoriali".11
Dopo questa prima esplicita dichiarazione di platonismo, Gödel ne rilasciò un'altra tre anni
dopo (1947), ancor più dettagliata, in cui sosteneva che:
"[...] Gli oggetti della teoria degli insiemi transfiniti chiaramente non appartengono al mondo fisico, e
anche la loro connessione indiretta con l'esperienza fisica è molto debole (soprattutto per il fatto che i
concetti insiemistici giocano solo un ruolo trascurabile nelle teorie fisiche contemporanee).Ma,
nonostante abbiano un carattere remoto dall'esperienza sensibile, noi abbiamo una specie di percezione
anche degli oggetti della teoria degli insiemi, come si vede dal fatto che i loro assiomi s'impongono a
noi come veri. Non vedo perché dovremo riporre meno fiducia in questa specie di percezione, cioè
nell'intuizione matematica, di quella che riponiamo nella percezione sensibile, la quale ci induce a
costruire su di essa le nostre teorie fisiche e ad aspettarci che le future percezioni sensoriali concordino
con esse, e, di più, a credere che questioni oggi non decidibili abbiano nondimeno un senso e possano
essere decise in futuro".[…] "Si noti [inoltre] che l'intuizione matematica non deve essere concepita
come una facoltà che ci dà una conoscenza immediata degli oggetti interessati. Al contrario, sembra
che, come nel caso della fisica, noi ci formiamo le nostre idee di quegli oggetti anche sulla base di
qualcos'altro, che è dato direttamente. Solo che questo qualcos'altro non è, o non precipuamente,
rappresentato dalle sensazioni. Che qualcos'altro oltre alle sensazioni sia dato immediatamente segue
(senza alcun riferimento alla matematica) dal fatto che persino le nostre idee relative agli oggetti fisici
contengono costituenti che sono qualitativamente differenti dalle sensazioni o da mere combinazioni
di sensazioni, ad esempio l'idea stessa di oggetto, mentre, d'altra parte, nel nostro pensiero noi non
possiamo creare nessun elemento qualitativamente nuovo, ma solo riprodurre e combinare quelli che
sono dati. E' evidente che il dato che soggiace alla matematica è strettamente collegato agli elementi
astratti che sono contenuti nelle idee empiriche. Non ne segue assolutamente, tuttavia, che i dati di
questo secondo tipo, siccome non possono essere associati ad alcuna azione di certe cose sui nostri
organi di senso, siano qualcosa di puramente soggettivo, come asseriva Kant. Al contrario, anch'essi
possono rappresentare un aspetto della realtà oggettiva, se non che, a differenza delle sensazioni, la
loro presenza in noi può essere dovuta ad una altro genere di relazione tra noi e la realtà.[…] Peraltro
la questione dell'esistenza oggettiva degli oggetti dell'intuizione matematica (che sia detto per inciso, è
un'esatta replica della questione dell'esistenza oggettiva del mondo esterno) non è decisiva per il
problema in discussione. Il mero fatto psicologico dell'esistenza di un'intuizione che è
sufficientemente chiara da produrre gli assiomi della teoria degli insiemi ed una serie aperta di loro
estensioni è sufficiente a dare significato alla questione della verità o della falsità di proposizioni come
l'ipotesi del continuo di Cantor. 12 […] poiché secondo il punto di vista qui adottato […] i concetti e i
teoremi della teoria degli insiemi descrivono una realtà ben determinata in cui la congettura di Cantor
deve essere vera o falsa. Perciò la sua indecidibilità rispetto agli assiomi attualmente adoperati può
significare soltanto che tali assiomi non contengono una descrizione completa di quella realtà. Questa
opinione non è affatto una chimera poiché si possono dare dei metodi per decidere questioni
indecidibili rispetto agli assiomi usuali". In particolare "il concetto di insieme […] suggerisce la
possibilità di estenderli con nuovi assiomi che asseriscono l'esistenza di ulteriori ripetizioni
dell'operazione "insieme di". Tali assiomi possono essere anche formulati come proposizioni che
assicurano l'esistenza di numeri cardinali molto grandi". 13
DAL PLATONISMO ALLA FENOMENOLOGIA
Assumendo tale prospettiva epistemologica, tuttavia, viene a delinearsi un nuovo problema
teorico di difficile soluzione. Ovvero, come si riescono ad individuare i corretti assiomi
aggiuntivi attraverso cui estendere proficuamente il sistema?
Nel saggio precedente Gödel indica una possibile soluzione sostenendo che un modo corretto
per effettuare tale estensione è quello di studiarne la fecondità teorica, vale a dire la fecondità
di conseguenze dimostrabili che l'uso dei nuovi assiomi permette di scoprire. Tuttavia la
possibilità a cui Gödel guarderà sempre con maggior favore è quella di scoprire assiomi "che
una più approfondita comprensione dei concetti base della logica e della matematica potrebbe
consentirci di riconoscere come impliciti in tali concetti".14
Su questo punto è molto più esplicito in uno scritto del 1961 dal titolo "The modern
development of Mathematics in the light of Philosophy, in cui sostiene che "siamo agli inizi di
una scienza che aspira a possedere un metodo sistematico per una […] chiarificazione del
significato e questo [metodo] è la fenomenologia di Husserl".15
In realtà nel saggio Gödel trattava questo tema solo nella parte finale. Inizialmente, infatti, si
era proposto di:
"descrivere […] lo sviluppo della ricerca sui fondamenti della matematica a partire dalla svolta del
secolo, [per] inquadrarla [poi] in uno schema generale di possibili concezioni del mondo,[…]
classificate in base al grado […] della loro affinità o divergenza con la metafisica" .16
Nel suo schema Gödel aveva posto lo scetticismo, il materialismo e il positivismo a sinistra,
mentre lo spiritualismo, l'idealismo e la teologia li aveva collocati a destra, dichiarando che
era un fatto noto che "a partire dal Rinascimento lo sviluppo della filosofia era andato
progressivamente da destra verso sinistra".
Aveva osservato, poi, che "la matematica, per la sua natura di scienza a priori" aveva resistito
a lungo a questa tendenza a spostarsi a sinistra, ma al volgere del secolo aveva parzialmente
abbandonato la sua resistenza per lo stato di crisi in cui era finita a causa delle antinomie della
teoria degli insiemi, la cui importanza era stata amplificata dagli "scettici e dagli empiristi"
allo scopo di favorire questa tendenza. In effetti, notava Gödel, le antinomie:
"non compaiono all'interno della matematica, ma in prossimità della sua frontiera più esterna, […] e
precisamente nella direzione della filosofia", senza contare poi che ormai "sono state risolte in un
modo del tutto soddisfacente e quasi ovvio per chiunque comprenda la teoria degli insiemi". Tuttavia,
proseguiva Gödel, questo non è servito a nulla "contro lo spirito del tempo, e perciò il risultato è che
molti o la maggior parte dei matematici negano che la matematica, quale si era sviluppata
precedentemente, sia un sistema di verità; essi invece riconoscono ciò solo per una parte della
matematica" e intendono "la parte rimanente in un senso ipotetico, cioè nel senso che la teoria
asserisce propriamente soltanto che da certe assunzioni( da non giustificare) si possono derivare
giustificabilmente certe conclusioni". Ma così "la matematica diventa una scienza empirica, perché se
in qualche modo dimostro, a partire da assiomi postulati arbitrariamente, che ogni numero naturale è la
somma di quattro quadrati, non ne segue affatto con certezza che non troverò mai un controesempio di
questo teorema perché i miei assiomi potrebbero in realtà essere incoerenti, e posso dire tutt'al più che
ciò segue con una certa probabilità, perché nonostante molte deduzioni finora non è stata scoperta
alcuna contraddizione. Inoltre, con questa concezione ipotetica della matematica, molte questioni
perdono la forma: la proposizione A vale o non vale? Infatti, in senso assoluto, da assunzioni arbitrarie
non posso certo aspettarmi che esse abbiano la strana proprietà di implicare esattamente A oppure
∼A".17
Tuttavia, benché queste conseguenze nichilistiche si accordino molto bene con lo spirito del
tempo, contro di esse è parzialmente insorto l'istinto matematico. Così Hilbert ha concepito il
suo programma non solo cercando di rendere giustizia allo spirito del tempo, ma anche alla
natura della matematica, realizzando quello "strano ermafrodito matematico" che è noto a tutti
con il nome di formalismo. In esso, infatti, da un lato "in conformità con le idee prevalenti
nella filosofia attuale, si ammette che la verità degli assiomi da cui parte la matematica non
può essere giustificata o riconosciuta in alcun modo, e perciò che trarre conseguenze da essi
ha significato solo in un senso ipotetico, per cui questo stesso trarre conseguenze (per
soddisfare ancora di più lo spirito del tempo) è costruito come mero gioco di simboli secondo
certe regole, anch'esse non sostenute dall'intuizione. Dall'altro lato si tende a conservare,
allontanandosi dallo spirito del tempo, una credenza corrispondente all'istinto del matematico
che una dimostrazione della correttezza di una proposizione come la rappresentabilità di ogni
numero come somma di quattro quadrati debba fornire un sicuro fondamento per tale
proposizione; ed inoltre, anche che ogni questione sì-o-no precisamente formulata nella
matematica debba avere una risposta chiara".18
Alla luce dei teoremi di incompletezza, tuttavia, "la combinazione hilbertiana di
materialismo e di aspetti della matematica classica si dimostra impossibile". E ciò
sembrerebbe implicare un'inevitabile deriva nichilistica. Gödel, tuttavia, rifiutando lo
spirito del tempo, non vuole rassegnarsi a tale esito e cerca di scongiurarlo
affidandosi, come abbiamo anticipato, alla teoria fenomenologica di Husserl.
Secondo tale prospettiva:
"la certezza della matematica non deve essere assicurata, come voleva Hilbert, dimostrando
certe proprietà mediante una proiezione su sistemi materiali, cioè con la manipolazione di
simboli fisici, ma piuttosto coltivando (approfondendo) la conoscenza dei concetti astratti
stessi che portano alla formulazione di tali sistemi meccanici" e inoltre " cercando di ottenere,
mediante le stesse procedure, intuizioni sulla solubilità e sugli effettivi metodi di soluzione di
tutte le proposizioni matematiche senza significato". Per " estendere la nostra conoscenza di
questi concetti astratti, cioè per rendere precisi tali concetti e per raggiungere un'intuizione
esauriente e sicura delle relazioni fondamentali che sussistono tra essi, cioè degli assiomi
che valgono per essi" non è sufficiente cercare di "dare definizioni esplicite dei concetti e
dimostrazione degli assiomi. Per questo, infatti, ovviamente occorrono altri concetti astratti
indefinibili e assiomi che valgono per essi. Altrimenti non avremmo nulla a partire da cui
definire o dimostrare. La procedura deve consistere invece, almeno in larga misura, in una
chiarificazione del significato, che non consiste nel definire".19
E per effettuare tale chiarificazione la scelta più indicata consiste nel far riferimento
alla fenomenologia di Husserl. "In essa la chiarificazione del significato consiste
nell'appuntare più acutamente lo sguardo sui concetti interessati, dirigendo la nostra
attenzione in un certo modo, cioè sui nostri atti nell'uso di questi concetti, sulla nostra
capacità di compiere quegli atti, ecc. [Certo la fenomenologia] […] non è una scienza
nello stesso senso delle altre scienze. E' piuttosto (o comunque dovrebbe essere)
una procedura o una tecnica che deve produrre in noi un nuovo stato di coscienza in
cui descriviamo dettagliatamente i concetti basilari che usiamo nel nostro pensiero, o
afferriamo altri concetti basilari finora a noi sconosciuti. [Tuttavia] […]non vi è alcuna
ragione per respingere dall'inizio come vana tale procedura, [anche perché] […]
nell'estensione sistematica degli assiomi della matematica diventano evidenti [in virtù
del significato delle nozioni basilari] sempre nuovi assiomi che non seguono da quelli
stabiliti precedentemente e i risultati di incompletezza non escludono affatto che ogni
questione matematica del tipo sì-o-no posta chiaramente sia solubile in questo
modo, perché è proprio questo diventar evidenti di sempre nuovi assiomi in virtù del
significato delle nozioni basilari che non può essere imitato da una macchina". 20
Il processo di chiarificazione, infatti, non avviene meccanicamente, ma in modo
simile a quello utilizzato dai bambini per comprendere nuovi concetti, vale a dire
passando attraverso una serie di stati di consapevolezza sempre maggiori. Per usare
la parole di Gödel:
"se l'intero sviluppo delle scienze empiriche si può vedere come una sistematica e conscia
estensione di ciò che il bambino fa quando sviluppa nella prima direzione [della
sperimentazione con gli oggetti del mondo esterno], è del tutto possibile un analogo sviluppo
sistematico e conscio anche nella direzione dell'introspezione". […] "Ci sono esempi in cui,
anche senza l'applicazione di una procedura sistematica e conscia, avvengono considerevoli
sviluppi nella seconda direzione, quella che trascende il buon senso".
Seguendo le indicazioni fenomenologiche è possibile, quindi, dirigere la nostra
attenzione in modo corretto.
"Ciò che Husserl ha fatto [è] insegnare un atteggiamento mentale che ci ha messo in grado
di dirigere la nostra attenzione [in modo innaturale], ma corretto. […] Husserl ha ripreso il
lavoro di chiarificazione svolto da Kant, e lo ha reso più sistematico.[…] Kant [aveva
riconosciuto] che tutte le categorie dovevano essere ridotte a qualcosa di più fondamentale.
Husserl […] ha cercato di trovare [proprio]questa idea fondamentale, [l'idea, cioè, ] che si
trova dietro tutte quelle categorie".21
Per Gödel, quindi, l'intero metodo fenomenologico "risale nella sua idea a Kant" e
Husserl lo ha solo:
"formulato per primo più precisamente, lo ha reso pienamente consapevole e lo ha applicato
realmente a particolari domini. In effetti, già dalla terminologia usata da Husserl, si vede
quanto positivamente egli stesso valuti il proprio rapporto con Kant".22
La mancanza di chiarezza di Kant, però, ha condotto a deviazioni come l'idealismo e
il positivismo. Solo Husserl con la sua teoria fenomenologica ha reso veramente
giustizia a Kant, "evitando sia il salto mortale dell'idealismo verso una nuova
metafisica, sia il rifiuto positivistico di ogni metafisica". 23
Malgrado questi meriti, tuttavia, il metodo fenomenologico si è rivelato alla fine
insufficiente. Gödel, infatti, pur usandolo con continuità, non è mai riuscito a scoprire
un gruppo di assiomi in grado di estendere proficuamente la teoria degli insiemi.(Per
essere precisi un gruppo di assiomi Gödel l'ha anche scoperto, ma come ha
osservato John W. Dawson jr. "praticamente nessun logico ha mai trovato qualche
motivo per credere nell'intrinseca verità di quegli assiomi"). 24
D'altra parte, per il matematico italiano Carlo Cellucci, non c'era alcun motivo perché
ciò avvenisse. L'insuccesso del metodo fenomenologico, infatti, era intrinsecamente
inevitabile. Cellucci ha descritto così questa ineluttabile conclusione:
"L'insuccesso di Gödel non è da ascriversi ad una mancanza di sagacia da parte sua, ma ad
una ragione di principio. La speranza di ottenere una penetrazione più profonda del concetto
di insieme, è vana proprio a causa del primo teorema d'incompletezza. Supponiamo, infatti,
di aver ottenuto, mediante il metodo fenomenologico, un'intuizione del concetto d'insieme I.
Sia S un sistema formale della teoria degli insiemi i cui assiomi l'intuizione ci assicura essere
veri rispetto ad I. Poiché I è un modello di S, ne segue che S è coerente, e quindi è
appropriato. Ma allora, per il primo teorema d'incompletezza di Gödel, esiste un enunciato G
di S che è vero in I ma non è dimostrabile in S. Dal fatto che G non è dimostrabile in S segue
che S∪{¬ G}è coerente. Perciò, per il teorema dell'esistenza del modello, S∪{¬ G}ha un
modello diciamo I′. Allora I e I′ sono entrambi modelli di S, ma G è vero in I ed è falso in
I′(poiché ¬ G è vero in I′). Dunque i concetti di insieme I e I′ non sono equivalenti. Ora se, di
nuovo mediante il metodo fenomenologico, appuntiamo più acutamente lo sguardo sul modo
in cui abbiamo ottenuto I′, arriviamo ad un'intuizione anche di I′. Abbiamo così due diverse
intuizioni, una delle quali ci assicura che il vero concetto di insieme è I mentre l'altra ci
assicura che il vero concetto di insieme è I′, e l'enunciato G è vero in base alla prima
intuizione mentre è falso in base alla seconda. Quale dei due concetti I e I′ è il vero concetto
di insieme? Il metodo fenomenologico non ci sa dare una risposta. Ciò mostra la vanità della
speranza di Gödel di giustificare la matematica facendo ricorso all'intuizione intellettuale, e,
in unione col fallimento dei programmi di Hilbert, suggerisce che l'intera impresa della
concezione fondazionalista di giustificare la matematica facendo appello all'intuizione è
impossibile".25
CONCLUSIONI
Secondo l'analisi di Cellucci, che peraltro riflette il pensiero generale, è dunque, è
un'impossibilità costitutiva quella che deriva dal teorema di Gödel, un divieto teorico
assoluto. A prescindere dai suoi futuri sviluppi, la matematica risulterà sempre
ingiustificabile a livello formale. Come non c'è una geometria assoluta alla quale
riferirsi, così non c'è una ragione matematica in senso assoluto, ovvero un unico
modo di procedere, ragionare, dedurre. Non esiste alcun metodo - neppure
fenomenologico - per stabilire con inconfutabile certezza quale sia tra diversi modelli
quello realmente corretto. Così l'ipotesi del continuo di Cantor può risultare vera in un
modello assiomatico e falsa in un altro, senza che questo peraltro conduca ad alcuna
contraddizione. Il concetto di verità unica e assoluta non appartiene, quindi,
nemmeno al limpido e circoscritto mondo del pensiero matematico. Per
estrapolazione ciò potrebbe indurci a ipotizzare che tutte le indagini scientifiche
basate su modelli matematici debbano essere allo stesso modo incomplete e
relative. Così la cosmologia e più in generale tutte le scienze espresse in un
linguaggio matematico, potrebbero trovarsi in una preoccupante condizione di
parzialità. Di questo avviso è il fisico e teologo ungherese Stanley Jaki, il quale ha
espresso la ferma convinzione che i risultati di Gödel ci impediscano di acquisire una
reale comprensione del cosmo: alla luce dei teoremi di incompletezza Jaki ritiene
che:
"nessuna cosmologia scientifica - che necessariamente deve essere altamente matematica [può] trovare la dimostrazione della propria coerenza. [Ma] una teoria necessariamente vera
che non può contenere una prova della propria coerenza [risulta] inevitabilmente una
contraddizione in termini. Da ciò deriva la principale conseguenza dei teoremi di Gödel sulla
cosmologia, ossia che la contingenza del cosmo non può essere contraddetta".26
Per contro molti scienziati, tra cui lo stesso Gödel, hanno invece interpretato il
teorema d'incompletezza in chiave positiva.
Opponendosi all'interpretazione pessimistica dei suoi risultati, Gödel riteneva che
essi non implicassero alcuna limitazione alle possibilità del ragionamento logico; al
contrario credeva che essi comportassero soltanto delle limitazioni formali, ovvero
che "il tipo di ragionamento necessario in matematica non [potesse] essere
meccanizzato completamente".
A differenza di Kant, la cui linea di pensiero era interamente inscritta in un orizzonte
pre-evoluzionista, Gödel credeva che le nostre menti "non fossero statiche ma in
continuo sviluppo", e che quindi la scienza fosse in grado di avvicinarsi
progressivamente alla verità, superando le limitazioni psico-fisiche della nostra
natura.27
Interpretati in questa chiave, i suoi risultati non forniscono un risultato negativo, ma
rappresentano al contrario un inno all'inesauribilità della matematica e
dell'intelligenza umana in generale. Così vengono percepiti, ad esempio, dallo
scienziato americano Freeman Dyson, il quale considera i teoremi di incompletezza
come una garanzia teorica che l'attività scientifica continuerà per sempre:
"Gödel - afferma Dyson - ha mostrato che il mondo della matematica pura non è
racchiudibile. Nessun insieme finito di assiomi o di regole di inferenza potrà mai abbracciare
la matematica nella sua interezza; dato un qualunque insieme di assiomi, è possibile trovare
dei problemi matematici significativi che quegli assiomi lasciano senza risposta. Io spero che
una situazione analoga esista anche nel mondo fisico. Se il mio modo di concepire la natura
è corretto, ciò significa che anche il mondo della fisica e dell'astronomia è inesauribile; non
importa quanto lontano ci spingiamo nel futuro, accadranno sempre nuove cose, arriveranno
sempre nuove informazioni, ci saranno nuovi mondi da esplorare e un dominio di vita,
coscienza e memoria in continua espansione".28
In effetti la plausibilità della tesi di Dyson sembra confermata dai risultati che Greg
Chaitin ha tratto recentemente dai teoremi di Gödel a livello cibernetico.
Traducendo l'incompletezza nel linguaggio dell'informazione e della casualità, Chaitin
ha provato che non è possibile dimostrare l'incomprimibilità di una particolare stringa
di simboli. Ovvero che dato un certo problema, la relativa stringa che lo rappresenta
non è ulteriormente comprimibile.Se si assume che l'attività scientifica consiste nel
tentativo di comprimere stringhe di dati in codificazioni sempre più brevi, ne deriva
l'impossibilità di stabilire se una certa teoria fisica sia quella definitiva oppure no. 29
Alla luce di tale risultato, sfuma chiaramente il sogno riduzionista di Stephen
Hawking e dei vari sostenitori della soluzione finale.30 La possibilità di provare la
verità assoluta di una teoria rimarrà sempre unicamente un'illusione.
"La verità è come una cima montuosa, normalmente avvolta fra le nuvole. Uno scalatore può
non solo avere difficoltà a raggiungerla, ma anche non accorgersene quando vi giunge,
poiché può non riuscire a distinguere nelle nuvole fra la vetta principale e un picco
secondario".31
Tuttavia, come ha osservato F. Selleri in Paradossi e realtà, sarebbe un grave errore
concludere che l'incertezza di una teoria, il suo carattere ipotetico o congetturale, sminuisca la
sua capacità descrittiva o il suo valore gnoseologico: pur non avendo la possibilità di provare
che la teoria che stiamo usando è la teoria definitiva, abbiamo comunque la certezza che la
scienza - cui essa appartiene - abbia prodotto nel tempo risultati cognitivi indiscutibili. E'
semplicemente assurdo, ad esempio, che in futuro si possano negare teorie scientifiche come
quella atomica della materia o quella genetica del DNA.
E' anche vero però che l'esistenza di elementi cognitivi irreversibili non pone la scienza al
riparo da tutta una serie di contrasti e difficoltà interne che la rendono sempre più somigliante
ad un labirinto di filosofie e di linee divergenti. Tuttavia, parafrasando una riflessione di Italo
Calvino a proposito di letteratura e società:
"Da una parte c'è l'attitudine oggi necessaria per affrontare la complessità del reale, rifiutandosi alle
visioni semplicistiche che non fanno che confermare le nostre abitudini di rappresentazione del
mondo; quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. Dall'altra
parte c'è il fascino del labirinto in quanto tale, del perdersi nel labirinto, del rappresentare questa
assenza di vie d'uscita come la vera condizione dell'uomo. Nello sceverare l'uno dall'altro i due
atteggiamenti vogliamo porre la nostra attenzione critica, pur tenendo presente che non si possono
sempre distinguere con un taglio netto [...]. Resta fuori chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo
alla loro difficoltà [...] E' la sfida al labirinto che vogliamo salvare […] e che vogliamo enucleare e
distinguere dalla resa al labirinto".32
In questo senso il teorema di Gödel si rivela uno strumento indispensabile. I labirinti che esso
propone, infatti, rappresentano una sicura difesa contro ogni tentativo iper-riduzionista, e al
tempo stesso una spinta importante a sviluppare forme di creatività e di analisi sempre più
raffinate. E paradossalmente anche i limiti che stabiliscono, non devono costituire motivo di
avvilimento, o peggio ancora di sfiducia nelle possibilità del pensiero scientifico. Se la
scienza è possibile, infatti, è proprio perché essa vieta alcune cose e pone dei limiti ben precisi
ad altre. E' sulla categoria dell'impossibilità che si basa l'impresa scientifica, non su quella
dell'onnipotenza. Una teoria risulta tanto più profonda quanto più essa è in grado di stabilire i
propri limiti di applicabilità, ovvero la propria impossibilità di prevedere. Solo le teorie
estremamente semplici non mostrano questo carattere autolimitante, ma, come ha osservato
l'astrofisico John D. Barrow, "un mondo così semplice da poter essere conosciuto da tali
teorie sarebbe troppo semplice per ospitare osservatori coscienti in grado di conoscerlo".33
Note
1
Tutto questo comunque nell'ipotesi non trascurabile che tale sistema sia abbastanza ampio da
contenere l'aritmetica ordinaria. Sistemi assiomatici più semplici, come l'aritmetica di Presburger o la
geometria di Euclide, non soffrono, infatti, di queste limitazioni e risultano essere formalmente
completi.
2
Come è noto Gödel ha dedicato ampio spazio all'interpretazione filosofica del proprio lavoro,
analizzandone in modo esaustivo i presupposti teoretici e le possibili chiavi di lettura. In genere
quando uno scienziato tenta un'impresa di questo tipo raramente riesce ad essere limpido e neutrale.
Gödel, tuttavia, vi è riuscito, e la sua analisi è divenuta un punto di riferimento imprescindibile per
chiunque tenti di avvicinarsi alla sua opera. Alla luce di tali considerazioni ho scelto di articolare la
mia indagine privilegiando una linea di ricerca più storiografica che interpretativa, riportando quasi
integralmente i numerosi e illuminanti articoli che egli ha elaborato via via nel corso degli anni. Per
quanto possibile ho cercato di seguire fedelmente la linea di sviluppo del suo pensiero, in qualche
caso, tuttavia, sono stato costretto ad invertirne l'ordine temporale per rendere la mia trattazione più
chiara e intelligibile.
3
In forma estremamente semplificata il teorema di Gödel può essere così schematizzato: consideriamo la proposizione
metaaritmetica G: "io non sono dimostrabile". Tale proposizione si può tradurre formalmente a livello matematico
utilizzando una procedura, dovuta originariamente a Leibniz, in grado di istituire una stretta corrispondenza tra formule del
calcolo e proposizioni teoriche su di esso. A questo punto è possibile provare che la proposizione G (che ricordo afferma di
non essere dimostrabile) non può essere falsa perché altrimenti sarebbe dimostrabile; e dal momento che il sistema non
dimostra falsità, ciò condurrebbe ad una contraddizione. La proposizione G, quindi, deve essere vera e pertanto non
dimostrabile. Come corollario a tale teorema, poi, è possibile provare che nel sistema contenente G, la proposizione A:
"l'aritmetica è coerente" è un esempio di proposizione vera e indimostrabile. Che A sia vera segue banalmente dalle
ipotesi, poiché il sistema T per ipotesi è appunto coerente (ovvero non dimostra falsità). Che sia indimostrabile, invece, segue
da un ragionamento più complicato, in cui viene sfruttato il risultato precedente. In esso, infatti, si è provato (informalmente
ma rigorosamente) la correttezza dell'implicazione: Coer(T) ⊃ G (se T è coerente, allora G è vera). E siccome T dimostra
Coer(T) ⊃ G, se dimostrasse Coer(T) dimostrerebbe anche G (per la nota proprietà dell'implicazione). Ma ciò, ovviamente,
è impossibile perché G, per il teorema di incompletezza, risulta indimostrabile. Ne consegue, quindi, che neanche Coer(T)
può essere dimostrata.
4
Quando Tarski fu invitato ad esporre la sua teoria semantica della verità all'International Congress
of Scientific Philosophy, Rudolf Carnap osservò che "[egli] era molto scettico sulla riuscita della
conferenza: pensava che la maggior parte dei filosofi, anche quelli che lavoravano sulla logica
moderna, sarebbero stati non solo indifferenti, ma ostili all'esplicazione del concetto di verità". Ed in
effetti "al congresso divenne chiaro dalle reazioni alle comunicazioni presentate da Tarski […] che le
sue previsioni scettiche erano giuste.[…] Ci fu una violenta opposizione anche dalla parte dei filosofi
[più favorevoli]". Solo Gödel accolse positivamente le sue tesi, anche perché era giunto alle stesse
conclusioni attraverso un percorso analogo. Come osservò egli stesso "l'occasione di confrontare verità
e dimostrabilità emerse da un tentativo di dare una dimostrazione di coerenza relativa tramite un
modello dell'analisi nell'aritmetica. Questo porta quasi necessariamente a tale confronto. Perché un
modello aritmetico dell'analisi non è nient'altro che una relazione ∈ di appartenenza sui naturali che
soddisfa l'assioma di comprensione: (∃n) (x) [ x ∈ n ≡ φ(x) ]. Ora se in questa si sostituisce "φ(x)" con
"φ(x) è dimostrabile", si può facilmente definire la relazione ∈. Quindi, se la verità fosse equivalente
alla dimostrabilità, avremmo raggiunto il nostro obiettivo. Tuttavia (e questo è il punto decisivo) da
una corretta soluzione dei paradossi semantici segue che la verità per le proposizioni di un linguaggio,
non può essere espressa nello stesso linguaggio, mentre la dimostrabilità (essendo una relazione
aritmetica) può essere espressa. Quindi vero ≠ dimostrabile." (La precedente citazione di Carnap è
stata tratta dalla sua Autobiografia intellettuale, mentre quella di Gödel dal terzo volume dei suoi
Collected works)
5
H. Wang: Dalla matematica alla filosofia, Bollati Boringhieri, 2002, pag. 18. Per ulteriori dettagli
riguardo all'articolo di Skolem si veda A survey of Skolem's Work in Logic, in T. Skolem, Selected
Works in Logic, a cura di J.E. Fenstad 1970, pagg. 22-26.
6
Ibidem, pagg. 18-20.
7
Ibidem, pag. 19.
8
Ibidem pag. 20.
9
K. Gödel: Collected works, vol. III, Oxford University Press, 1995.
10
Quest'ultima affermazione di B. Russell contrasta apertamente con la concezione platonista della
matematica che lo stesso Russell aveva adottato nella fase iniziale della sua carriera, quando pensava
ancora che "la logica [avesse] a che fare con il mondo reale quanto la zoologia, sebbene in termini più
astratti e generali". (B. Russell: Introduzione alla filosofia matematica, Newton, 1970).
11
K. Gödel: Opere complete vol. II, Bollati Boringhieri, 2002 pagg. 124-146.
12
Come è noto l'ipotesi del continuo di Cantor asserisce che non vi è alcun livello di infinito tra
l'infinito numerabile dei numeri naturali e l'infinito non numerabile dei numeri reali.
13
K. Gödel: Opere complete vol. II, Bollati Boringhieri, 2002, pagg. 180-193.
14
Citazione tratta dalla rivista I grandi della scienza: Kurt Gödel, febbraio 2001, pagg. 78-79.
15
K. Gödel: Collected works vol. III, Oxford University Press, 1995, pagg. 375-388.
16
Ibidem.
17
Ibidem.
18
Ibidem.
19
Ibidem.
20
Ibidem.
21
Quest'ultima citazione è tratta dal libro-intervista di H. Wang: A Logical Journey: From Gödel to
Philosophy, The MIT Press, 1996.
22
K. Gödel: Collected Works vol III, Oxford University Press, 1985, pag 383.
23
K. Gödel: Collected Works vol III, Oxford University Press, 1985, pag. 384.
24
J.W. Dawson jr.: Logical dilemmas. The life and work of Kurt Gödel, A.K. Peters, 1996.
25
C. Cellucci: Filosofia e matematica, Laterza, 2003, pag. 85.
26
S.L. Jaki: Dio e i cosmologi, Editrice Vaticana, 1992, pag. 108.
27
Secondo il suo punto di vista un'evidente dimostrazione di questo fatto era rappresentata
dalla teoria della relatività di Einstein. Ad essa Gödel aveva lavorato alla fine degli anni
quaranta, sviluppando un'analisi matematica dai cui risultati derivava l'esistenza di un
modello cosmologico rotante. Il saggio in cui Gödel aveva elaborato tale modello faceva
parte di un volume pubblicato nel 1949 per celebrare il settantesimo compleanno di Einstein.
Inizialmente il suo titolo doveva essere La teoria della relatività e Kant, ma in seguito Gödel
decise di sostituirlo con il più preciso: Un'osservazione sul rapporto tra la teoria della
relatività e la filosofia idealista. In esso Gödel dopo aver sottolineato le analogie esistenti tra
la concezione kantiana del tempo e quella einsteiniana, aveva scoperto "un esempio di un
nuovo tipo di soluzioni cosmologiche delle equazioni del campo gravitazionale di Einstein".
La cosa sconvolgente era che tali soluzioni davano origine ad un modello cosmologico
rotante in cui "non poteva essere definita la simultaneità" per la presenza di linee temporali
chiuse. Ciò comportava come conseguenza che "facendo un viaggio circolare su una nave
spaziale con una curvatura sufficientemente ampia, era possibile viaggiare in qualsiasi
regione del passato, del presente e del futuro." Tuttavia, avvertiva Gödel, […] "questa
eventualità non si sarebbe mai verificata concretamente perché la sua realizzazione pratica
richiedeva "velocità vicinissime a quelle della luce".
28
Tale citazione è tratta dal libro di J.D. Barrow: Impossibilità, Rizzoli, 2003, pag 310.
29
G.J. Chaitin: Information, randomness and incompleteness, World Scientific, Singapore, 1987 (Per
un'analisi più dettagliata consultare anche: G.J.Chaitin, Information-Theoretic limitations of formal
system, J. ACM, 1974, pagg. 403-424).
30
In realtà, in questi ultimi anni, il riduzionismo di Hawking si è fortemente attenuato, al punto che nel
suo recente L'universo in un guscio di noce egli afferma: " nel 1988[…] sembrava imminente una
Teoria del Tutto. E' cambiata, oggi, la situazione? Siamo più vicini all'obiettivo? [In effetti] da allora
abbiamo compiuto notevoli progressi, ma il viaggio è tuttora in corso e non si scorge ancora la meta.
Come si suol dire, però, in fondo è meglio viaggiare pieni di speranza che arrivare […] se arrivassimo
al termine della strada il nostro spirito si inaridirebbe e spegnerebbe. Ma non credo che ci fermeremo
mai; il nostro sapere aumenterà in complessità, se non in profondità, e saremo costantemente al centro
di un orizzonte sempre più vasto di possibilità." (S. Hawking: L'universo in un guscio di noce,
Mondadori, 2002, pag. 5). Per la precedente posizione riduzionistica di Hawking consultare invece S.
Hawking: Dal big bang ai buchi neri, Rizzoli, 1988, pagg. 178-193, e anche S. Hawking: Inizio del
tempo e fine della fisica, Mondadori, 1992, pagg. 1-37.
31
K.R. Popper: Congetture e confutazioni, Mulino, 1972, pag. 388.
32
I. Calvino: Una pietra sopra, Mondadori, 1995, pag. 116.
33
J.D. Barrow: Impossibilità, Rizzoli, 2003, pag. 13.
----Luca Umena si è laureato in Matematica e in Filosofia all'Università degli
studi di Perugia. Dal Novembre 1996 al Giugno 1997 ha frequentato presso la
SISSA di Trieste il primo corso di Giornalismo Scientifico organizzato in Italia.
Attualmente insegna Matematica e Fisica al Liceo Scientifico "Ettore
Majorana" di Orvieto e ricopre l'incarico di Assistente (Tutor) per i corsi di
Fisica Generale I e Fisica Generale II presso la Facoltà di Ingegneria
dell'Università di Perugia. Oltre a queste attività, dallo scorso anno sta
seguendo un dottorato di ricerca in Filosofia della Scienza presso l'Università
Lateranense di Roma. Su Episteme ha pubblicato in precedenza un articolo dal
titolo "Voltaire e la fisica newtoniana".
[email protected]
----Kurt Gödel, born 28 April 1906 in Brünn, Austria-Hungary (now Brno, Czech Republic),
died 14 Jan 1978 in Princeton, New Jersey, USA. Gödel entered the University of Vienna in
1923 still without having made a definite decision whether he wanted to specialise in
mathematics or theoretical physics. He completed his doctoral dissertation under Hahn's
supervision in 1929. He became a member of the faculty of the University of Vienna in 1930,
where he belonged to the school of logical positivism until 1938. Gödel is best known for his
proof of "Gödel's Incompleteness Theorems". In 1931 he published these results in Über
formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme. Submitting
his paper on incompleteness to the University of Vienna for his habilitation, this was accepted
by Hahn on 1 December 1932. Gödel became a Privatdozent at the University of Vienna in
March 1933. Now 1933 was the year that Hitler came to power. At first this had no effect on
Gödel's life in Vienna; he had little interest in politics. In 1934 Gödel gave a series of lectures
at Princeton entitled On undecidable propositions of formal mathematical systems. However,
Gödel suffered a nervous breakdown as he arrived back in Europe. He was treated by a
psychiatrist and spent several months in a sanatorium recovering from depression. He visited
Göttingen in the summer of 1938, lecturing there on his set theory research. In March 1938
Austria had became part of Germany, and most who held the title of privatdozent in Austria
became paid lecturers, but Gödel did not and his application made on 25 September 1939 was
given an unenthusiastic response. It seems that he was thought to be Jewish, but in fact this
was entirely wrong, although he did have many Jewish friends. Others also mistook him for a
Jew, and he was once attacked by a gang of youths, believing him to be a Jew, while out
walking with his wife in Vienna. When the war started Gödel feared that he might be
conscripted into the German army. After lengthy negotiation to obtain a U.S. visa he was
fortunate to be able to return to the United States, although he had to travel via Russia and
Japan to do so. In 1940 Gödel arrived in the United States, becoming a U.S. citizen in 1948.
He was an ordinary member of the Institute for Advanced Study from 1940 to 1946, then he
was a permanent member until 1953. He held a chair at Princeton from 1953 until his death,
holding a contract which explicitly stated that he had no lecturing duties. One of Gödel's
closest friends at Princeton was Einstein. He received the Einstein Award in 1951, and
National Medal of Science in 1974. He was a member of the National Academy of Sciences
of the United States, a fellow of the Royal Society, a member of the Institute of France, a
fellow of the Royal Academy and an Honorary Member of the London Mathematical Society.
However, it says much about his feelings towards Austria that he refused membership of the
Academy of Sciences in Vienna, and the highest National Medal for scientific and artistic
achievement that Austria offered him. Towards the end of his life Gödel became convinced
that he was being poisoned and, refusing to eat to avoid being poisoned, essentially starved
himself to death.
(Excerpts from an article by J.J. O'Connor and E.F. Robertson:
http://www-gap.dcs.st-and.ac.uk/~history/Mathematicians/Godel.html)
(A famous picture of Kurt Gödel and Albert Einstein in Princeton)
22
23
I paradossi di Zenone sul movimento
e il dualismo spazio-tempo
(Umberto Bartocci)
Zénon! Cruel Zénon! Zénon d'Êlée!
M'as-tu percé de cette flèche ailée
Qui vibre, vole, et qui ne vole pas!
(Paul Valéry, Le cimetière marin)
1. Introduzione
E' stato scritto che:
<<Dei sette paradossi, a noi pervenuti, che la tradizione attribuisce a Zenone di Elea 1 [...], quattro
riguardano il movimento e sono stati oggetto di indagini profonde in tutti i tempi, dirette a
comprenderne l'autentico, originario significato: indagini ardue e mai concluse, che ogni generazione
di filosofi e matematici suole riprendere>>2.
L'attuale generazione non fa naturalmente eccezione alla regola. Per esempio, ancora
recentemente è apparsa su Le Scienze3 la notizia di una definitiva soluzione dei paradossi
grazie a "caratteristiche fondamentali" di "nuove teorie matematiche":
<<Per due millenni e mezzo i paradossi di Zenone sono stati fonte di discussione e oggetto di analisi,
ma solo oggi, grazie a una formulazione dell'analisi matematica che è stata sviluppata nell'ultimo
decennio, è possibile risolverli [...] Per molti secoli la logica di Zenone è rimasta pressoché intatta, e
ciò dimostra la tenacia dei suoi argomenti>> (p. 60, p. 66).
A proposito della pretesa "soluzione" in oggetto preferiamo astenerci da un giudizio
circostanziato: diciamo solamente di avere l'impressione che tali affermazioni possano essere
ricondotte a quello stato di confusione mentale e di presunzione di cui sono responsabili le
pessime filosofie della matematica e della fisica del XX secolo4. Sottolineiamo piuttosto come
l'asserzione in esordio sia eccessivamente restrittiva per ciò che concerne le finalità di dette
costanti riprese: infatti, non si tratta soltanto di ricostruire l'originario significato, le esatte
motivazioni, di un dibattito ormai lontano da noi nei secoli, cioè di studi in una parola
filologici, quanto di analizzare in che misura gli argomenti di Zenone d'Elea siano, oggi al
pari di ieri, una sorta di punto di passaggio obbligato verso una comprensione dell'umana
concezione dello spazio e del tempo. In altre parole, al di là dell'indubbio interesse che gli
argomenti della filosofia eleatica contro il movimento rivestono per la storia del pensiero
greco (e della civiltà occidentale che da quello si sviluppò), si ricerca pure, come si diceva
dianzi, una "soluzione" dei paradossi. Per tornare al caso di cui sopra, il lavoro di McLaughlin
a tale mèta aspira, pertanto sotto questo profilo almeno esso è apprezzabile5.
Il presente articolo si colloca sulla medesima scia propositiva, sebbene con un'impostazione,
come si vedrà, affatto differente. Per riassumere brevemente la nostra opinione, alquanto
"tradizionale" e non "moderna": spazio e tempo, "forme pure" dell'intelletto secondo l'analisi
critica kantiana, sono appunto due, e non una, apparentate alle intuizioni non solo diverse ma
addirittura "contrapposte" (termine di cui si comprenderà meglio il significato precipuo
nell'annessa appendice matematica, che è parte integrante di questo saggio), che si dicono
comunemente del continuo e del discreto6. I paradossi di Zenone sono atti a convincerci
precisamente di tale irriducibile, insormontabile dualismo (che potrebbe aggiungersi alle
quattro antinomie kantiane della ragione pura7). Inoltre, anche di un altro fondamentale
dualismo costringono a tenere conto: quello tra reale e pensato8, che in termini kantiani si
esprime con i concetti di fenomeno e noumeno, e in termini cartesiani di res cogitans di res
extensa (di un ulteriore profondo e collegato dualismo, presente sullo sfondo di questi
discorsi, diremo più avanti, nel paragrafo 7).
Svilupperemo tale intento senza alcuna pretesa di nemmeno citare i più importanti studi
sull'argomento, sia che essi abbiano finalità della prima categoria sopra descritta, sia della
seconda (o siano, per così dire, "misti", in diverse percentuali): la bibliografia sarebbe invero
sterminata. Ci limiteremo ad appoggiare i nostri ragionamenti su ciò che meglio si presterà di
volta in volta a illustrare l'interpretazione che vogliamo proporre.
2. La formulazione dei paradossi secondo la tradizione più autorevole
Cominciamo a prendere le mosse da Aristotele (Fisica, VI, 9), ricordando come egli descriva
i primi due paradossi, gli unici di cui qui ci occuperemo, al punto che quando diremo "i
paradossi di Zenone", qui e nell'appendice, intenderemo fare riferimento solo a questi due
(sfioreremo appena il terzo nel paragrafo 9, e ancora meno il quarto nella seconda nota del
medesimo paragrafo), nella convinzione che si tratti poi "sostanzialmente" di uno soltanto,
almeno a posteriori (rammentiamo che nessuno ci è pervenuto nella forma originale nella
quale fu enunciato dallo stesso Zenone, neppure in maniera frammentaria, bensì
esclusivamente attraverso siffatti commenti "di seconda mano").
<<Quattro sono i ragionamenti di Zenone intorno al movimento, i quali mettono di cattivo umore
quelli che tentano di risolverli. Primo è quello sulla inesistenza del movimento, per la ragione che il
mosso deve giungere prima alla metà che non al termine>>.
Siamo davanti alla cosiddetta dicotomia, ovvero a un'applicazione del principio geometrico
secondo cui sulla retta ordinaria, tra due punti A e B, si concepisce, si "deve" concepire, un
(unico) punto medio M. Con la conseguenza che, iterando l'applicazione del principio
(l'iterazione è una delle funzioni logiche fondamentali dell'intelletto), tra A e M si deve
successivamente concepire un nuovo punto medio M', e così via, all'infinito - o, se si
preferisce un trattamento solo "potenziale": senza che nessun passo delle progressive
iterazioni possa configurarsi quale ultimo, poiché tra due punti distinti deve esistere sempre
un punto medio, e tutti i punti della successione A, M, M', ... sono certamente distinti.
Non ce ne sarebbe bisogno, ma espandiamo un poco quanto viene così sinteticamente riferito
da Aristotele. Se vogliamo immaginare (o descrivere) un movimento da A verso B, due punti
distinti della retta ordinaria9, dovremo prima di tutto pensare, secondo Zenone, a un
movimento da A verso M, il punto medio del segmento di estremi A e B. Ma prima di questo
a un movimento da A verso M', etc., con l'effetto che il punto A non può apparentemente
neppure "cominciare" a muoversi - sottinteso: nella nostra mente.
Nota. Tra due punti distinti A e B della retta ordinaria R, comunque "vicini", risulta quindi necessario
concepirne infiniti. In effetti, un semplice ragionamento mostra addirittura che i punti tra A e B
devono essere concepiti "tanti quanti" quelli sull'intera retta (cioè, i due insiemi sono come si dice
equipotenti, d'onde il termine potenza per indicare la "quantità" degli elementi di un insieme). Nella
seguente figura viene illustrata una corrispondenza biunivoca che trasforma un punto p, interno al
segmento ab di estremi a e b, in un punto p' di R (si tenga presente che in questa nota A e B, e in
generale tutti i punti, saranno indicati, differentemente dal solito, con lettere minuscole).
Per il punto medio c di ab si costruisce la semicirconferenza tangente C, di centro O, riportata in
figura, iscritta al quadrato di lato ab . Poi, dato un qualsiasi punto p all'interno del segmento, si
determina il punto p0 su C, situato su C e sulla retta verticale uscente da p. Infine, si costruisce p' ∈ R
come illustrato, quale intersezione di R con la retta passante per O e per p 0. E' evidente che, al variare
di p all'interno di ab , il corrispondente punto p' descrive tutti i punti di R, ciascuno una volta sola (in
particolare, c' = c; i punti tra c e b, b escluso, corrispondono a tutti quelli alla destra di c, secondo la
figura, mentre i punti tra a e c, a escluso, a quelli alla sinistra di c). Abbiamo asserito che questo
ragionamento è assai semplice. A chi volesse rilevare un anacronismo, obiettando che diventa tale
soltanto con il senno del poi, vale a dire dopo i noti sviluppi dell'analisi cantoriana del concetto di
infinito, replicheremmo che non sono tanto gli alti livelli raggiunti da certa matematica di fine
ottocento a stupirci, quanto piuttosto la precedente arretratezza.
Il paradosso dell'Achille è invece così descritto dal grande filosofo di Stagira10:
<<Secondo è l'argomento detto Achille. Questo sostiene che il più lento non sarà mai raggiunto nella
sua corsa dal più veloce. Infatti è necessario che chi insegue giunga in precedenza là di dove si mosse
chi fugge, di modo che necessariamente il più lento avrà sempre un qualche vantaggio. Questo
ragionamento è lo stesso di quello della dicotomia, ma ne differisce per il fatto che la grandezza
successivamente assunta non viene divisa per due. Dunque il ragionamento ha per conseguenza che il
più lento non viene raggiunto ed ha lo stesso fondamento della dicotomia (infatti la conclusione di
entrambi i ragionamenti è che non si arriva al termine, divisa che si sia in qualche modo la grandezza
data; ma c'è di più nel secondo, che la cosa non può essere realizzata neppure dal più veloce corridore
immaginato drammaticamente nell'inseguimento del più lento), di modo che la soluzione sarà, per
forza, la stessa>>.
Nella Fisica di Simplicio (commentatore delle opere di Aristotele vissuto nel VI secolo DC),
la questione dell'Achille è riferita invece con le seguenti parole:
<<Anche questo argomento basa la sua tentata dimostrazione sulla divisibilità infinita, ma è svolto in
maniera diversa. Esso procede come segue: se esistesse il movimento il più lento non potrebbe mai
essere raggiunto dal più veloce: ma questo è impossibile pertanto il moto non esiste. [...] L'argomento
è chiamato l'Achille a causa dell'introduzione in esso di Achille, il quale, dice l'argomento, non può
mai raggiungere la tartaruga che sta inseguendo, perché l'inseguitore deve, prima di raggiungere
l'inseguito, giungere al punto dal quale l'inseguitore è partito. Ma nel tempo impiegato dall'inseguitore
per raggiungere questo punto, l'inseguito avanza di una certa distanza e anche se questa distanza è
minore di quella coperta dall'inseguitore, a cagione del fatto che l'inseguito è il più lento dei due, ciò
nonostante egli avanza perché non è fermo. E ancora nel tempo che l'inseguitore impiega per coprire
questa distanza di cui l'inseguito è avanzato, l'inseguito ancora avanza di una certa distanza che è in
proporzione più piccola della precedente, in conformità al fatto che la sua velocità è minore di quella
dell'inseguitore. E così in ogni intervallo di tempo nel quale l'inseguitore copre la distanza di cui
l'inseguito, movendosi alla sua velocità relativamente minore, è avanzato, l'inseguito avanza ancora un
altro poco, perché benché questa distanza decresca ad ogni passo, pure, a cagione del fatto che
l'inseguito è sempre supposto in moto, egli avanza di qualche distanza positiva. E così considerando
distanze decrescenti in una data proporzione all'infinito a causa dell'infinita divisibilità delle
grandezze, arriviamo alla conclusione che non solo Ettore non sarà mai raggiunto da Achille, ma
neppure la tartaruga>>.
Si vede di qui che già i due citati commentatori di Zenone avevano ben chiara l'essenza del
dilemma, ovvero il principio geometrico del quale esso era conseguenza: quello dell'infinita
suddivisibilità delle grandezze11. E' l'applicazione di detto principio (che potrebbe limitarsi
soltanto alla divisione per due, cioè alla dicotomia) non solo alla retta, dove si pensa avvenga
il movimento, ma anche al tempo, in cui il movimento oggetto di attenzione si svolge, la
chiave di tutto.
Nota. Ci sembra istruttivo un cenno alle ragioni che convincono della possibilità di suddividere un
segmento fissato in un qualsivoglia dato numero intero (positivo) n di parti (in quel che segue
esamineremo il caso n = 3, ossia la tricotomia). Esse si basano, come spesso avviene in simili
frangenti, su argomentazioni di geometria piana (si immerge la retta nel piano che diremo pur esso
ordinario), le quali coinvolgono l'esistenza e le proprietà delle rette parallele. Il parallelismo appare,
una volta di più, uno dei fondamenti essenziali di ogni discussione geometrica.
Nella figura si considera un segmento AB della retta ordinaria R (pensata immersa nel piano
ordinario P come una sua retta arbitraria). Dal punto A si traccia la perpendicolare alla retta R, e su
tale perpendicolare si considera il segmento AB ' uguale ad AB . Quindi lo si riporta di seguito tre
volte, costruendo i segmenti AB ' , B' B ' ' , B ' ' B ' ' ' . Sulla retta perpendicolare ad R nel punto B si
considerano i punti C', C'', C''', corrispondenti rispettivamente di B', B'', B''' per proiezione
perpendicolare. Si prende infine in esame la diagonale AC ' ' ' del rettangolo ABB'''C'''. Essa interseca
il segmento B 'C ' nel punto Y', il segmento B ' ' C ' ' nel punto Y'', e le proiezioni perpendicolari di tali
punti sulla retta R, che abbiamo detto rispettivamente X' e X'', forniscono la desiderata tricotomia del
segmento AB , ossia: AX ' = X ' X ' ' = X ' ' B , e AX ' + X ' X ' ' + X ' ' B = AB . Insomma, se sull'asse
perpendicolare si rappresenta il numero intero n, su quello di partenza appare il suo inverso 1/n.
3. Il dualismo res extensa/res cogitans, oppure reale/pensato12
Sgombriamo prima di tutto il campo da "soluzioni" del tipo di quella data da Henri Bergson in
Essai sur les données immediates de la conscience (il saggio con cui il filosofo si addottorò
nel 1889). Quegli ritenne infatti che bastasse osservare:
<<l'errore zenoniano consiste nell'aver ammessa divisibile l'unità di movimento che, nel caso,
dovrebbe corrispondere alla misura del passo di Achille: il quale, quindi, trovandosi, ad esempio, a
mezzo passo dalla tartaruga con un intero suo passo certamente la sorpasserebbe>>.
E' chiaro che detta soluzione ha qualche valore, anche secondo il punto di vista che faremo
nostro, giacché introduce nella discussione una sorta di "quantizzazione", in relazione al
"passo" di Achille. Allo scorrere del tempo, Achille percorre via via un numero intero di
passi, sicché a un certo punto sicuramente supera la tartaruga. Da tale prospettiva, l'obiezione
zenoniana non può neppure formularsi, perché a detti enti non può applicarsi il principio
dell'infinita suddivisibilità13. E' pure chiaro, però, che la soluzione indicata utilizza il dualismo
tra reale e pensato, dipanando il dilemma quando esso sia portato sul piano del reale. Quindi,
in verità, vi si confonde lo spazio fisico (reale) con lo spazio "immaginario" (pensato) 14. Il
movimento, il continuo mutare eracliteo della realtà sotto gli occhi di qualsiasi essere umano,
è un indubitabile dato di comune e costante esperienza, e in questo senso va interpretata la
celebre "risposta" a Zenone che la tradizione attribuisce al cinico Diogene di Sinope (secondo
le Vite e dottrine dei filosofi di Diogene Laerzio15). Ma quella di Zenone va riguardata come
una pura argomentazione del pensiero: si possono infatti immaginare punti ideali in
movimento (la cui posizione varia cioè nel tempo, il tempo dell'osservatore pensante) su una
retta ideale, non corpi materiali in moto su un percorso reale. Perciò, si può ben supporre di
descrivere "l'inseguimento" (o almeno parte di esso) suddividendolo in una successione
("discreta") di segmenti distinti tra di loro. Vale a dire che si può concepire un punto A
(Achille) che si porta, in un certo tempo τ, in un punto T (la tartaruga), di modo che A si trova
in A' = T, mentre, nello stesso tempo τ, T si è spostato in un altro punto T' (il rapporto tra i
due segmenti AT e TT ' è precisamente il rapporto, supposto maggiore di 1, tra le due
velocità, quella di Achille e quella della tartaruga, i cui moti si suppongono uniformi). Poi, si
può concepire A' che si porta in A'' = T', laddove T' si è nel frattempo spostato in T'', e così
via, all'infinito, sicché le successive posizioni di "Achille" sono i punti A, A' = T, A'' = T',... e
i relativi percorsi sono i segmenti AT , TT ' ,.... , mentre quelle della tartaruga sono T, T', T'',...
e i relativi percorsi TT ' , T 'T ' ' ,... . In tale suddivisione, di fatto, il punto A precede il punto T,
il punto A' precede il punto T', etc., in eterno, per ogni coppia di punti corrispondenti nella
successione. E' lecito per contro immaginare il duplice movimento (dell'inseguitore e
dell'inseguito) in maniera diretta, "continua": A, che procede per esempio a velocità doppia
rispetto a T, lo raggiunge dopo 2 secondi, indi lo supera definitivamente. Il punto chiave
dell'aspetto sorprendente della situazione, nel resoconto che ne dà Simplicio, consiste in quel:
<<non sarà mai raggiunto>>. Mai, cioè al trascorrere infinito del tempo. E' il "movimento
pensato", ossia il pensare al movimento, il fenomeno che presenta aspetti paradossali, non il
movimento reale, che semplicemente, come dicevamo, è oggetto della nostra esperienza
ordinaria. Anzi, se esso, il movimento reale, non fosse, ecco che non potrebbe esserci alcun
paradosso!
4. La più diffusa "soluzione" dei paradossi
Deve essere quindi secondo noi respinto il trasferimento sul piano "reale" degli argomenti di
Zenone, e allo stesso modo va respinta la pretesa che si tratti di paradossi di natura linguistica,
in altra parola di sofismi, artifici meramente dialettici, che traggono la loro origine
dall'intrinseca "indeterminazione" del linguaggio16. Prima di addentrarci nell'analisi personale
del problema, vogliamo accennare a quella che è la "soluzione" oggi più diffusa, almeno
nell'ambiente dei fisici e matematici di professione (una "categoria" ovviamente inesistente
fino a un paio di secoli fa), e forse anche dei filosofi (sempre intendendo fare affermazioni "di
media"). Una soluzione che non ha nessuno dei predetti due torti (ossia: non esce dall'ambito
ideale, e non considera la questione un vano gioco di parole), e che si può sintetizzare in
alcuni versi che l'autore ricorda (nella traduzione inglese) affissi su un muro del Dipartimento
di Matematica dell'Università di Cambridge (U.K.), al tempo dei suoi studi lassù - tali
pertanto, per l'autorevolezza dell'istituzione che così indirettamente li avallava, da attenuare
per lunghi anni (con quel giammai dimenticato <<poor old Zeno>>) ogni sua ulteriore
curiosità in proposito:
Die mathematische Wissenschaft
war ihm noch ziemlich schleierhaft
[...]
Oh, Zenon, Zenon, alter Wicht,
kennst Du den Kowalewski nicht?17
Ciò equivale ad affermare che ogni studente oggi familiare con un po' di analisi matematica,
sarebbe in possesso di una banale soluzione dell'enigma, consistente nella consapevolezza che
una serie, una somma infinita di numeri, può, nonostante appunto la sua infinità, convergere,
1 1 1
rappresentare un numero finito. Tale è manifestamente il caso della serie 1+ + + +..., la
2 4 8
cui somma è il numero 2. Questa serie corrisponde precisamente al percorso dell'Achille,
nell'ipotesi che la sua velocità sia semplicemente doppia di quella della tartaruga, e che la loro
distanza iniziale sia il segmento assunto quale unità di misura, cioè l'uno. Perciò abbiamo
affermato che paradosso della dicotomia e dell'Achille coincidono sostanzialmente. Nel primo
si prende in esame una successione di segmenti via via ridotti di un mezzo a ritroso, sicché
sembra che il movimento non possa neppure iniziare; nel secondo, il movimento inizia ma per
così dire non ha termine, e un'identica successione di segmenti viene costruita a partire dal
segmento doppio di quello iniziale (ma scambiando l'ordine tra gli estremi).
Nota. Val forse la pena di spendere qualche parola sulla sostanziale, ma appunto non totale,
uguaglianza dei due paradossi di cui ci stiamo occupando. Per la verità, nella formulazione del
secondo il "principio del punto medio" (o dell'infinita suddivisibilità) non viene utilizzato, ma risulta
per così dire conseguenza necessaria del movimento. Per essere più precisi, mentre nella dicotomia
l'esistenza del punto medio viene esplicitamente supposta in fase di impostazione del discorso,
nell'Achille invece, continuando a fare l'ipotesi che il rapporto tra le velocità sia di 2 a 1, quando l'eroe
(che parte dal punto A) si trova dove era inizialmente la tartaruga (punto B), l'animale sarà situato nel
punto medio M del segmento BB ' contiguo al segmento AB , e ad esso uguale. Ciò implica
l'esistenza di M a posteriori, e per questo abbiamo introdotto tale termine in modo alquanto criptico
all'inizio del paragrafo 2: nell'Achille la dicotomia viene dedotta, non è premessa.
Respingiamo naturalmente anche la "soluzione infinitesimale", dal momento che il risultato
matematico su cui si fonda non può non riconoscersi noto in sostanza pure all'intuizione
primitiva di chiunque cominciasse a pensare a queste cose da un punto di vista "razionale",
quali gli antichi Talete, Pitagora, Zenone, etc.18. Chi può davvero sostenere che essi non
fossero in grado di comprendere esattamente, al pari di qualsiasi odierno studentello, la
seguente ovvietà: se si aggiunge a un segmento la sua metà, e poi la metà di questa metà, e
così via, non si supera mai il segmento doppio di quello inizialmente assegnato (e la relativa
somma infinita, se si ritiene opportuno introdurre il concetto, deve ritenersi uguale a tale
segmento doppio)?
Nella figura si considerano un segmento AB sulla retta ordinaria R, e un segmento
"contiguo" BB' uguale ad AB . M è il punto medio di BB' , M' il punto medio di MB ' , M'' il
punto medio di M ' B ' , etc.. Se si assume AB come unità di misura, BM ha misura 1/2,
MM ' ha misura 1/4, M ' M ' ' ha misura 1/8, e così via. E' evidente che, procedendo
all'infinito, il segmento AB + BM + MM ' + M ' M ' ' +... è proprio il segmento AB ' , doppio di
AB , o, quanto meno, che ogni somma finita della serie in discorso è contenuta nel segmento
AB' , e quindi è sempre limitata. Ovvero, l'argomento non coinvolge mai la nozione di
infinito "spaziale", come al contrario, per esempio, costringerebbe a fare l'introduzione di una
semiretta, o dell'intera retta19.
Ci piace menzionare in tale frangente il nostro illustre professore di Storia delle Matematiche
all'Università di Roma negli anni '60, Attilio Frajese, il quale contesta anch'egli chi
rimprovera a Zenone di non essersi reso conto che una somma di infiniti segmenti o di infiniti
intervalli di tempo può benissimo essere finita, purché queste grandezze vadano, con legge
opportuna, indefinitamente diminuendo. Nel suo libro Attraverso la storia della matematica
(Libr. Veschi, Roma, 1962) sostiene infatti apertamente che non sarebbe stato per nulla
difficile, né per Zenone né per i matematici precedenti, giungere ai risultati più immediati
relativi alla somma di serie (<<E' facile mostrare che anche agli albori della scienza
matematica dovette essere assai semplice il calcolo della distanza in questione>>, p. 15).
Secondo Frajese i paradossi non provengono da scarsa conoscenza (intuizione) della teoria
delle serie, né intendono mettere in dubbio l'indubitabile (l'esistenza del movimento reale),
bensì costituiscono una sorta di dimostrazioni per assurdo contro la presenza in geometria
dell'atomismo (che si suol dire democriteo, ma Democrito è comunque più giovane di Zenone
di alcuni decenni). Debbono essere interpretati cioè in chiave polemica con i Pitagorici, in
contrasto con la "concezione monadica" degli enti geometrici da loro accolta. I paradossi di
Zenone rientrerebbero quindi nella fase cosiddetta della "razionalizzazione della geometria",
in cui si passò da una concezione della retta materialmente intesa 20 a una "ideale", con il
conseguente necessario superamento del ruolo del numero razionale (un semplice quoziente di
interi) - caro appunto ai Pitagorici, che in esso scorgevano una manifestazione dell'armonia
dell'universo - mediante l'introduzione di misure irrazionali. Si tratta di un punto di vista
piuttosto autorevole, che procede dal famoso storico della matematica Paul Tannery, il primo,
a quanto sappiamo, nella sua Pour l'histoire de la science hellène - De Thalès à Empédocle
(1889), a formulare l'ipotesi che gli argomenti eleatici "contro il moto" fossero in realtà diretti
principalmente contro il "punto esteso", ossia contro la descrizione atomistica della retta 21.
Purtroppo all'origine di questo fraintendimento (una soluzione che non è affatto tale) sembra
esserci proprio il filosofo alla cui memoria Episteme è dedicata. Fu infatti Cartesio
(utilizzando un rapporto tra le due velocità di 10 a 1, e non di 2 a 1 come assumiamo qui) ad
affermare che l'aporia dell'Achille <<non è difficile a risolversi quando si consideri che>>:
<<alla decima parte di una quantità viene aggiunta la decima di questa decima, e cioè una centesima; e
poi ancora la decima di quest'ultima, ossia una millesima della prima; e così di seguito all'infinito,
tutte queste decime prese insieme, benché siano supposte realmente infinite, non compongono tuttavia
che una quantità finita. Ché se taluno dice che una tartaruga, la quale ha dieci leghe di precedenza
rispetto a un cavallo dieci volte più veloce di lei, non potrà mai essere superata da questo, perché
mentre il cavallo compie le dieci leghe la tartaruga ne percorre una e, mentre il cavallo supera questa
lega, la tartaruga procede ancora di un decimo di lega e così all'infinito, bisogna rispondere che
veramente il cavallo non la sopravanzerà finché esso farà quella lega, quel decimo, quel centesimo,
quel millesimo ecc. di lega; ma che non ne segue che non la supererà mai, perché quel decimo,
centesimo, millesimo ecc. non fanno che un nono di lega, in capo al quale il cavallo comincerà a
sopravanzarla>> (Lettres, Paris, 1657, N. 118; vedi pp. 473-475 del presente volume).
La citazione ha il merito di mostrare almeno che non c'è bisogno di arrivare all'analisi
infinitesimale di Newton, Leibnitz e successori per avere un chiaro trattamento delle questioni
preliminari relative a concetti quali limite, serie, convergenza, etc., che sono nelle possibilità
di qualsiasi intelletto esordiente in tali elementari meditazioni. Il ragionamento di Cartesio
avrebbe potuto benissimo essere formulato ai tempi di Zenone, e sarebbe rimasto inessenziale,
mentre invece, alla luce del suo fondamentale dualismo, il grande pensatore francese avrebbe
ben potuto intravedere il giusto scioglimento dell'enigma, dal momento che la res cogitans sta
al tempo così come la res extensa sta allo spazio (cfr. pure il paragrafo 7)22.
5. Il dualismo spazio/tempo, oppure continuo/discreto
Esponiamo adesso la nostra "soluzione". Osserviamo prima di tutto che si deve riconoscere
all'Achille zenoniano un merito: in effetti sembra davvero che A non possa raggiungere T, ed
è questa circostanza che mette l'interlocutore <<di cattivo umore>>, come giustamente
evidenziava Aristotele. Gli interrogativi da porsi allora sono: Perché avviene ciò? A quali
caratteristiche degli enti coinvolti nel discorso si deve attribuire l'indubbio aspetto paradossale
delle "dimostrazioni" di Zenone? Come mai ci troviamo quasi d'accordo con l'antico sapiente,
nel negare la "possibilità razionale" del movimento?
Ecco la semplice risposta che proponiamo: l'intelletto umano non può concepire l'infinita
suddivisibilità di un segmento temporale ("segmento" ci sembra termine più preciso che
useremo d'ora in poi in luogo di "intervallo", sia per lo spazio che per il tempo, con lo
svantaggio di dover però specificare il contesto, mentre comunemente "segmento" allude
soltanto all'ambito spaziale, così come "intervallo" a quello temporale - a tale convenzione
implicita avevamo anche noi fin qui aderito), con la conseguenza che una somma infinita di
siffatti segmenti non può essere per esso altro che divergente. Un segmento temporale
consiste invero di elementi indivisibili, che vengono denominati istanti, simili ai "punti" di un
segmento spaziale, ma a differenza dei secondi, i primi appaiono costituiti solamente da un
numero finito di istanti. Ciò costringe ad ammettere l'esistenza di un segmento "minimo",
formato da due soli istanti, uno e il suo "successivo". Così, la somma di infiniti segmenti, che
coinvolge necessiter infiniti istanti, non può essere mai un segmento 23. Dette constatazioni
sono alla radice di quel mai nel brano di Simplicio!
Precisiamo il discorso (la comprensione di tutti i termini matematici che verranno utilizzati
non è strettamente indispensabile, in prima lettura). Accanto alla retta spaziale R (o retta
geometrica, o retta ordinaria, etc.), esiste - "nella nostra mente" - un'analoga retta temporale
(espressione che potrebbe prestarsi a qualche equivoco, ma che ci pare comunque legittima),
indichiamola con il simbolo T. Si tratta di un insieme ordinato, meglio spazio ordinato, che
rappresenta il tempo nell'intelletto, allo stesso modo che R vi rappresenta lo spazio, almeno
nella sua manifestazione 1-dimensionale. Le due "rette" si "assomigliano" di fatto sotto
diversi aspetti, per esempio:
1 - sono entrambe costituite da infiniti "elementi indivisibili", chiamati rispettivamente
"istanti" e "punti" (R viene descritta come collezione di punti "senza dimensione" sin dai
primordi della geometria24);
2 - possono essere (totalmente) ordinate (nell'enumerazione delle "differenze" tra R e T non
andrebbe omessa però la circostanza che T appare dotato di una struttura d'ordine naturale, o
canonica, mentre R no; se ne parlerà ancora nell'appendice), e nessuna delle due ha minimo o
massimo;
3 - introdotto il concetto di segmento di estremi due assegnati istanti, o punti, distinti a e b,
con a < b in un ordine fissato (come si accennava, in T c'è un ordine "canonico", in R bisogna
sceglierne uno tra due, ma nella presente definizione la scelta è ininfluente), quale l'insieme di
tutti quegli istanti, o punti, x tali che a ≤ x ≤ b (si tratta di un caso particolare del concetto
generale di intervallo, di cui si discuterà in appendice; specifichiamo sin d'ora che si sta
attualmente parlando di intervalli propri, attributo che si riferisce alla condizione a < b, e
chiusi), è possibile operare un confronto tra segmenti, ossia riconoscere se un dato segmento è
"minore o uguale" di un altro, dove "uguale" qui non ha nulla a che vedere ovviamente con
l'eventuale identità tra i due segmenti in oggetto (una "relazione d'ordine" di un tipo però
particolare, che si dice un preordine, si rimanda ancora l'appendice);
4 - rimane definita un'operazione algebrica (somma) non solo tra coppie di segmenti contigui
(aventi cioè un estremo a comune), che è sempre lecita, ma anche tra coppie di "classi di
equivalenza" di segmenti (l'equivalenza in questione è la precedente "uguaglianza");
5 - le due "strutture algebriche" che si ottengono sono molto "simili": semigruppi
(l'operazione è associativa), ambedue privi di "elemento neutro" (lo zero proverrebbe dalla
considerazione degli intervalli impropri, due di essi risulterebbero ovviamente equivalenti),
abeliani (cioè commutativi), regolari (vale una naturale "regola di cancellazione", a+x = b+x
implica a = b), ordinati, archimedei (cfr. il cap. VI delle dispense per le "strutture algebriche
semplici", e http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/mat/cap10.doc per le strutture algebriche
semplici ordinate);
6 - in dette strutture si può eseguire la misura di un segmento (di una classe d'equivalenza di
segmenti) rispetto a un altro; etc..
La retta spaziale R è concepita però in maniera che tra un punto e l'altro ce ne sono sempre
infiniti (anzi, come abbiamo visto nel paragrafo 2, tanti quanti quelli che esistono nell'intera
retta), sicché non c'è alcun modo di introdurre il successivo di un determinato punto (in uno
dei due ordini naturali che venga prescelto nell'ambiente). Al contrario, la retta temporale T
appare formata da istanti "separati", ogni istante ha un successivo e un precedente, tra un
istante e un altro non si riesce a immaginarne infiniti, e ne dà importante testimonianza il
linguaggio comune, che sensatamente si serve dell'espressione "istante successivo", laddove
nessuno mai parla, in un contesto spaziale, di "punto successivo". T è quello che si dice uno
spazio ordinato discreto, mentre R è invece uno spazio ordinato continuo25 (rimandiamo
ancora una volta all'appendice): insomma, R e T non sono strutture isomorfe (per inciso,
pure il fatto che lo "spazio" possa essere concepito in diverse "dimensioni", da 1 a 3, mentre il
tempo viene immaginato in una sola dimensione, è secondo noi un ulteriore elemento
significativo a favore della nostra tesi). E' lecito prendere in considerazione, sia in R che in T,
delle serie, ossia delle somme infinite di segmenti, ed ecco che dalla fondamentale differenza
strutturale tra le due "rette" procede la circostanza che deve ritenersi tanto l'origine dei
paradossi, quanto la loro "soluzione": in R esistono delle serie di segmenti convergenti, in T
ogni tale serie è necessariamente divergente.
Nota (investigazione delle leggi dell'intelletto). Il semigruppo delle classi di equivalenza di segmenti
associato a R, indichiamolo con Σ, non ha né minimo né massimo, quello associato a T, diciamolo Θ,
non ha massimo, ma ha un minimo, la classe d'equivalenza dei segmenti con due soli istanti ("il"
segmento con due soli istanti). Θ può ritenersi coincidere proprio con N = {1,2,3,...}, l'insieme dei
numeri che si dicono naturali. E' forse opportuno sottolineare esplicitamente che, in virtù della
nomenclatura proposta, la somma di due segmenti temporali, uno con m (≥2) istanti, e l'altro con n,
contiene m+n-1 istanti, poiché, in analogia con il caso spaziale, quando i due segmenti si considerano
contigui onde poter introdurre il risultato dell'operazione, essi non sono disgiunti, bensì hanno un
vertice in comune. Allo stesso modo, la misura di un segmento formato da k istanti rispetto al
segmento minimo, che ne ha 2, è k-1, e non k (tale misura potrebbe dirsi "assoluta"). Ciò nonostante,
vale l'attesa naturale proprietà additiva della misura (assoluta o no): la misura assoluta di un segmento
con m istanti è m-1, di uno con n istanti è n-1, e la misura assoluta della somma è proprio (m+n-1)-1 =
m+n-2 = (m-1)+(n-1), come desiderato (si può descrivere naturalmente la medesima fenomenologia in
modo differente, ma noi abbiamo cercato di mantenere il più possibile l'analogia tra operazioni
spaziali e operazioni temporali). La teoria della misura applicata ad R conduce all'insieme dei numeri
reali positivi, simbolo R+; applicata a T, all'insieme dei numeri razionali positivi, simbolo Q+. Nella
seguente figura abbiamo cercato di illustrare in modo elementare i fenomeni in esame, relativi alle
proprietà di una "retta discreta", senza minimo e senza massimo.
Nella prima riga si vede la misura assoluta di un segmento temporale costituito da 4 istanti, che è 3.
Nella seconda, il risultato dell'operazione di somma tra un segmento a e un segmento b, risultato s (si
intendono sempre classi d'equivalenza di segmenti). Nella terza, un esempio di misura non assoluta: la
misura di s rispetto ad a è il numero razionale 3/2 (a si può dividere in due, s no).
Nota*. Si può comprendere più a fondo la differenza tra teoria della misura sulla retta continua R e
sulla retta discreta T, notando che, introdotte le due funzioni misura µR : Σ×Σ → R+, µT : Θ×Θ → Q+,
la prima si può "invertire" dando luogo a un'applicazione R+×Σ → Σ (da cui poi si trae il famoso
"prodotto esterno" di un numero reale per un vettore, una volta che venga trattata in maniera adeguata
la questione dei segni, ossia l'introduzione di numeri reali negativi), la seconda no. Il perché è presto
spiegato. Per la misura µR vale un teorema del tipo: "comunque preso il numero reale positivo x, e un
segmento a, esiste uno ed un solo segmento b tale che a/b = x, oppure b/a = x", mentre per la misura µT
tale asserzione non può ovviamente proporsi. E' istruttivo che la dimostrazione di questo teorema
esclusivamente geometrico utilizzi o un'immersione di R nel piano ordinario P e la "teoria delle
parallele" (teorema di parallelismo di Talete), oppure la proprietà di R di essere un continuo di II
specie (vedi appendice), e che entrambe le possibilità sono precluse alla retta temporale T!
Forti delle precedenti considerazioni, torniamo all'analisi dell'Achille. Assieme alla serie
spaziale AT + TT ' + T 'T ' ' +... che l'argomento di Zenone introduce in modo esplicito (e che è
scontato sia convergente, oggi come ieri: la sua "somma" è senz'altro il segmento doppio di
AT , se continuiamo a supporre che la velocità di A sia doppia rispetto a quella di T),
l'intelletto dell'ascoltatore è costretto a prendere in considerazione (almeno in un primo
momento) anche la collegata serie dei relativi tempi di percorrenza. Indicando ancora con τ il
tempo impiegato da A per percorrere il primo tratto AT , o più precisamente il segmento di
τ
tempo compreso tra l'istante in cui inizia la corsa e l'istante in cui A si trova in T, ecco che
2
(e già questo è un concetto dal dubbio significato) dovrebbe essere il tempo impiegato da A
τ
per percorrere il secondo tratto TT ' , etc., sicché la serie temporale in oggetto sarebbe τ+ +
2
τ
+... . Ma questa appare, come abbiamo detto, divergente, per la natura intrinseca dei suoi
4
addendi, che sono segmenti temporali, mentre la situazione costringerebbe
contemporaneamente a ritenerla limitata (contenuta cioè in un determinato segmento,
attualmente il doppio di τ), e pertanto convergente. Il matematico che volesse prescindere
infatti dalla natura degli elementi della serie, la scriverebbe immediatamente nella forma τ(1+
1 1
+ +...), e direbbe che il risultato è banalmente 2τ, tra l'altro non facendo sufficiente
2 4
attenzione alla differenza tra il "tempo" τ e la "misura" di esso. Ma non si possono introdurre
tempi, né a maggior ragione una loro misura, che non esistono, i.e. che non possono essere
τ
τ
concepiti, come accade al tempo n (e non c'entra tanto il crescere dell'esponente n: già
2
2
τ τ
+ +... va considerata
2 4
divergente e convergente, la soluzione è che detta serie non può neppure pensarsi, dal
momento che non sono pensabili tutti i suoi successivi termini. [Tralasciamo la questione del
numero "pari" o "dispari" degli istanti contenuti in un segmento, che pure avrebbe diritto di
cittadinanza, istruendo, sotto l'aspetto empirico, sulla diversità tra una misura "esatta" e una
"approssimata", e, sotto quello ideale, sulla circostanza che, secondo l'impostazione da noi
proposta, non è sempre possibile introdurre nemmeno la metà di un segmento temporale come si dice, il semigruppo delle classi di equivalenza di segmenti temporali non è divisibile,
ossia, assegnato un numero naturale n, l'equazione nx = a, nell'incognita x, e fissato il
segmento a, non è sempre risolubile. Ad esempio, quando n = 2, l'equazione precedente ha
soluzione se e soltanto se a è composto da un numero dispari di istanti.] L'accennata
impossibilità è la stessa, mutatis mutandis, che ci impedisce di costruire "immagini mentali"
di spazi di dimensione superiore a tre 26, o geometrie non euclidee, etc.. Tutti enti ben
"razionali", almeno in un certo senso27, si intende, e in quanto tali matematicamente trattabili,
ma, ribadiamo, non "oggetti di intuizione". Ciò dipende dal modo con cui l'intelletto è
costituito, un "dato di fatto" che non può essere ignorato. Si crede di poter perfettamente
τ τ
comprendere la serie τ+ + +... come una serie temporale, ma in realtà si concepisce
2 4
soltanto la corrispondente serie spaziale (ossia, la serie dei relativi percorsi), o, se si
preferisce, la serie numerica delle relative misure (quando si sostituisca a τ il valore 1, come è
peraltro sempre lecito se si assume τ come "unità di misura" del tempo). I termini delle due
ultime serie specificate hanno perfetto significato nei loro ambiti di competenza, ma non ne
hanno, non ne possono avere, in veste di candidati a descrivere enti che si rifanno alla
concezione comune del tempo.
potrebbe non avere senso). Insomma, l'assurdo è che la serie τ+
1 1
+ +... viene
2 4
concepita in un tempo finito, ma che non altrettanto accade per la successione di tutte le sue
1
1 1
somme parziali: 1, 1+ , 1+ + ,..., la quale richiede almeno un istante di tempo per la
2
2 4
comprensione di un singolo termine della successione, e quindi nel complesso quello che
1
sarebbe un tempo infinito. Perciò i matematici scrivono il "termine generale" n [o la somma
2
1
−1
n+ 1
1
1
1
1
2
parziale generale, vale a dire 1+ +..+ n =
= 2∗( 1 − n + 1 ) = 2- n ] di una serie
1
2
2
2
2
−1
2
come questa, introducendo un "parametro" n, e costruendo così un'espressione che è una:
concepibile in un tempo finito, archetipo di tutte le infinite sue "specializzazioni" al variare di
n, che non importa comprendere "una a una".
Potremmo anche osservare che la somma della serie infinita numerica 1+
In altre parole ancora, appare impossibile stabilire, per le caratteristiche proprie degli enti
coinvolti, una corrispondenza biunivoca tra segmenti di spazio ideale percorso (elaborazioni
della pura geometria della retta continua ideale), e associati segmenti di tempo. Ovvero, la
nostra mente è costretta a concepire delle posizioni spaziali virtuali che non possono essere
effettive, non possono essere di fatto occupate, non esistendo un istante in cui tale
"occupazione" possa avere luogo. Una coppia ordinata del tipo posizione-istante, o spaziotempo, è quello che si dice un evento, e potremo allora pure sintetizzare la nostra opinione
asserendo che: non ogni posizione spaziale del tragitto di Achille corrisponde a un evento.
Nota. Si badi bene che ciò non accade perché i punti della retta sono irrimediabilmente "di più" (nel
preciso senso dato da Cantor a tale espressione anche per gli insiemi infiniti; cfr. per esempio
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/mat/cap5-2.doc) degli istanti temporali, che sono invece,
secondo la nostra convinzione, concepibili esclusivamente come un'infinità numerabile. In effetti,
nell'argomento di Zenone solo il numerabile ("discreto") è coinvolto, cioè una successione di segmenti
spaziali, cui non può corrispondere un'analoga successione di segmenti temporali. Il fatto è, ripetiamo
ancora una volta, che un segmento spaziale si può suddividere in un'infinità di sue parti, ancora
segmenti, per esempio effettuando successive dicotomie, mentre ciò non appare altrettanto
"intuitivamente" possibile per i segmenti temporali. Rimane in ogni caso la circostanza che la retta
temporale è, in quanto insieme, cantorianamente più piccola della retta spaziale (o di un segmento
spaziale, che è uguale all'intera retta). Vale a dire, R e T sono strutture non isomorfe, né se le si
riguarda come spazi ordinati, né come insiemi. Ritorneremo su tali osservazioni nell'ultimo paragrafo
dell'appendice, in sede di "riassunto" in termini strettamente matematici del dualismo da noi ritenuto
"soluzione" dei paradossi.
Nella spiacevole "contraddizione" in cui l'intelletto umano si trova a precipitare quando
riflette sul discorso di Zenone, ossia nel conflitto tra un modello continuo (spaziale) e uno
discreto (temporale) - entrambi indispensabili alla nostra mente per concepire il movimento,
che è appunto variazione dello spazio nel tempo - consiste, ribadiamo, l'innegabile connotato
paradossale che da secoli affascina i "filosofi" (intesi nel senso più ampio del termine). Una
sola serie, e non due; una serie convergente all'interno di un contesto continuo, laddove
invece serie all'interno di un contesto discreto sono esclusivamente divergenti; un avverbio,
quel "mai", di tempo e non di luogo; una simultanea contemplazione di due strutture
irrimediabilmente contrapposte, ecco l'essenza dei paradossi di Zenone, che ci rende di cattivo
umore, facendo "oscillare" indeterminatamente la risposta tra: sì la raggiunge / no, non la
raggiunge (a seconda che prevalga l'aspetto spaziale, o quello temporale). Il perenne lato
istruttivo di essi, all'origine del costante interesse che li circonda, risiede nella circostanza che
ci costringono a prendere atto di questo dualismo, una semplice constatazione che non riesce
a persuadere chi è ormai abituato a confondere lo spazio con il tempo, mediante una loro
pretesa comune "misura", e quindi attraverso l'unico concetto di "numero reale", che esprime
in effetti le sole misure geometriche di segmenti. Introducendo tali numeri 28 si crede di
riuscire a definire qualcosa relativa al tempo, ma si lavora in realtà unicamente con lo spazio.
Si scambia cioè la necessaria (per l'intuizione umana dello spazio) infinita suddivisibilità dei
segmenti della retta spaziale R, con una corrispondente infinita suddivisibilità degli analoghi
segmenti della retta temporale T, invece impossibile per l'intuizione umana.
Discutiamo degli esempi. Un amante prega l'amato che lo sta lasciando: rimani ancora un
secondo con me, mezzo secondo, un quarto di secondo, etc., e ciascuno capisce che gli sta
domandando invero di restare per l'eternità, e non per soli due secondi. Analogamente, non ha
alcun significato (né "pratico", e fin qui si sarebbe forse tutti d'accordo, ma neppure
"concettuale") dire, al momento di fissare un appuntamento: vediamoci tra π secondi, o ore, o
qualsiasi altra unità di misura del tempo si desideri. Lo stesso varrebbe ovviamente per 2
secondi, e su ciò converrebbero probabilmente molti, ma bisogna riconoscere inoltre che non
ha neanche senso dire, almeno a priori, vediamoci tra 7/12 di secondo. Mentre infatti non c'è
difficoltà a interpretare il numero razionale 7/12 in un contesto spaziale (è sempre lecito
costruire i 7/12 di un segmento di R), i 7/12 di un segmento temporale arbitrariamente fissato
potrebbero invece "non esistere" (si rammenti la seconda nota di questo paragrafo), sicché il
riferimento a un tale periodo di tempo potrebbe essere inteso soltanto come 7 "clic", posto 1
clic uguale a 1/12 di secondo (e presupponendo di possedere quindi uno strumento di misura
del tempo, un orologio, che misuri i clic - essi sono per noi segmenti temporali, si badi bene, e
non singoli istanti)29. Ancora, ammesso un fiat di pensiero (di "coscienza") per ogni segmento
temporale, se uno di questi fosse infinitamente suddivisibile, ecco che di conseguenza
sarebbero possibili infiniti atti del pensiero, infinite decisioni, in un tempo finito, circostanza
che appare assurda alla nostra percezione del tempo, anche perché esso è inesorabile edax
rerum: scorre e tracima con sé tutte le cose, sicché non è lecito "scherzarci sopra"30.
Concludiamo il paragrafo sottolineando che la filosofia di Kant (seppure ormai da cent'anni
sia invalsa la moda di denigrarla31, facendo del suo autore quasi il drago Aristotele contro cui
dovette combattere l'eroe Galileo) si propone quale la più conforme a risolvere l'indiscutibile
e perenne perplessità che suscita, deve suscitare, generazione dopo generazione, l'argomento
zenoniano, e ricordando come tale filosofia viene sintetizzata da Hegel, proprio in relazione al
problema qui trattato:
<<Questa è dunque la dialettica di Zenone: egli ebbe coscienza delle determinazioni contenute nelle
nostre rappresentazioni di spazio e di tempo, e ne ha dimostrato le contraddizioni. Le antinomie di
Kant non vanno oltre quanto aveva già veduto Zenone. Il risultato generale della dialettica eleatica è
stato quindi il seguente: "il vero è soltanto l'uno, tutto l'altro non è vero"; allo stesso modo che il
risultato della filosofia kantiana è questo: "noi conosciamo soltanto fenomeni". In complesso si tratta
dello stesso principio: "il contenuto della coscienza è soltanto fenomeno, non verità"; tuttavia vi è
anche una grande differenza. Infatti Zenone e gli Eleati dettero alla loro teoria questo significato: "il
mondo sensibile, con le sue formazioni infinitamente varie, in se stesso è soltanto apparenza e non ha
verità". Invece Kant è di opinione diversa ed afferma: "siamo noi che, applicando l'attività del nostro
pensiero al mondo esteriore, lo rendiamo fenomeno; e l'esteriore diventa non vero soltanto perché noi
gli applichiamo una quantità di determinazioni. Pertanto solo la nostra conoscenza, vale a dire il lato
spirituale, è fenomeno, mentre il mondo in sé è assolutamente vero; il nostro procedere lo rovina, e
l'opera nostra non approda a nulla">> (Lezioni di storia della filosofia)32.
6. Alcune prevedibili obiezioni
Non si ritenga quella precedente una conclusione scontata, largamente condivisa, anzi.
Secondo Federigo Enriques, per esempio, sulla scia del citato Tannery, i paradossi hanno
addirittura una natura solo geometrico-spaziale, senza coinvolgere il tempo: <<Il valore dei
primi due argomenti ci appare indipendente da ogni considerazione di tempo>> 33. Tanto per
accennare a un caso significativo che pur prende in doverosa considerazione l'aspetto
temporale, H. Weyl afferma esattamente il contrario di ciò che asseriamo: <<Esempi
particolarmente importanti di sistemi continui sono lo spazio e il tempo>> (loc. cit. nella nota
30, p. 46). Sulla medesima posizione si trova anche Bernhard Bolzano: <<Si deve, certo,
convenire che due istanti qualsiasi sono separati da un insieme infinito di istanti tra essi
compresi>>34. Insomma, essendo la continuità di I specie - come proporremo di chiamarla
precisamente nell'appendice - una caratteristica indiscussa dello spazio (delle sue rette), ecco
che lo spazio e il tempo vengono a essere concepiti allo stesso modo, e proprio per merito,
potrebbe sembrare, di ... Zenone! Una tentazione apparentemente irresistibile è infatti quella
di ascrivere al tempo tutte le caratteristiche possedute dallo spazio, quale unica via di uscita
dai paradossi: sarebbero questi ad additare la necessità di una "corrispondenza biunivoca"
(isomorfismo) tra la retta spaziale R e la retta temporale T. Così illustra la situazione il
nominato T. Viola:
<<riteniamo tutti e quattro i paradossi come una critica sia dello spazio che del tempo. Riteniamo poi
che, nell'intenzione di Zenone, essi debbano avere un significato unitario e precisamente [...]: 1) siano
rivolti essenzialmente ai pitagorici; 2) non riguardino la cosiddetta crisi degl'irrazionali; 3) accettino
(ritenendola già acquisita) la concezione geometrica contraria al "paleo-pitagorismo" (o pitagorismo
arcaico), ammettano cioè la concezione della densità di distribuzione dei punti di un segmento,
proponendosi di convincere i pitagorici, con intento polemico, ad accettare l'analoga concezione della
"densità di distribuzione" degl'istanti di un intervallo di tempo>> (enfasi nel testo)35.
Senz'altro ben spiegato, né si può escludere che proprio questa fosse l'intenzione originale di
Zenone, ma, ripetiamo, esattamente agli antipodi di quella che qui difendiamo come corretta:
una volta di più, invece di prendere atto reverente di una differenza (che in quanto esistente è
pure probabilmente istruttiva), si preferisce ridurre il due all'uno.
Dedichiamo qualche cenno alle principali critiche - peraltro ben note - che al nostro approccio
alla questione zenoniana possono venire mosse, in conformità con lo Zeitgeist in precedenza
sommariamente delineato. Una prima si può riassumere nel seguente interrogativo: chi può
assicurarci che l'intuizione dello spazio e del tempo siano davvero quelle qui descritte, e che
oltre tutto siano identiche per ogni essere umano? La seconda, di origine schiettamente
darwinista, aggiungerebbe: pur ammesso che quelle proposte siano descrizioni adeguate, e
universali in un certo momento dello sviluppo dell'uomo, chi assicura che siano sempre state
tali, o che lo saranno ancora in futuro?
La prima (di sapore scettico-relativistico) non ha risposta se non attraverso un'approfondita
analisi delle modalità con cui si esplica la nostra personale "intuizione" (la parola allude in
realtà più all'atto del "guardare dentro", che non all'oggetto che si indaga, vedi la nota 42).
Ciascun risultato del procedimento di intuizione lo si può determinare da se stessi, senza alcun
bisogno dell'autorità di altri, o della loro testimonianza, a differenza delle verità di natura
storica, o sperimentale, anche se il lavoro già effettuato, e registrato, può agevolare lo studio
dei fenomeni osservati, o evitare errori. Si estendono poi legittimamente le conclusioni
raggiunte a ogni essere umano in conformità a una sorta di principio di universalità (non a
caso Cartesio introduce il cogito nella forma di prima persona singolare, e non plurale).
Ammetteremmo più facilmente che la descrizione da noi proposta è sbagliata (non conforme
cioè alle reali caratteristiche delle intuizioni esaminate), piuttosto che ne possano esistere
tante diverse. La disparità delle opinioni in situazioni come la presente (che riguardano
questioni "fondamentali") può essere ricondotta a molteplici fattori. Per esempio a
insuperabili condizionamenti esterni (<<tutte queste verità possono essere chiaramente
percepite, ma non da tutti, a causa dei pregiudizi>>, Cartesio, Principia Philosophiae, Parte I,
50), o a mancanza di sincerità assoluta nell'esposizione della propria opinione (un fenomeno
più diffuso di quanto si potrebbe immaginare su due piedi, e a cui accenna T. Paine nel brano
riportato nel presente numero di Episteme - un commento dalla redazione di Episteme al libro
di G. Sebasti, subito dopo la nota 4). Né andrebbe sottovalutata l'inclinazione a scambiare
ipotesi con certezze (spesso al di là delle intenzioni dei loro primi formulatori, ma talora per
difetti di "traduzione", i famosi fraintendimenti linguistici anche all'interno della medesima
lingua, talora per l'abitudine a ripetere acriticamente il pensiero di altri, con l'effetto di
provocare gradualmente delle involontarie trasformazioni semantiche degli enunciati
originali); a voler modificare eventuali verità spiacevoli dal punto di vista di qualche
"ideologia", sostituendole allora con i propri desideri (ciò che si vorrebbe fosse, in luogo di
ciò che risulta: una tendenza aggravata dalla scarsa disponibilità ad ammettere che
quest'ultimo possa essere assai poco); a semplificare indebitamente perché ci si "stanca"
presto (<<il nostro spirito si stanca, quando presta attenzione a tutte le cose di cui
giudichiamo>>, Cartesio, Principia Philosophiae, Parte I, 73); etc.. Insomma, un ampio
prontuario di umane debolezze, che rendono a volte difficile un consenso (meditato, e non
imposto, soprattutto frettolosamente, come spesso invece intorno a noi si esige) perfino sulle
asserzioni più elementari (il consenso potrebbe del resto verificarsi pure su un dubbio, o su
un'alternativa).
Alla seconda obiezione si può rispondere che nessuno sa veramente come stiano le cose in
tale contesto, e valutare la maggiore o minore probabilità del mutare dell'intuizione. Ciò può
essere effettuato solo all'interno di concezioni teorico-sperimentali che appaiono tanto più
incerte nella misura in cui sono più ampie. Certo è che l'intuizione umana del tempo e dello
spazio sembra immutata da millenni a questa parte, anzi da tutte le notizie che abbiamo a
disposizione sui nostri predecessori (checché se ne dica). Se si leggono Platone, o Proclo, che
scrive circa ottocento anni più tardi, e poi altri secoli dopo Cartesio, o lo stesso Einstein, si ha
l'impressione di essere sempre davanti al medesimo intelletto, diverso semmai per quantità di
informazione, e di elaborazione, ma non per qualità di comprensione, di intuizione, e di
"logica" (Einstein, per giustificare la necessità di modificare in fisica le concezioni ordinarie
dello spazio e del tempo, onde poter conciliare "principi" apparentemente inconciliabili, usa
proprio tali concezioni ordinarie, il contrario sarebbe stato impossibile). Riteniamo opportuno
rammentare qui le parole di Pietro Martinetti che sono state prescelte quale motto per
Episteme N. 6, parte I, il cui "succo" è: ammessa pure come "fenomeno" la relatività di certe
opinioni, essa riposa sulla relatività della conoscenza umana degli argomenti che sono
l'oggetto di queste opinioni , non su d'una relatività storica degli oggetti in questione. Al
contrario H. Weyl afferma che: <<l'intuizione non è uno stato felice e ininterrotto: essa viene
spinta innanzi verso la dialettica e l'avventura della conoscenza>> (loc. cit. nella nota 30, p.
31), secondo noi però contraddicendosi subito dopo: <<Sarebbe follia attendersi che la
conoscenza riveli all'intuizione qualche segreta essenza delle cose nascosta dietro ciò che è
dato manifestamente per intuizione>> (p. 32). Come dire che se si possono fare (e si sono
fatti) grandi passi in avanti nell'analisi dei concetti, e nel campo dei giudizi sintetici a
posteriori (esperienza fisica), c'è meno da attendersi nell'ambito dei giudizi sintetici a priori 36.
Pensiamo che siano pertinenti al riguardo anche le seguenti considerazioni di Blaise Pascal
(spesso eccessivamente "sentimentale", qui l'intuizione diventa "le coeur", ma molto sensato):
<<Nous connaissons la vérité non seulement par la raison mais encore par le coeur. C'est de cette
dernière sorte que nous connaissons les premiers principes et c'est en vain que le raisonnement, qui n'y
a point de part, essaie de les combattre. Les pyrrhoniens, qui n'ont que cela pour objet, y travaillent
inutilement. Nous savons que nous ne rêvons point. Quelque impuissance où nous soyons de le
prouver par raison, cette impuissance ne conclut autre chose que la faiblesse de notre raison, mais non
pas l'incertitude de toutes nos connaissances, comme ils le prétendent. Car l(es) connaissances des
premiers principes: espace, temps, mouvement, nombres, sont aussi fermes qu'aucune de celles que
nos raisonnements nous donnent et c'est sur ces connaissances de coeur et de l'instinct qu'il faut que la
raison s'appuie et qu'elle y fonde son discours. Le coeur sent qu'il y a trois dimensions dans l'espace et
que les nombres sont infinis et la raison démontre ensuite qu'il n'y a point deux nombres carrés dont
l'un soit double de l'autre. Les principes se sentent, les propositions se concluent et le tout avec
certitude quoique par différentes voies - et il est aussi inutile et aussi ridicule que la raison demande au
coeur des preuves de ses premiers principes pour vouloir y consentir, qu'il serait ridicule que le coeur
demandât à la raison un sentiment de toutes les propositions qu'elle démontre pour vouloir les
recevoir. Cette impuissance ne doit donc servir qu'à humilier la raison - qui voudrait juger de tout mais non pas à combattre notre certitude. Comme s'il n'y avait que la raison capable de nous instruire,
plût à Dieu que nous n'en eussions au contraire jamais besoin et que nous connussions toutes choses
par instinct et par sentiment, mais la nature nous a refusé ce bien; elle ne nous a donné au contraire
que très peu de connaissances de cette sorte; toutes les autres ne peuvent être acquises que par
raisonnement>> (Pensées, 110).
Ancora in tema di "variabilità" dell'intuizione, per replicare a coloro, e sono purtroppo
numerosi, che invocano a sproposito la scoperta delle "geometrie non euclidee" quale
elemento capace di modificare l'umana percezione dello spazio (cfr. la nota 31), ci sembra
utile riportare la replica del filosofo e sociologo Georg Simmel (1858-1918) - parole che
sovente presentiamo all'attenzione dei nostri interlocutori, visto che nessun altro lo fa,
auspicandone una sempre maggiore diffusione37:
<<Gli assiomi geometrici sono così poco necessari logicamente come la legge causale; si possono
pensare spazi, e quindi geometrie, in cui valgono tutt'altri assiomi che i nostri, come ha mostrato la
geometria non euclidea nel secolo dopo Kant. Ma essi sono incondizionatamente necessari per la
nostra esperienza, perché essi solamente la costituiscono. Helmholtz errò quindi completamente nel
considerare la possibilità di rappresentarci senza contraddizione spazi nei quali non valgono gli
assiomi euclidei come una confutazione del valore universale e necessario di questi, da Kant
affermato. Infatti l'apriorità kantiana significa solo universalità e necessità per il mondo della nostra
esperienza, una validità non logica, assoluta, ma ristretta alla cerchia del mondo sensibile. Le
geometrie anti-euclidee varrebbero a confutare l'apriorità dei nostri assiomi solo quando qualcuno
fosse riuscito a raccogliere le sue esperienze in uno spazio pseudo-sferico, o a riunire le sue sensazioni
in una forma di spazio nel quale non valesse l'assioma delle parallele>>.
Di fronte al fenomeno dell'immutabilità di talune concezioni, malgrado tutti gli sforzi profusi
perché avvenisse il contrario, Richard L. Faber sostiene per esempio che la colpa della
mancata accettazione a livello comune delle concezioni einsteiniane dello spazio e del tempo
(alle quali accenneremo nel paragrafo 8) sia imputabile alla circostanza che idee preconcette
di spazio e di tempo sono state impiantate nelle nostre menti e rinforzate per tanti anni
(<<You will be asked to abandon some of the preconceived ideas of space and time that have
been implanted in all our minds and reinforced over many years>>, Differential Geometry
and Relativity Theory, M. Dekker, 1983, p. 110). Nonostante tali lamentazioni (la colpa è tutta
... dei maestri d'asilo), la relatività continua a mantenere il suo carattere anti-intuitivo, a
cent'anni dalla nascita, e i relativisti seguitano a rimanere in speranzosa attesa che si realizzi la
profezia adombrata nelle parole di Faber: quando il condizionamento contrario sarà
finalmente superato, i nostri figli riusciranno tranquillamente a concepire spazi a più
dimensioni, eventualmente curvi, tempi inclusi nelle dimensioni spaziali, o a "riunire le loro
sensazioni in spazi nei quali non vale l'assioma delle parallele".
In effetti, invece, nulla è veramente cambiato sotto il profilo in oggetto, a mostrare
l'inefficacia di certe "rivoluzioni", e degli affrettati proclami di vittoria di competenti
incompetenti apologeti. La condizione dell'insegnamento universitario della matematica e
della fisica è tale e quale la denunciò H. Weyl parecchi anni fa, in esso permanendo una
<<rozza e superficiale mistura di sensismo e di formalismo che [...] gode ancora di grande
prestigio tra i matematici>>38. Parole con cui l'ultimo dei grandi geometri di Göttingen
intendeva probabilmente suggerire che venisse eliminata la componente "sensista" in favore
della "formalista", la scelta del termine esprimendo implicitamente una forma di "disprezzo"
per una soluzione al problema dei fondamenti ritenuta meno "nobile". Del resto, gli stessi
intenti sembrano avere coloro che liquidano ogni approccio simile a quello da noi illustrato
tacciandolo di "psicologismo", né potremmo usare il più adeguato "intuizionismo", perché di
esso si sono impadroniti alcuni eccentrici "finitisti", che hanno dato dell'intuizione
un'interpretazione così restrittiva-riduttiva da stentare naturalmente ad avere seguito 39.
Insomma, non è stato lasciato nemmeno un vocabolo appropriato per definire senza
fraintendimenti posizioni quali la nostra40! [Come dice bene il filosofo Rocco Ronchi (vedi
questo stesso numero di Episteme, sezione Reprints, articolo N. 1): <<il massimo potere sta
nella parola. Chi parla per primo controlla l'universo>>.]
Concludiamo affermando che la lotta all'intuizione, lo sforzo di eliminare, o diminuire, il suo
indispensabile ruolo nei "fondamenti" di ogni disciplina, non è stata una conseguenza
inevitabile di un oggettivo progresso della conoscenza scientifica fattuale, bensì un
atteggiamento filosofico a priori (una moda), che viceversa ha guidato l'interpretazione di
quel "progresso" in ambienti ristretti. Questi hanno poi esercitato, venendosi a trovare in
posizione di predominio per alterne vicende, influenza sproporzionata su tutti gli altri, che
dopo un po' hanno finito con il seguire passivamente i nuovi mastri pifferai (indiscutibilmente
molto bravi da un punto di vista tecnico) anche nelle loro "stravaganze"41.
7. Un altro più essenziale rimosso dualismo, quello tra materia e spirito
Abbiamo già accennato nella nota 12 all'imperfetta corrispondenza del dualismo reale/pensato
con res extensa/res cogitans. La "soluzione" proposta nel paragrafo 5 si rifà a un dualismo
presente strettamente nel pensato, ovvero nell'intelletto (un ulteriore sinonimo è per noi
"ragione"), che non è esattamente la componente "spirituale" dell'uomo (la moderna
terminologia informatica permetterebbe di pensare al cervello come a un hardware dotato di
un ben preciso sistema operativo, un software, ad alcuni modi di funzionamento del quale ci
si può genericamente riferire con le espressioni "spazio" e "tempo"). Per quest'ultima non
troviamo (in parole) definizione migliore di quella che si deduce da taluni passi della Summa
Theologiae di S. Tommaso, dove si introduce il termine voluntas: è la voluntas che utilizza lo
"strumento" intelletto, con cui sceglie, decide42. [Esistono, nel deposito di ciò che ci è stato
tramandato dai nostri padri, degli spunti, delle riflessioni, delle parole chiave, che fanno
mettere le ali per volare in cielo, ed altri che fanno sprofondare agli inferi: alla nostra voluntas
sta appunto di "scegliere" quali.] Essa ha chiaramente a che fare anche con la questione del
libero arbitrio, e quindi con il dualismo tra determinato (caratteristico dell'ambito spirituale) e
indeterminato (proprio invece dell'ambito materiale).
Tale impostazione permette di comprendere il senso di descrizioni della scientia, o della
veritas, quali adaequatio, sia che si tratti di adaequatio intellectus et rei, secondo la nota
definizione tomistica, o di adaequatio rei ad intellectum, secondo la definizione che ne dà
invece Nicola Cusano43. Consente anche, per esempio, e la cosa ci interessa particolarmente,
di affrontare il problema della "verità" degli assiomi di una teoria matematica "fondamentale":
non c'è infatti "assioma" che da una proprietà delle strutture di base non derivi. [Con il
termine "fondamentale" vogliamo introdurre un'opportuna distinzione tra le teorie che sono
alla base della riflessione matematica - sostanzialmente soltanto aritmetica, "numeri naturali"
e "numeri razionali", riconducibile al "tempo", e geometria, "numeri reali", riconducibile allo
"spazio" - e le relative "generalizzazioni" (vedi la nota 1 dell'appendice), talora ispirate pure
da motivazioni esclusivamente ludiche.] Gli assiomi non sono semplici "convenzioni", più o
meno "utili", come riteneva Henri Poincaré, né è la sola compatibilità logica interna quella
che conta, come proponeva David Hilbert. Essi vanno invece "giudicati" in ordine alla loro
adeguatezza a descrivere oggetti "noti" del pensiero (vedi anche la nota 14). La decisione se
un determinato enunciato abbia o non abbia la richiesta qualità è di competenza esclusiva
della voluntas44.
Può riconoscersi allora senza eccessiva difficoltà che il tempo corrisponde in qualche modo
allo spirito ("flusso" dell'umana coscienza), così come lo spazio alla materia - o meglio, a
spirito e materia anch'essi in quanto "pensati", oggetti cioè di riflessione da parte
dell'intelletto. Il tempo esprime una condizione necessaria per avere consapevolezza (pensare)
della propria esistenza (in quel "presente continuo" del cogito cartesiano è implicita la durata
dell'atto), fosse pure per un "quanto di tempo". Per contro, lo spazio appare una condizione
necessaria della materia, della possibilità di concepire qualsiasi oggetto, o corpo, "materiale"
(vedi il paragrafo 9). Confrontando la descrizione precedente con quella data da Cartesio,
concordiamo con lui nel ritenere che l'estensione sia invero attributo indispensabile della
materia, mentre ci sembra che sia piuttosto il tempo, e non il pensiero, l'analogo attributo
fondamentale dello spirito (<<ogni sostanza ha un attributo principale, [...] quello dell'anima è
il pensiero, come l'estensione è quello del corpo>>, Principia Philosophiae, Parte I, 53). Ciò
sommariamente premesso, non è assurdo congetturare che l'opposizione al dualismo spaziotempo potrebbe avere quale autentico obiettivo l'altro più profondo dualismo tra materia e
spirito. E' siffatto dualismo che certo pensiero riduzionista moderno vuole davvero
combattere, negando l'esistenza dello spirito (e della "vita") in quanto forma primitiva a sé
stante del "manifestato". Non sarebbe difficile trovare numerosi esempi a illustrazione di
questa interpretazione, ma ragioni di spazio (e di tempo) ci costringono a sorvolare. [Solo un
cenno alla questione che tale riduzionismo può ben definirsi genericamente materialistico,
anche se qui riduce lo spazio al tempo (secondo noi contrapposto alla "materia"), eliminando
dai "fondamenti" la geometria in favore dell'aritmetica. La scelta non è dovuta ovviamente a
motivazioni "spirituali", bensì soltanto alla pretesa maggiore "semplicità" della seconda
disciplina rispetto alla prima. Attrae cioè l'aspetto "meccanico" dell'iterazione, preludio alle
macchine calcolatrici, e alle tesi della cosiddetta "intelligenza artificiale", un tema sul quale ci
limitiamo a ricordare l'articolo di Rocco Vittorio Macrì in Episteme N. 4.]
8. I paradossi di Zenone e la teoria della relatività
Questo scritto non sarebbe completo se non si aggiungesse un ulteriore elemento in risposta
alla prevedibile domanda: come mai una soluzione tanto semplice quale quella qui proposta è
così poco comune? Perché non la si illustra senza accenni polemici ai "predecessori", ai
"grandi" che l'opinione pubblica ha giustamente collocato nel moderno Olimpo della scienza?
In effetti, come abbiamo accennato nella nota 10, dopo il lungo oblio del medioevo (e talune
tracce di un sopravvissuto interesse per Zenone presso gli Arabi: si veda Franz Rosenthal,
"Arabische Nachrichten über Zenon den Eleaten", Orientalia, 6, 1937), la ripresa del dibattito
in proposito avviene in Europa solo nel XVII secolo, e, subito dopo il menzionato Cartesio,
spazio e tempo si trovano in qualche modo già "confusi" nella neonata "meccanica razionale"
newtoniana, mediante l'identificazione dei due concetti attraverso la loro misura espressa
tramite un numero reale. Si pensi infatti alla formula s = vt, spazio uguale velocità per tempo
(anche qui largamente usata), che viene concepita come un'identità tra numeri reali, onde
poter poi applicare ad essa gli algoritmi del calcolo infinitesimale (stiamo esaminando
ovviamente il caso di un moto uniforme). Per v = 1, nel sistema di misura prescelto, essa
implica s = t, spazio = tempo, un "vizio originale" del "modello"45 continuo di Newton,
rivelatosi comunque certamente "utile" (alcuni epistemologi "di sinistra" userebbero con
compiacimento il termine "progressivo"), perché permetteva di fare certi calcoli, e formulare
quindi certe "previsioni", in modo assai semplice, quasi automatico (che è il massimo che
riescono ad apprendere - e che ci si limita a pretendere oggi, conformando di conseguenza
l'insegnamento - molti studenti di matematica). Vale a dire che quel "vizio" non ne inficia la
corrispondenza al reale (applicabilità), almeno fino a che non si spinga il modello ai propri
limiti, come accade nelle odierne "teorie del caos" (oggi di gran moda per le loro evidenti, e
ahimé attuali, allusioni sociologiche). Basterebbe soltanto di tali limiti essere "consapevoli".
Se è già intrinsecamente non conforme a realtà il modello continuo newtoniano dello spaziotempo (se ne discuterà ulteriormente nel prossimo paragrafo), un modello continuo assai
peggiore sotto il punto di vista che ci sta a cuore è quello di Einstein-Minkowski, dove spazio
e tempo sono per così dire ancora più confusi: addirittura relativi all'osservatore, fatto che dà
inizio a tutta una serie di nuovi paradossi (molto popolare quello "dei gemelli", vedi quanto se
ne dice nel punto 4 di http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/listafis.htm). Ciò avviene in
conformità al "manifesto" che l'<<architetto formalista>> della relatività "ristretta" (aggettivo
che distingue da una successiva relatività "generale", consistente in una teoria relativistica
della gravitazione, in cui fanno la loro comparsa i famosi spazi-tempi curvi) propose a un
ambiente scientifico che di lì a poco avrebbe seguito istupidito l'ultimissima moda lanciata dai
cosiddetti "mandarini" della scienza fisico-matematica, per la maggior parte tedeschi collegati
ancora una volta all'ambiente di Göttingen:
<<The views of space and time which I wish to lay before you have sprung from the soil of
experimental physics, and therein lies their strength. They are radical. Henceforth space by itself, and
time by itself, are doomed to fade away into mere shadows, and only a kind of union of the two will
preserve an independent reality>> 46.
Parole rimaste giustamente celebri (ma per noi famigerate), che da un canto convincevano i
fisici mediante il richiamo al prestigio della matematica (che i fisici conoscono in genere
poco), dall'altro costringevano i matematici ad accogliere la necessità di certe modifiche
fondazionali, sgradite ai più, a causa di non ben precisati risultati sperimentali, di cui la
maggioranza non sapeva nulla (e che comunemente i "non esperti" tendono ad accettare come
indiscutibili "dati di fatto" - e potrebbe essere altrimenti dopo il "caso Galileo"?! - ignorando
quanto essi possano invece essere fraintesi, o manipolati 47: un esempio altamente istruttivo,
una critica al famoso esperimento degli "orologi in volo", che avrebbe confermato le
previsioni relativistiche, si trova in: http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/H&KPaper.htm). Si
tratta di un punto che andrebbe profondamente sviscerato: a quali esperimenti si riferiva
Minkowski, nell'estrema penuria che all'epoca regnava al riguardo? Incomprensioni, errori, in
qualche caso veri e propri "imbrogli", e non è assurdo pensare che le successive acquisizioni
sperimentali siano state "interpretate" alla luce del nuovo "paradigma", che man mano
soppianterà tutti i rivali48.
Ammettiamo che il concetto di spazio-tempo di Minkowski possa essere anch'esso un
"modello" utile per inquadrare determinati fenomeni, ma non certo una descrizione
"adeguata", sia pure parzialmente, della realtà. E fin qui si troverebbe magari un alto grado di
consenso, però lo scetticismo scientifico novecentesco non si accontenta di tale ovvietà, ed
erge quell'utilità a una sorta di moderno nec plus ultra per il giudizio della voluntas. Questa,
per il tramite dell'intelletto, non può che elaborare "modelli", in larga misura perfino
contraddittori, e la selezione che si può effettuare tra di essi ha per unico criterio un'eventuale
loro dimostrata "efficacia pratica", e "predittiva", che ne condiziona la sopravvivenza (un'eco
della selezione naturale darwinista applicata alle teorie scientifiche!), intesa come
accettazione da parte della "comunità scientifica", un altro termine "astratto", dietro il quale si
nascondono talvolta alcune nefandezze.
Si comprende bene allora, si spera, perché abbia stentato secondo noi a farsi strada
un'interpretazione rigorosamente dualistica del tipo da noi proposto, quando tutto lo sviluppo
della matematica e della fisica moderna, sin dalle origini, è stato largamente anti-dualistico
(i.e., riduzionista). Chissà per esempio che l'opinione di H. Weyl riportata nel paragrafo 6 non
sia stata influenzata proprio dalla sua devozione per la teoria della relatività, nei cui confronti
esprime inequivocabili accenti di entusiasmo: <<Einstein's Theory of Relativity has advanced
our ideas of the structure of the cosmos a step further. It is as if a wall which separated us
from Truth has collapsed>> (dall'introduzione della sua importante opera Raum-Zeit-Materie,
J. Springer, Berlin, 1918)49.
In tale contesto, ci piace rispondere a priori pure a chi sostenesse, e sono stati tanti nel corso
degli anni, che le nozioni da noi utilizzate (intuizione, forme pure, spazio ordinario, retta
temporale, etc.) non gli appaiono chiaramente "definite", e sono state quindi giustamente
"sorpassate". Facciamo vedere in un caso paradigmatico come siano viceversa più chiare
quelle moderne! Ecco cosa è costretto a dire un giovane fisico (cui va tutta la nostra
comprensione), per spiegare a sua volta ad altri ciò che gli è stato insegnato.
<<In effetti, già la teoria della gravitazione universale di Newton proponeva un modello cosmologico
molto semplice ed efficace, il primo modello cosmologico su basi scientifiche dell'umanità, che però
porta a paradossi ineliminabili. Secondo il modello newtoniano il tempo è infinito e lo spazio è infinito
ed è riempito uniformemente di stelle e pianeti. Con questi presupposti, per esempio, il cielo di notte
dovrebbe essere luminoso (la luce dovrebbe provenire da ogni parte dell'universo da sempre e quindi
essere infinita). Per gli stessi motivi, il campo gravitazionale in un punto dovrebbe essere infinito.
Naturalmente tutto ciò non si verifica per cui la cosmologia newtoniana va corretta radicalmente. La
Relatività Generale fornisce queste correzioni e con essa è possibile fare considerazioni sulla
geometria dell'universo perché questa teoria è in effetti una teoria geometrica. Essa afferma in
sostanza che la geometria dello spazio è prodotta dalla distribuzione delle masse. Lo spazio, ed anche
il tempo, non sono entità astratte esistenti a priori, come nella teoria newtoniana, ma sono prodotti dai
corpi>>50.
Dotare di significato, sia pure in maniera approssimativa, quel <<prodotti dai corpi>>, è
impresa che supera le forze di chicchessia. Bello è in ogni caso pensare a un tempo che viene
prodotto come un fluido dalla Terra, mentre un altro (omogeneo al primo?) viene prodotto dal
Sole, e poi ai due che si fondono insieme (ma nella relatività, peggio se "generale", non c'è
nessun "tempo", almeno nell'accezione ordinaria del termine, cui i fisici sono comunque
costretti a ricorrere quando cercano di fare opera di "divulgazione").
9. Un excursus speculativo sulla struttura della res extensa
Quello di cui abbiamo discusso, additandolo quale soluzione dei paradossi di Zenone, è un
dualismo interno al pensato (ed è nel pensato che comunque ogni riflessione gnoseologica va
a collocarsi: addirittura nel "parlato" quando, come adesso, la si comunichi ad altri - vedi la
nota 8), termine che a sua volta è componente essenziale dell'altro dualismo pensato/reale.
Vogliamo adesso speculare un po' sul "reale", per accennare alla possibilità che non sia il
modello discreto del tempo a essere non adeguato in questo discorso, bensì proprio il modello
continuo dello spazio (indubitabilmente, però, alla base della concezione mentale di esso).
Volendo fare una congettura sulla costituzione della res extensa (che, essendo una, potrà
avere una sola delle antitetiche caratteristiche: continuo o discreto 51 - o forse nessuna di
esse?!), appare plausibile innanzitutto scartare lo spazio vuoto newtoniano (ripreso poi dalla
relatività ristretta di Einstein), e proporre una teoria dello spazio fisico come oggetto materiale
dotato di ben precise proprietà (teoria dell'etere), unica strada capace di conferire razionalità
(causalità inclusa), alla filosofia naturale. Un etere che però non sia concepito nella veste di
nuovo "contenitore" sostanzialmente inerte, bensì in modo dinamico, parti del quale si
muovono "collettivamente" rispetto ad altre. Di tale etere avanzare poi l'ipotesi di una
struttura granulare, e quindi essenzialmente discreta (quantizzata), una sorta di "pulviscolo"
agitato da un perenne movimento di tipo browniano (con velocità scalare che in prima
approssimazione si può supporre costante, e dell'ordine di grandezza della famosa "costante
universale", la velocità della luce c). Naturalmente, non è possibile concepire nell'intelletto
fenomeni del genere se non immergendo il tutto in uno "spazio vuoto" che funga lui, ma solo
nella nostra mente, da "contenitore" ideale. Uno spazio "reale" (non lo "spazio reale" dei
matematici, costruito sul concetto "ideale" di numero reale, cfr. la nota 45) interamente
"materiale", l'autentica res extensa, il cui aspetto energetico sarebbe riconducibile
esclusivamente al moto. Però la materia "vera" (quella che riconosciamo tale, la materia
dotata di massa, che possiamo chiamare allora "materia pesante") dovrebbe concepirsi in
modo da permettere di distinguere un "corpo" dalle diverse "monadi d'etere" che gli stanno
intorno. Una singola "particella" materiale, costituente primitivo (elementare) della materia
pesante (che risulterà un aggregato di tante di esse), si potrebbe immaginare come una
monade confinata in un moto circolare, che mantiene una sua precisa "identità", e, pur
movendosi sempre, apparirebbe in qualche caso "ferma" (fisso cioè il suo centro ideale di
rotazione - vuoto?!). Il raggio r del moto circolare in oggetto (comunque un multiplo intero di
λ, l'"estensione" da attribuire a una monade d'etere) sarebbe proporzionale alla "massa
inerziale" della particella, e pertanto all'origine della sua capacità di provocare "effetti
gravitazionali" (attrattivi) su altre particelle, e di subirne a sua volta. Questa è manifestamente
una naturale versione aggiornata dell'atomismo democriteo52, di cui si possono trovare
sviluppi nel saggio "Ipotesi dell'etere nella vita dell'universo" (1903), di Olinto De Pretto53.
Nota. In un simile modello bidimensionale 54 c'è da aspettarsi un'asimmetria delle interazioni tra
particelle elementari, tanto più spiccata quanto minore è la temperatura dell'ambiente ("fusione
fredda"?!), e quindi presumibilmente ridotta la prevedibile ulteriore rotazione intorno a un diametro
(variabile) della circonferenza su cui avviene il moto della monade d'etere - rotazione che
tramuterebbe a tutti gli effetti la "forma" della particella in quella di una "piccola sfera". Ci sembra
interessante aggiungere che la descrizione proposta sembra in grado di interpretare un'eventuale
"dilatazione del tempo", esattamente negli stessi termini della teoria della relatività ristretta (un'altra
spiegazione, concernente lo sperimentato aumento della "vita media" di particelle in movimento
veloce rispetto alla Terra, la si può trovare nel paragrafo 3 di "Looking for Special Relativity's
Possible Experimental Falsifications", del presente autore, Episteme N. 6, Parte II, a riprova della tesi
che un medesimo "dato di fatto" si possa prestare a interpretazioni diverse). Si tratta di un'osservazione
che ci viene dal noto fisico teorico Giancarlo Cavalleri. Se supponiamo che la velocità scalare assoluta
della monade "imprigionata" nella particella elementare sia sempre c, come per le monadi in
movimento lineare, sia che la particella stia ferma, sia che si muova rispetto allo spazio (al complesso
delle altre monadi vibranti), diciamo con una certa velocità scalare v, ecco che si ha:
1 - caso della particella ferma, raggio del moto rotatorio r, velocità angolare ω = c/r, periodo T
(simbolo tradizionale, che non ha nulla ovviamente a che fare con quello prescelto per la retta
temporale!) T = 2π/ω = 2πr/c, frequenza ν = 1/T;
2 - caso della particella in moto (elicoidale), con componente traslatoria v, raggio ancora r, nuova
velocità di rotazione c' = ω'r, tale che (c')2+v2 = c2 (la velocità scalare totale deve rimanere c). Da qui si
trae: (ω'r)2+v2 = c2, ovvero: (ω')2 = (c2-v2)/r2 = ω2-ω2β2 = ω2(1-β2) (dove β è il classico simbolo per il
rapporto v/c), ossia: ω' = ω 1 − β
2
, e quindi il nuovo periodo è: T' = 2π/ω' = 2π/(ω 1 − β
(γ è l'usuale simbolo per l'inverso del fattore
1− β
2
2
) = Tγ
), mentre per la nuova frequenza risulta in
conformità: ν' = 1/T' = ν 1 − β 2 , come volevasi dimostrare. Vale a dire, un "osservatore" in moto
con la particella, che misurasse il proprio tempo in base ai ritorni periodici di essa sul punto di
partenza del moto rotatorio, riscontrerebbe un rallentamento del tempo, nella proporzione determinata,
nei confronti di un osservatore fermo, che misurasse il tempo rispetto a una "stessa" particella però
solidale con lui. [Quanto precede vale ovviamente a rigore solo per un moto perpendicolare all'orbita
della monade; in altri casi si potrebbero avanzare delle considerazioni "di media".]
La fisica quantistica moderna55 fornisce alcuni valori numerici che danno informazioni sui
possibili ordini di grandezza qui in gioco. Li riassumiamo di seguito a beneficio dei lettori,
sperando di non incorrere in sviste in un campo in cui non siamo "esperti". Si introduce una
lunghezza di Planck (quanto di spazio), diciamola λ, dell'ordine di 10-35 metri, che nella nostra
concezione potrebbe essere connessa alla dimensione della monade d'etere, cioè del vero
atomo. In corrispondenza si definisce un tempo di Planck (quanto di tempo, o cronone), per il
quale usiamo (ancora) il simbolo τ, mediante la formula λ/τ = c, dove c è la "costante" che
esprime la velocità della luce. [Ribadiamo che sia il quanto di spazio sia quello di tempo sono
enti del tipo che abbiamo denominato "segmenti", e non punti, o istanti.] Ammessa per questa
velocità un ordine di grandezza di 108 metri al secondo, ecco che il quanto di tempo verrebbe
ad avere un valore di circa 10-43 secondi. Diamo qualche esempio per poter operare meglio un
"confronto" con tali numeri piccolissimi, del tutto al di fuori della nostra esperienza ordinaria
- ciò nonostante, si può rimanere fedeli al principio che così come è comprensibile il grande,
altrettanto deve essere comprensibile il piccolo, con i medesimi strumenti concettuali, e
spiegazioni per analogia: <<Ordo et connectio idearum idem est ac ordo et connectio
rerum>> (Baruch Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata, 1675, Parte II, Prop. 7).
Per il raggio di un atomo (nel senso corrente del termine) si dà un ordine di grandezza pari a
10-11 (sempre metri), mentre per il nucleo di un atomo si propone 10 -14, cioè un ordine di
grandezza mille volte più piccolo. Le particelle che compongono il nucleo verrebbero ad
avere una dimensione che è circa la decima parte di questo valore, cioè 10 -15. Per ciò che
concerne il tempo, le particelle con "vita" più breve durano intorno ai 10-23 secondi. Il
miliardesimo di secondo, cioè 10-9 sec, appare invece una stima corretta per il minimo atto di
elaborazione di uno dei computer attuali56 (si può forse dimezzare, o dividere per 4, in
presenza di macchine più avanzate in dotazione a enti di ricerca o militari, comunque non
meglio di 10-10). Quindi siamo in tutti i casi ancora lontanissimi dagli ordini di grandezza
proposti per la monade d'etere, e per il quanto di tempo.
Tornando alla nostra questione, al trascorrere di un quanto di tempo (o di un cronone, o anche
di un clic, termine che abbiamo introdotto nel paragrafo 5, e che qui starebbe per il segmento
minimo della retta temporale), data l'identità λ/τ = c, solo la luce si è mossa di un quanto di
spazio. Possiamo pensare, come detto, che la stessa cosa si verifichi sia per le monadi d'etere
in vibrazione lineare incessante, sia per quelle che costituiscono la "materia pesante", che
orbitano intorno a un punto. C'è da chiedersi allora cosa accade per velocità minori di c, che
competono a una delle descritte particelle elementari, o a un corpo macroscopico materiale.
La risposta obbligata è: tutto sta fermo. Ossia, quando è trascorso un cronone, un "corpo" che
si muove a velocità v < c non si è spostato in realtà neppure di un quanto di spazio (anche
l'immaginare i corpi come a enti "puntiformi" rimanda al dualismo reale/pensato). Solo dopo
un certo numero intero N di "quanti" τ, si ritrova uno di questi oggetti "improvvisamente"
spostato da una posizione (da un "luogo") a un'altra, senza che esso abbia potuto attraversare
alcuna delle posizioni intermedie, né quelle pensabili, né quelle effettivamente occupabili. Ci
si può domandare anzi se a spostarsi nello spazio siano proprio le monadi d'etere (o la monade
d'etere, se si considera una singola particella elementare) che costituiscono il corpo mobile, o
se a spostarsi sia soltanto la "struttura" di moto ("campo di velocità") caratterizzante l'oggetto,
così come accade per le onde. Si potrebbe pensare in tale caso che il tempo Nτ sia necessario
perché l'intera struttura di moto di un corpo si possa trasferire in una zona adiacente, e lì
ricostituirsi completamente ma con differenti monadi d'etere57.
Siffatte speculazioni (più o meno fantasiose) presentano un evidente legame con un terzo
paradosso di Zenone, cosiddetto "della freccia", di cui non abbiamo fatto fin qui menzione
(tranne che nell'epigrafe). Aristotele ne riferisce nel seguente modo (loc. cit.): <<Finché una
cosa sta in uno stesso spazio è in riposo. Ma la freccia che vola è in ogni istante in uno stesso
spazio. E' in riposo, quindi, in ogni istante del suo volo; perciò anche durante tutto il volo il
suo movimento è solo apparente>>. In effetti, tra un clic e il successivo (è esattamente il caso
di dire, in ossequio alla struttura discreta del tempo che stiamo ipotizzando), la freccia rimane
ferma nel luogo che occupa, ma ciò non significa che non esista il movimento come
fenomeno globale: al succedersi inesorabile dei clic (ripetiamo: tempus edax rerum) la
troviamo infine spostata58.
Nota. Si potrebbe dire qualcosa in più su quella pretesa costante universale c che abbiamo anche noi
utilizzato. Conformemente ai principi ispiratori di una teoria dell'etere, si deve pensare che essa
corrisponda a una velocità caratteristica di propagazione di "onde" nel mezzo (per esempio
elettromagnetiche, ma non si può escludere che ne esistano anche altre di differente natura - pure
longitudinali, e non solo trasversali - con diversa velocità di propagazione). Una velocità che quale
velocità cinematica è uguale a c solo rispetto un osservatore solidale con il mezzo (che usi un orologio
"ragionevole"), in una sua regione "uniforme", e non rispetto a un osservatore in movimento esso
stesso nel mezzo (cioè, nessun "principio di relatività", nessuna invarianza della velocità della luce
rispetto a osservatori "inerziali", il che riporta in qualche modo al quarto paradosso di Zenone, di
natura diversa dagli altri tre: se è concepibile una velocità massima rispetto al mezzo, che si dice allora
assoluta, quale appunto la c, una velocità relativa può arrivare a essere il doppio di c). Come si sa,
nell'elettrodinamica di Maxwell tale costante c è descritta mediante la formula 1/ ε 0 µ
0
, dove ε0 e µ0
sono due "costanti" caratteristiche del mezzo, che dobbiamo però immaginare assai più
verosimilmente variabili, da una regione all'altra dello spazio, in funzione di una "densità" che non è
obbligatorio pensare sempre uguale. Per esempio, si avrebbe un certo valore di c in presenza di
significativi campi gravitazionali, ossia di grandi masse, come qui sulla Terra, e uno differente negli
spazi interstellari (dove sarebbe lecito congetturare che la luce viaggi molto più lentamente), con la
conseguenza che se si usassero strumenti di misura del tempo del tipo di quei light-clock descritti nel
citato paragrafo 3 di "Looking for Special Relativity's...", ci sarebbe da aspettarsi un fenomeno niente
affatto assurdo di "variabilità del tempo" da un punto all'altro dell'universo (ma, sottolineiamo, del
tempo "misurato", che potrebbe anche dipendere dal tipo di orologio impiegato!).
Insomma, c'è abbastanza "spazio", è proprio il caso di dire, per parecchie non inutili
speculazioni, lungo strade finora non esplorate quanto meriterebbero, che potrebbero riservare
nuove sorprendenti scoperte (pure "applicative").
10. Conclusione
Riassumendo. I paradossi di Zenone non possono essere "risolti", può esserne solo spiegata la
"radice". Riguardano le modalità con cui funziona la nostra mente ("giuste" o "sbagliate" che
siano59). Additano, in perpetuo, un'antinomia della ragione pura, un ostacolo che essa è
costretta a superare ogni volta che cerchi di concepire esattamente qualsiasi forma di
movimento. Costituiscono uno spunto di meditazione per il riconoscimento del fatto che
tempo (retta temporale) e spazio (retta geometrica) si intuiscono in modi inconciliabilmente
differenti. Il movimento esiste nella realtà, e in quanto tale non implica alcuna contraddizione:
esso è, semplicemente, come intendeva Diogene. Altra cosa è l'immagine del movimento
nell'intelletto, che deve di necessità utilizzare entrambe le forme pure, spazio e tempo,
unendole in una sintesi provvisoria ma intimamente contraddittoria. La seguente tabella
corrisponde alla concezione dello spazio e del tempo, "reali" e "ideali", che qui è stata
delineata60:
I paradossi hanno anche il merito di farci comprendere la differenza kantiana tra fenomeno e
noumeno, o tra pensato e reale. La "realtà materiale" è una sola, ma è inimmaginabile fino in
fondo nel suo divenire. Tra un clic e l'altro del tempo (del fluire della coscienza) è come se
essa cessasse di esistere, per poi riemergere dal "nulla", ripresentandosi alla nostra
contemplazione in uno "stato" diverso dal precedente, seppure ad esso causalmente collegato.
Note
1 - Nato intorno al 500 AC, fu discepolo del famoso Parmenide, pure di Elea (colonia della Magna
Grecia situata sulla costa tirrenica, nella parte meridionale della Campania, a sud di Paestum, in
provincia di Salerno).
2 - Silvia Clara Roero, Tullio Viola: "I paradossi di Zenone sul movimento", Rendiconti Seminario
Matematico Università Politecnico di Torino, 34, 1975-76.
3 - William I. McLaughlin, "La risoluzione dei paradossi di Zenone sul moto", Le Scienze, N. 317,
1994, pp. 60-66.
4 - Si veda quanto si dice a proposito di "cattivi maestri" nel punto 8 della pagina:
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/listamat.htm. Per quanto riguarda il caso specifico, citiamo da
http://plato.stanford.edu/entries/paradox-zeno/ un commento che giustamente ridimensiona il
proclama in oggetto: <<And it has been shown by McLaughlin (1992, 1994) that Zeno's paradoxes can
also be resolved in non-standard analysis [...] It should be emphasized however that -- contrary to
McLaughlin's suggestions -- there is no need for non-standard analysis to solve the paradoxes: either
system [standard mathematics] is equally successful>>. Il riferimento è naturalmente alla pseudosoluzione di cui ci occuperemo nel paragrafo 4.
5 - Per esempio, nel suo interessante Modern Science and Zeno's Paradoxes (Wesleyan University
Press 1967; 2nd edition Allen and Unwin, London, 1968), il noto filosofo della scienza Adolf
Grünbaum scrive: <<I shall deal critically with Zeno's Dichotomy and Achilles paradoxes in the
context of modern kinematics without any historical regard to what their intent might have been>>.
6 - Una breve osservazione sull'ordine con cui introdurre i due termini, ineludibile quando ci si
esprime nel tempo (chi legge, secondo le nostre convenzioni, legge la "prima" parola - o lettera - in
alto a sinistra, seguita da una ben precisa "seconda", etc.), che è il supremo ordinatore. Cioè, chi deve
essere nominato innanzitutto, il continuo o il discreto? Nell'appendice abbiamo messo al primo posto
la nozione più semplice dal punto di vista matematico, ossia il discreto, ma osserviamo che
abitualmente si parla di spazio-tempo e non di tempo-spazio. Tale scelta, ancora una volta (vedi il
paragrafo 7), non ci appare irrilevante, laddove molti alzerebbero invece le spalle, sbuffando: "quante
pedanterie, è la stessa cosa". Al contrario, abbiamo conosciuto valenti fisici-matematici che
sostenevano che il tempo fosse la cosa maggiormente rilevante, in quanto collegato allo "spirito", e di
conseguenza scrivevano la metrica lorentziana dello spazio-tempo della relatività ristretta nella forma
meno comune dt2-dx2-dy2-dz2, anziché in quella tradizionale, e invero più semplice, dx 2+dy2+dz2-dt2.
7 - Sulla limitatezza/illimitatezza dell'universo nello spazio e nel tempo; sull'esistenza/inesistenza di
"sostanze semplici"; sulla necessità o meno di una causa libera nel mondo; sull'esistenza/inesistenza di
un essere assolutamente necessario. Va da sé, attualmente "antinomia" non è intesa nel senso comune
di "contraddizione logica", né si tratta di un dualismo che possa risolversi in una "sintesi", che
mantenga parte della tesi e dell'antitesi, armonizzando la loro unione in una nuova tesi (per esempio,
questo articolo, ma ancora più il progetto di cui alla nota 9, potrebbero essere definiti tentativi di
sintesi, tra la "mathesis perennis" e la matematica contemporanea formalista). Invece, i due "corni"
delle antinomie qui in esame restano irrimediabilmente contrapposti.
8 - Si rammenta con riconoscenza l'articolo di Franco Palladino, "I paradossi eleatici e la matematica
moderna" (Periodico di Matematiche, 1982), che per primo introdusse lo scrivente alla fondamentale
tricotomia reale-pensato-parlato, e alla sua rilevanza per la comprensione delle origini del pensiero
greco, così influendo in maniera determinante sul successivo sviluppo del percorso intellettuale che lo
ha condotto alle idee qui illustrate. Citiamo dall'introduzione del lavoro alcune righe che a distanza di
anni continuiamo a trovare illuminanti: <<non per il gusto di fare "archeologia delle scienze" ma
perché la "filosofia eleatica", espressa da Parmenide e Zenone, rappresenta un passaggio obbligato per
una lucida comprensione dei rapporti tra concreto e astratto, empirico e razionale, discreto e
continuo>>.
9 - Notiamo che già qui abbiamo a che fare con un complesso di concetti "astratti", ossia "ideali",
l'introduzione di ciascuno dei quali meriterebbe un'adeguata presentazione (a cui stiamo cercando di
provvedere con un progetto di Elementi di Matematica in rete, secondo una prospettiva "kantiana":
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/mat/elementi.htm).
10 - Che non si limita solo a riportare gli argomenti di Zenone ma pure a criticarli, probabilmente
facendo sì, con la sua indubbia autorità, che la relativa discussione sia stata condizionata per secoli
dall'impostazione da lui proposta. Con il declino della cultura greca, un lungo silenzio finì poi con
l'avvolgere l'intero problema, fino alla ripresa dell'interesse in tempi moderni (cfr. anche quanto si dice
nel paragrafo 8 su Zenone e gli Arabi). Non ci addentriamo qui in un'analisi delle critiche aristoteliche,
perché confessiamo di trovarle nel complesso piuttosto oscure. Ci sembra però che esse possano
sintetizzarsi nell'affermazione dell'esistenza di un "isomorfismo" tra tempo e spazio (vedi il paragrafo
6): <<risulta necessario che anche il tempo sia continuo>> (Fisica, VI, 4). Altra nostra divergenza con
Aristotele, è che il tempo non appare indissolubilmente legato al divenire della res extensa (il
movimento, o il cambiamento), bensì a un fenomeno di natura spirituale, la "durata" dell'umana
coscienza (caratterizzata in senso cartesiano dal pensiero - sulla questione ritorneremo al termine del
paragrafo 7).
11 - Nel nostro caso, possiamo identificare nel termine "grandezze" i segmenti (propri, ovvero, non
ridotti a un singolo punto, o, come si dice anche, non degeneri) della retta ordinaria. E qui v'è luogo
per una precisazione su una circostanza che induce diverse persone in errore. L'indubbia circostanza
che un segmento sia costituito di tanti elementi indivisibili, i suoi punti, nulla toglie al fatto che esso si
possa suddividere all'infinito in segmenti più piccoli, i quali non sono mai punti, allo stesso modo che i
punti non sono mai segmenti (secondo Aristotele invece: <<è impossibile che qualcosa di continuo
risulti composto da indivisibili, ad esempio che una linea risulti composta da punti, se è vero che la
linea è un continuo e il punto è un indivisibile>>, Fisica VI, 1). Insomma, non bisogna confondere i
punti con i segmenti, e l'obiezione che una "somma" di infinite "grandezze" che hanno misura zero
(volendo includere in questo caso pure i punti) dovrebbe ancora costituire una grandezza di misura
zero, ciò che non accade certo per i segmenti, trasferisce indebitamente la proprietà additiva delle
misure dal caso finito al caso infinito (più o meno la medesima cosa quando si discuteva sull'infinito
come "numero", domandando allora se esso fosse pari, o dispari), dove qualsiasi nuova caratteristica è
sempre tutta da accertare (per esempio, introducendo anche la differenziazione ben nota di origine
cantoriana sul "tipo" degli infiniti di cui trattasi). Un insieme costituito da un numero finito di punti ha
precisamente misura zero, come è lecito aspettarsi, pretendere.
12 - Non sono in realtà proprio il medesimo concetto: preferiamo vedere nel secondo termine
cartesiano lo "spirito", che consideriamo distinto dall'intelletto, mentre quest'ultimo fa sempre parte in
qualche modo della "realtà materiale" (assieme alla funzione memoria), cioè della res extensa.
Comunque sia riteniamo che, in prima approssimazione almeno, si comprenda di cosa si sta parlando.
13 - La circostanza che mezzo passo non sia un passo riporta alla mente il bambino del famoso
giudizio di Salomone: mezzo bambino non è un bambino, e non accontenta nessuna delle due pretese
madri. Ecco un altro esempio di un "uno" indivisibile, come l'unità dei numeri naturali, mentre non
accade altrettanto per l'unità dei numeri razionali, o reali.
14 - Che alcuni chiamano "spazio euclideo", in quanto fu descritto nel III secolo AC da Euclide nei
suoi celebri Elementi. Meglio è senz'altro dire però "spazio ordinario", così come "geometria intuitiva"
appare preferibile a "geometria euclidea", naturalmente a meno che non si stia facendo esplicita opera
di esegesi del testo euclideo.
15 - Per confutare le tesi di Zenone contro l'esistenza del movimento, Diogene si sarebbe
semplicemente alzato, e messo a camminare (solvitur ambulando!). Secondo un'altra tradizione,
sarebbe stato invece il maestro di Diogene, Antistene di Atene, a sua volta un discepolo di Socrate, a
passeggiare nervosamente intorno a Zenone, al punto che questi avrebbe esclamato: "Ma la finisci di
andare avanti e indietro!", al che Antistene avrebbe risposto, lieto di constatare che la sua
provocazione aveva avuto successo: "Vedi allora che credi anche tu al movimento?".
16 - Ciò che rimanda alla tricotomia citata nella nota 8. Il linguaggio è peraltro legato al tempo, e
all'ordine da esso "imposto", come si accennava nella nota 6. Il pensiero, più complesso del
linguaggio, viene da alcuni filosofi indebitamente ricondotto nell'ambito di quest'ultimo.
17 - <<La scienza matematica era ancora per lui alquanto oscura. [...] Oh, Zenone, Zenone, povero
vecchio diavolo, non conosci il Kowalewski?>>. Questi versi sono riportati in Herbert Meschkowski,
Mutamenti nel pensiero matematico, Boringhieri, Torino, 1973, p. 41 (il testo completo della poesia si
può trovare in http://www.hirnwindungen.de/Mathe/hirn_griech_math.html). Il riferimento al
Kowalewski (Gerhard K., un allievo di Sophus Lie, laureato in matematica a Lipsia nel 1898) allude al
trattato Die Klassischen Probleme der Analysis des Unendlichen, Leipzig, 1921.
18 - Questa "intuizione" è un dato di fatto che deve essere considerato sostanzialmente immutabile
secondo la filosofia che qui ci guida, almeno finché tale resterà la manifestazione dell'umano quale noi
lo conosciamo (vedi anche quanto se ne dirà nel paragrafo 6). L'adesione all'opinione in parola, o alla
sua negazione, costituisce una discriminante fondamentale per ogni sistema di pensiero, ed è chiaro
che, come abbiamo in diverse occasioni avuto modo di sottolineare, l'influenza del darwinismo è stata
decisiva per la drammatica riduzione del numero delle persone che fanno della prima alternativa il
fondamento della propria Weltanschauung.
19 - Infinito attuale o potenziale che voglia dirsi, sempre di infinito si tratta (si rammenti il II postulato
di Euclide, che "risolve" il problema della definizione di retta con un'ammissione della possibilità di
prolungabilità "indeterminata" di un segmento). Del resto, noi non siamo di quelli che si fanno tanto
scrupolo ad accettare la presenza dell'infinito attuale in numerosi ragionamenti di matematica, in
accordo (tranne la parte finale!) con la posizione espressa da Leibnitz: <<Je suis tellement pour l'infini
actuel, qu'au lieu d'admettre que la nature l'abhorre, comme l'on dit vulgairement, je tiens qu'elle
l'affecte par-tout, pour mieux marquer les perfections de son Auteur>> (Opera omnia studio Ludov.
Dutens, Tomo II, parte I, p. 243; citato in epigrafe all'opera di Bolzano di cui alla nota 34).
20 - Usiamo questo termine anche se non è detto che una concezione atomistica quale quella che
stiamo illustrando sia necessariamente "materiale". Tale è per esempio secondo noi, come diremo, la
descrizione più adeguata della "retta temporale" dell'intuizione ordinaria, che non ha appunto nulla di
materiale.
21 - Vedi però anche quanto secondo noi più convincentemente ne dice T. Viola, nel paragrafo 6.
22 - Tali parole ribadiscono ovviamente la convinzione dell'autore che la distanza tra i sistemi di
Cartesio e Kant non sia poi così eccessiva, e che si possa fondare un "nuovo" sistema unendo parti dei
due, oltre naturalmente a quanto di nuovo e accettabile si è venuto aggiungendo nel corso dei secoli
(un'opinione questa che ci è capitato di vedere spesso aspramente rimproverata!).
23 - In termini "tecnici" attuali, condizione necessaria perché una serie numerica (e intendiamo pure
per semplicità con elementi tutti positivi) risulti convergente è che il suo "termine generale" sia
infinitesimo, diventi cioè sempre più piccolo andando avanti nella successione dei termini. In una serie
di segmenti temporali, il termine generale non appare invece infinitesimo. Val la pena sottolineare che
quella detta è una condizione necessaria, appunto, ma non sufficiente, come dimostra il famoso caso
della serie armonica 1+1/2+1/3+1/4+..., che è divergente nonostante il suo termine generale 1/n sia
palesemente infinitesimo, al crescere di n (si veda la chiara spiegazione che se ne dà in
http://www.mclink.it/personal/MC5834/anpag78.htm).
24 - I punti in Euclide sono concepiti come "segni", o "graffiti", sulla retta. La primissima delle sue
definizioni recita infatti: <<Un punto [σηµειον] è ciò che non ha parti [ου µερος ουθεν,
letteralmente: dove parte nessuna]>>.
25 - Il Dizionario Enciclopedico Italiano (1970), alla voce "continuità", riporta: <<In filosofia, il
termine designa ciò la cui percezione non si lascia scindere in tante percezioni elementari distinguibili
l'una dall'altra>>.
26 - A chi sostiene il contrario, credendo di avere risolto la questione della "quarta dimensione"
semplicemente perché sa banalmente estendere la manipolazione di coppie o terne ordinate di numeri
reali a quaterne etc. ordinate degli stessi numeri reali, basta chiedere se è in grado di "vedere" quanti
spigoli, o facce, possiede un ipercubo a n dimensioni (n > 3), o di offrire una spiegazione del fatto che
il volume dell'ipersfera di raggio 1 presenta il bizzarro noto comportamento (il suo volume aumenta
fino alla dimensione 6, per poi cominciare a diminuire e tendere addirittura al limite zero al crescere
della dimensione; insomma, tale ipersfera diventa sempre più piccola, e non, come sarebbe forse stato
lecito aspettarsi da un punto di vista "intuitivo", sempre più grande).
27 - Qui si presenta uno di quegli sgradevoli conflitti linguistici già portati all'attenzione del lettore, e
al quale vogliamo apertamente accennare. L'autore ha sovente parlato di "irrazionalità" nella fisica
(vedi ad es. la nota 19 in http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/falsper.html, o il preambolo a
"Conoscenza e potenza" in questo stesso volume), mentre adesso si nomina una razionalità della
matematica, anche nel momento in cui fornisce modelli (pertanto razionali) a una fisica irrazionale!
Sottolineiamo ancora una volta che una teoria fisica può essere definita "irrazionale" (cosa ben diversa
da non conforme alla realtà: possono darsi teorie fisiche razionali nel nostro senso, quindi
intrinsecamente coerenti, che siano però completamente "sbagliate") non quando è logicamente
assurda, i.e. auto-contraddittoria, ma semplicemente quando non è capace di costruire le sue
spiegazioni facendo unico ricorso all'intuizione, o razionalità ordinaria (servendosi cioè come
elementi base di: spazio, tempo e causalità, nell'accezione "comune" dei termini). Una distinzione che
andrebbe evidenziata mediante l'uso di altre più adeguate espressioni (da "inventare"), l'importante è
capirsi, sia pure non "immediatamente".
28 - Appare qui appropriato un rimando alla discussione sul "pitagorismo" contenuta in "Il linguaggio
della matematica" (Umberto Bartocci e Rocco Vittorio Macrì, Episteme N. 5).
29 - Bisogna riconoscere a questo proposito che in realtà il linguaggio comune utilizza espressioni
quali "pensiamoci un istante", con ciò confondendo, a nostro parere, la "monade di tempo" con il
minimo segmento τ della retta temporale, che di istanti ne deve contenere due, i suoi estremi, che
indicano l'inizio e la fine di qualsiasi "atto", compreso quello del pensare. Ribadiamo che, secondo le
"convenzioni descrittive" da noi illustrate, non si può effettuare la misura di un segmento temporale σ
rispetto a un intervallo chiuso improprio ω, consistente di un unico istante. Infatti, malgrado venga
voglia di considerare il numero di istanti n da cui è formato σ come il risultato di tale misura, la
somma ω+ω+... n volte fa sempre ω, e non σ. Insomma, ω corrisponde piuttosto allo zero, che non
all'uno (si rammenti quanto se ne diceva poc'anzi, nel punto 5, e soprattutto nella nota: investigazione
delle leggi dell'intelletto). Sottolineiamo anche che non vorremmo che l'esempio in oggetto ci portasse
in una direzione impervia che a nessuno è dato veramente di poter chiarire, il passaggio cioè dal
pensato al reale, l'oggettivazione del tempo attraverso uno strumento di misura fisico. Per il tempo non
è possibile introdurre un "campione" rigido, immutabile, che sia immaginabile conservare in qualche
museo. Nessuno sarà mai in grado di garantire che un secondo misurato oggi sia identico a un secondo
misurato ieri, sia pure dallo stesso orologio, ma lasciamo stare siffatto tipo di argomentazioni
comunque interessanti, ripetendo che si può parlare solo del tempo pensato, esclusivamente quindi di
una forma pura dell'intelletto (vedi ancora sull'argomento il paragrafo 9).
30 - Al medesimo argomento presta attenzione Hermann Weyl (nel suo comunque interessante
Filosofia della matematica e delle scienze naturali, 1949; ed. it. Boringhieri, Torino, 1967) con le
seguenti parole (alquanto vicine all'interpretazione che qui propugniamo, anche se non viene fatto
cenno esplicito al dualismo spazio-tempo, e si confonde il piano del pensato con quello del reale):
<<L'osservazione che le successive somme parziali della serie [...] non crescono oltre ogni limite,
bensì convergono [...] (che è l'osservazione con cui oggi si risolve il paradosso), è certamente
pertinente e chiarificatrice. Cionostante, se il segmento di lunghezza 1 dovesse consistere realmente di
segmenti parziali di lunghezza 1/2, 1/4, 1/8,..., a modo di unità "staccate", in tal caso l'idea che
l'Achille possa attraversarli tutti sarebbe incompatibile con la natura dell'infinito inteso come
"incompletabile". Ma se si ammette questa possibilità, non vi sono ragioni perché una macchina non
debba essere in grado di eseguire in un intervallo finito di tempo una successione infinita di atti di
decisione distinti: per esempio, dando il primo risultato dopo 1/2 minuto, il secondo 1/4 di minuto
dopo il primo, il terzo 1/8 di minuto dopo il secondo, ecc.>> (pp. 50-51).
31 - Precisamente, da quando un gruppo di matematici con smanie di innovazioni fondazionali volle
proporre un'azzardata interpretazione filosofica della possibilità razionale di geometrie "non euclidee",
introdotte senza sconvolgere nessuno una quarantina di anni prima. Un termine a quo potrebbe essere
fissato nel 1871, corrispondentemente alla pubblicazione di "Ueber die sogennante Nicht-Euklidische
Geometrie" (Mathematische Annalen, 4, pp. 573-611), da parte di Felix Klein, che suggerisce anche il
nome da allora universalmente affermatosi. [Si tratta naturalmente di un'altra delle figure carismatiche
indelebilmente connesse alla storia matematica di Göttingen. Nato a Düsseldorf nel 1849, dopo il
dottorato conseguito a Bonn nel 1868, sotto la guida di Julius Plücker, nel 1871 Klein era lecturer a
Göttingen (su raccomandazione del suo grande estimatore Alfred Clebsch, che vi insegnava dal 1868).
Fu poi professore ad Erlangen (dal 1872), Monaco e Lipsia; tornò a Göttingen nel 1886 (nel 1895 vi
fece venire Hilbert da Königsberg), e lì rimase fino alla morte, avvenuta nel 1925.] Si potrebbe
dimostrare con numerosi esempi che la nostra critica non è esagerata, qui basterà citare Carl B. Boyer:
<<In un certo senso possiamo affermare che la scoperta della geometria non euclidea inferse un colpo
mortale alla filosofia kantiana, paragonabile alle conseguenze che la scoperta di grandezze
incommensurabili ebbe per il pensiero pitagorico>> (Storia della matematica, I.S.E.D.I., Torino,
1976; Oscar Mondadori, Milano 1980, 1990, pp. 621-622), ed H. Meschkowski: <<l'esistenza della
geometria non euclidea rende impossibile all'uomo moderno di restare fermo alla concezione spaziale
di Platone e di Kant>> (loc. cit. nella nota 17, p. 87). Vere e proprie "stoltezze" (dietro cui c'è ancora
una volta lo "zampino" di Gauss - vedi quanto se ne dice proprio in fine d'appendice - che riteneva la
geometria di origine empirica, e voleva verificare con esperimenti ottici se lo "spazio reale" fosse
euclideo oppure no), divenute però slogan che continuano a essere ripetuti in ogni dove (cfr.
l'introduzione all'appendice), contro le quali lo scrivente ha in progetto un intero libro ("Storia e critica
delle cosiddette geometrie non euclidee - Ovvero, molto rumore per nulla, o per poco?",
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/mat/non-eucl.htm), che, quasi completamente terminato "a
penna", si spera possa essere elaborato al computer presto.
32 - Qui Hegel entra in chiara polemica con la critica kantiana, offrendone un'interpretazione
"pessimista": <<Si ha un enorme svilimento dello spirito, negando ogni valore alla conoscenza>>.
Senza voler affrontare una questione di enorme portata, che esula sia dai limiti che ci siamo
presentemente proposti, sia dalle nostre capacità di riflessione filosofica, l'introduzione di un altro
dualismo sembra poter fornire una soluzione all'ulteriore dilemma. Nell'opportuna distinzione tra
spirito e intelletto, si può infatti parlare di una conoscenza che proviene dal secondo e di una
conoscenza che proviene dal primo, vedi anche quanto si dice in proposito nella premessa all'articolo
"Conoscenza e potenza", pubblicato in questo stesso numero di Episteme.
33 - "La relatività del movimento nell'Antica Grecia", Periodico di Matematiche, 1921.
34 - Paradoxien des Unendlichen, 1851, postumi; ed. it. I paradossi dell'infinito, Feltrinelli, Milano,
1965, p. 69.
35 - "Paleopitagorismo, paradossi di Zenone sul movimento e critica aristotelica", in Scienza,
Linguaggio e Metafilosofia - Scritti in memoria di Paolo Filiasi Carcano, Napoli, 1980.
36 - Riteniamo per esempio che all'opinione secondo la quale la conoscenza che si ricava dai giudizi
sintetici a priori è più sicura di quella che si deriva dall'esperienza, volesse alludere S. Tommaso
asserendo che: <<intellectus est certior quam scientia>> (Summa Theologiae, II Sezione della Parte II,
Quaestio VIII, De dono intellectus, Art. 2). Al riguardo vedi anche la nota 42.
37 - Kant - Sechzehn Vorlesungen, gehalten an der Berliner Universität, 1904 (citazione da Piero
Martinetti, Lezioni su Kant, svolte presso l'Università di Torino tra il 1924 e il 1927; Ed. Feltrinelli,
Milano, 1968, p. 47). Martinetti conferma l'opinione di Simmel, sottolineando che: <<In realtà già
Kant aveva preveduto una Scienza di tutte le forme possibili dello spazio e spesso parla di altre forme
possibili dell'intuizione. Ciò vuol dire che le intuizioni pure non sono necessità logiche; sono
necessarie per la nostra intuizione, ma potrebbero esservene delle altre>>.
38 - Il continuo - Indagini critiche sui fondamenti dell'analisi, 1917 e 1932; ed. it. Bibliopolis, Napoli,
1977, p. 10 - un testo peraltro sostanzialmente illeggibile.
39 - Affermiamo ciò ben sapendo che Weyl viene considerato un caposcuola degli "intuizionisti": un
leader invero strano, a giudicare dai suoi entusiasmi relativistici (vedi il paragrafo 8, e la nota 49).
40 - Troviamo che "platonista" faccia inopportuno riferimento a una fase primitiva della riflessione su
questi argomenti, mentre a proposito di "kantiano" val la pena riferire un buffo aneddoto. A un
laureando che stava cercando di impostare una classificazione delle diverse possibili posizioni
filosofiche sulla questione dei fondamenti, e aggiungeva alle solite formalismo, logicismo,
intuizionismo, platonismo (che non tutti nominano dopo le prime tre citate) anche il termine kantismo,
un componente della commissione d'esame ha chiesto scandalizzato se sapeva citargli un matematico
appartenente a tale "corrente", eccettuato naturalmente l'autore del presente articolo, che era relatore
della tesi in discussione.
41 - Al tema fu dedicato un apposito convegno nel 1989, a Perugia: "I fondamenti della matematica e
della fisica nel XX secolo: la rinuncia all'intuizione" (Proceedings of the Conference on Foundations
of Mathematics & Physics, Umberto Bartocci e James Paul Wesley ed., Benjamin Wesley Publ.,
Blumberg, 1990).
42 - Intelligenza, e quindi intelletto, proviene infatti (a quel che pare: con certe affermazioni bisogna
andare cauti) da inter + legere, con l'inter che rafforza l'idea di raccogliere, scegliere, presente in
legere (oltre ovviamente al nostro "leggere"), d'onde già in latino il verbo intellegere (o anche
intelligere). Un'etimologia più "avventurosa" propone invece intus + legere, cioè leggere, o guardare
dentro, che riavvicinerebbe curiosamente il termine all'"intuizione" protagonista di questo articolo,
mediante un'altra comune pseudo-etimologia: intuire come intus + ire, ossia andare dentro. Al
contrario "intuire" (che i latini rendevano anche con l'espressione animo percipere - assai istruttivo dal
nostro punto di vista: sarebbe le coeur di Pascal! - o con il precedente intellegere, il che mostra
comunque una connessione almeno semantica, se non strettamente etimologica, tra i vari concetti in
discorso), deriva da intueor, intueri, ossia in + tueri, che vale "guardare dentro", ed ecco che in effetti
giriamo intorno sostanzialmente alla stessa "idea". Curioso osservare che la detta pseudo-etimologia
goda dell'illustre conforto di S. Tommaso: <<nomen intellectus quandam intimam cognitionem
importat: dicitur enim intelligere quasi intus legere>> (loc. cit. nella nota 36, ma Art. 1).
43 - Il più comune riferimento alla definizione di S. Tommaso (che concerne la veritas, o veritas
logica) rimanda alla Summa Theologiae, I, Quaestio XXI, De Iustitia et Misericordia Dei, Art. 2
(<<veritas consistit in adaequatione intellectus et rei>>), oppure, nella stessa Parte I, alla Quaestio
XVI, De Veritate, Art. 2 (<<Isaac [Isaac ben Solomon Israeli (855- 955), medico e filosofo nato in
Egitto, di origine ebraica. N.d.A..] dicit, in libro De Definitionibus, quod veritas est adaequatio rei et
intellectus>>). La chiara anticipazione kantiana di Cusano, che riguarda la scientia, si trova nel
Compendium (10, 34:20-21). Non manca naturalmente chi suggerisce di modificare la definizione
proposta dal filosofo di Kues, uno dei "padri della modernità", con: adaequatio intellectus ad rem,
trovando l'altra di stampo eccessivamente antropocentrico. Ma è poi possibile, al di là di un certo
banale limite, modificare il proprio "sistema operativo"? E' quanto ci si chiedeva, con differenti parole,
nel paragrafo 6.
44 - Federigo Enriques chiama in causa per spiegare il medesimo fenomeno la "logica della ragione",
nella distinzione che opera tra due tipi di logica: <<Il matematico che nel suo sforzo di astrazione e nel
suo desiderio di compiutezza ha purificato la logica discorsiva, si trova condotto a riconoscere che
questa logica dell'intelletto postula un giudizio superiore della ragione, che lo porta al di là delle stesse
matematiche [...] Distinguere una logica della ragione che supera la semplice logica dell'intelletto non
è comune fra i matematici. Il loro amore per ciò che è chiaro e preciso li induce volentieri a
concentrare tutta l'attenzione sui criterii meccanici del rigore formale della deduzione o della
definizione [...] La discussione sulle definizioni mostra in molti casi quale senso logico più largo
venga ad assumere il giudizio razionale>> (Le matematiche nella storia e nella cultura, Lezioni
pubblicate a cura di Attilio Frajese, Zanichelli, Bologna, 1938, p. 148). E' chiaro che qui "ragione" ha
un'accezione diversa da quella da noi proposta, in cui è sinonimo di "intelletto".
45 - Il termine modello non ci piace troppo, perché ad esso si fa oggi frequente e superficiale ricorso,
con lo scopo principale di acquietare senza troppa fatica le coscienze di fronte a problemi
epistemologici rilevanti. Per quanto riguarda invece l'attributo "continuo", nell'appendice noi lo
riserveremo in effetti a "spazi ordinati", e uno spazio reale pluridimensionale non è ordinato (anzi, non
è "ordinabile", cioè non può essere ordinato, almeno in modo compatibile con altre sue strutture
naturali che si vogliano conservare, quale quella topologica). Qui "continuo" sta allora per estensione a
indicare un oggetto che è costruito sul continuo dei numeri reali, che è sì un "autentico" continuo (in
ciascuna delle accezioni che analizzeremo nell'appendice). Val forse la pena di osservare che tutta
quest'abbondanza di specificazioni sul "reale" ha invero scarso riferimento alla "realtà", in quanto sia i
numeri reali, sia gli spazi su essi costruiti, hanno ben poco a che fare con la res extensa, e sono al
contrario enti completamente "ideali". Cioè, che la denominazione "numero reale", con quel che
segue, appare "inadeguata", e causa di ulteriori fraintendimenti linguistici del tipo che abbiamo
segnalato. Infine, a chiusura di questa lunga nota, specifichiamo che nell'uguaglianza s = t un fisico
non vedrebbe assoluta identità, dal momento che i due termini coinvolti avrebbero, come si dice,
"dimensioni" diverse, almeno nel sistema di unità di misura oggi comunemente utilizzato (chiamato
MKSQ, con riferimento a metro, chilogrammo, secondo e coulomb, l'unità di carica elettrica). Vero,
ma si tratta comunque di un primo passo verso un'identificazione che nella teoria della relatività
diventa totale, a partire dall'identità s = ct (c la velocità della luce), in cui si ponga c = 1, grandezza
scalare "priva di dimensione". In effetti, una distanza (astronomica) si misura ormai in anni (luce)!
46 - Hermann Minkowski, "Space and Time", address at the 80th Assembly of German Natural
Scientists and Physicians, Sept. 21, 1908. Con l'espressione <<architetto formalista>> si fa implicito
riferimento all'ottimo libro di Lewis Pyenson, The Young Einstein - The advent of relativity (Adam
Hilger Ltd, Bristol and Boston, 1985). Dello stesso tema Minkowski si era occupato un anno prima
(autunno 1907), rivolgendosi in quell'occasione alla Società Matematica di Goëttingen (solo nel 1915,
6 anni dopo la morte di Minkowski, Arnold Sommerfeld pubblicò il testo di questa conferenza: "Das
Relativitätprinzip", Annalen der Physik, vol. 47).
47 - Utilizziamo questi due termini per indicare gli estremi di uno spettro generale di fenomeni nei
quali ci si può imbattere in tale campo, senza scendere in analisi dettagliate. Una critica non sempre
deve infatti chiamare in causa la disonestà, o non imparzialità, dello sperimentatore (per un altro caso
esemplare vedi la nota successiva), ma appunto pure la difettosa interpretazione teorica dell'evidenza
sperimentale di cui si vuol tenere conto. In fondo, anche il fatto che il Sole si muovesse in cielo, in un
moto da Est verso Ovest, era una delle "evidenze" sotto gli occhi di tutti, prima che la circostanza
fosse spiegata attraverso un moto del nostro pianeta intorno ad esso, e non viceversa.
48 - Si veda per esempio "Efficere Deos - A proposito della costruzione del mito Einstein", in:
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/EFFIC.htm. Vi viene riportato un brillante resoconto di Marco
Mamone Capria sul valore (sulla serietà) delle "prove" raccolte in favore della relatività generale
dall'ineffabile Sir Arthur Eddington, nel 1919 prima, e nel 1924 dopo. Elemento sicuramente decisivo
per l'affermazione non più contrastata della teoria della relatività, e dell'icona Einstein, è la vittoria
degli alleati nella II guerra mondiale, con le esplosioni atomiche finali di Hiroshima e Nagasaki,
ascritte a "merito" dell'equazione "relativistica" E = mc 2. E siamo qui di fronte al solito fenomeno di
una vulgata (propaganda) frettolosa e superficiale, la quale trascura di sottolineare il "dettaglio" che
non c'è alcun bisogno di relatività per introdurre la più celebre equazione della storia della fisica.
Senza citare le numerose anticipazioni classiche della formula, pressappoco "esatte" (si veda
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/depre.html, o i punti da C ad H contenuti nella parte finale della
pagina http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/listast.htm), ne dà conferma lo stesso Einstein, che,
trascorsi parecchi anni dal 1905, anno di pubblicazione della sua breve nota sull'equivalenza massaenergia, presentò una nuova dimostrazione di essa su basi puramente classiche ("Elementary
derivation of the equivalence of mass and energy", Bull. Am. Math. Soc., 41, 1935, pp. 223-230) - un
afterthought forse riconducibile al tentativo di salvare qualcuna delle "sue" idee, nel timore, al tempo
giustificato, che la relatività potesse essere sperimentalmente falsificata? Anche l'illustre fisico italiano
Piero Caldirola ammette esplicitamente che: <<L'equivalenza tra massa ed energia può essere assunta
anche indipendentemente dai Postulati della Teoria della Relatività>> ("Applicazioni e verifiche
sperimentali della relatività ristretta", in Cinquant'anni di Relatività, a cura di Michele Pantaleo, con
una prefazione di A. Einstein, Ed. Sansoni, Firenze, 1955, p. 402).
49 - "Truth" ha iniziale maiuscola nella traduzione inglese del testo (Space-Time-Matter, Dover
Publications, New York, 1952), chissà quanto concordata con l'autore (scomparso nel 1955). Si
potrebbe pensare in effetti a un eccessivo entusiasmo del traduttore, tenuto conto che nella versione
originale il corrispondente "Wahrheit" doveva avere necessariamente l'iniziale maiuscola, perché così
si usa in tedesco con tutti i sostantivi.
50 - http://www.arrigoamadori.com. Il brano (che tra l'altro non spiega bene perché nello spazio
infinito debbano necessariamente esistere infinite stelle e pianeti) fa riferimento al cosiddetto
"paradosso di Olbers", che si spiega agevolmente, almeno da un punto di vista qualitativo, con la
"teoria dell'etere" (cfr. paragrafo successivo), vedi: http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/olbers.html.
Aggiungiamo che certe critiche sarebbero state più apprezzabili ai tempi in cui si levavano al cielo
peana in favore della cosmologia di Newton, a detrimento di quella di Cartesio, tanto più che si tratta
di osservazioni semplicissime, che non abbisognano di alcun progresso nella conoscenza sperimentale
per poter essere formulate. Senza offesa per nessuno, la situazione fa venire alla mente il deprecato
Giuseppe Casazza, che in un testo del 1923 così ardiva esprimersi (riportiamo il pezzo per
divertimento dei lettori, osservando che, secondo noi, l'autore più di un briciolo di ragione ce l'aveva):
<<Agli esami di fisica. - Che cosa è il tempo? - E' lo spazio. - Bene. Ditemi quante sono le dimensioni
dello spazio. - Le tre dimensioni dello spazio sono quattro: lunghezza, larghezza, altezza e ... tempo. Bravo. Sapresti dirmi cosa devesi intendere per velocità infinita? - Per velocità infinita intendesi quella
di 300 mila Km al secondo. - Che intendete per secondo? - Per secondo intendo un tempo che risiede
nella mente del prof. Einstein, residente a Berlino. - Quindi capirete, neh vero, che anche il valore
della velocità della luce, per logica conseguenza, risiede nella mente del non mai abbastanza esaltato
prof. Einstein. - Sì. - Bravo, andate al posto, farete carriera>> (Einstein e la commedia della relatività,
Milano, 1923, pp. 152-153; citato da Roberto Maiocchi, Einstein in Italia - La scienza e la filosofia
italiane di fronte alla teoria della relatività, Ed. Franco Angeli, Milano, 1985, p. 69).
51 - Il principio di complementarità di Niels Bohr, che, per salvare le apparenze, attribuisce a un
medesimo ente fisico talvolta caratteristiche di corpuscolo (discreto), talvolta di onda (continuo), è
l'ultima spiaggia di un approccio alla filosofia naturale incapace di scorgere le antinomie esistenti nei
suoi stessi principi, e cerca di conciliare con un "assurdo" (ne bis in idem) la compresenza di
descrizioni continue della realtà (quelle elaborate dalla fisica-matematica post newtoniana, di grande
successo al tempo stesso applicativo e ideologico, e pertanto irrinunciabili) e di una sua verosimile
struttura fondamentale discreta, cui stiamo qui accennando. Non è difficile aspettarsi poi che
"particelle" in movimento nello spazio reale diano origine a un fenomeno nel quale si manifestano
entrambe le caratteristiche in esame: la corpuscolarità in quanto alla particella, l'ondulatorietà in
relazione all'onda generata nel mezzo dal moto del corpuscolo (come una barca che si muove sulla
superficie di un lago, o meglio un sottomarino che naviga nelle profondità del mare). Si veda in
proposito anche la nota 6 della "Letter from the Editor to the Readers", nella parte II del numero 6 di
Episteme.
52 - Non è questa purtroppo l'opinione di Cartesio, il quale inclina verso una suddivisibilità della
materia in infinitum, o quanto meno in indefinitum: <<Così, poiché non sapremmo immaginare
un'estensione sì grande da non concepire in pari tempo che può essercene una più grande, diremo che
l'estensione delle cose possibili è indefinita. E poiché non si potrebbe dividere un corpo in parti sì
piccole, che ognuna di queste parti non possa essere divisa in altre minori, noi penseremo che la
quantità può essere divisa in parti, il cui numero è indefinito>> (Principia Philosophiae, Parte I, 26;
ribadito nel principio N. 20 della Parte II: <<Che non possono esservi atomi o piccoli corpi
indivisibili>>). Qui pare proprio che Cartesio commetta l'errore di confondere il reale con il pensato,
e, a parte quello inferiore, ci sarebbe da discutere anche su ciò che riguarda un eventuale limite
superiore dei corpi materiali. Si veda per esempio De Pretto (loc. cit.), quando avanza la ragionevole
ipotesi che non possano esistere masse maggiori di un certo valore: stelle troppo "grosse" si
spezzerebbero, dando origine al fenomeno delle stelle doppie. Insomma, il succo di questo paragrafo 9
è che nella materia propriamente detta non esistono né l'infinitamente grande (questo consisterebbe
solo nell'estensione dell'etere-spazio, non della "materia pesante"), né l'infinitamente piccolo: entrambi
si danno soltanto nella nostra mente, così che l'uomo sembra davvero potersi proporre come misura di
tutte le cose (µετρον παντων), secondo la famosa definizione di Protagora.
53 - In questo scritto (integralmente reperibile in: http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/st/mem-deprvf.htm) si tenta anche una spiegazione della gravitazione come "pressione" di origine fluido-dinamica
(quindi non una proprietà dei corpi, bensì dello spazio materiale che li circonda). Per il "caso De
Pretto" in generale, le relazioni di tale studioso con Einstein, e la famosa equazione sull'equivalenza
tra massa ed energia, si vedano i punti da C in poi della pagina:
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/listast.htm.
54 - Si tratta naturalmente di un primo "rozzo" schema per immaginare le proprietà discontinuediscreto-granulari dello spazio fisico reale (i.e., "materia", in due "stati" differenti, di monade d'etere
indifferenziata, e di "materia pesante"). Di fronte alla complessità della fenomenologia, nulla esclude
la possibilità di introdurre due monadi d'etere distinte ("positiva" e "negativa", "calda" e "fredda",
etc.), o una sola monade che sia però "strutturata", come si accenna nell'indefinibile libro di Jean-Luc
Chaumeil (Le trésor des Templiers et son royal secret: l'Aether, Guy Trédaniel Éd., Paris, 1994). In
esso si descrive una dottrina segreta e tradizionale dello spazio reale, secondo la quale: <<L'Aether
occupe et remplit l'univers tout entier. C'est un océan sans limite formé de "petits êtres diaphanes et
imponderables" qui pénètrent tous les corps et "ont la forme de petits serpents, tels qu'ils sont
représentés sur les abraxas" [...] Tous les phénomènes qui se produisent dans la nature, depuis la
formation et la gravitation des astres, jusq'à la création des corps inertes et des êtres animés, sont
"l'oeuvre de l'aether">> (p. 292). Citiamo tali parole anche perché l'autore si riferisce a ricerche degli
anni '30 (comunicate a varie autorità francesi dell'epoca), e la moderna "teoria delle stringhe" viene
costruita solo alla fine degli anni '70. Per non dire della circostanza che l'autore introduce diversi
"colori" (blanc, rouge, bleu-noir, jaune), che in numero di quattro formerebbero i "serpentelli",
<<chacun des petits serpents [...] est composé de quatre noyaux ou atomes>>, mentre per i sei tipi di
quark (in realtà, tre quark e tre anti-quark), ipotizzati nel 1963 dai fisici americani Murray Gell-Mann,
premio Nobel 1969, e George Zweig) si parla esplicitamente di "colore" (una nozione presentata da
O.W. Greenberg, M.Y. Han, Yoichiro Nambu nel 1965; ma i colori dei quark sono solamente tre, e
precisamente rosso, verde e blu).
55 - Un complesso di teorie che, data la scomparsa dell'etere decretata da Einstein nel 1905 (salvo a
successivamente "pentirsi", e ritrattare in parte: cfr. la recensione a Ludwik Kostro, Einstein and the
ether, Apeiron, Montreal, 2000, in Episteme N. 3), sono state costrette a fare ricorso alle famose
interpretazioni "irrazionali" (vedi nota 25), analizzate secondo il "giusto" punto di vista nell'ottimo:
Franco Selleri, La causalità impossibile - L’interpretazione realistica della fisica dei quanti (Ed. Jaca
Book, Milano, 1987). Si può aggiungere che qualche "frammento" delle presumibili proprietà
dell'etere viene talora reintrodotto, seppure in sordina.
56 - Il valore indicato può apparire strabiliante, ma così non è, come mostra il seguente esempio. Data
la semplice equazione algebrica in due incognite (del tipo cosiddetto di Pell): x2-991y2 = 1, della quale
si cercano soluzioni intere positive, si sa che la più piccola soluzione possibile (in effetti ce ne sono
infinite) comporta ben 30 cifre decimali. Si pensi di volerla determinare con l'ausilio di un computer,
cominciando a porre y = 1, y = 2, etc., e chiedendo alla macchina di valutare se l'espressione 1+991y 2
è oppure no un quadrato perfetto. Dopo quanto tempo il computer ci risponderebbe affermativamente?
Facciamo qualche calcolo. Il numero dei secondi trascorsi dal big-bang fino a oggi (peraltro un evento
"mitico" della cui "realtà" vari articoli pubblicati su Episteme hanno dubitato), considerandolo
avvenuto 15, 17, o perfino 20 miliardi di anni fa, sono dell'ordine di 10 18 (infatti, in un minuto ci sono
60 sec, in un'ora 60 minuti = 3600 sec, in un giorno 24 ore = 24∗3600 = 86.400 sec, in un anno circa
365∗86.400 = 31.536.000 sec, una quantità non superiore a 4∗107 sec, e in 20 miliardi di anni, ossia
2∗1010 anni, ci sono non più di 8∗1017 sec, vale a dire non più di 10 18 sec, approssimando sempre
largamente per eccesso). Allora, se ogni verifica venisse effettuata anche solo in un decimiliardesimo
di secondo, cioe' 10-10 secondi, per arrivare a 10 30 ci vorrebbero comunque 1020 secondi, e quindi
parecchi miliardi di anni, cento volte più che tutto il tempo passato dalla pretesa origine dell'universo a
oggi. Eppure, la mente dell'uomo è riuscita a trovare il risultato esatto in molto meno.
57 - Questa è esattamente la fisica unifenomenica cartesiana (di cui all'articolo di Rocco Vittorio
Macrì citato alla fine del paragrafo 7): tutta la molteplicità del reale non è altro che apparenza di
diversi movimenti dell'etere, come descritto nel voluminoso La teoria delle apparenze di Marco
Todeschini (vedi: http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/todes.html). Un'interessante ripresa di siffatti
motivi (che, nonostante le forze contrarie, si ripresentano e si ripresenteranno inevitabilmente,
generazione dopo generazione) è offerta da Fred Evert, nel suo sito http://www.evert.de/eft00e.htm.
Tale autore afferma esplicitamente: <<There are no solid bodies wandering through universe - only
their motion-pattern of ether are moving through ether>>.
58 - Se si desidera pagare qualche tributo agli idola del pensiero scientifico del XX secolo, si può fare
menzione in tale contesto al principio di indeterminazione di Heisenberg, ma è chiaro che secondo noi
non si tratta altro che dell'inconciliabile contrasto tra il continuo e il discreto nella nostra mente,
quando viene chiamata a percepire qualsiasi tipo di "dinamica".
59 - E' chiaro che optare per la seconda alternativa implica un'ulteriore denigrazione antiantropocentrica dell'"umano", attraverso una riduzione della sua componente "divina". Si rammenti
anche l'osservazione di Spinoza riportata nel precedente paragrafo 9.
60 - Dovrebbero essere ormai palesi le motivazioni alla base della mancata indicazione di un "tempo
reale". Il tempo appartiene esclusivamente al dominio della coscienza, e non della res extensa, cui è
proprio solo il cambiamento. Si può parlare comunque di un tempo fisico misurato (vedi peraltro la
nota 29, e quanto se ne dice nel paragrafo 9: un punto di vista appena abbozzato, che si potrebbe
convenientemente approfondire), ed esso sarebbe presumibilmente ancora discreto.
*****
Un ringraziamento speciale deve essere rivolto alla Dott.ssa Annarita
Pietrantozzi, che si laureò in matematica presso l'Università degli Studi di
Perugia nell'A.A. 1982-83, con un'ottima tesi dal titolo "Il ruolo dei paradossi di
Zenone nel problema dei fondamenti della matematica" (qui ampiamente
utilizzata), e che da allora lo scrivente, il quale fu relatore della tesi in parola, ha
purtroppo perduto di vista, rimandando il momento della definitiva elaborazione
di certi concetti per oltre vent'anni.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme.]
[email protected]
24
25
(La copertina della IV edizione, 1912, del saggio
di Richard Dedekind dedicato al problema del "continuo"
dal sito http://www-math.sci.kun.nl/werkgroepen/gmfw/bronnen/dedekind2.html)
Appendice sulle definizioni matematiche
di discreto e continuo
Salomon saith, There is no new thing
upon the earth. So that as Plato had an imagination,
that all knowledge was but remembrance; so Salomon
giveth his sentence, that all novelty is but oblivion.
Francis Bacon, Essays, LVIII (da J.L. Borges, L'Aleph)
1. Introduzione
Nella precedente discussione dei paradossi di Zenone, abbiamo fatto innumerevoli volte
ricorso, in modo essenziale, alle nozioni di discreto e continuo, senza che di esse venisse
offerta una "definizione" precisa, secondo i canoni della matematica moderna. Ci è parsa
quindi opportuna un'appendice che rispondesse a tale esigenza, tanto più che resterebbe
sorpreso chi pensasse di rinvenire facilmente delucidazioni in proposito nella "letteratura"
corrente. Colui che cercasse una siffatta definizione per il continuo, potrebbe imbattersi in
osservazioni come: <<Il termine assume in campo matematico una pluralità di significati>>
(Grande Dizionario Enciclopedico, UTET, 1986), seguita di solito da una serie di illustrazioni
dell'annunciata polisemia, nessuna delle quali sarebbe però, secondo noi, "giusta". Per
esempio, a parte i concetti di "continuità" di una funzione, o il "postulato di continuità" della
retta ordinaria (di cui ci occuperemo nel par. 5), troverebbe che in topologia si dice continuo
uno spazio topologico <<che sia contemporaneamente connesso e compatto>>, o che in
teoria degli insiemi si dice potenza (o cardinale) del continuo quella dell'insieme dei numeri
reali (in simboli: R). In aggiunta a queste due nozioni, troverebbe un trattamento algebrico
della questione, che indaga le proprietà di particolari ordini compatibili con determinate
strutture algebriche (teoria dei campi ordinati, specialmente il teorema di unicità di un campo
ordinato completo archimedeo, punto culminante dell'approccio assiomatico-formale alla
costruzione dei numeri reali), e fa intervenire una nazione, appunto l'archimedeicità, che,
come vedremo, appare invece del tutto estranea all'essenza del continuo. Quasi la stessa cosa,
ancorché si tratti di problema assai più semplice, per il termine "duale" discreto, che viene
utilizzato in contrapposizione a continuo, ma senza che siano chiariti quanto si vorrebbe né
l'uno né l'altro. Curioso riscontrare per esempio che in un intero libro intitolato Il discreto e il
continuo (Willem Kuyk, Boringhieri, Torino, 1982), un'opera del resto interessante e alquanto
avanzata dal punto di vista "tecnico", non è riportata alcuna delle ricercate definizioni (ci
sembra, neppure quella topologica sopra menzionata, che peraltro criticheremo nel par. 8), ma
solo considerazioni di taglio insiemistico, assieme a un vago (ma in ogni caso corretto)
accenno del tipo: <<dopo aver formato, attraverso un complicato processo di apprendimento, i
concetti di continuo (le "entità" geometriche) e di discreto (le "entità" dei numeri naturali), la
mente umana gode di una grandissima libertà nell'operare con essi come "materiale base" per
la costruzione di "strutture">> (p. 10)1. Né di più rinverrebbe ne Il continuo... di Hermann
Weyl (loc. cit. nell'articolo precedente, d'ora in avanti "Zenone", nota 38), nonostante il
relativo capitolo II si chiami "Il concetto di numero e il continuo - Fondamenti del calcolo
infinitesimale", perché vi si fa unico riferimento all'uso cantoriano di attribuire il termine
continuo alla totalità dei numeri reali: quindi, occuparsi del continuo significa, da questa
prospettiva, illustrare la meticolosa costruzione di tali numeri che segue.
Insomma, si tratta di merce che, ed è davvero incredibile, non è di facile reperimento, e
corrispondentemente non è neppure comune oggetto di insegnamento nei corsi di matematica
(che poi questa sia una causa o un effetto - o entrambi, in virtù dell'instaurarsi di un feedback
attualmente niente affatto "virtuoso" - resterebbe da stabilirsi). Per quanto ne sappiamo, non
ce n'è traccia negli ordinari testi di Algebra e Geometria adottati nelle università italiane
nell'ultimo mezzo secolo (né tanto meno nelle lezioni di Analisi Matematica - con qualche
eccezione, e in ogni caso relativa a presentazioni parziali dell'argomento, nelle più "vecchie"),
né in quelli che sono stati guida nel fissare il "canone internazionale", quali il Van der
Waerden (Moderne Algebra, 1931), il Birkhoff-Mac Lane (A Survey of Modern Algebra,
1941; poi Mac Lane-Birkhoff, Algebra, 1965 - ottimo sotto molti punti di vista), il Godement
(Cours d'Algèbre, 1966), e ancora le opere di Nathan Jacobson, Serge Lang, etc.. C'è da
domandarsi se l'assenza di attenzione verso i temi su cui verteranno le nostre riflessioni debba
indurre a farli ritenere marginali: ma è veramente legittimo qualificare tali delle questioni da
sempre riconosciute alle radici più autentiche e profonde della matematica? (nei libri nominati
si troverebbe invece un sacco di teoria degli insiemi, dei gruppi,...).
Come dire pure che la presente appendice è un esempio delle "riscoperte" che si compiono
quando, ai giorni nostri, si affrontino certe tematiche con una prospettiva diversa da quella a
cui intere generazioni di matematici sono state acriticamente abituate sin dai primi anni della
loro formazione, che prevede una sorta di condizionamento a ripetere stancamente gli slogan
che hanno caratterizzato il dibattito sui fondamenti all'inizio del '900, tra tanta apparente
molteplicità di posizioni, ma in effetti un unico atteggiamento mentale, caratterizzato da una
miscela - variabile, questa sì, da individuo a individuo - di scetticismo, relativismo,
nichilismo, pragmatismo, tutte espressioni dell'"anti-umanesimo post-darwinista" che
denunciamo sovente2. Appare prova della correttezza di tale descrizione quanto ebbe a
rispondermi poco tempo fa un valente collega, al quale chiedevo lumi sulle definizioni che
andavo cercando: <<non so risponderti; aggiungerò che non ho mai capito cosa si debba
intendere per "matematica discreta"; fra l'altro le due parole "discreto" e "continuo" vengono
spesso usate come se avessero significati opposti e complementari. Proprio non so>>. [Si
veda inoltre la discussione su "The notion of continuity applied to sets" che è riportata in
http://www.physicsforums.com/archive/t-7501.]
(Quanto precede vale naturalmente al meglio della nostra "onesta" conoscenza. Saremo lieti di
aggiornare le informazioni fornite con altre desunte da eventuali segnalazioni dei lettori, di
cui daremmo notizia nel prossimo numero di Episteme.)
In effetti, come sostenuto in "Zenone", continuo e discreto sono concetti sicuramente
contrapposti, che si rifanno, nell'ordine, al dualismo spazio-tempo, e quindi a quello
geometria-aritmetica, e si è costretti a ritenere che solamente una deplorevole filosofia della
matematica3 sia responsabile dello stato di cose dianzi descritto, con la sua pretesa di essere
riuscita a <<sostituire al continuo geometrico il continuo "aritmetico">> (enfasi nel testo),
così afferma, in piena conformità alla corrente vulgata, Corrado Mangione ("Logica e
problema dei fondamenti nella seconda metà dell'Ottocento", in: Ludovico Geymonat, Storia
del Pensiero Filososofico e Scientifico, Garzanti, Milano, 1970; nuova edizione 1976, vol. VI,
p. 361). L'autore cita poi con compiacimento Bertrand Russell, quando ne I princìpi della
matematica4 sostiene il seguente discutibilissimo punto di vista (niente a che fare con la
matematica intesa quale scienza dai contenuti oggettivi, "trascendentali", e pertanto
universalmente condivisibili, ossia la mathesis universalis di Cartesio, e di Leibnitz),
espressione di un rozzo anti-kantismo: <<Si supponeva un tempo, e qui sta la vera forza della
filosofia della matematica di Kant, che la continuità avesse un riferimento essenziale allo
spazio e al tempo [...] Secondo quest'ipotesi la filosofia dello spazio e del tempo precedeva
quella della continuità [...] Tutto ciò è mutato per opera dei matematici moderni. Ciò che si
chiama l'aritmetizzazione della matematica ha fatto vedere che tutti i problemi presentati, a
questo riguardo, dallo spazio e dal tempo, sono già presenti nell'aritmetica pura. [...] [Sicché
risulta ora possibile] dare una definizione generale di continuità, senza fare appello a quella
massa di pregiudizi non analizzati che i kantiani chiamano "intuizione">> (cap. XXXII).
Dichiarazioni dicevamo comunemente accettate, che sono all'origine della denunciata
carenza, tanto più deprecabile quanto gli elementi matematici necessari per risolvere con
piena soddisfazione la questione sono tutti ben noti 5. Nel campo della filosofia matematica,
nessuno più indaga con attenzione e spirito critico i fondamenti, osando semmai fare opera
"rivoluzionaria", cioè volgere indietro la prua della barca: del monumento eretto alla fine del
XIX secolo e nei primi decenni del XX si esegue solo l'ordinaria manutenzione6.
Quella cui ci accingiamo sarà dunque principalmente un'impresa di scelta di definizioni, e di
loro confronto, un'attività che riteniamo essenziale per un matematico-filosofo, a maggior
ragione se "insegnante" (a proposito dell'intenzionale commistione di due categorie di
studiosi, usualmente mantenute distinte, al punto che matematica e filosofia appartengono a
due facoltà universitarie differenti - la prima essendo assurdamente inserita tra le scienze
sperimentali, la seconda tra quelle letterarie! - rammentiamo che Gottlob Frege ebbe a dire,
con molta ragione, che: <<Every good mathematician is at least half a philosopher, and every
good philosopher is at least half a mathematician>>). Asseriamo ciò in accordo con l'opinione
di Federigo Enriques: <<Il significato della matematica, pur considerato nel suo aspetto
logico, apparirà in una luce assai diversa se, in luogo di guardare alle dimostrazioni, si guardi
piuttosto alle definizioni, mercé cui si costituiscono oggetti di studio via via più elevati>>
(loc. cit. nella nota 44 di "Zenone", p. 145) 7. Aggiungeremmo che un'opportuna scelta delle
definizioni permette di raccogliere, e coordinare mettendone in evidenza le relazioni, diverse
verità pertinenti a una data fenomenologia matematica, che così riesce descritta in un modo
armonioso, e non già come insieme di fatti isolati, di cui rimane difficile comprendere le
ultime e intime ragioni.
Osserviamo che, per ovvi motivi, le pagine seguenti saranno fruite meglio da chi ha già
qualche dimestichezza con il "gergo" della matematica (a mo' di riferimento indichiamo le
nostre dispense di Algebra, d'ora in avanti definite semplicemente "dispense": vi si può
accedere dalla pagina: http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/mat/alg-prog.htm). Si auspica
però che la loro essenza sia alla portata di tutti, dal momento che si tratta di questioni
importanti (cioè, non esclusivamente per "specialisti"), e non troppo difficili da intendere.
Come dire che, nello spirito del commento di Frege sopra menzionato, bisognerebbe essere in
grado di comprendere almeno il senso delle definizioni, e degli enunciati dei teoremi, o di
alcuni di essi. Perciò, talune dimostrazioni sono state solo accennate (fornendo comunque, nei
casi che si potevano ritenere meno banali e/o noti, ogni elemento perché sia poi possibile
perfezionarle in proprio), e abbiamo segnalato con un asterisco le parti che potrebbero essere
omesse in prima lettura da coloro meno familiari con certo linguaggio (i quali potrebbero
omettere anche tutto ciò che si riferisce maggiormente a concetti di natura topologica, o alla
complessa terminologia - ma niente di più - dell'algebra "astratta").
Avvertenza. Nonostante al complesso del presente lavoro si sia riflettuto, lo si è detto in
"Zenone", per molto tempo, pure la sua redazione finale ha sofferto della cronica carenza di
quest'elemento così importante nella vita di ogni essere umano, e che costituisce uno dei
protagonisti "gemelli" del nostro studio. Si spera di non essere incorsi in troppe sviste,
soprattutto nell'appendice, e che esse siano comunque di tipo veniale, tali cioè che la relativa
correzione non debba richiedere un eccessivo lavoro di bisturi. Annunciato che un eventuale
errata corrige verrà inserito nel prossimo numero della rivista, si ringraziano in anticipo quei
lettori che vorranno cortesemente aiutarci nel lavoro di revisione che non si è purtroppo
potuto compiere finora, come sarebbe stato invece auspicabile.
2. Insiemi, spazi ordinati e spazi topologici*
Per quanto riguarda definizioni che potremmo definire "generiche", perché non strettamente
matematiche, ma in ogni caso istruttive, citiamo, oltre a quella contenuta nella nota 25 di
"Zenone", il prezioso collaboratore di Episteme, Bruno d'Ausser Berrau (comunicazione
privata): <<dal punto di vista della nostra percezione, un insieme fenomenico può definirsi
discreto allorché la sensazione da esso trasmessaci sia scindibile in un sottoinsieme di
sensazioni elementari relative ad oggetti nettamente distinguibili l'uno dall'altro. Al contrario,
se per un altro insieme di fenomeni le sensazioni elementari relative alle sue parti non siano in
alcun modo differenziabili, siamo alla presenza di un continuo. Il continuo ci appare
nettamente associato al contiguo pel quale è continuo ciò che è composto da elementi i cui
limiti si toccano e si confondono>>. Tali riflessioni fungendoci da guida, cominciamo con
l'uscire nettamente da un equivoco: in matematica, l'unico ambito dove sia possibile precisarli
in modo esauriente e rigoroso, i concetti di discreto e continuo non hanno a che fare (almeno
preliminarmente) né con la teoria degli insiemi, né con la topologia, né con strutture
algebriche, etc., bensì con la pura e semplice categoria dell'ordine8. Ovvero, si tratta di due
attributi specificativi che possono essere associati esclusivamente a quello che diremo uno
spazio ordinato, termine con cui intenderemo un insieme X dotato di una struttura d'ordine
totale ω, sicché uno spazio ordinato verrà indicato con il simbolo (X,ω). La relazione ω
permette di confrontare tra loro elementi di X, ossia di stabilire, dati due qualsiasi elementi x,
y ∈ X (a ciò allude la specificazione "totale", altrimenti si parla di ordinamento "parziale"; il
simbolo ∈, detto simbolo di Peano, si legge: "elemento di"), quale dei due precede l'altro, ciò
che in simboli verrà specificato con la scrittura x ≤ y, dove il riferimento ad ω viene
addirittura omesso (ovviamente, quando non vi sia luogo ad equivoci) 9. Il simbolo x < y starà
a significare che x ≤ y, e che inoltre x ≠ y. Per designare con un unico simbolo uno spazio
ordinato, che è una "struttura" composta da due elementi, bisognerebbe utilizzare qualcosa del
tipo Ξ = (X,ω), ma per evitare spiacevoli appesantimenti si usa in genere indicarlo ancora,
introducendo un "abuso di notazione", con la stessa lettera X che della struttura indica a rigore
soltanto l'aspetto di puro insieme (X viene denominato il sostegno di (X,ω)).
I due prototipi di spazio ordinato 10, sono l'insieme dei numeri naturali N = {1,2,3,...} e la retta
ordinaria R11, ed è questa la ragione di una terminologia "geometrica", in cui spesso e
volentieri si sostituisce al termine "elementi" (di X) il termine "punti". Non si tratta però dei
semplici "insiemi" in oggetto, in quanto essi si presentano indissolubilmente associati a un
ordine, con una differenza alquanto istruttiva, a volerci speculare sopra (un'ulteriore diversità
tra la concezione dello spazio e quella del tempo, vedi il par. 5 di "Zenone"). Mentre il primo
insieme possiede una struttura d'ordine totale appunto "naturale", che tutti conoscono e
utilizzano: 1 < 2 < 3 <..., il secondo ha due strutture d'ordine naturali, indistinguibili l'una
dall'altra, e l'una opposta all'altra12. Cioè, non esiste alcun ordine "naturale" in R, perché non
ha senso chiedere quale, di due assegnati punti (posizioni) A e B, preceda l'altro: deve essere
prima specificato un "verso di percorrenza" di R. Poiché si comprende sempre meglio quando
è fornito, insieme a un esempio di ciò che viene affermato, anche un suo contro-esempio,
osserviamo che un "ordinamento" naturale (ancora totale) esiste invece per i segmenti di R
(vedi la nota 11 di "Zenone"): dati due di essi si può riconoscere se uno è minore o uguale
dell'altro, oppure no. Siamo però di fronte a una relazione che viene chiamata precisamente di
preordine, dal momento che non soddisfa una condizione ritenuta al contrario essenziale per
l'ordine strettamente inteso, ossia l'anti-simmetria (cfr. la nota 9): x ≤ y insieme a y ≤ x non
implica attualmente x = y, due segmenti possono essere "uguali" ma non "identici". [L'antisimmetria non si verifica per relazioni di uso comune quali "y è preferibile a x", senza
escludere però che le due alternative siano da ultimo "indifferenti", "equivalenti" - sulla
"relazione d'equivalenza" associata a un preordine cfr. "dispense", (III.62).]
Anche se è comune riferirsi ai due enti nominati come a semplici insiemi, essi saranno qui per
noi degli spazi ordinati, sottintendendo nel primo caso l'ordine naturale, nel secondo caso di
aver scelto uno dei due ordini naturali. La situazione si chiarisce viepiù, se si vuole essere
assolutamente rigorosi, tenendo in mente il seguente diagramma.
In esso sono rappresentati gli "oggetti" delle categorie di nostro precipuo interesse. Una è
appunto la categoria degli spazi ordinati, SO , e le altre due sono quella degli insiemi, Ens , e
degli spazi topologici13, Top . Nella figura sono altresì illustrate le "relazioni" naturali tra dette
categorie. Sia SO che Top stanno "sopra" Ens , nel senso che ad ogni spazio ordinato, o ad
ogni spazio topologico, si può sempre associare il relativo sostegno (rammentiamo, l'insieme
su cui le date strutture sono assegnate). Le corrispondenze in parola (il termine tecnico è
funtori, una generalizzazione alla teoria delle categorie del concetto di funzione, o meglio di
"omomorfismo"; per quanto riguarda alcune nozioni preliminari concernenti le nozioni
fondamentali qui utilizzate, compresa un'esatta definizione generale di isomorfismo, si veda la
parte II del capitolo I delle "dispense") vengono descritte dalle due "frecce" che sono state
indicate con la lettera D (due sottolineature stanno a segnalare una categoria, una sola un
funtore), in ossequio all'iniziale della parola "dimenticante": si tratta cioè di operazioni che
semplicemente dimenticano la struttura dell'ente, per restituire la sua nuda natura insiemistica
(l'identità dei suoi elementi). Il problema è che sopra ad N e ad R, intesi come insiemi "privi
di struttura", esistono infinite strutture diverse, sia in SO che in Top . Tra tutte queste, se ne
individua una speciale in SO , quella che abbiamo definito naturale, e quindi abbiamo
continuato a designare il relativo spazio ordinato con il simbolo N - ma attenzione, che si sta
introducendo un "abuso di notazione", conseguente peraltro a un "abuso di linguaggio". Per
contro, esistono due strutture (spazi ordinati) altrettanto speciali, o "canoniche", sopra R in
SO , a cui abbiamo allora riservato i nomi R' e R''. Scegliere una delle due, ossia uno dei due
ordinamenti naturali in R, si dice anche aver orientato la retta (i due ordini in parola sono
infatti anche chiamati orientamenti, o versi, di R; in conformità, R' e R'' si dicono pure rette
orientate)14. "Sopra" a N e ad R in Top c'è invece un'unica struttura naturale, e la motivazione
è presto chiarita mediante l'introduzione di un'ulteriore corrispondenza, che abbiamo
contrassegnato con la lettera T, tra gli oggetti di SO e quelli di Top (T gode ovviamente
della proprietà che, se si opera prima T da SO a Top , e poi D da Top a Ens , si ottiene lo
stesso risultato che facendo direttamente D da SO a Ens ). Stiamo qui discutendo
l'importante concetto di topologia associata, sempre sul medesimo sostegno X, a un ordine ω,
[in simboli τω; uno spazio topologico su un insieme X si indica con la coppia ordinata (X,τ),
dove τ è appunto la fissata topologia su X - chiaramente, qui τ non ha nulla a che fare con il
tempo, ma i simboli sono pochi e le esigenze molte]. Si comincia con l'introdurre la semiretta
di origine un dato elemento a dello spazio ordinato (X,ω), una nozione che comprende in
realtà diversi casi:
- semiretta superiore chiusa, simbolo [a,+∞), totalità degli elementi x ≥ a;
- semiretta superiore aperta, simbolo (a,+∞), totalità degli elementi x > a;
- semiretta inferiore chiusa, simbolo (-∞,a], totalità degli elementi x ≤ a;
- semiretta inferiore aperta, simbolo (-∞,a), totalità degli elementi x < a.
Corrispondentemente, se a ≤ b sono due qualsiasi elementi di X, non necessariamente distinti,
si parla degli intervalli chiusi, aperti, semi-chiusi o semi-aperti, a destra o a sinistra, di
estremi a e b: [a,b], (a,b), [a,b), (a,b], ove [a,b] = [a,+∞)∩(-∞,b] = {x ∈ X tali che a ≤ x ≤ b},
etc., con si spera ovvio significato dei simboli. [In "Zenone" abbiamo chiamato segmenti gli
intervalli propri, cioè tali che a ≠ b, e chiusi, sicché il vuoto o un singleton (un insieme con un
solo elemento), gli unici due casi in cui un ordine coincide con il suo opposto, non
contengono segmenti. Un intervallo spaziale improprio, del resto, non solo non permette di
ricostruire l'ordine della retta alla quale appartiene (ciò che è al contrario possibile per un
intervallo proprio una volta che si sia assegnato un ordine ai suoi vertici), ma neppure la
"direzione" di essa: per un fissato punto del piano, ad esempio, passano infinite rette. Per
quanto riguarda invece i segmenti temporali, si può notare che uno di questi, oltre che chiuso
per definizione, è anche aperto. L'intervallo chiuso [a,b] individuato da due istanti a, b (non
necessariamente distinti) e l'intervallo aperto avente per vertici l'istante precedente di a e il
successivo di b coincidono: [a,b] = (a-1,b+1), con simbolismo auto-esplicativo.] Nella
nomenclatura sono già presenti alcuni attributi di natura topologica, quali "chiuso" e "aperto",
e infatti si comincia a definire la topologia τω asserendo che essa deve contenere almeno tutte
le semirette aperte di X, sia superiori che inferiori. Dovrà poi contenere tutte le intersezioni
finite di siffatte semirette, e quindi tutte le unioni (finite o infinite) delle intersezioni così
ottenute. Alla fine di tali operazioni si perviene a una famiglia di insiemi (in termini tecnici,
τω si chiama la topologia generata dalla sottobase costituita da tutte le semirette aperte di X),
gli aperti di X, che soddisfano gli assiomi previsti per la topologia (naturalmente, gli intervalli
aperti risultano effettivamente aperti in questo senso, in quanto intersezione di due semirette
aperte). Ecco la topologia τω di cui eravamo alla ricerca15, ossia: T((X,ω)) = (X,τω). L'effetto
che più ci interessa della costruzione è che a uno spazio ordinato si possono sempre associare
aggettivi specificativi tipici della topologia, per esempio avranno senso univoco espressioni
del tipo lo spazio ordinato è connesso, o compatto, etc., per chi ne conosce il significato.
Nota*. E qui è doverosa un'importante osservazione. Prima di tutto, che abbiamo utilizzato il
linguaggio delle categorie perché lo riteniamo il più adatto a illustrare con esattezza diversi fenomeni
matematici, anche se non possiamo nemmeno accennare come conviene al fatto che nel concetto di
categoria sono compresi tanto gli "oggetti" di essa quanto i relativi "morfismi", ossia le corrispondenze
"ammesse" tra gli oggetti (qualche informazione la si può reperire nel cap. IV delle "dispense").
Affermare che una certa corrispondenza tra due categorie è un funtore (quindi qualcosa di più generale
che le "semplici" corrispondenze tra oggetti, i.e. funzioni, o morfismi, denominazione appunto
specificamente categoriale), significa che essa coinvolge non solo gli oggetti delle categorie, ma pure i
relativi morfismi, in maniera "coerente". Bene, mentre i D sono veramente dei funtori nell'accennato
preciso senso del termine (cioè, si può descriverne sia l'aspetto "oggettuale", sia quello "funzionale"),
T decisamente non è un funtore (o, meglio, non può "diventarlo"), vale a dire, la corrispondenza tra
SO e Top riguarda solamente gli oggetti, e non i morfismi. Se si vuol entrare nei dettagli, un
morfismo d'ordine in SO non è necessariamente un morfismo in Top , i.e. non è un'applicazione
continua: basti pensare al caso dello spazio ordinato in modo naturale costituito dai numeri razionali
{0 < ... < 1/8 < 1/4 < 1/2 < 1}, e alla corrispondenza da tale spazio X a R che manda tutti gli elementi
in 1, eccetto 0, che viene mandato in 0, è chiaro che si tratta di un morfismo d'ordine, ma discontinuo.
Gli isomorfismi d'ordine (le corrispondenze biunivoche che conservano l'ordine, ovvero mandano una
coppia di elementi del dominio uno minore dell'altro in una coppia di elementi del codominio che sono
ancora nella medesima relazione d'ordine, e viceversa) sono in effetti bicontinui (in un'unica parola,
omeomorfismi, cioè corrispondenze biunivoche che conservano la topologia, nel senso che insiemi
aperti vanno in insiemi aperti, e viceversa), ma la circostanza illustrata complica in ogni caso la
situazione. Ad esempio, può accadere che un sottospazio ordinato Y di uno spazio ordinato (X,ω)
(semplicemente un sottoinsieme Y di X, con l'ordine indotto dall'ambiente) abbia una topologia
d'ordine associata che non coincide con la topologia indotta su Y dalla topologia τω di X (la topologia
d'ordine appare "meno fine" dell'altra), un fenomeno in cui ci imbatteremo ancora nel par. 7. Insomma,
un non perfetto collegamento tra ordine e topologia, che forse è all'origine dei problemi che
incontreremo nel confrontare le nostre definizioni relative al discreto e al continuo nella categoria
dell'ordine, con gli "analoghi" (e maggiormente "di moda") concetti topologici.
Dato quindi uno spazio ordinato, possiamo associare ad esso uno spazio topologico sul
medesimo sostegno. Viceversa, fissato uno spazio topologico, non è detto che la sua topologia
sia definibile mediante l'introduzione di un ordine sul sostegno 16. In ogni caso, pur ammesso
che un tale ordine esista, esso non è in generale unico. A parte l'ovvio caso dell'ordine
opposto, che dà sempre la stessa topologia, un esempio è già fornito dall'insieme dei numeri
interi relativi Z = {0,±1,±2,...} (dall'iniziale del tedesco Zahlen) con la banale topologia τ che
dichiara tutti i sottoinsiemi di Z aperti (una topologia che si può definire su un qualsiasi
insieme sostegno X, e si dice discreta, un termine le cui connessioni con il "discreto" oggetto
delle attuali indagini verranno studiate nel par. 3). τ è sicuramente una topologia d'ordine su
Z, e almeno due ordinamenti non isomorfi la inducono. Uno è: ...-2 < -1 < 0 < 1 < 2 <...
(assieme ovviamente all'opposto), un altro: 0 < 1 < - 1 < 2 < -2 <... (il primo, pur essendo
quello "canonico", non è un buon ordinamento, il secondo invece sì - cfr. la nota 8).
Nota*. Una conseguenza è che, se (X,ω) e (X',ω') sono due spazi ordinati, e f : X → X' una
corrispondenza biunivoca bicontinua tra i due spazi topologici associati (X,τω) e (X',τω'), f non è
necessariamente un isomorfismo d'ordine. Per esempio, se le topologie in questione sono discrete vedi il prossimo paragrafo - gli omeomorfismi tra (X,τω) e (X',τω') sono semplicemente tutte le
corrispondenze biunivoche tra X e X', mentre quelle che mantengono l'ordine sarebbero ovviamente
assai meno. Si tratta di un ulteriore segno dei "difficili" rapporti tra teoria dell'ordine e topologia, con
cui dovremo fare spesso i conti.
Tornando alle nostre questioni specifiche, R' e R'' non sono coincidenti, ma sono
evidentemente isomorfe (in SO ; una simmetria rispetto a un punto costituisce
manifestamente un isomorfismo), il che autorizza in qualche modo a continuare a usare un
unico simbolo R, e a parlare della (si noti la presenza dell'articolo determinativo) retta
ordinaria ordinata, in realtà una delle due rette orientate R' o R'' associate alla retta ordinaria.
Inoltre, poiché un ordine o l'ordine opposto individuano la medesima struttura topologica,
esiste invece un'unica retta ordinaria topologica, alla quale assegniamo quindi sempre lo
stesso simbolo R (si parla, corrispondentemente, della topologia ordinaria, o naturale, sulla
retta ordinaria, una topologia che è allora una "topologia d'ordine"; mentre, come abbiamo
visto nella nota 16, la topologia naturale del piano ordinario P non è una topologia d'ordine).
Lo stesso, a fortiori, per N: esiste un unico spazio topologico associabile a tale simbolo, ed è
palese che la topologia d'ordine di N è quella che abbiamo detto discreta: tutti i sottoinsiemi di
N infatti risultano aperti (e anche chiusi, i due termini non sono mutuamente escludentisi), dal
momento ogni singleton di N è aperto.
3. Il discreto
Cominciamo finalmente a precisare cosa debba intendersi per discreto, che è il caso più
facile. Uno spazio ordinato (X,ω) è discreto se soddisfa la proprietà:
(D) Per ogni x, y ∈ X, con x < y, esistono soltanto un numero finito di elementi z ∈ X tali che
x < z < y (eventualmente nessuno, e allora si dice che y "copre" x).
E' chiaro che lo stesso N, tutti i suoi segmenti iniziali σn = {1,2,...,n}, più in generale ogni
sottoinsieme di N con la struttura d'ordine indotta da quella naturale, sono spazi ordinati
discreti - isomorfi a N, qualora siano infiniti, o a uno, e uno soltanto, dei detti segmenti
iniziali σn, se sono finiti (il sottoinsieme vuoto è un caso a parte, per cui si deve introdurre il
valore n = 0, ma ricordiamo che 0 non è per noi un "numero naturale"). Non soddisfa invece
la condizione (D) per esempio la struttura di buon ordinamento, sempre sull'insieme dei
numeri naturali: 1 < 3 < 5 <...< 2 < 4 < 6 <... , cioè prima si mettono tutti i numeri dispari, e
poi tutti i numeri pari. E' chiaro che tra 2 e 5, tanto per nominare una coppia "irregolare" dal
punto di vista della (D), esistono infiniti elementi di N.
La determinazione di tutti gli insiemi discreti scaturisce dal:
I Teorema di classificazione. Ogni spazio discreto (X,ω) appartiene a una, e una soltanto,
delle seguenti "famiglie":
(i) X è finito, ammette minimo e massimo (se non è vuoto), (X,ω) è isomorfo a un segmento
iniziale σn di N, con l'ordinamento indotto da quello naturale (eventualmente anche n = 0, se
si vuole contemplare il caso dell'insieme vuoto);
(ii) X è infinito, ammette minimo ma non massimo, (X,ω) è isomorfo a N;
(iii) X è infinito, ammette massimo ma non minimo, (X,ω) è anti-isomorfo a N, ovvero è
isomorfo allo spazio ordinato opposto di N, vale a dire anche, è isomorfo a -N, l'insieme dei
numeri interi negativi, con l'ordinamento ancora "naturale": ...< -3 < -2 < -1;
(iv) X è infinito, non ammette né minimo né massimo, (X,ω) è isomorfo a Z, l'insieme dei
numeri interi relativi, con la struttura d'ordine naturale: ...< -3 < -2 < -1 < 0 < 1 < 2 < 3... .
(Allo stesso modo che per (i), neppure a (iv) si accompagna un analogo "duale", relativo alla
presenza di un anti-isomorfismo, che associa invece (ii) e (iii). E' chiara la motivazione di tale
assenza nel caso finito, mentre nell'altro la ragione è da individuarsi nel fatto che i due spazi
ordinati (Z,≤) e (Z,≤op) sono isomorfi, tramite la corrispondenza insiemistica x → -x. Ciò non
si verifica per gli spazi (N,≤) e (N,≤op), che non sono isomorfi (il primo è un insieme bene
ordinato - vedi la nota 8 - il secondo no), d'onde la necessità di procedere come si è fatto.)
(Dal I teorema di classificazione si può ottenere un'informazione importante sul sostegno X di
uno spazio discreto (X,ω): esso è in ogni caso finito o numerabile. Il primo attributo non
abbisogna di spiegazioni, il secondo significa che X si può mettere in corrispondenza
biunivoca con l'insieme dei numeri naturali N, ossia che tutti i suoi elementi possono venire
numerati in una successione del tipo: primo, secondo, etc.. Si noti bene però che questa
numerazione non ha a priori nulla a che fare con la relazione d'ordine ω, per esempio, Z si
può numerare ponendo: 0 = primo, 1 = secondo, -1 = terzo, 2 = quarto, -2 = quinto, etc., ma
tale ordinamento è completamente diverso dall'ordinamento naturale di Z, che compare nella
precedente (iv). Inoltre, si deduce che X è bene ordinato se e soltanto se appartiene a una delle
prime due famiglie (i) e (ii). Infine, che uno spazio ordinato finito è sempre palesemente bene
ordinato, discreto, e tanto isomorfo quanto anti-isomorfo a un spazio "canonico" σn, con
l'ordinamento naturale.)
Dim. Supponiamo dunque di avere uno spazio discreto (X,ω), d'ora in avanti semplicemente
X, che non sia finito (nel qual caso l'asserto del teorema è banale), e fissiamone un elemento
a. Consideriamo poi l'insieme Mg(a) dei maggioranti di a in senso stretto,
Mg(a) = {x ∈ X tali che x > a}, e l'insieme Mn(a) dei minoranti di a in senso stretto,
Mn(a) = {x ∈ X tali che x < a}. Se Mg(a) è vuoto, a è il massimo di X (ovvero, per ogni
elemento x ∈ X risulta x ≤ a), e ogni elemento x1 ∈ X, x1 ≠ a, è certo minore di a, x 1 < a. In
virtù dell'ipotesi ammessa (X discreto), tra x 1 e a c'è solo un numero finito di elementi, sicché,
essendo X supposto anche infinito, esisterà certamente un elemento x 2 ∈ X tale che x2 < x1.
Ma anche tra x2 e x1 c'è solo un numero finito di elementi, perciò possiamo senz'altro
determinare una successione di elementi di X del tipo: ... < x 3 < x2 < x1 < a, e tra x2 e a ci sarà
almeno un elemento, tra x3 e a ci saranno almeno due elementi, etc.. Assegnato adesso un
qualsiasi elemento z ∈ X, riuscirà certamente z < a, e tra z e a ci sarà solo un numero finito di
elementi, diciamolo k, così, andando a confrontare tra loro z e x k+1, non potrà certamente
essere z < xk+1, e quindi dovrà risultare necessariamente z ≥ xk+1. Si comprende facilmente
come in questo caso X risulti anti-isomorfo a N. L'elemento a corrisponde al numero 1;
l'unico elemento x nell'intervallo (semiaperto superiormente) x1 ≤ x < a che sia coperto da a
(rammentiamo, tale cioè che tra x e a non vi siano altri elementi) corrisponde al numero 2;
etc.. Ragionando in maniera analoga, se Mn(a) è vuoto, a risulta il minimo di X, e X è
isomorfo a N. Se Mg(a) non è vuoto, due sono i casi: o Mg(a) è finito, X ammette massimo b
≠ a, e resta comunque anti-isomorfo a N, oppure Mg(a) è infinito, e X non ammette massimo.
Questa alternativa si spezza in due sotto-alternative: o Mn(a) è finito, e allora X ammette
minimo, e rimane isomorfo a N, oppure Mn(a) è infinito, X non ammette né minimo né
massimo, ed è chiaramente isomorfo a Z. L'elemento a si può far corrispondere al numero 0; il
primo elemento coperto da a "alla sinistra" di a al numero -1; il primo "alla destra" di a al
numero 1; etc.17, q.e.d..
Come illustrato in "Zenone", a nostro parere la retta temporale viene "intuita" nella fattispecie
di uno spazio discreto del tipo (iv), ma ogni famiglia elencata nel teorema di classificazione
appare comunque collegata alla nozione comune di "tempo". Spazi discreti del tipo (ii)
corrispondono alla descrizione del futuro, quelli del tipo (iii) invece del passato, mentre (iv)
raffigurerebbe, ripetiamo, tutto il tempo, passato e futuro. Anche il caso (i) (prescindendo
dall'insieme vuoto, che costituisce una struttura a sé, sempre un po' particolare - il non-tempo,
o la non-vita) ammette un'interpretazione temporale, rappresentando gli istanti di una singola
esistenza (limitata). Il singleton σ1 potrebbe considerarsi un "modello" dell'istante presente,
laddove σ2 avrebbe la medesima funzione per il minimo segmento temporale (il "cronone",
cfr. "Zenone", par. 9).
Quanto precede ci mette ormai in grado di paragonare la definizione proposta con altre.
Abbiamo affermato che si può dire (e lo si fa) che uno spazio topologico (X,τ) è discreto se la
topologia τ è discreta, ma è ovvio che tale nozione ha poco a che fare con la nostra, e riveste
quindi per noi scarso interesse, principalmente perché una topologia discreta la si può definire
su qualsiasi insieme (una sola, palesemente, il che autorizza l'uso dell'articolo determinativo:
la topologia discreta τ su un dato insieme X), di qualsiasi "potenza". Perciò, e allo scopo di
evitare fraintendimenti, preferiremo in ogni caso parlare di "topologia discreta", e non di
"spazio topologico discreto". I due concetti di "discreto", in topologia e in teoria dell'ordine,
sono bensì connessi, ma solo alla lontana. Si può dimostrare infatti che sussiste il seguente:
Teorema 1. Se τ è la topologia discreta su un insieme X, essa è sempre indotta da un ordine.
Dim*. Naturalmente, la dimostrazione del teorema 1 è immediata se X è un insieme finito o
numerabile. In tal caso ogni numerazione di X (eventualmente "parziale") fornisce un ordine
(totale) della specie desiderata. In generale, e supposto senz'altro che X sia infinito, la
dimostrazione consiste in una tipica applicazione del Lemma di Zorn [vedi l'appendice al cap.
III delle "dispense", in particolare la dimostrazione del teorema (III.A.12)]. Si considera
l'insieme I di tutte le coppie ordinate (Y,ω), dove Y è un sottoinsieme di X, e ω una relazione
d'ordine su Y che induce su Y la topologia discreta. I è certo non vuoto, perché tutti i
sottoinsiemi finiti di X compaiono quali primi elementi in una di siffatte coppie ordinate, ed è
possibile ordinarlo parzialmente ponendo (Y,ω) ≤ (Y',ω') se e soltanto se Y ⊆ Y', e ω è la
restrizione di ω' a Y. E' chiaro che I diventa così quello che si dice un insieme parzialmente
ordinato induttivo, che ammette allora certamente elementi massimali. Sia (Y°,ω°) uno di
questi, il nostro scopo è dimostrare che Y° coincide con X. Bene, se fosse Y° ⊂ X, detto x un
elemento di X non appartenente a Y°, potremmo prendere in esame l'insieme Y # = Y°∪{x}, e
su di esso introdurre un ordine (totale) ω# che induca su Y# la topologia discreta,
contraddicendo così l'ipotesi di massimalità di (Y°,ω°). Per la definizione di ω# si deve notare
che, nelle attuali ipotesi, ogni elemento y di Y° diverso dagli eventuali minimo e massimo
gode della proprietà che esistono due elementi a, b ∈ Y° tali che a < y < b (nella relazione
d'ordine ω°), e che non esistono altri elementi di Y° né tra a e y, né tra y e b [il singleton {y}
deve infatti risultare un aperto di Y°, e quindi risultare intersezione di due semirette aperte di
Y°, appunto due insiemi del tipo (-∞,b) e (a,+∞)]. Basta aggiungere x a Y° nel seguente
modo: a < y < x < b, e il gioco è fatto.
Nota*. Un'altra dimostrazione, forse più semplice, si poggia sul lemma: se (X,ω) è un qualsiasi spazio
ordinato, la topologia associata all'ordinamento lessicografico nel prodotto cartesiano X×Z è discreta
[ogni elemento (x,n) ∈ X×Z risulta infatti l'unico elemento nell'intervallo aperto di estremi (x,n-1) e
(x,n+1)]. Per provare il teorema 1, basta osservare che, se X è un insieme infinito, esso ammette
sicuramente degli ordinamenti (totali), in forza per esempio dell'assioma del buon ordinamento [cfr.
l'enunciato (III.A.6), nella citata appendice al cap. III delle "dispense"], e che X e X ×Z sono comunque
equipotenti [cfr. il teorema (V.38) nel cap. V delle "dispense"].
Si può provare inoltre, e assai più facilmente, che:
Teorema 2. La topologia d'ordine associata a uno spazio ordinato discreto (X,ω) è la
topologia discreta.
Però non è vero che, viceversa, uno spazio ordinato (X,ω) tale che la topologia indotta sul suo
sostegno sia discreta, è necessariamente uno spazio ordinato discreto. Per avere un esempio di
quest'asserzione, che ci offre l'occasione di familiarizzare un po' con la nozione di topologia
associata a un ordine, si prendano due punti A e B sulla retta ordinaria orientata R
(supponiamo A < B), e si dica M il loro punto medio. Consideriamo poi il punto medio tra A
e M, indichiamolo con il simbolo S1 (S sta per l'iniziale di "sinistra", sinistra di M), e il punto
medio D1 tra M e B. Ripetiamo la costruzione introducendo S 2, il punto medio tra S1 e M, e
D2, il punto medio tra M e D 1, sicché, iterando il procedimento all'infinito, otteniamo due
successioni di punti (distinti) A < S 1 < S2 < ... < M < ... < D 2 < D1 < B. Il sottoinsieme X di R
costituito da tutti questi punti, eccettuato il punto M, costituisce uno spazio ordinato la cui
topologia è certamente discreta, ma non è uno spazio ordinato discreto (tra ogni punto del tipo
S e ogni punto del tipo D ci sono infiniti elementi). [Ogni punto C ∈ X diverso da A e B è un
aperto - si dice così, senza stare a distinguere in maniera pedante tra C e {C} - in quanto
l'insieme {C} risulta intersezione di due semirette aperte, per esempio
{S3} = (-∞,S4)∩(S2,+∞), mentre {R3} = (-∞,R2)∩(R4,+∞). Gli insiemi {A} e {B} sono invece
proprio semirette aperte essi stessi, {A} = (-∞,S1), {B} = (R1,+∞).]
(Comprenderemo nel seguito che, anche se uno spazio ordinato (X,ω) tale che la topologia
associata sia discreta non è necessariamente uno spazio ordinato discreto, esso non può essere
comunque un continuo, neppure di I specie.)
(L'esempio analizzato dopo il teorema 2 appare quindi un altro caso di ordinamenti diversi, né
opposti né isomorfi, che inducono la medesima topologia - vedi la fine del par. 2.)
Quanto precede chiarisce abbastanza le connessioni tra la teoria del discreto nella categoria
dell'ordine e la teoria del discreto nella categoria degli spazi topologici, così come essa viene
comunemente trattata. Passando dalla corrispondenza T al funtore D (da SO ad Ens ),
quando, volendo, sarà sensato asserire che un insieme X è discreto? La risposta che ci si deve
attendere da un matematico "medio" di oggi è: quando X è finito o numerabile. Nel nostro
quadro concettuale, abbiamo invece di fronte due precise alternative: possiamo definire X
discreto quando esiste uno spazio ordinato "al di sopra" di X che sia discreto, oppure quando
tutti gli spazi ordinati sopra X siano discreti. Nel primo caso, X è necessariamente finito o
numerabile, il che fa ricadere nella definizione comune. Nel secondo caso, X deve essere
necessariamente un insieme finito. Dovendo scegliere, osserviamo che chiamare un semplice
insieme numerabile "discreto", in virtù della circostanza che esistono ordini discreti su di lui,
sembra poco significativo, dal momento che su un insieme numerabile esistono anche, come
presto vedremo, degli ordini che non solo sono "non discreti", ma sono addirittura "ovunque
non discreti", in un senso che preciseremo, e che considereremo uno degli aspetti
fondamentali del "continuo". Insomma, per gli stessi motivi, un insieme infinito numerabile
dovrebbe essere detto sia "discreto", sia "continuo", il che non è certo opportuno18.
Sottolineiamo piuttosto che, in forza del teorema 1, la questione in discorso si chiarisce se si
aggiunge alla nuda struttura d'insieme quella di spazio topologico, anzi di spazio topologico
con la topologia discreta, il che consente di discutere l'interessante quesito rivoltoci da un
collega mentre stavamo redigendo il presente articolo: <<Ma le stelle del cielo sono un
discreto?>>. Una prima risposta, da un punto di vista strettamente letterale, è naturalmente la
seguente. Poiché l'espressione "le stelle del cielo" si riferisce a un insieme (finito o infinito
che esso sia, non lo sappiamo, né mai, nella veste di esseri umani, lo potremo sapere - si tratta
di una delle antinomie kantiane, di cui alla nota 7 di "Zenone"), e non a uno spazio ordinato,
non sarà lecito asserire che esse costituiscono un discreto, che è attributo esclusivo del
secondo tipo di enti. Volendo interpretare invece la domanda in un senso meno restrittivo,
ecco che possiamo effettuare noi stessi delle precisazioni, che immaginiamo "sottintese".
Riconosciamo allora il fatto indubitabile che, quando introduce il concetto di "insieme delle
stelle del cielo", l'intelletto umano fa ricorso a un modo di dire per indicare un insieme che
viene concepito quale un sottoinsieme X di punti dello spazio ordinario S (prescinde cioè
dalla reale natura delle stelle, limitandosi al "punto" che a una di esse corrisponde
nell'immagine mentale del cielo stellato). Così, l'insieme X non è in verità pensato nella veste
di un semplice insieme privo di struttura, come poteva apparire su due piedi, bensì nella veste
di sottospazio topologico di S, ivi considerata la "topologia naturale" (allo stesso modo di R, S
ha un'unica sua propria topologia, anche se non è indotta da un ordine, vedi la nota 16).
Orbene, la percezione diretta dell'insieme delle stelle (e la nostra attuale concezione teorica di
questi particolari oggetti materiali) è siffatta da doversi ammettere che in quanto spazio
topologico X ha la topologia discreta. Ovvero, la circostanza saliente dal punto di vista
fenomenologico è che X si presenta a noi nella forma di un insieme di punti isolati (per
ciascuno di essi, chiamiamolo x, esiste un intorno di x che contiene solo x, ma nessun altro
elemento di X; ritorneremo sulla nozione nel prossimo paragrafo). Ciò premesso, è facile
dimostrare19 che l'insieme in discorso è di conseguenza o finito, o infinito, ma nella seconda
alternativa è al più numerabile. In entrambi i casi vale il teorema 1 (nella sua versione più
immediata), ed esiste un ordine lineare su X tale che la topologia naturale di X (quella indotta
cioè dalla topologia naturale dello spazio ambiente S) coincida proprio con la topologia
d'ordine associata. Vale a dire, l'insieme delle stelle può sensatamente ritenersi discreto, una
volta che si siano fatte però tutte le precedenti precisazioni.
4. Il continuo di I specie
Risolta abbastanza facilmente la questione del discreto, veniamo a quella più difficile del
continuo. Cominciamo con il rilevare che uno spazio ordinato sarà non discreto
semplicemente quando non sarà soddisfatta la condizione (C), ovvero se almeno per una
coppia di suoi elementi x < y esistono infiniti elementi tra x e y. Orbene, assumeremo il
verificarsi di tale circostanza per ogni coppia di elementi x, y di X come una prima e decisiva
caratteristica di un insieme continuo. Precisamente, diremo che uno spazio ordinato (X,ω), è
un continuo di I specie se esso contiene almeno due elementi (condizione introdotta al fine di
evitare casi banali, di dover riconoscere cioè continuo il vuoto o un singleton) e risulta
ovunque non discreto, ossia se per l'ordine ω vige la seguente proprietà:
(C1) Per ogni x, y ∈ X, con x < y, esiste almeno un elemento z ∈ X tale che x < z < y.
[La lettera C sta chiaramente per l'iniziale di continuo, mentre il numero 1 sta ad avvertire che
seguiranno altre simili condizioni di "continuità", (C2), etc.. In J.G. Rosenstein, loc. cit. nella
nota 5, la condizione (C1) appare alla p. 25, e viene chiamata una condizione di "densità".]
In conseguenza di (C1), un continuo di I specie è costituito da un numero infinito di elementi
(tra due dati elementi x e y, supposti esistenti, deve esistere un terzo elemento z, quindi un
quarto tra x e z, e così via, appunto "all'infinito"), il che ci porterà a dover prendere in
considerazione la teoria cantoriana degli insiemi infiniti. Nulla di complicato, ma solo una
doverosa, e almeno per certi versi semplice, analisi degli insiemi infiniti: semmai è da
sorprendersi come un simile studio sia arrivato in ritardo, e ciò la dice lunga su quanto i
problemi fondazionali siano stati oggetto di scarsa attenzione da parte dei matematici per
secoli ("prima", perché erano pochi, "dopo", e intendiamo l'era "moderna", perché occupati
soprattutto nelle "applicazioni" - vedi pure la prima nota del par. 2 di "Zenone").
Come dicevamo, se uno spazio ordinato non è discreto (e quindi il suo sostegno è certamente
infinito), esso non è automaticamente ovunque non discreto, anche se si tratta di un sostegno
semplicemente numerabile. Si pensi al già discusso ordinamento 1 < 3 < 5 <...< 2 < 4 < 6: tra
5 e 2 ci sono infiniti elementi, ma non tra 2 e 6, o tra 5 e 77. Pure l'unione X di due segmenti
AB e CD disgiunti della retta ordinaria (vedi la seguente figura), scelto in essa uno dei due
ordinamenti naturali (in cui supponiamo per esempio A < B < C < D), è uno spazio ordinato
non discreto, che però non è un continuo di I specie: tra B e C non ci sono elementi di X.
(X è un tipico esempio di spazio, ordinato o topologico, sconnesso, vedi il par. 7. Con
riferimento alla nota di cui al par. 2, si osservi che in questo caso c'è coincidenza in X tra
topologia dell'ordine e topologia indotta dall'ambiente.)
Ovviamente, l'archetipo della nozione è costituito dalla retta ordinaria, nella quale si fissi uno
dei due ordinamenti naturali: tra due punti si è costretti a riconoscerne infiniti, se si ammette
per esempio il postulato dell'esistenza del punto medio:
(M) Per ogni coppia di punti A, B ∈ R, con A ≠ B, esiste un (unico) punto medio M tale che i
due segmenti AM e MB sono "uguali" (ribadiamo, non "identici", bensì uguali nel senso che
ciascuno dei due è minore o uguale dell'altro nella fondamentale struttura di preordine cui si
accennava nel par. 2).
Nota. Ribadiamo (vedi ciò che si dice sull'adaequatio nel par. 7 di "Zenone"), che i "postulati" - o gli
"assiomi", modernamente si tende a non distinguere tra i due termini, o non si riesce a farlo! - sono
semplicemente, almeno in un primo momento, asserti "elementari" relativi al modo con cui si
concepisce un ente "noto" del pensiero. Quanti punti ci sono sulla retta dipende quindi da quanti noi
siamo in grado, o "costretti", a percepirne, spesso non subito, ma in seguito a ragionamento.
Anche se oggi è invalso l'uso di considerare "continuo" solo il continuo che chiameremo di II
specie (la retta ordinaria risulterà invero un siffatto continuo), ci sembra che l'illustrazione più
adeguata del termine si ottenga mediante la proprietà (C1). La definizione corrisponde a
quella proposta da Aristotele (con l'avvertenza però di distinguere opportunamente tra
segmenti, cui è applicabile l'infinita suddivisibilità, e punti; cfr. la nota 11 di "Zenone"),
secondo il quale è continuo <<ciò che è divisibile in parti sempre divisibili>> (Fisica, VI, 2).
Essa spiega perfettamente la contrapposizione descritta in "Zenone" tra l'ordinaria percezione
dello spazio e l'analoga percezione del tempo: in uno spazio ordinato discreto si può sempre
parlare di elemento successivo a uno dato (quando l'insieme sostegno dello spazio ordinato sia
costituito da almeno due elementi, e si tralasci l'eventuale massimo dello spazio ordinato),
mentre ciò nel continuo non è assolutamente fattibile.
Nota. Chiariamo bene che ciò non significa che l'operazione di "successivo" possa effettuarsi
esclusivamente in spazi ordinati discreti, infatti essa è lecita per esempio in ogni spazio bene ordinato
(che in generale non sarà discreto). Si possono trovare anzi spazi ordinati non discreti nei quali non
solo ogni elemento ha un successivo, ma anche ogni elemento ha un precedente, come accade nel caso
discreto dei numeri interi relativi Z (con l'ordinamento naturale). Basta pensare al seguente nuovo
ordinamento su Z: -3 < -1 < 1 < 3 < ... < -4 < -2 < 0 < 2 < 4 (allo stesso modo dell'altro, non è un
"buon" ordinamento). In un ibo (usiamo la sigla introdotta nella nota 8) non vuoto (X,ω) si potrebbe
chiedere al massimo che ogni elemento distinto dal primo abbia un precedente, ma tale condizione
implicherebbe che (X,ω) è addirittura uno spazio discreto, isomorfo a N. Stiamo qui "giocherellando"
in sostanza con la descrizione che dell'aritmetica viene fornita dai famosi cosiddetti assiomi di Peano:
0 è un numero (noi preferiamo decisamente 1); il successivo di un numero è un numero; 0 non è il
successivo di alcun numero (0 non ha precedente); se due numeri x e y hanno lo stesso successivo
allora x = y; vale il principio di induzione completa. [O induzione finita, per distinguere da un analogo
principio di induzione transfinita che sussiste per ogni ibo (X,ω): banalmente, se Y è un sottospazio di
X, che contiene il primo elemento x 1 di X, e l'elemento x tutte le volte che contiene la sequenza
iniziale [x1,x), allora Y = X (si noti però che negli assiomi di Peano non si fa riferimento a priori ad
alcuna struttura di buon ordinamento). Per il principio di induzione completa vedi (II.12) nel II
capitolo delle "dispense".]
Dal punto di vista topologico, un continuo di I specie viene comunemente collegato alla
nozione di densità topologica, una nozione che si rifà all'importante concetto di punto di
accumulazione: un continuo di I specie risulterà sempre denso in sé. Spieghiamo. Dato uno
spazio topologico (X,τ), e un qualsiasi sottoinsieme X' ⊆ X, notiamo prima di tutto che X' è
univocamente il sostegno di uno spazio topologico (X',τ'), e che perciò si parla anche di
sottospazio topologico di (X,τ). Si introduce in X' la topologia costituita da tutte le
intersezioni degli aperti di τ con X'. Ciò premesso, si dice che un punto x ∈ X è un punto di
accumulazione per X' se ogni intorno di x contiene punti di X' distinti da x, condizione che ha
efficacia naturalmente quando x stesso è in X'. In questo caso, se x non è un punto di
accumulazione per X', ovvero se esiste un intorno di x che contiene solo x tra gli elementi di
X', allora x si chiama un punto isolato di X' (un punto isolato è tale che il singleton {x} è un
aperto in X'; le finalità dell'intera nomenclatura sono piuttosto evidenti). L'insieme dei punti
di accumulazione in X di un suo sottoinsieme X' viene definito il derivato di X', in simboli
D(X'). X' sarà costituito da tutti punti isolati, come l'insieme delle stelle del cielo di cui al
paragrafo precedente, se e soltanto se X'∩D(X') = ∅. [Osserviamo che, se D(X') = ∅, allora
certamente i punti di X' sono tutti isolati, ma che può essere X'∩D(X') = ∅ anche qualora
D(X') ≠ ∅. Si pensi all'insieme X' dei numeri 1, 1/2, 1/3, etc. in R: 0 è un punto di
accumulazione di X' in R che non appartiene a X'.] X' si dice denso su un altro sottoinsieme
non vuoto X'' qualora X'' ⊆ D(X'), ossia quando tutti i punti di X'' sono punti di
accumulazione per X'. X' si dice finalmente denso in sé se non è vuoto e se risulta X' ⊆ D(X'),
cioè se tutti i punti di X' sono punti di accumulazione per X' (in altri termini, quando X' non
possiede punti isolati)20. [L'esempio più comune è quello dell'"insieme" dei numeri razionali
Q, che risulta denso sull'insieme di tutti i numeri reali R: R ⊆ D(Q); anzi, poiché
necessariamente D(Q) ⊆ R, ecco che risulta R = D(Q). Dalla precedente relazione R ⊆ D(Q) si
deduce a fortiori Q ⊆ D(Q), ovvero che Q è denso in sé, e lo stesso accade per R, R ⊆ D(R).]
E' chiaro che in un continuo di I specie, poiché tutti gli aperti che contengono un determinato
punto x di X devono contenere infiniti punti di X, in particolare punti di X diversi da x stesso,
ogni punto risulta un punto di accumulazione (in X non esistono punti isolati). Si tratta però di
una condizione di continuità che è solo necessaria: infatti uno spazio ordinato può essere
denso in sé, ma non è ancora necessariamente un continuo di I specie, come mostra
palesemente l'esempio dello spazio X di cui alla figura precedente [la "densità topologica"
non coincide con la "densità ordinale"; vedi quanto si diceva in sede di commento alla (C1),
citando il libro di J.G. Rosenstein]. Nelle seguenti parole di Bolzano, interessanti per le
anticipazioni "topologiche" in esse contenute, tale distinzione non sembra essere colta:
<<siamo costretti a dichiarare di essere in presenza di un continuo quando, e solo quando, si
abbia un aggregato di entità semplici (istanti, o punti spaziali, o anche sostanze), disposte in
modo che ogni singolo elemento dell'aggregato abbia, ad ogni distanza da se stesso
arbitrariamente piccola, almeno un altro elemento dell'aggregato>> (loc. cit. nella nota 17 di
"Zenone", p. 70).
Approfondiamo l'analisi del continuo di I specie tornando al caso della retta ordinaria R,
orientandola nella successiva figura sempre da sinistra a destra, come prima. Fissati due punti
A e B di R, con A che precede B, possiamo "traslare" il segmento AB tante volte alla destra
di B, in modo da ottenere la successione B, B', B'', ... , e lo stesso alla sinistra di A, fino ad
ottenere la successione -B, -B', -B'', ... con ovvio significato dei simboli.
A partire da A e B, abbiamo così introdotto un primo sottospazio ordinato di R, che
indicheremo con il simbolo ∆(A,B) (è chiaro che ∆(A,B) = ∆(B,B') = ∆(-B,A) etc.). In ∆(A,B)
risulta manifestamente ...< -B' < -B < A < B < B' <... . Possiamo poi, ancora con riferimento
alla figura, costruire l'insieme ∆2(A,B), il sottospazio ordinato di R costituito da tutti i punti di
∆(A,B), più tutti i punti medi dei segmenti formati da punti consecutivi di ∆(A,B). Allo stesso
modo, usando la tricotomia in luogo della dicotomia, possiamo parlare di ∆3(A,B), etc.. E'
evidente che si tratta di tutti spazi ordinati discreti, tra loro isomorfi (isomorfi a Z, caso (iv)
del I teorema di classificazione), per quanto la "distanza" tra due punti successivi della
decomposizione venga ridotta21. In effetti, ∆2(A,B) = ∆(A,M), il che dimostra che si ha a che
fare in sostanza con la medesima struttura. Possiamo però considerare gli insiemi:
Ω2(A,B) = ∆(A,B)∪∆2(A,B)∪∆4(A,B)∪...
Ω3(A,B) = ∆(A,B)∪∆3(A,B)∪∆9(A,B)∪..., etc.,
ottenuti a partire da un numero intero n maggiore di 1, n = 2, 3,... , e poi iterando il
procedimento di decomposizione per successive potenze di n (2, 2 2, 23, ... ; 3, 32, 33,...),
oppure anche l'insieme:
Ω(A,B) = Ω2(A,B)∪ Ω3(A,B)∪Ω4(A,B)∪... = ∆(A,B)∪∆2(A,B)∪∆3(A,B)∪...
Sarà utile poi definire i seguenti spazi ordinati:
- (A,B)2, il sottoinsieme di Ω2(A,B) costituito dai punti compresi tra A e B, estremi esclusi;
- [A,B)2, il sottoinsieme di Ω2(A,B) costituito dai punti compresi tra A e B, A incluso e B
escluso;
- (A,B]2, il sottoinsieme di Ω2(A,B) costituito dai punti compresi tra A e B, A escluso e B
incluso;
- [A,B]2, il sottoinsieme di Ω2(A,B) costituito dai punti compresi tra A e B, estremi inclusi;
e se si vuole (A,B)3, etc..
Nota (importante). Ogni spazio ordinato ∆(A,B) corrisponde a un'immersione della retta temporale T
nella retta spaziale R, ovvero a un'immagine, una rappresentazione, di T dentro R. Ma mentre stiamo
riconoscendo "inadeguata" una riduzione dello spazio al tempo (del continuo geometrico al discreto
aritmetico), allo stesso modo sarebbe assurdo voler tentare una riduzione "inversa" del tempo allo
spazio, sulla base di questo naturale e banale risultato!
Ecco che abbiamo finalmente una serie di spazi ordinati che non sono discreti, e anzi sono dei
continui di I specie. Tali spazi (ciascuno dei quali non esaurisce tutti i punti di R 22) sono però
numerabili, come dimostra il "I teorema di Cantor" (si veda la figura che ne sintetizza la
semplice dimostrazione nel V capitolo delle "dispense"), e ciò implica l'esistenza di una forte
connessione tra di loro, non solo nella veste di insiemi, ma appunto in quella di spazi ordinati.
Per esempio, gli spazi Ω2(A,B), Ω3(A,B), ... Ω(A,B), (A,B)2, etc., che sono privi di minimo e
di massimo, risultano tra loro isomorfi. Ciò costituisce l'oggetto del seguente, per noi
fondamentale (cfr. J.G. Rosenstein, loc. cit. nella nota 5, pp. 26-27):
II Teorema di classificazione. Un continuo di I specie numerabile è sempre isomorfo a uno,
e uno soltanto, dei seguenti spazi:
(i) (A,B)2 (caso in cui lo spazio non ha né minimo né massimo)
(ii) [A,B)2 (caso in cui lo spazio ha minimo, ma non massimo)
(iii) (A,B]2 (caso in cui lo spazio ha massimo, ma non minimo)
(iv) [A,B]2 (caso in cui lo spazio ha sia minimo che massimo)
(Ovviamente i due casi (ii) e (iii) sono anti-isomorfi.)
Corollario. Due continui di I specie numerabili senza minimo e senza massimo sono sempre
tra loro isomorfi.
Dim. Basterà naturalmente dimostrare che un dato spazio ordinato (X,ω) con sostegno X
numerabile, privo di minimo e massimo, è isomorfo a (A,B) 2, gli altri tre casi riconducendosi
agevolmente a questo. Si introduca all'uopo una numerazione x1, x2, x3, ... di X (che non avrà
nulla a che fare con l'ordine di X, vale a dire, non sarà vero in generale che x1 < x2 etc.), e si
costruisca il desiderato isomorfismo f : (A,B)2 → X in modo progressivo. Si ponga cioè
f(1/2) = x1,
f(1/4) = primo elemento di X (nella data numerazione) che sia alla sinistra di x1
f(3/4) = primo elemento di X che sia alla destra di x1
f(1/8) = primo elemento di X che sia alla sinistra di f(1/4)
f(3/8) = primo elemento di X che sia compreso (in senso stretto) tra f(1/4) e f(2/4) = f(1/2)
f(5/8) = primo elemento di X che sia compreso tra f(2/4) e f(3/4)
f(7/8) = primo elemento di X che sia alla destra di f(3/4)
etc.. (si noti che 2/4 = 1/2 era già compreso nel livello precedente al secondo, così come
2/8 = 1/4, 4/8 = 1/2, e 6/8 = 3/4 nei livelli precedenti al terzo, etc.).
Il punto chiave della dimostrazione consiste nel fatto che, se per esempio x 5 è il primo
elemento di X alla sinistra di x1, allora x2, x3, x4 si trovano alla destra di x1, sicché, in tale
caso, f(3/4) = x2, mentre x3 risulterà necessariamente essere o f(5/8), o f(7/8), etc.. Insomma,
tutti gli elementi di X vengono fuori prima o poi alla destra della precedente tabella, laddove
tutti gli elementi di (A,B)2 compaiono invece, "ordinatamente", alla sinistra, q.e.d..
Nota. L'isomorfismo costruito nella precedente dimostrazione è ben lungi dall'essere unico, o in
qualche misura "canonico". Per ogni numerazione di X se ne determina uno, e poiché i primi k
elementi della numerazione, per un qualsiasi numero naturale k, possono essere scelti in modo
assolutamente arbitrario, ecco che valgono proposizioni del seguente tipo: "Due continui di I specie X
e Y, numerabili, senza minimo e senza massimo, non solo sono sempre tra loro isomorfi, ma
addirittura, comunque considerata una "catena" finita di punti di X (ovvero, un insieme finito di punti
di X: x1 < x2 <...< xk), e un'analoga catena finita di punti di Y, y 1 < y2 <...< yk, si può trovare un
isomorfismo (d'ordine) tra X e Y soddisfacente alle condizioni f(x 1) = y1, etc.". Detta non canonicità
impedisce di trasferire da uno spazio ordinato a un altro, seppure essi siano isomorfi, caratteristiche
addizionali che sono precipue per esempio della "natura" specifica degli elementi del primo, ma non
del secondo. In un "generico" spazio continuo di I specie (X,ω), ammettiamo numerabile e senza
minimo e massimo, non sarà possibile operare alcun "confronto naturale" tra segmenti (la struttura di
preordine alla quale si accennava nel par. 2, nel caso di R, e dei suoi sottospazi ordinati), nonostante
ciò si possa in (A,B)2, e malgrado (X,ω) sia ad esso isomorfo (in SO ). Allo stesso modo, in (A,B)2
non si potrà introdurre una somma ancora "naturale" tra classi di equivalenza di segmenti (e formulare
l'assioma dell'archimedeicità, vedi nota 21), sebbene ciò sia lecito per i segmenti di Ω(A,B), che ad
(A,B)2 è isomorfo.
Nota*. Il II teorema di classificazione non è un caso particolare di un teorema più generale, vale a
dire, non si può ripetere un'affermazione simile per continui di I specie che abbiano cardinalità (come
abbiamo già avuto modo di informare, un sinonimo di "potenza") diversa dal numerabile (e quindi
certamente superiore al numerabile, trattandosi comunque di insiemi infiniti). In parole più tecniche, lo
scheletro della categoria SO (pur limitandoci agli spazi ordinati senza minimo e senza massimo) è
(assai) "più grande" dello scheletro della categoria Ens (i due scheletri coincidono soltanto per gli
insiemi al più numerabili). Gli spazi Rn, per ogni numero naturale n, con l'ordinamento lessicografico,
costituiscono sicuramente dei continui di I specie (non numerabili), senza minimo e senza massimo,
però essi sono non isomorfi per valori distinti della "dimensione" (si veda il paragrafo "Gruppi
abeliani ordinati e gruppi archimedei", in http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/mat/cap10.doc).
In conclusione, abbiamo indagato un poco la nozione di spazio (spazio ordinato) continuo di I
specie, scoprendo che il sostegno di una tale struttura è necessariamente infinito. Inoltre, che
esiste "sostanzialmente" un solo tipo di siffatto spazio (a meno cioè di isomorfismi, e
aggiungendo l'ipotesi che lo spazio sia privo di minimo e di massimo) nell'ambito del
numerabile. Esistono però tanti altri spazi continui di I specie di potenza superiore al
numerabile, una cui classificazione è impresa difficile.
5. Il continuo di II specie
Riprendiamo l'analisi dal fatto che può darsi un unico tipo di continuo (di I specie) numerabile
senza minimo e senza massimo, e che diversi di questi spazi ordinati si possono pensare quali
sottospazi della retta ordinaria orientata R. Ma R essa stessa, costituisce o no uno dei continui
di I specie in parola, ossia, R si può cioè ritenere numerabile? Abbiamo già osservato che
Ω(A,B) non può coincidere con l'intero R, come conseguenza delle riflessioni sulla
"necessità" dell'irrazionale, ovvero, secondo il nostro punto di vista, sulle ineludibili
caratteristiche della maniera di concepire lo "spazio" da parte dell'intelletto umano. Le relative
dimostrazioni si poggiano usualmente su considerazioni geometriche in ambiente
bidimensionale (diagonale di un quadrato, diagonali di un pentagono regolare, sezione aurea,
etc.), o algebrico-aritmetiche (assurdità di un numero razionale, di un rapporto di numeri
interi, il cui quadrato sia un numero primo), sicché tutti i numeri irrazionali "costruiti" sin dai
primordi sono di una famiglia assai speciale, dei numeri algebrici. In breve, "radici" di
equazioni algebriche (in una incognita) a coefficienti interi, per esempio radici (quadrate o
d'ordine superiore) di qualche numero intero (positivo), radici di siffatte radici, loro
"combinazioni", etc.. Per contro, si chiamano numeri trascendenti quei numeri (ancora
espressione di misure di coppie di segmenti, numeri reali) che non sono algebrici,
sull'eventuale "esistenza" dei quali non ci sembra che l'intuizione possa asserire qualcosa in
modo "immediato". Però, anche se si aggiungessero all'insieme Ω(A,B) i punti P tali che il
segmento AP abbia rispetto ad AB una misura algebrica, pur ottenendo un insieme assai "più
grande" apparentemente di quello di prima, ecco non usciremmo comunque dall'ambito del
numerabile, come non è troppo difficile dimostrare, sempre in virtù del I teorema di Cantor (i
polinomi in una indeterminata a coefficienti interi e di grado 0 sono manifestamente
un'infinità numerabile, così quelli di grado 1, di grado 2, etc., e perciò tutti; poi ciascun
polinomio ha al più un numero finito di radici reali, insomma i numeri reali algebrici
costituiscono un'infinità numerabile). La domanda d'apertura rimane così in piedi: R si può
pensare numerabile? (anche se si avesse contezza di qualche numero reale trascendente, si
potrebbero aggregare i punti che lo "rappresentano" all'insieme dianzi costruito, con la
conseguenza di rimanere nell'ambito del numerabile).
A questo punto è interessante porsi il quesito: qual è l'aspettativa naturale di fronte
all'interrogativo in oggetto? Dovrebbe essere forse quella di concepire i punti della retta come
una totalità numerabile (esisterebbe cioè, fatte salve ulteriori considerazioni, un unico tipo di
infinito), ma non è così, e siamo in grado di rendercene perfettamente conto, date solo le
semplici verità fin qui raccolte. C'è infatti una proprietà che il "continuo" della retta soddisfa,
a differenza di ogni continuo numerabile finora nominato (e che si possa mai nominare,
poiché sono tutti "classificati" dal II fondamentale teorema precedente), ed essa è talmente
"antica" che preferiamo ricorrere per illustrarla a semplici ragionamenti classici, senza
scomodare i "mandarini" tedeschi dell'ultima parte del XIX secolo.
Digressione. Un esempio dell'applicazione del "postulato" del quale stiamo implicitamente parlando,
ancorché si debba arrivare i tempi di Cantor e Dedekind per vederlo formulato e discusso con
l'opportuna cura, è fornito dall'introduzione del celebre numero π, ovvero dall'esistenza stessa del
concetto di lunghezza L di una circonferenza, che è collegato all'esistenza di un segmento rettificante
la curva in oggetto, la cui misura rispetto a un segmento prescelto come unità di misura corrisponderà
appunto alla lunghezza L. Nella seguente figura si vedono una circonferenza e un quadrato in essa
iscritto, assieme a un quadrato circoscritto.
E' chiaro che, riportando i quattro segmenti AB , BD , DC , CA consecutivamente sulla retta R,
diciamo a partire da un qualsiasi punto "origine" P, si ottiene un punto Q tale che il segmento PQ
rappresenta il perimetro del quadrato. La misura di PQ , rispetto a un'unità di misura fissata in modo
arbitrario, è palesemente minore della lunghezza L, della cui definizione siamo in cerca. Se facciamo
altrettanto con i quattro segmenti A' B ' , B ' D ' , D 'C ' , C ' A' , ricaviamo un segmento PQ ' la cui
misura sarà invece maggiore di L. Se aumentiamo il numero dei lati del poligono regolare iscritto
nella circonferenza, otteniamo un numero più grande di quello di prima, tuttora però minore di L.
Analogamente, il poligono regolare circoscritto con il medesimo numero di lati avrà un perimetro
minore del precedente, comunque ancora maggiore di L. Insomma, otteniamo tanti punti Q, e tanti
punti Q', nessuno dei quali dà, come misura di PQ o PQ ' , esattamente L (poiché la circonferenza
non coinciderà mai con alcuno di questi poligoni, per quanto alto si possa prendere il numero dei lati).
Malgrado ciò assumiamo, per intuizione diretta della natura dello spazio (della retta), che esiste un
(unico) punto X tale che PX è maggiore di tutti i PQ, allo stesso modo che PX è minore di tutti i PQ',
ovvero tale che la misura di PX sia proprio la ricercata L, senza alcuna "approssimazione" 23.
Per farla breve, il postulato a cui soddisfa la retta ordinaria (orientata) R, e che viene pertanto
chiamato il postulato di continuità di R, è il seguente:
(C2) Dato un qualsiasi insieme non vuoto X di punti di R che sia superiormente limitato, tale
cioè che esista un maggiorante M per tutti i punti di X (P < M, per ogni P ∈ X), esso ammette
un estremo superiore E(X), ovvero un minimo maggiorante (un maggiorante che sia più
piccolo di ciascuno dei maggioranti di X).
(Indicato, conformemente a quanto effettuato nel corso della dimostrazione del I Teorema di
classificazione, l'insieme dei maggioranti di X con il simbolo Mg(X), nel caso precedente
Mg(X) è supposto non vuoto in virtù dell'ipotesi di limitatezza. Si noti che E(X) appartiene
certamente a Mg(X), ma non è detto che appartenga a X: potrebbe o non potrebbe essere un
elemento di X. Nel caso della circonferenza, poiché nessun perimetro di un poligono regolare
iscritto coincide con L, ecco che E(X) = L non appartiene all'insieme X di cui trattasi).
Naturalmente, il postulato (C2) potrebbe essere riformulato per gli insiemi inferiormente
limitati, in relazione all'esistenza quindi di un estremo inferiore e(X) per ogni insieme X di
punti di R che sia inferiormente limitato, oppure nella seguente forma "complessiva":
(C2') Dato un qualsiasi insieme non vuoto limitato X di punti di R (un insieme X che sia cioè
tanto superiormente, quanto inferiormente limitato), esso ammette sia un estremo superiore
E(X), sia un estremo inferiore e(X).
Si possono trovare numerose altre forme istruttive del postulato in oggetto (vedi
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/mat/continuit.doc), introducendo i concetti di "coppia di
classi contigue", di "elemento di separazione", etc.. Personalmente troviamo assai
significativa la:
(C2'') Quando si immagina un insieme non vuoto limitato X di punti di R, è impossibile non
concepire simultaneamente il minimo segmento in cui esso è contenuto.
Ci preme osservare che tutti questi postulati equivalenti (C2) etc. possono proporsi per un
qualsiasi spazio ordinato, e si comprenderà perché denomineremo continuo di II specie ogni
spazio ordinato che sia un continuo di I specie e in più soddisfi (C2).
Nota. (C2) da solo, che si dice pure postulato di completezza (cfr. J.G. Rosenstein, loc. cit. nella nota
5, p. 33), può valere anche in spazi nei quali non è verificata (C1). Per esempio ogni spazio discreto è
senz'altro "completo", allo stesso modo che è completa l'unione dei due segmenti disgiunti
rappresentati nella prima figura del paragrafo precedente, che ancora non è un continuo di I specie.
Per come è stata costruita la definizione, perveniamo a una prima ovvia conclusione:
Teorema 3. La retta ordinaria orientata è un continuo di II specie.
Una seconda, meno immediata, ma sempre "semplice", al punto in cui siamo arrivati, è che:
Teorema 4. Un continuo di I specie numerabile non può mai essere un continuo di II specie.
Basta infatti tenere presente il II teorema di classificazione. Un continuo di I specie
numerabile, specifichiamo senza minimo e senza massimo, è necessariamente isomorfo ad
(A,B)2, ed è chiaro che (A,B)2 non soddisfa (C2). L'insieme di tutti i punti di (A,B)2 che sono
minori del punto P tale che AB è uguale a 3 volte il segmento AP , non ha estremo superiore
in (A,B)2 - si presti attenzione alla circostanza che l'insieme in parola non è inferiormente
limitato in (A,B)2, perché il punto A non è un punto di (A,B)2.
Insomma, un continuo di I specie numerabile non è mai completo, e poiché invece un
continuo di II specie completo lo è per definizione, ecco che dai teoremi 3 e 4 consegue il:
Teorema 5. La retta ordinaria orientata non è numerabile.
Nota. A proposito di quanto si riferiva poc'anzi sui numeri reali trascendenti, dal teorema 5 si è edotti
della circostanza che di siffatti numeri esiste un insieme infinito addirittura non numerabile.
Altrimenti, sarebbe pure tale l'unione dei numeri algebrici e dei numeri trascendenti, cioè la classe di
tutti i numeri reali R, che per definizione è equipotente ad R, ed R numerabile non è. Corrispondenze
biunivoche tra R e R - nessuna però canonica, i due enti in questione non sono "identificabili" - sono
fornite dalle cosiddette "coordinatizzazioni" di R. E' istruttivo osservare che la differenza tra
algebricità e trascendenza appare di tipo fondamentale, ma che di essa la geometria greca non riuscì a
rendersi conto, probabilmente per mancanza di una precisa comprensione della piena struttura
algebrica posseduta dalla totalità di questi numeri. [Un passo importante, se non decisivo, verso la
consapevolezza in parola fu sicuramente l'introduzione della geometria analitica da parte di Cartesio
(1637), che coniuga algebra e geometria, calcolo e retorica, in modo fecondo, senza distruggere la
specificità né dell'una né dell'altra.] Si potrebbe ritenere insomma che le prime speculazioni
geometriche riguardassero la retta spaziale (l'"infinito") solo numerabile, sebbene fosse conosciuta
(mediante intuizione naturale e perenne del fenomeno), e utilizzata, una sua proprietà, appunto la (C2),
che è incompatibile con la numerabilità.
Il teorema 5 è noto come una delle conseguenze più famose del "II teorema di Cantor" 24 (vedi
ancora il citato V capitolo delle "dispense"): la retta ordinaria (l'insieme dei numeri reali)
non è numerabile. Una conclusione che può essere raggiunta però, come abbiamo visto, anche
attraverso considerazioni relative alla pura struttura d'ordine, ed evitando il "procedimento
diagonale"25. Certo, giocano un ruolo essenziale le proprietà geometriche accessorie di uno
spazio ordinato quale (A,B)2, ma il fatto è che esso, in virtù del II teorema di classificazione,
rimane un prototipo per tutti gli altri continui di I specie numerabili (rammentiamo, senza
minimo e senza massimo), che quindi al pari di lui debbono essere incompleti.
6. Sezioni di Dedekind e connessione*
E' venuto il momento di prestare qualche attenzione alla moderna analisi "aritmetizzante"
della questione, e quindi dedichiamo questo paragrafo (più complesso dei precedenti) a
Richard Dedekind, e all'opera Stetigkeit und irrationale Zahlen (Braunschweig, Vieweg &
Sohn, 1872 - "Continuità e numeri irrazionali"). Riassumendo il suo punto di vista, e
adattandolo alla nostra impostazione, dato uno spazio ordinato (X,ω), si possono andare a
guardare le eventuali "decomposizioni" di X in coppie di sottoinsiemi non vuoti e disgiunti S'
e S'' tali che: 1 - S' < S'' (con il che si intende che ogni elemento di S' è minore di un elemento
di S''); 2 - S' non ha massimo, S'' non ha minimo; 3 - l'unione di S' e S'' è l'intero X (ne
consegue che S' e S'' sono aperti nella topologia associata a ω, e che ogni elemento minore di
un elemento di S' è in S', non potendo essere in S''; analogamente, ogni elemento maggiore di
un elemento di S'' è in S''). Una siffatta coppia ordinata (S',S'') di sottoinsiemi di X si dice una
sezione di Dedekind di (X,ω) (S' è la classe inferiore della sezione, S'' la classe superiore), e
diventa interessante studiare l'insieme delle sezioni di Dedekind di un assegnato spazio
ordinato (X,ω), sinteticamente SD(X). [Un chiaro esempio di sezione di Dedekind appare
nello spazio ordinato presentato dopo il teorema 2. Infatti l'insieme {A,S1,S2,...} costituisce la
classe inferiore di una sezione, la cui classe superiore è individuata da {...,R2,R1,B}.]
Sono evidenti i collegamenti con la condizione di completezza (C2). In effetti, se Y ⊆ X è un
sottoinsieme non vuoto superiormente limitato di X, privo però di estremo superiore, ecco che
tutti i maggioranti di Y formano la classe superiore di una sezione di (X,ω); la classe inferiore
è semplicemente il "complementare" di Mg(Y) in X (ossia, l'insieme di tutti gli elementi di X
che non sono maggioranti di Y, vale a dire, che sono minori o uguali di qualche elemento di
Y). Viceversa, se esiste una sezione di Dedekind (S',S'') di (X,ω), S' sarebbe un sottoinsieme
non vuoto di X superiormente limitato ma senza estremo superiore (allo stesso modo, S''
sarebbe senza estremo inferiore). Insomma, non è difficile dimostrare che sussiste il seguente:
Teorema 6. Uno spazio ordinato è completo (soddisfa cioè la condizione (C2)) se, e soltanto
se, non esistono sue sezioni di Dedekind: SD(X) = ∅.
In altre parole, la condizione SD(X) = ∅ corrisponde a una nuova forma equivalente di (C2),
oltre a (C2') e (C2''), che potremmo battezzare quindi (C2'''). Un continuo di II specie sarebbe,
sotto questa prospettiva, un continuo di I specie privo di sezioni di Dedekind. Del resto, sono
chiare pure le connessioni di (C2''') con il postulato di continuità della retta ordinaria orientata
R. Infatti la nozione diciamo di classe inferiore di una sezione è riconducibile a una naturale
"generalizzazione" del concetto di semiretta aperta: si tratterebbe di prendere in
considerazione sottospazi senza massimo (e non vuoti) di uno spazio ordinato, tali che
assieme a un dato elemento x contengano anche tutti gli elementi minori di x. Perché uno di
essi sia una "semiretta vera" bisogna avere un suo "vertice", mentre la classe inferiore di una
sezione, ammesso che ne esista una, vertice non può possederne. L'identità SD(R) = ∅,
certamente vera, equivale ad affermare che non è possibile ripartire la retta in due semirette
aperte: mancherebbe evidentemente il vertice comune (continuando ad avere in mente siffatte
decomposizioni, R si può spezzare solo in una semiretta aperta e l'altra chiusa).
L'approccio di Dedekind consente alcuni sviluppi in effetti interessanti. Fissato un qualsiasi
spazio ordinato (X,ω), è facile comprendere che l'insieme SD(X) "eredita" da (X,ω) una
struttura d'ordine naturale, che rende quindi anch'esso uno spazio ordinato. Date due sezioni
(supposte esistenti!), quella minore o uguale delle due avrà la classe inferiore contenuta nella
classe inferiore dell'altra (parallelamente, la classe superiore conterrà l'altra classe superiore).
Non solo, ma l'insieme X+SD(X) (il simbolo + ci sembra attualmente più suggestivo del
simbolo di unione insiemistica ∪, perché si tratta di aggiungere letteralmente agli elementi di
X degli elementi al di fuori di X: X e SD(X) sono sempre disgiunti) eredita dalla situazione
una struttura di spazio ordinato naturale, bastando dire che un elemento x di X è minore
(uguale non potrà essere mai!) di una sezione (S',S'') quando x ∈ S' [analogamente, x sarà
maggiore di (S',S'') quando x ∈ S''].
A proposito del nuovo spazio ordinato X+SD(X), ci si persuade subito che valgono i seguenti:
Teorema 7. Se X è un continuo di I specie, X+SD(X) è ancora un continuo di I specie.
Teorema 8. X+SD(X) è sempre uno spazio ordinato completo [ossia: SD(X+SD(X)) =∅],
che si può chiamare quindi il completamento di (X,ω) (in particolare, se X è già completo,
SD(X) = ∅, e X+SD(X) = X, tutto torna).
Combinando i teoremi 7 e 8, si ottiene il:
Teorema 9. Se X è un continuo di I specie, X+SD(X) è addirittura un continuo di II specie.
Nota*. Si osservi che il precedente "completamento" non ha necessariamente la proprietà di essere in
qualche senso "massimale". Per esempio l'intervallo aperto (0,1) in R è un continuo di II specie, ma è
contenuto nell'intervallo chiuso [0,1], che risulta pure un continuo di II specie. Considerazioni di
questo genere sono verosimilmente all'origine dell'accennata scelta della "compattezza" nella
definizione corrente di "continuo topologico", una definizione che comunque rimane non convincente
(torneremo sulla questione nel par. 8).
La nozione di decomposizione precedentemente introdotta permette una generalizzazione
puramente topologica, che si dimostra di grande efficacia nel presente contesto. Fissato
adesso un qualsiasi spazio topologico (X,τ), si dice una sua sconnessione una coppia (non
serve ordinata) di aperti non vuoti X' e X'' di X tali che X = X'∪X'' (in particolare, sia X' che
X'' sono simultaneamente aperti e chiusi, quindi aperti e chiusi non vuoti, e diversi dall'intero
X, è questa un'altra descrizione della sconnessione). Uno spazio che ammette delle
sconnessioni si chiama sconnesso, e connesso in caso contrario. Ciò premesso, è chiaro allora
che se uno spazio ordinato non è completo, possiede cioè delle sezioni di Dedekind, esso
come spazio topologico è necessariamente sconnesso. L'affermazione si può anche
"invertire", il che conduce al seguente:
Teorema 10. Uno spazio ordinato connesso (e si intende connesso rispetto alla topologia
associata all'ordine) con almeno due elementi è necessariamente un continuo di II specie.
Viceversa, un continuo di II specie è sempre connesso.
Dim. Se uno spazio ordinato (X,ω) è connesso, allora soddisfa certamente, come abbiamo
detto, (C2'''), è cioè completo, ma soddisfa ovviamente anche (C1), se non è il vuoto o un
singleton. Infatti se tra due elementi distinti x e y di X non ci fosse alcun altro elemento di X,
avremmo manifestamente una sconnessione di X, individuata dalle due semirette aperte, e non
vuote: (-∞,y) (che contiene x) e (x,+∞) (che contiene y). La seconda parte del teorema è più
difficile: bisogna far vedere che, nelle ipotesi ammesse, non può esistere una sconnessione
topologica di X, e per la dimostrazione rimandiamo a quella che segue il postulato PC5 nella
citata http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/mat/continuit.doc (lì l'argomentazione viene
condotta in relazione alla retta ordinaria R, ma il ragionamento si può ripetere tal quale per un
qualsiasi continuo di II specie nell'attuale accezione).
Nota. Sottolineiamo che se l'incompletezza implica certamente la sconnessione, viceversa questa non
implica l'incompletezza, come accade per esempio nel caso degli spazi ordinati discreti (oppure degli
spazi illustrati nella prima figura del par. 4, che, ribadiamo, non sono connessi né nella qualità di
sottospazi topologici della retta ordinaria orientata R, né in quella di sottospazi ordinati di essa). La
sconnessione per uno spazio ordinato equivale soltanto al suo non essere un continuo di II specie.
Il trattamento della continuità proposto da Dedekind "filosoficamente" differisce alquanto dal
nostro. Ad esso si conferisce il "merito" (che riteniamo in effetti assai dubbio) di evitare
qualsiasi coinvolgimento di concetti geometrici. In particolare, considerato il campo dei
numeri razionali Q (una struttura che appare invero lecito introdurre esclusivamente mediante
considerazioni "aritmetiche"), con la sua naturale struttura d'ordine, ecco che siamo davanti a
un continuo di I specie numerabile (privo di minimo e massimo), e quindi non completo
(verità nota sin dagli albori della storia della matematica, senza fare ricorso al teorema 4).
Quella di sezione di Dedekind di Q diventa così una "definizione", pretesa avulsa da ogni
"intuizione geometrica", di numero reale irrazionale, e il completamento Q+SD(Q) viene
identificato con la totalità dei numeri reali. Ossia si pone, per definizione: R = Q+SD(Q),
"equazione" che costituisce l'essenza della cosiddetta aritmetizzazione dell'analisi26 (tale
insieme sostegno R eredita poi dalla situazione non solo una struttura d'ordine, ma anche una
struttura algebrica, etc.), e con ciò chiudiamo questo paragrafo di "richiami".
Nota (importante). Vale la pena di sottolineare che l'idea di "sezione" si trova già ... in Euclide; né
poteva essere altrimenti, dal momento che l'oggetto del pensiero che si sta descrivendo, cioè la retta
geometrica R, è sempre lo stesso. In effetti un numero positivo "irrazionale" (αρρητος, secondo
Platone e Aristotele: ineffabile, di cui non si può parlare, che non può essere de- finito), non è altro che
la misura di un segmento ("libero") α di R rispetto a un segmento β, quando α non appartenga
all'insieme (numerabile!) dei "multipli" dei "sottomultipli" di β (si tratta ovviamente dell'identica
situazione illustrata mediante l'introduzione dell'insieme di punti Ω(A,B) nel par. 4). Data allora la
coppia ordinata (α,β), l'insieme N×N delle coppie ordinate di numeri naturali si ripartisce
precisamente nell'insieme costituito dalle coppie (m,n) tali che mα < nβ (i.e., il "numero razionale"
n/m > α/β sta nella classe superiore della sezione "individuata" dal numero irrazionale α/β), e dal suo
complementare, ossia l'insieme delle coppie (m,n) tali che mα > nβ (mα non potrà mai essere uguale a
nβ per ipotesi). La famosa quinta definizione del libro V degli Elementi (criticata da Galileo per la sua
difficoltà, o "non adeguatezza", vedi http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/GAL.html) sta proprio a
collegare la "misura" di α rispetto a β con la predetta sezione - mentre, viceversa, il fatto che ognuna
di esse corrisponda a una misura non è che una banale conseguenza di (C2) (per la verità il caso
inverso non è discusso esplicitamente in Euclide). In altre parole, i numeri reali secondo Euclide (la
geometria greca, la geometria intuitiva perenne) non sono esattamente le sezioni, ma sono "isomorfi"
alle sezioni, e l'autentica "origine" delle seconde rimane geometrica e non aritmetica [spazio e tempo
naturalmente qui interagiscono, come del resto (quasi) sempre]. Che quella appena esposta non sia
un'opinione "stravagante" di chi scrive è confermato dalla seguente osservazione (Sir Thomas L.
Heath, The thirteen books of Euclid's Elements, Dover Publications Inc., New York, 1956, vol. II, p.
124), che dovrebbe essere tenuta nel giusto conto da chi pensa a queste cose, e a maggior ragione da
chi le insegna: <<Max Simon remarks (Euclid und die sechs plamimetrischen Bücher, p. 110), after
Zeuthen, that Euclid's definition of equal ratios is word for word the same as Weierstrass' definition of
equal numbers. So far from agreeing in the usual view that the Greeks saw in the irrational no number,
Simon thinks it is clear from Eucl. V that they possessed a notion of number in all its generality as
clearly defined as, nay almost identical with, Weierstrass' conception of it. Certain it is that there is an
exact correspondence, almost coincidence, between Euclid's definition of equal ratios and the modern
theory of irrationals due to Dedekind>> (enfasi nel testo).
Nota*. L'occasione si presta a un breve cenno relativo al terzo approccio al problema del continuo
citato nell'introduzione (dopo quelli insiemistico e topologico), che ha a che fare con la teoria dei
campi ordinati. Ricordiamo che un campo K è una struttura algebrica con due operazioni, una somma
e un prodotto, modellate sull'esempio del campo dei numeri razionali Q, e che un ordine in K si dice
compatibile con la struttura algebrica se tanto la somma quanto il prodotto di elementi positivi (i.e.,
maggiori di zero) sono ancora elementi positivi. Bene, si vede subito che un campo ordinato K è
necessariamente un continuo di I specie [tra due elementi x < y, esiste sempre l'elemento (x+y)/2; si
noti che l'elemento unità 1 deve essere positivo, come ogni quadrato di K, e che quindi sono tutti
positivi - in particolare mai nulli, come in un "campo astratto" potrebbe viceversa accadere - gli
elementi 2 = 1+1, 3 = 1+1+1, etc.], e che il completamento di un siffatto campo ammette una struttura
di campo ordinato, il quale sarà un continuo di II specie. [Si faccia però attenzione alla circostanza che
la somma di due sezioni non è sempre una sezione: potrebbe "essere" un elemento di K, dal momento
che la somma di due numeri irrazionali può ben risultare un numero razionale. Infatti, date (S' 1,S''1) e
(S'2,S''2), la coppia ordinata (S'1+S'2,S''1+S''2), con si spera manifesto significato dei simboli, è "quasi"
una sezione di K, nel senso che se l'unione dei due insiemi in parola non è l'intero K, esiste comunque
un unico elemento x ∈ K tale che questi insiemi coincidano con le due semirette aperte di vertice x.
Analoga avvertenza per il prodotto, operazione che richiede peraltro qualche cura in più.] Di campi
ordinati ne esistono molti, ma la loro varietà si riduce drasticamente quando si introduca il postulato di
Archimede (cfr. nota 21), che nel presente caso si enuncia nel modo seguente: se x < y sono due
elementi positivi di K, allora qualche multiplo intero nx di x supererà y (in una forma popolare: "a
quattrino a quattrino si supera lo zecchino"). Il teorema di unicità nominato nell'introduzione ci
informa che, a meno di isomorfismi (algebrici e d'ordine) esiste un solo campo ordinato completo
archimedeo, che sarà isomorfo a R (potrebbe anche dirsi R per definizione, questo è il senso della
"soluzione formalista" al problema della "natura degli enti matematici"), e quindi che ogni campo
ordinato archimedeo è sostanzialmente un sottocampo di R. La precedente non è però un'illustrazione
del continuo in termini di puro ordine, perché può accadere che due campi ordinati siano isomorfi
come spazi ordinati, ma affatto differenti in quanto strutture algebriche ordinate: un campo può essere
per esempio archimedeo, l'altro no (cioè, l'archimedeicità non è un "invariante d'ordine", non è una
proprietà che si possa definire esclusivamente in termini di spazi ordinati). Si pensi al campo Q(π), che
viene chiamato l'estensione semplice di Q tramite il numero reale trascendente π (cfr. nota 23). Esso è
formato dalle espressioni polinomiali del tipo a nπn+...+a1π+a0, con coefficienti numeri razionali (e
certo non uguali a zero, a meno che tutti i coefficienti non siano zero), combinate insieme ai loro
inversi. Nella veste di sottocampo di R, Q(π), che dal punto di vista della teoria dell'ordine è un
continuo di I specie numerabile, eredita un ordine archimedeo. Ma il medesimo campo risulta il
sostegno di un ordine algebrico non archimedeo, che avrà l'effetto di produrre un "campo ordinato"
completamente diverso dal precedente (il "sottocampo ordinato" di R), ma ad esso isomorfo nella
categoria dell'ordine, poiché sempre con un continuo di I specie numerabile si avrà a che fare (e vale il
II teorema di classificazione). Basta all'uopo definire positive [estendendo poi in modo naturale la
definizione a ogni elemento di Q(π)] quelle espressioni polinomiali (non nulle) che hanno per
"coefficiente direttore" an un numero razionale positivo. Le proprietà previste per un campo ordinato
continuano a essere soddisfatte, ma è chiaro che risulterà π > n per ogni numero naturale n, ossia che,
pur essendo 1 < π, nessun multiplo intero di 1 potrà mai superare π.
Nota*. Diviene interessante nell'attuale contesto determinare esplicitamente le sezioni di Dedekind di
(A,B)2, ciò che si effettua tramite particolari successioni di 0 e 1 (collegate alla numerazione in base 2,
qualora si ponga: A = 0; B = 1; M = 1/2 = 0,1; M' = punto medio tra A e M = 1/4 = 0,01; etc.). Il
risultato è che ogni successione di 0 e 1 che non consista da un certo punto in poi di tutti 0, o di tutti 1,
individua univocamente una tale sezione, e viceversa ciascuna di queste si può rappresentare in detto
modo (se 0001100101... è per esempio una delle successioni in parola, per decidere se M' sta nella
classe inferiore o nella classe superiore della sezione associata, si va a guardare se 0,01 è minore o
maggiore di 0,0001100101..., "scorrendo" le cifre da sinistra a destra - poiché la seconda cifra, dopo il
primo ininfluente 0, associata al punto è 1, e la seconda di quella della sezione è 0, ecco che M'
appartiene alla classe superiore, e così via). La descrizione rimanda più direttamente all'enunciato del
II teorema di Cantor (vedi la nota 24), il quale stabilisce appunto che le nominate successioni formano
una totalità più che numerabile. [Le successioni coinvolte nel ragionamento precedente sono in realtà
solo una parte dell'intero insieme delle successioni, ma si dimostra che questo sottoinsieme è
necessariamente equipotente al tutto. Ciò è conseguenza del fatto che le successioni escluse
costituiscono palesemente un insieme numerabile, e che sussiste il seguente "facile" teorema: "Siano
X, X' insiemi tali X ⊆ X', X'-X sia al più numerabile, X' sia più che numerabile. Allora, non solo pure
X è più che numerabile, ma X e X' hanno la stessa cardinalità".] Osserviamo ancora che
l'incompletezza dei continui di I specie numerabile si può semplicemente provare senza il II teorema
di classificazione, noto però il II teorema di Cantor, così argomentando. Sia (X,ω) un continuo di I
specie numerabile, privo di minimo e massimo. Fissiamo arbitrariamente un elemento in X, e
indichiamolo, per motivi che diventano ovvi tenuto conto di quanto spiegato sopra, con il simbolo 0,1
(0 virgola 1). Scegliamo poi un elemento alla sinistra e uno alla destra di 0,1, chiamandoli
rispettivamente 0,01 e 0,11. Procediamo fino a determinare un sottospazio Y di (X, ω) che è isomorfo
allo spazio di tutti i numeri razionali compresi strettamente tra 0 e 1, e con denominatore una potenza
di 2. Una successione di 0 e di 1 del tipo dianzi indicato corrisponde a una sezione di Dedekind di Y,
che non individuerà necessariamente una sezione di Dedekind di X (in X potrebbe esistere un
elemento di separazione della sezione; vale pure a dire, "estesa" in maniera naturale per esempio da Y
a X la classe inferiore di una di siffatte sezioni, in modo che continui a non avere massimo, il
complementare di essa potrebbe però avere un minimo in X). Ma è chiaro che le sezioni di Y, e quindi
le loro estensioni, sono "molte", in virtù appunto del II teorema di Cantor, laddove gli elementi di X
sono per ipotesi "pochi", e cioè che esiste qualcuna delle sezioni in oggetto la cui estensione a X sarà
ancora una sezione, ergo SD(X) ≠ ∅, c.v.d..
7. Il continuo di III specie e il continuo lineare
Ritornando alle nostre finalità definitorie, possiamo provare a rispondere ancora una volta alla
domanda quale debba essere considerato il "vero" continuo. Abbiamo già visto che (C1) è una
costituente essenziale della nozione di continuità, e che (C2) la integra opportunamente. Ma
l'analisi non appare terminata, dal momento che un continuo di II specie non può dirsi un
continuo lineare, il concetto che vorremmo invece riuscire a "definire". Infatti, con il continuo
di II specie siamo lontani da un teorema di classificazione, o di "unicità" (si rammenti che
pure il II teorema di classificazione era un teorema "parziale", limitato cioè al solo caso di
spazi numerabili): esistono tanti continui di II specie non reciprocamente isomorfi, anche con
lo stesso cardinale, e la loro totalità ha comunque cardinali crescenti (non può quindi asserirsi
che il sostegno di un continuo di II specie ha necessariamente la "potenza del continuo", il
termine che si usa per quella della retta ordinaria R, o dei numeri reali R)27. Avendo in mente
quanto accennato nella nota che chiudeva il par. 4, ai casi sopra menzionati di continui di II
specie si possono aggiungere gli spazi ordinati In, per ogni numero naturale n, dove con I
designiamo l'intervallo chiuso [0,1] di R, e nell'insieme In introduciamo l'ordinamento
lessicografico. Si tratta di spazi ordinati che hanno il medesimo numero cardinale (la potenza
del continuo), in virtù di un estremamente interessante risultato sull'infinito [cfr. ancora il
teorema (V.38) nel cap. V delle "dispense"], ma non sono isomorfi per valori distinti della
"dimensione" n. Come dire che dobbiamo sforzarci di trovare un'ulteriore proprietà
caratteristica del continuo, e non essendo per fortuna tale impresa troppo difficile, ecco che
saremo presto in grado di dichiararci finalmente soddisfatti.
L'osservazione dalla quale prenderemo le mosse per la scelta della definizione riguarda lo
stretto collegamento che esiste tra un continuo di I specie numerabile ed R, la retta ordinaria
orientata. Se è vero per esempio che Ω(A,B) non esaurisce la totalità dei punti di R, è pure
vero che i punti di R non appartenenti ad Ω(A,B) sono almeno punti di accumulazione per
elementi di Ω(A,B). Ossia, nella topologia naturale τ di R, che è indotta dall'ordine, vale la
circostanza che ogni intorno di P contiene qualche punto di Ω(A,B). Lo spazio topologico
(R,τ) è quindi del tipo che in topologia si dice uno spazio topologico separabile (niente a che
vedere però con l'attributo "separato" di cui alla nota 15), in quanto possiede un sottoinsieme
numerabile Y tale che ciascun elemento di R sia un punto di accumulazione per Y. La retta, il
piano, lo spazio ordinario, tutti gli spazi topologici Rn (con l'ordinaria topologia che si chiama
"prodotto", non con quella che deriverebbe dall'ordinamento lessicografico) per ogni numero
naturale n, sono palesemente separabili. Ciò permette di introdurre la seguente nuova
condizione:
(C3) Uno spazio ordinato si dice separabile quando è separabile la sua topologia d'ordine.
Ecco così che, proseguendo nella nostra analisi per restrizioni successive dell'idea di
continuità, perveniamo alla definizione di continuo di III specie: uno spazio ordinato che
soddisfa C1 + C2+ C3. Ovvero, riepilogando, uno spazio ordinato con almeno due elementi
che sia ovunque non discreto, completo e separabile.
Per come abbiamo messo le cose, la retta ordinaria orientata R sarà un continuo di III specie, e
tali tutti i suoi segmenti, o le semirette, aperte o chiuse. Per la nozione appena illustrata si
trova l'auspicato teorema di classificazione (quasi un "teorema di unicità", di modo che il
continuo di III specie appare il concetto che potrebbe denominarsi il continuo tout court, uso
dal quale preferiremo però astenerci, almeno qui, al fine di evitare equivoci). Lo enunceremo,
contrariamente al nostro solito, in una "veste numerica":
III Teorema di classificazione. Un continuo di III specie (X,ω) è isomorfo a uno e uno
soltanto dei seguenti spazi ordinati, intervalli di R: [0,1], [0,1), (0,1], (0,1), a seconda che
abbia rispettivamente massimo e minimo, abbia minimo ma non massimo, etc..
Corollario. In particolare, un continuo di III specie ha necessariamente la potenza del
continuo. [Si rammenti la prima nota nel par. 2 di "Zenone".]
Dim*. Accenniamo alla dimostrazione, continuando a esaminare solo il caso che (X,ω) sia
privo di minimo e di massimo. Sia dunque Y un sottoinsieme numerabile di X tale che ogni
elemento di X sia un punto di accumulazione di Y, X ⊆ D(Y). Y sarà anch'esso uno spazio
ordinato senza minimo e senza massimo, anzi certamente un continuo di I specie (se
esistessero due punti y' < y'' di Y con nessun punto di Y "in mezzo", allora gli infiniti punti di
X che sono supposti comunque tra y' e y'' dovrebbero tutti essere in X-Y, e quindi avremmo
punti di X con tutto un intorno disgiunto da Y, contro l'ipotesi che Y sia denso in X). Di
conseguenza, in virtù del II teorema di classificazione, Y sarà isomorfo (d'ordine) a un
qualsiasi altro continuo di I specie numerabile, in particolare a uno spazio ordinato Z che
faccia le stesse veci di Y per (0,1). Possiamo pensare a Z proprio come all'insieme dei numeri
razionali che hanno al denominatore una potenza di 2, cioè l'analogo numerico del ∆2(A,B)
del par. 4, dove naturalmente 0 corrisponde ad A, e 1 a B. Quello che bisogna fare è cercare di
estendere un isomorfismo f tra Y e Z a un isomorfismo tra X e (0,1), e la cosa non è difficile.
Ogni elemento x di X-Y individua infatti manifestamente una sezione di Dedekind di Y, e ad
essa rimane associata tramite f una sezione di Dedekind di Z, la quale sarà determinata da un
ben preciso numero reale ξ compreso tra 0 e 1: è chiaro che si dovrà porre ξ = f(x) (ossia,
l'estensione di f che stiamo cercando di determinare è univocamente definita dalla situazione).
Nota*. Non è vero però che gli unici continui di III specie di R, o di R, siano i suoi sottospazi
topologici connessi. Per esempio lo spazio ordinato X = [0,1)∪[2,3] in R è sconnesso, nella topologia
dell'ordine di R, ma è manifestamente un continuo di III specie (l'estremo superiore dell'insieme [0,1)
è il punto 2). Il fatto è che X risulta connesso nella sua propria topologia d'ordine (alla luce del
precedente teorema, è isomorfo a [0,1]), e questo è uno di quei fenomeni a cui abbiamo accennato
nella seconda nota presente nel par. 2. E' istruttivo cercare di comprendere bene che tutti gli intorni del
punto 2, nella topologia d'ordine di X, contengono punti di [0,1), ossia [2,3] non è chiuso in X rispetto
a tale topologia, mentre è chiuso rispetto alla topologia ereditata dall'ambiente.
Il III teorema di classificazione ha come conseguenza un altrettanto interessante "teorema di
immersione", riferito ai soli continui di I specie (X,ω) che siano separabili, vale a dire, spazi
ordinati soddisfacenti alle condizioni C1 + C2. Essendo chiaro infatti che il relativo spazio
ordinato X+SD(X) è ancora separabile, e che risulta un continuo di II specie in virtù del
teorema 9, ecco che X+SD(X) nelle attuali ipotesi è un continuo di III specie, d'onde il
seguente:
Teorema d'immersione. Ogni continuo di I specie separabile è isomorfo a un sottospazio
ordinato della retta ordinaria R.
Insomma, i continui di I specie separabili sono in qualche senso "spazi 1-dimensionali", in
quanto possono essere immersi nella retta ordinaria orientata R. Ciò giustifica l'ultima
definizione che proponiamo: si chiamino gli spazi ordinati del tipo in parola continui lineari
(naturalmente, ogni continuo di I specie numerabile sarà un continuo lineare). Un siffatto
spazio non è in generale completo (cioè, non è detto che sia di II specie, nel qual caso sarebbe
allora, necessiter, di III specie), ma si potrà "rappresentare" come un qualsiasi sottoinsieme X
di R, tale che tra due suoi punti ve ne siano sempre infiniti altri. Con questa nozione
concludiamo la nostra ricerca definitoria nella categoria dell'ordine.
8. Insiemi e spazi topologici "continui"
Possiamo ripetere adesso alcune delle osservazioni già effettuate per il concetto di discreto,
quando abbiamo analizzato le relazioni esistenti tra le tre categorie che qui giocano un ruolo
fondamentale, degli spazi ordinati, degli spazi topologici, e degli insiemi. Nei paragrafi
dedicati allo studio della continuità, assieme a ogni diversa nozione di essa, si è accompagnata
una discussione topologica (la continuità di I specie è stata collegata alla densità, quella di II
alla connessione, quella di III alla separabilità), che ci lascia modestamente soddisfatti sotto
tale profilo. Continuiamo però a tenere bene in mente che la corrispondenza T di cui al par. 2
non è funtoriale, e che un generico spazio topologico, seppure denso in sé, o connesso, o
separabile, non sarà in generale riconducibile a una struttura d'ordine, e che quindi non
avrebbe senso, secondo il nostro punto di vista, porre la questione della sua eventuale
"continuità". Ribadiamo inoltre che la denominazione corrente di spazio topologico continuo,
la quale propone le due proprietà di compattezza e connessione28, malgrado si comprendano le
ragioni che la ispirano (e che la avvicinano alla continuità di II specie), rimane comunque
"curiosa", perché esclude proprio la retta ordinaria R dall'ambito del continuo (se si preferisce
l'approccio "numerico", l'insieme dei numeri reali R, inteso come spazio topologico,
ovviamente con l'ordinaria topologia indotta dall'ordine naturale). Si tratta infatti di spazi
topologici che non risultano compatti, nonostante sia piuttosto agevole "compattificarli".
Con riferimento al diagramma riportato nel par. 2, rimarrebbe da investigare una sensata
definizione di insieme continuo, delle varie specie, e in tale contesto si ripresentano, è chiaro,
le medesime alternative esaminate nel par. 3: definire un insieme X (infinito) continuo, di
qualche specie, quando esiste uno spazio ordinato "al di sopra" di X che sia continuo, oppure
quando tutti gli spazi ordinati sopra X siano continui. Si comprende subito che il secondo caso
non si verifica mai: anche un semplice insieme numerabile è dotato di ordinamenti discreti,
continui, oltre che né discreti né continui. Rimane quindi da percorrere unicamente la prima
via, e la proposta più ragionevole da avanzare in proposito, conformemente peraltro alle
"attese", è che un insieme X potrebbe dirsi un "continuo" (sottinteso per noi: di III specie) se e
soltanto se ha la potenza del continuo, sed de hoc satis.
9. Conclusioni
Nel seguente diagramma viene sinteticamente delineato il duplice "fondamento intuitivo"
della matematica secondo la nostra attuale impostazione, comprendente la genesi del concetto
di "numero" (che si può sempre considerare il risultato di una misura, eventualmente
"assoluta", vuoi operata su una retta discreta, vuoi su una retta continua). Maggiori
delucidazioni riguardo allo schema si possono trovare nell'ultimo punto ("Un
aggiornamento...") della citata pagina web delle "dispense".
Torniamo proprio in fine d'opera sui paradossi che hanno ispirato questo lungo lavoro,
esponendo concisamente, adesso che possiamo farlo nei termini matematici più appropriati, la
soluzione (meglio: l'interpretazione) per essi proposta.
Per quel che concerne l'umana comprensione dello spazio e del tempo, l'intelletto è strutturato
in modo tale da poter concepire l'esistenza e le proprietà di due "enti ideali" come la retta
spaziale R e la retta temporale T. Spetta esclusivamente alla voluntas, mediante opera di
"intuizione", di decidere quali siano gli enunciati maggiormente adeguati a descrivere R e T,
un complesso di "verità" che sono dentro di noi e non fuori di noi (accertabili quindi per via
di intuizione, non sperimentale). Con le dovute cautele, e facendo astrazione da altre
specifiche caratteristiche, R e T possono riguardarsi come spazi ordinati, entrambi privi di
minimo e massimo. Orbene, al di là delle ipotizzabili primitive intenzioni del loro autore, i
paradossi costituiscono una sorta di "dimostrazione" perenne dei seguenti "teoremi".
Teorema 11. R e T sono spazi ordinati non isomorfi: il primo è un continuo di III specie, il
secondo uno spazio discreto. In particolare, R e T non sono isomorfi neppure in quanto
insiemi (totalità dei punti e totalità degli istanti non sono equipotenti). R e T continuerebbero
a essere non isomorfi, vuoi come spazi ordinati che come insiemi, anche se T venisse
concepito nella veste di continuo di I specie numerabile, ferma restando invece la precedente
descrizione di R.
Teorema 12. Di conseguenza, il movimento, o il cambiamento, che sono aspetti indubitabili
della realtà fenomenica, non possono essere "perfettamente" descritti mediante le due dette
"forme pure" dell'intelletto, del resto le sole a nostra disposizione per tale scopo.
Teorema 13. I paradossi potrebbero continuare a essere formulati anche nell'ipotesi che R
venisse considerato semplicemente un continuo di I specie numerabile, e a T fossero
confermate le caratteristiche di spazio discreto. R e T sarebbero allora ancora non isomorfi
come spazi ordinati, ma isomorfi come insiemi. Ossia, totalità dei punti e totalità degli istanti
risulterebbero equipotenti, circostanza che non avrebbe comunque influenza sulla permanente
impossibile riduzione delle due forme pure a una sola.
Note
1 - Tali parole rimandano alla concezione della matematica che abbiamo in diverse occasioni
illustrato, come una disciplina caratterizzata da un "divenire". Nella fase iniziale essa è "investigazione
delle leggi dell'intelletto" (Investigation of the laws of thought è il titolo di una celebre opera di
George Boole, 1854), in una successiva diviene "studio di tutte le possibilità di pensiero di una mente
infinita" (secondo un'espressione del logico-matematico Gaisi Takeuti, citata da Rudy Rucker, Infinity
and the Mind - The Science and Philosophy of the Infinite, Birkhäuser, 1982, Prefazione). Così, in
conformità al principio per cui "l'ontogenesi ricapitola la filogenesi", nella formazione di un
"matematico" (in senso generico, ciascun intelletto è in parte matematico; cfr. l'opinione di Frege
citata più avanti nell'introduzione) bisognerà concedere tempo adeguato al primo momento.
2 - All'autore è stata rimproverata spesso un'eccessiva, e antipatica, vis polemica, ma non c'è nel
fondo delle sue parole alcuna intenzione di denigrare altre persone reali (viventi): egli contesta
principalmente se stesso, ciò che è stato, e ha per molti anni insegnato a essere, ciò che non sapeva pur
credendo di sapere, ciò che non aveva capito pur credendo di capire. D'altronde, per diventare
"professori", almeno nell'università italiana, e limitando il discorso alla matematica (ma è chiaro che il
caso è generale), si è costretti a dimostrare di aver offerto contributi "originali" in qualche campo della
disciplina. Il che è possibile, parlando genericamente, e data la moltitudine di docenti richiesta
dall'odierna "università di massa", soltanto approfondendo argomenti astrusi e sostanzialmente inutili dove qui inutile è inteso non solo con riferimento ad applicazioni pratiche, ma anche a quanto si deve
poi di fatto insegnare, partendo necessariamente dalle premesse, e comunque indirizzando, volendo o
non volendo, la mente (meglio: voluntas) degli studenti sulla maniera di trattare le questioni
fondamentali. Soprattutto i giovani, quando sono chiamati a (de)formare gli esordienti, sanno poco o
nulla di argomenti su cui hanno avuto scarso tempo per pensare, e non possono quindi che proporre un
insegnamento passivo, non operando (non essendo in grado di operare) una scelta tra diverse
definizioni, e ripetendo ciò che hanno sentito sommariamente raccontare in giro in ordine ai problemi
fondazionali, in particolare quegli slogan citati dianzi. Ulteriore attenzione andrebbe concessa
all'accennato tema dell'utilità, ossia al criterio con il quale deve essere valutata la rilevanza di una
ricerca. Essa è in primo luogo personale, sviluppo della consapevolezza del ricercatore (termine che
comprende chiunque), maturazione della cultura e della coscienza, che non si può programmare
meccanicamente, né effettuare in difformità al principio "biologico" menzionato nella nota 1, ma una
serie di ostacoli predisposti con perversa razionalità impediscono la realizzazione di quest'obiettivo.
Aggiungiamo che, con invidiabile spirito di corpo, i matematici sosterrebbero oggi in modo pressoché
unanime un'opinione contraria, enfatizzando (più o meno in buona fede, cioè strumentalmente, in
periodo di predominio dell'homo oeconomicus) le ricadute pratiche della loro disciplina, e mettendo in
evidenza, allo scopo di sottrarre le proprie attività da ogni forma di "giudizio", i rari esempi di
indagini apparentemente lontane dalle "applicazioni" che si sono a posteriori rivelate fruttuose,
confondendo però, e inducendo a confondere, l'eccezione con la regola.
3 - La medesima che probabilmente ispirò al celebre gruppo di matematici tedeschi composto da
Weierstrass, Dedekind, Cantor, etc. il cosiddetto processo di aritmetizzazione dell'analisi nell'ultimo
quarto del XIX secolo (vedi il par. 6). In ogni caso, una filosofia che di certo si affermò
posteriormente, con una diffusione e consenso sconcertanti nella loro rapidità e universalità.
4 - Principles of Mathematics, 1903, da non confondersi con i successivi Principia Mathematica,
scritti in collaborazione con Alfred North Whitehead, 1910-1913.
5 - Per esempio, si trovano ottimamente esposti nel libro di Joseph G. Rosenstein, Linear Orderings
(Academic Press, New York-London, 1982) - si tratta delle stesse strutture che chiameremo qui "spazi
ordinati". Opera che peraltro, a quel che ci sembra, non fa eccezione nel panorama illustrato, poiché
non vi si troverebbero chiaramente enunciate (con le denominazioni appropriate) le definizioni di
discreto e continuo che stiamo cercando (solo a p. 65 si nomina il continuo: <<the set R of real
numbers, which he [Cantor, N.d.A..] called the continuum>>), anche se, naturalmente, le qualità
matematiche che secondo noi caratterizzano tali concetti sono tutte nominate, sebbene con altri intenti.
L'autore riconosce comunque la generale scarsa attenzione verso siffatte importanti strutture,
esordendo con le parole: <<A book about linear orderings? You mean total orderings? What can you
possibly say about them? After all, besides the natural numbers, the integers, the rationals, and the
reals, what linear orderings are there? These questions, usually unspoken, were common. It is my hope
that the reader will find this book a satisfactory response>>.
6 - Parafrasiamo qui un'azzeccata espressione di Aldo Spranzi, Anticritica dei Promessi Sposi, EGEA,
Milano, 1995 (p. 830).
7 - L'autore prosegue a p. 149, dopo aver parlato di una <<necessità razionale, ma non logica in senso
stretto>> (conseguenza della proposta dicotomia tra logica dell'intelletto e logica della ragione, vedi la
nota 44 di "Zenone") che viene esplicata dal matematico nel corso di tale attività: << Da questi esempi
si vede che l'arbitrio delle definizioni è sottomesso a criterii razionali di cui il matematico deve tener
conto: la sua libertà, proprio come nella vita, implica responsabilità>>.
8* - E in ciò almeno siamo d'accordo con B. Russell, quando sostiene (loc. cit., cap. XXXII) che: <<la
teoria della continuità è puramente ordinale>>. Si badi bene però che non si tratta della teoria dei
cosiddetti numeri ordinali, ossia dello scheletro della categoria IBO (per maggiori informazioni:
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/mat/ord.doc), ma della categoria ILO , o meglio, come qui la
chiameremo, SO (vedi la nota successiva). Uno spazio ordinato non è infatti, in generale, "bene
ordinato", termine con cui si indicano quegli spazi ordinati (sigla ibo, insiemi, anziché spazi, bene
ordinati) tali che ogni loro sottoinsieme non vuoto ammette un primo elemento. Nel contesto che più ci
sta a cuore, se uno spazio ordinato discreto può essere a volte bene ordinato [i casi (i) e (ii) del
successivo I teorema di classificazione], uno spazio ordinato continuo (di qualsiasi tipo) non può
viceversa mai esserlo: tra il primo elemento e il secondo elemento non possono esistere altri elementi.
9 - Si richiede che una relazione d'ordine soddisfi alle naturali proprietà riflessiva (per ogni x: x ≤ x),
transitiva (per ogni x, y, z: x ≤ y e y ≤ z, implica x ≤ z), e in più anti-simmetrica (se x ≤ y e y ≤ x,
necessariamente x = y), una condizione quest'ultima che si può lasciar cadere, ma allora si preferisce
parlare di preordine, anziché di ordine, ne offriremo un esempio tra breve. Il capitolo III delle citate
"dispense" è dedicato alla nozione di relazione in generale, in esso però l'ordine totale, con evidente
richiamo del resto alla sorgente intuitiva del concetto, viene detto ordine lineare (d'onde la
denominazione di "insiemi linearmente ordinati", in luogo di spazi - sottinteso: totalmente - ordinati, e
le sigle ilo per uno, ILO per la relativa "categoria"). Qui ci atterremo invece alla terminologia appena
introdotta, riservando il termine "lineare" a una delle specificazioni del continuo (continuo di III
specie), e proponendo la sigla SO per la categoria in oggetto. Sottolineiamo ciò pur essendo ben
consapevoli del fatto che osservazioni terminologiche di tale natura sono ritenute inutili, noiose, da
parte di molti colleghi, ma è nostra opinione che trovare un nome (o un simbolo) "adeguato" sia al
contrario estremamente importante. Per analogia, in fisica consideriamo assai istruttiva la scelta del
sistema di unità di misura. Parecchi fisici sosterrebbero che si tratta di questione puramente
convenzionale, che non deve interessare più di tanto, mentre le unità di misura "giuste" sono quelle
coerenti con l'intima essenza della natura che si vuole descrivere (si veda nell'articolo "Etere e
relatività", di Giuseppe Cannata, Episteme N. 2, la Tabella "Dimensioni e significati meccanici di
alcune grandezze elettromagnetiche").
10 - Collegati evidentemente del resto alle uniche strutture su cui si fondi la costruzione dell'intero
edificio matematico, secondo la progressione illustrata nella nota 1, più, se si vuole aggiungerlo
esplicitamente, l'insieme vuoto, che si indica con il simbolo ∅.
11 - Per addentrarci ancora in questioni terminologiche, indichiamo in corsivo entità numeriche,
quindi per esempio R per la totalità dei numeri reali, da non confondersi con l'R che designa la retta
ordinaria. Per indicare i numeri reali tutti i matematici usano in effetti una sorta di lettera maiuscola
"R" speciale, così comprendendosi al volo, mentre per la retta ordinaria non esiste alcun simbolo
comune (per non dire del fatto che spesso il concetto non viene neppure introdotto!), il che la racconta
lunga sugli effetti disastrosi della cancellazione dell'intuizione geometrica dai fondamenti della
matematica, e dall'insegnamento. Nei corsi preliminari di "Geometria" si insegna oggi "Algebra
Lineare" - attenzione ancora una volta ai nomi, poiché sono istruttivi - come se si potesse spiegare
bene il significato della seconda senza fornire almeno dei rudimenti della prima.
12 - In verità, a ogni spazio ordinato si può associare lo spazio ordinato "opposto" (per esempio
l'ordinamento associato a quello naturale in N è semplicemente: 1 > 2 > 3 >...), ma nel caso della retta
R esistono due ordinamenti naturali, l'uno opposto dell'altro, che risultano però, come detto, tra loro
assolutamente "indistinguibili".
13 - Non possiamo qui, per esigenze di brevità, neppure accennare a cosa sia uno spazio topologico.
Basterà dire che si tratta di un insieme in cui sono distinti certi particolari sottoinsiemi, gli aperti,
attraverso i quali si costruisce la nozione di intorno di un punto, e si può quindi procedere a operazioni
di limite, verifiche di continuità, etc.. Per saperne di più, si veda per esempio l'"Interludio topologico"
in http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/mat/continuit.doc.
14 - La differenza tra ordinamento e orientamento si percepisce solo in dimensione superiore a 1 [cfr.
la nota (III.82) nel cap. III delle "dispense"], ma sulla non banale questione, un tradizionale pons
asinorum per molti studenti di matematica, dobbiamo di necessità sorvolare.
15 - Una topologia che è manifestamente separata, cioè soddisfa l'assioma di separazione detto di
Hausdorff: dati due qualsiasi punti distinti x e y di X, esistono un intorno U (dall'iniziale del tedesco
Umgebung) di x e un intorno V di y che sono disgiunti, U∩V = ∅. In effetti, (X,τω) risulta addirittura
quello che si chiama uno spazio di Tychonov, soddisfa cioè un assioma di separazione più "forte".
16* - Decidere se una topologia τ ammetta o no un ordine dal quale sia indotta è un problema difficile,
anche se τ soddisfa la condizione necessaria deducibile dalla precedente nota [cioè, concesso a priori
che τ sia almeno una topologia separata; ). Diciamo qui soltanto che esistono ovvi esempi di topologie
non indotte da ordini pure in spazi topologici separati, come il piano ordinario P (con la sua topologia
naturale: una sottobase per gli aperti - anzi addirittura una base, per chi conosce questa distinzione - è
costituita dall'interno dei cerchi di P). Infatti in una "topologia d'ordine" (termine il cui significato è
ormai chiaro) l'eliminazione di un punto "sconnette" lo spazio (beninteso, se quello che rimane non è
un singleton, o il vuoto, e se quello che si toglie non è l'eventuale minimo, o massimo, dello spazio),
mentre ciò palesemente non accade in P. [Invece, un insieme finito possiede una sola topologia
separata, coincidente con la topologia discreta, che nel presente caso è manifestamente una topologia
d'ordine (verità peraltro di tipo generale). Su tali argomenti si ritornerà nel par. 3.]
17 - Si noti che in quest'ultimo caso, e soltanto in questo, non esiste un unico isomorfismo (o antiisomorfismo) tra (X,ω) e il suo modello univocamente determinato dalla precedente "ripartizione" in
famiglie, sostanzialmente perché Z, con il suo ordinamento naturale, è il solo tra gli spazi menzionati a
essere dotato di automorfismi propri (sottinteso, in SO ), come si invita il lettore a "visualizzare"
immediatamente senza "dimostrazione" formale (siamo dinnanzi a una situazione non geometrica in
cui si presenta in modo naturale il fondamentale concetto di traslazione - traslazioni possono anche
introdursi in N, ma allora non sono più corrispondenze biunivoche).
18 - Certo, a meno che non si intenda il "continuo" in un'accezione "forte", per esempio quella che
chiameremo continuo di II specie, con l'effetto che uno spazio ordinato numerabile non potrà mai
essere un continuo in tale senso (vedi teorema 4).
19* - La dimostrazione è in effetti piuttosto semplice. Sia X un sottoinsieme di P composto da tutti
punti isolati: per ogni punto x di X, almeno un aperto U di P soddisferà la condizione U∩X = {x}.
Poiché P ammette una base numerabile per gli aperti, chiamata Ψ una di esse, possiamo supporre che
U sia un elemento di Ψ. Considerato il sottoinsieme Ψ' ⊆ Ψ di tali aperti U, è chiaro che abbiamo a
che fare con una corrispondenza f : Ψ' → X, che manda ogni elemento U del dominio nel punto x ∈ X
di cui sopra. La corrispondenza risulta suriettiva per ipotesi, sicché esisterà senz'altro, in virtù del
cosiddetto "assioma della scelta" (vedi la già citata appendice al cap. III delle "dispense"), una
funzione iniettiva X → Ψ' che "inverte" (a sinistra) la precedente. Ne consegue che X è equipotente a
un sottoinsieme di Ψ', che per ipotesi era numerabile, e quindi che X è finito o al più numerabile.
20 - Si noti che il derivato D(X') fa riferimento alla topologia τ di X, e che in qualche caso è bene
riportare esplicitamente τ in D(X'), cioè scrivere qualcosa del tipo D τ(X'), qualora si debbano chiamare
simultaneamente in causa diverse topologie, e sia opportuno evitare equivoci. Per esempio, abbiamo
detto che un sottospazio X' ⊆ X è denso in sé se X' ⊆ D(X'), il che significa a rigore X' ⊆ Dτ(X'). Se τ'
indica la topologia indotta da τ su X', possiamo anche introdurre il derivato D τ'(X'), per il quale
risulterà manifestamente Dτ'(X') = Dτ'(X')∩X'. Si capisce allora subito che supporre X' ⊆ Dτ(X') è la
stessa cosa che supporre X' ⊆ Dτ'(X'), come era auspicabile.
21 - Il postulato di Archimede, cui si faceva cenno nell'introduzione, equivale ad affermare che
l'unione di tutti i segmenti individuati da due vertici consecutivi di ∆(A,B), o di ∆2(A,B), etc., coincide
con l'intera retta.
22 - Mentre la verità di tale asserzione è immediata per Ω2(A,B), Ω3(A,B), etc., lo è meno per Ω(A,B).
E' chiaro che qui si ha a che fare con la "necessità" di coppie di segmenti tra loro incommensurabili,
ovvero con il concetto di numero reale irrazionale, dal momento che un punto C della retta R sta in
Ω(A,B) oppure no a seconda che il segmento AC abbia o non abbia misura razionale (esprimibile
mediante il rapporto di due numeri naturali) rispetto al segmento AB . La consapevolezza
dell'esistenza di questi punti C in R, comunque fissati A e B (cioè, della circostanza che il
complementare di Ω(A,B) in R non può essere concepito uguale al vuoto), è presente sin dai primordi
della matematica greca (e pare solo della matematica di quella civiltà), sicché la possiamo dare anche
noi per acquisita.
23 - E' questo un ulteriore esempio di quanto osservato in "Zenone" (fine del par. 4), a proposito
dell'assoluta naturalezza di considerazioni preliminari intorno a concetti quali "limite" etc.. Già
Archimede, nel III secolo AC, applicando tali ragionamenti, fu in grado di collocare π nell'intervallo
tra 223/71 e 22/7 (senza che coincidesse con alcuno degli estremi), il che equivale a determinare
esattamente le prime tre cifre decimali del famoso e difficile "numero" in questione. Aggiungiamo che
unicamente nel 1770 si riuscì a provarne l'irrazionalità, con Johann Heinrich Lambert, mediante
considerazioni di calcolo infinitesimale, mentre bisognerà aspettare il 1882 per dimostrarne, grazie a
Ferdinand Lindemann, la trascendenza. Come dire che della sporadica esistenza di qualche numero
trascendente si viene edotti soltanto assai tardi nella storia della matematica, tra l'altro in seguito ad
argomentazioni piuttosto complesse, laddove quasi negli stessi anni è Cantor che persuade d'un colpo
della "necessità" di un insieme infinito di numeri trascendenti, addirittura non numerabile (vedi anche
la nota inserita più avanti nel presente paragrafo). Rimane comunque il fatto che decidere in generale
se un singolo dato numero reale sia o no trascendente è impresa estremamente ardua.
24 - Diciamo conseguenza perché preferiamo enunciare il II teorema di Cantor nella seguente forma:
così come la totalità P(X) (insieme delle "parti" di X) dei sottoinsiemi di X è "più grande" di X nel
caso di un insieme finito, ciò continua a essere vero anche per N, ossia N e P(N) non si possono
mettere in corrispondenza biunivoca tra loro (che P(X) sia sempre non inferiore a X è circostanza
evidente). Ovvero, con il linguaggio espressivo che abbiamo spesso usato, N e P(N) non hanno la
stessa "potenza", non sono "equipotenti". L'affermazione in parola può anzi estendersi a ogni insieme
infinito X, e questo è l'oggetto del cosiddetto II teorema di Cantor-Bernstein, per cui rimandiamo
ancora una volta al capitolo V delle "dispense", teorema (V.36). La dimostrazione del teorema si
risolve poi in un ragionamento relativo alla totalità delle successioni di 0 e 1, le quali corrispondono
biunivocamente ai sottoinsiemi di N [cfr. il teorema (I.91) nel I cap. delle "dispense"]. Siamo qui nel
cuore dell'analisi cantoriana del concetto di infinito, senz'altro una delle creazioni più originali, e
significative (cioè, pure da un punto di vista filosofico) della matematica del XIX secolo.
25 - Nella citata pagina http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/mat/continuit.doc (dimostrazione del
teorema (11-5-1)) si dà un'altra dimostrazione diretta di tale enunciato, che non "passa" cioè per il II
teorema di Cantor, mediante successive tricotomie. La si è desunta da Giuseppe Scorza Dragoni,
nostro professore di Analisi Matematica a Roma: Elementi di Analisi Matematica, 3 voll., Ed. Cedam,
Padova, 1961; II ed. 1963, vol. I, pp. 77-79. In quest'opera (vol. II, p. 16 e p. 30) viene chiamato
"continuo" un sottoinsieme di uno spazio Rn che sia chiuso e connesso. La definizione (puramente
topologica) possiede il merito di evitare le incongruenze relative alla compattezza di cui si dirà nel par.
8, ma ha il difetto di non essere "invariante per omeomorfismi". Per esempio, (-∞,0] e (0,1] sono spazi
topologici omeomorfi, però il primo costituirebbe un continuo di R, il secondo no (la definizione
risulta ovviamente invariante solo per auto-omeomorfismi dello spazio ambiente Rn).
26 - Citiamo l'opinione dello stesso Dedekind (nella traduzione di Oscar Zariski): <<Le ultime parole
illuminano chiaramente la via per la quale si può giungere a un campo continuo ampliando il campo
discontinuo R dei numeri razionali>>. Siamo di fronte a un limpido esempio di quanto un differente
"atteggiamento filosofico" possa influenzare la descrizione dei medesimi "fatti" matematici. Per noi il
campo dei numeri razionali (che indichiamo con Q, e non con R) non è "discontinuo", bensì continuo,
seppure soltanto di I specie (Q è numerabile, perciò incompleto, ossia non è un continuo di II specie,
in conseguenza del teorema 4). Aggiungiamo l'informazione che nel sito:
http://www.geometry.net/detail/math_discover/dedekind_cuts_page_no_4.html si può trovare l'usuale
interpretazione del lavoro del matematico tedesco: <<In the introduction to this paper he points out
that the real number system can be developed from the natural numbers: "I see the whole of arithmetic
as a necessary, or at least a natural, consequence of the simplest arithmetical act, of counting, and
counting is nothing other that the successive creation of the infinite sequence of positive whole
numbers in which each individual is defined in terms of the preceding one">>. Quest'unica "intuizione
discreta" (tale è manifestamente il passaggio al "successivo"), cioè l'iterazione, sarebbe dunque a
fondamento del continuo geometrico, esattamente l'opinione criticata nell'introduzione. Sottolineiamo
che rimane però vero, ma è un risultato appunto "banale", che i numeri razionali (positivi), e quindi un
continuo di I specie, si possono dedurre dalla retta temporale discreta T, semplicemente quali prodotto
dell'operazione di misura tra coppie ordinate di segmenti di T, anche se esiste per essi la possibilità di
una misura assoluta (rispetto al segmento minimo), che fornisce esclusivamente dei numeri "interi"
(naturali) - si rammenti la seconda nota del par. 5 di "Zenone". Insomma, i numeri razionali
scaturiscono in maniera "spontanea" due volte, una da T e una da R, nel secondo ambiente come un
caso particolare (cfr. l'inizio del par. 9). L'immersione dei numeri razionali di origine temporale nei
numeri reali tutti di origine spaziale corrisponde palesemente all'immersione messa in evidenza nella
seconda nota del par. 4: ribadiamo che si tratta di una circostanza che non giustifica alcun tentativo di
riduzione, in nessuno dei due versi.
27* - Possiamo trovare esempi di continui di III specie anche in cardinalità superiori, per di più
indefinitamente crescenti. Si prendano le mosse dagli spazi ordinati Rn citati nell'ultima nota del par. 4,
e vi si ponga all'esponente, in luogo del numero naturale n, un qualsiasi numero ordinale α. Come si
sa, Rα può considerarsi uno spazio di funzioni del tipo A → R, dove A sia uno spazio bene ordinato
rappresentante l'ordinale α. L'ordinamento lessicografico in questo spazio funzionale rimane definito
nel seguente modo: per ogni coppia ordinata di funzioni f e g, supposto che sia f ≠ g, si introduce
l'insieme non vuoto degli elementi x ∈ A tali che f(x) ≠ g(x), e se ne considera il minimo elemento y
(certo esistente per l'ipotesi di buon ordinamento): si stabilisce quindi che è f < g se f(y) < g(y). E'
chiaro che, rispetto all'ordine in oggetto, Rα è sicuramente un continuo di I specie, e che di
conseguenza il suo completamento, ai sensi del teorema 9, è un continuo di II specie del tipo ricercato.
28 - C'è chi aggiunge alla due citate condizioni quella che lo spazio topologico sia metrizzabile. Ciò ha
l'effetto non solo che diverse nozioni di compattezza vengono a coincidere, ma anche che, poiché uno
spazio compatto e metrizzabile risulta certamente separabile, uno spazio topologico che sia "continuo"
in tale senso ha necessariamente la potenza del continuo, e questa è una circostanza interessante, con
riferimento a quanto si dirà tra breve, alla fine del paragrafo.
(Julius Richard Wilhelm Dedekind, 1831-1916)
(dal sito http://nl.wikipedia.org/wiki/Julius_Wilhelm_Richard_Dedekind)
[Richard Dedekind nacque a Braunschweig (Brunswick), come Carl Friedrich Gauss, che vi aveva
avuto i natali nel 1777. Iniziò i suoi studi all'università di Göttingen nel 1850, dove fu uno degli ultimi
pupilli del Fürst der Mathematiker (princeps mathematicorum), che morì nel 1855. Proprio con Gauss
si addottorò nel 1852, e alla sua morte ne prese il posto. Ritornò a Braunschweig nel 1862, quale
docente al Politecnico, e ivi rimase tranquillamente fino al termine della vita. Questi dettagli biografici
sembrano un'ulteriore conferma dell'influenza filosofica, secondo noi "nefasta", che il <<sommo
geometra>> esercitò su tutti (o quasi: per esempio non pare che Cantor abbia mai avuto legami diretti
con Göttingen, a parte l'amicizia personale con Dedekind) i "rifondatori" tedeschi della matematica
nella seconda metà dell'Ottocento (si veda in Episteme N. 6, Parte II, lo splendido Gaussbuster
composto da Rocco Vittorio Macrì per il suo "Neopitagorismo e Relatività").]
*****
Ringraziamenti. L'autore menziona con riconoscenza i colleghi Alessandro Caterino, Sauro
Tulipani, Maria Cristina Vipera e Paolo Zappa, per le stimolanti discussioni e suggerimenti
ricevuti nel corso della stesura dell'articolo (alla terza si debbono in particolare la
dimostrazione di cui alla nota successiva al teorema 1, e il ragionamento che chiude la nota
inserita alla fine del par. 6; al quarto la semplice dimostrazione qui proposta del II teorema di
classificazione).
-----
[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme.]
[email protected]
26
Analisi strutturale di un sistema scolastico in cambiamento
Un viaggio nella scuola italiana
(Umberto Lucia)
Elementi di storia della scuola in Italia
1. La scuola nell'Italia prima dell'unificazione (1750-1860)
Solo verso la fine del Settecento si manifesta in Italia una diffusa attenzione ai problemi
dell'organizzazione della scuola pubblica, sulla scia illuminista e della Rivoluzione francese.
Un ruolo determinante verso questo accresciuto interesse fu lo scioglimento (temporaneo)
della Compagnia di Gesù (1773) in quanto la classe docente, di fatto, apparteneva in
precedenza all'ordine religioso e si presentava il problema di trovare maestri laici. Inizia a
prendere corpo il fenomeno della statalizzazione delle funzioni pubbliche e, quindi, anche
della scuola, affiancata dal tentativo di impostare una politica scolastica a favore
dell'istruzione popolare. La mancanza di maestri, l'inefficienza della scuola magistrale che
determinava l'impossibilità di formarne nuovi, la carenza di fondamenti teorici e sperimentali
nella didattica, l'assoluta incapacità culturale di interpretare l'educazione del popolo come
educazione del cittadino e gli scarsi investimenti economici da parte dello Stato costituivano i
maggiori problemi che affliggevano la scuola.
Nell'Italia giacobina, tra il 1796 ed il 1799, si sviluppa l'idea che la formazione non debba
essere affidata ad un precettore, ma che sia compito dello Stato. Il popolo viene concepito
come componente attiva della società e per questo gli si deve assicurare una corretta
formazione.
Il Lombardo-Veneto
La riforma che l'abate Giovanni Ignazio Felbiger aveva realizzato nel 1774 per le scuole
tedesche viene recepita ed applicata, molto più tardi, anche nel Lombardo-Veneto. Solo verso
il 1787 vennero aperte anche a Milano, a seguito di alcune esperienze a Lodi, Cremona e
Casalmaggiore, venti scuole maschili e dodici femminili per il ceto "mezzano", affidandone la
gestione ad ordini religiosi. Mentre in Austria l'istruzione era gratuita ed obbligatoria, nel
Lombardo-Veneto l'insegnamento, da quello elementare a quello del ginnasio, era a
pagamento, eccetto per gli studenti provenienti da particolari situazioni di estrema povertà, ai
quali si consentiva la frequenza gratuita in cambio del loro lavoro nella pulizia dei locali ed in
servizi generici. Nel 1791 il governo austriaco varò una riforma della scuola elementare, di
cui fu artefice Francesco Soave, in base alla quale l'insegnamento nelle scuole elementari e
ginnasiali veniva reso gratuito. Nel 1798 la Repubblica Cisalpina, sotto la guida di Francesco
Melzi d'Eril, varò un piano generale della Pubblica Istruzione steso dal matematico Lorenzo
Mascheroni: si organizzava la scuola in primaria o elementare, della durata di due anni,
presente in ogni parrocchia o comune, gratuita e obbligatoria, intermedia o secondaria di
primo grado, in ogni dipartimento, centrali o secondarie di secondo grado, in ogni capoluogo,
e di approvazione, a Bologna ed a Pavia, affiancate da scuole militari e da un Istituto
nazionale con funzione di promozione della ricerca nel settore degli studi.
Con il ritorno delle truppe francesi in seguito alla vittoria di Marengo (14 giugno 1800), la
Repubblica italiana, poi Regno d'Italia, istituì (L75/1802) una Consulta di Stato per la
Pubblica Istruzione con il compito di controllo su tutte le scuole del Regno. L'istruzione- il cui
onere economico veniva ripartito assegnando al governo centrale le Università di Bologna e
Pavia, le Accademie di Belle Arti di Milano, Venezia e Bologna, e le scuole speciali; ai
dipartimenti i licei; ai comuni i ginnasi e le elementari - subiva la riorganizzazione in scuole
sublimi, che comprendevano Università, Accademie e scuole speciali; scuole medie, che
comprendevano i licei ed i ginnasi, ed infine le scuole elementari, per le quali si faceva
richiamo esplicito al piano del Mascheroni.
Con Decreto del 15 novembre 1811 Napoleone ristrutturava l'ordinamento degli studi nel
Regno; si istituivano: la scuola normale, il limen, il ginnasio, il liceo (rispettivamente: le
scuole elementari; la scuola di preparazione al ginnasio; un corso di studi biennale, in cui si
insegnavano calligrafia, latino, italiano, francese e aritmetica al primo anno, mentre, al
secondo, retorica, storia, geografia e disegno; un successivo corso di studi biennale, in cui si
insegnavano storia, geografia principi generali di belle arti, istituzioni civili, elementi di
algebra e geometria, scienze naturali e disegno), e infine l'università. Si dedicò particolare
attenzione alla classe magistrale, alla quale si richiedeva particolare impegno e fedeltà,
verificandone sempre la coerenza, ma gratificandola con uno stipendio particolarmente
interessante.
Con il ritorno del dominio austriaco, la scuola venne riportata alla situazione precedente al
periodo francese, anche se si progettarono piani di intervento per il riordino degli studi. Il
Regolamento del 7 dicembre 1818 suddivise le elementari, gratuite e obbligatorie, in minori,
maggiori e tecniche, anche se le tecniche non vennero mai avviate; le prime due erano di tre
classi più una quarta, denominata reale, di aggancio alle tecniche. Le secondarie si
articolavano in un ginnasio ed un liceo. L'insegnamento era organizzato in un rigido apparato
gerarchico, il cui controllo si articolava in cariche ispettive centrali, provinciali e distrettuali.
Ogni maestro doveva conseguire una abilitazione all'insegnamento, seguendo una scuola di
metodica, tenuta nel capoluogo (la scuola era trimestrale per i maestri delle minori e
semestrale per quelli delle maggiori).
Il Regno di Sardegna
Anche nel Regno di Sardegna, nella seconda metà del Settecento, si manifesta la tendenza alla
statalizzazione della scuola, assegnando l'ordinamento dell'istruzione al Magistrato della
Riforma, che lo controllava con atteggiamento poliziesco, al fine di prevenire ogni libertà di
insegnamento e di apprendimento.
Si istituiscono le regie scuole di ordine superiore (Latinità, Filosofia, Teologia e Chirurgia)
nei capoluoghi di provincia e scuole di lettere latine nei grandi comuni. Le scuole elementari
erano costituite da tre classi (quarta, quinta e sesta) precedute da una classe preparatoria,
suddivisa in due corsi, e seguite da una settima classe. I giovani di "basso ceto" sociale
potevano frequentare le scuole popolari tenute dal parroco.
La prima riforma concreta dell'ordinamento scolastico avvenne sotto il governo francese nel
1799, quando fu abolito il Magistrato della Riforma e fu istituita una Commissione per il
riordino degli studi. La commissione suddivise la scuola in due ordini: primario (vi si
insegnavano: lingua italiana, elementi di morale, elementi di aritmetica pratica e istituzioni
sociali ) e secondario (vi si insegnavano: grammatica italiana, elementi di storia e geografia,
diritti e doveri dell'uomo e del cittadino, elementi di geometria, elementi di stile della lingua
italiana, latino e principi di lingua greca). Il Regolamento del 5 gennaio 1802, poi, estendeva
lo studio obbligatorio della lingua francese a tutti gli ordini di scuola. Inoltre si affiancano alle
scuole primarie e secondarie, a carico economico dei comuni, anche i licei triennali e le scuole
speciali (università ed accademie) a carico economico dello stato. Con legge del 12 febbraio
1812 l'istruzione primaria venne poi ridefinita elementare (di durata quadriennale ), divenendo
obbligatoria e gratuita in ogni comune.
Con la Restaurazione, il governo sabaudo di Vittorio Emanuele I mantenne in vigore le
Costituzioni del 1771 ed i Regolamenti del 1772 (Editto del maggio 1814), e la scuola tornò
in gran parte alla gestione degli ordini religiosi, in gran parte Gesuiti, con la quasi totale
esclusione di controllo statale. Poco rimase delle riforme precedenti e la traccia illuministica
si ritrova di fatto solo nelle Regie Patenti di Carlo Felice (istituite il 23 luglio 1822), che
rimasero il riferimento della formazione piemontese sino al 1848: si prevedeva una scuola
elementare biennale gratuita, divisa in una sezione maschile ed una femminile, e presente in
ogni comune. Per poter insegnare era necessario un certificato di lodevole condotta e di
lodevole servizio a vantaggio della religione e dello stato, che poteva essere rilasciato solo dal
Vescovo. Le scuole elementari erano controllate dall'ordine religioso dei Fratelli della
Dottrina Cristiana, sino a che la legge Boncompagni (4 ottobre 1848) e la successiva legge
Casati (1859) spostarono il controllo della pubblica istruzione allo stato, riformando il sistema
scolastico in tre gradi di istruzione: elementare, suddivisa in inferiore biennale e superiore
biennale, secondaria ed universitaria. Si istituivano anche corsi speciali per l'avvio alle
professioni nei collegi di Torino, Genova e Nizza. Le leggi Lanza (L2328/1857 riordino
ministeriale; L2878/1858 scuola di formazione per insegnanti elementari) portarono un
maggiore controllo amministrativo del Ministero della Pubblica Istruzione ed istituirono le
Scuole di formazione del personale insegnante delle scuole elementari.
Lo Stato Pontificio
Il sistema scolastico organizzato e omogeneo era praticamente inesistente. Ogni ordine
religioso gestiva scuole private con metodi e programmi propri.
Con Leone XII si prende in considerazione la costituzione di un sistema uniformato di
formazione scolastica1. Il Regolamento del 1825 disciplina il numero e le sedi delle scuole
private e definisce regole precise per la professione magistrale quando esercitata dai laici, con
programmi differenti per maestri e maestre. Le alunne non potevano proseguire gli studi oltre
il 13mo anno, a meno che non venissero accompagnate a scuola, che era costituita di fatto
dalle case private dei maestri. Gli alunni poveri non pagavano, mentre per quelli abbienti era
definita una tassa scolastica che variava in funzione delle materie insegnate nella scuola.
Erano presenti spesso le pene corporali, intese come strumento di insegnamento. L'andamento
scolastico e la disciplina erano sorvegliati dal una deputazione di ecclesiastici diretta dal
cardinale vicario, che distribuiva anche i premi e sceglieva i libri di testo.
I Ducati di Parma e Modena
Nel 1806 fu istituita l'istruzione elementare gratuita della durata di quattro anni. Il curricolo è
articolato in cinque materie: francese, italiano, latino, aritmetica, geometria. Si proibiscono le
punizioni corporali.
Con la Restaurazione il controllo delle scuole ritornò al Magistrato dei Riformatori che
ricondusse l'insegnamento ai principi della morale religiosa. Per sostenere gli esami annuali
era necessario il certificato di frequenza delle lezioni religiose e degli esercizi di culto. Le
scuole primarie avevano sede solo a Parma, Piacenza, Borgo San Donnino, Guastalla e
Busseto. Il governo emanò un nuovo piano di studi (14 novembre 1814) che prevedeva
l'esame di concorso per i maestri delle scuole primarie e secondarie.
Dal 1818 Maria Luigia d'Asburgo dimostrò notevole interesse per il sistema scolastico, anche
per quello popolare, e lo riordinò più volte, rivolgendo attenzione anche agli stipendi e alle
pensioni degli insegnanti.
Modena, invece, seguì gli sviluppi della Repubblica Cisalpina sino al ritorno al governo del
duca Francesco IV d'Austria-Este, che riaffidò il controllo delle scuole all'Ordine dei Gesuiti.
L'assenza di un ordinamento scolastico centrale finì quando Maria Luigia, nel 1831, varò il
Piano di riordino dell'istruzione sul modello piemontese.
Il Regno di Napoli e delle Due Sicilie
I giovani, oltre alle materie culturali, venivano introdotti al ballo, all'uso delle armi,
all'equitazione, al gioco del pallone, del biliardo e della racchetta. Nel 1789 a Napoli e poi a
Palermo si istituiscono le scuole di preparazione dei maestri e nel 1790 per le maestre.
Con la costituzione della Repubblica Partenopea si ha il rientro dei Gesuiti, e con decreto del
31 ottobre 1806, non trovando maestri in numero sufficiente, si affida l'insegnamento
all'autorità religiosa. E' soltanto il decreto n. 47 del 1811 che interviene rendendo gratuito e
diffuso su tutto il territorio l'istruzione, affidandone la gestione allo stato.
Restaurato il Regno borbonico, Ferdinando IV, ormai divenuto Ferdinando I delle Due Sicilie,
riaffidò la gestione dell'istruzione agli ordini religiosi (editto del 1816). Nel 1819 la nomina
dei maestri venne affidata ai Comuni. Si istituirono anche le scuole femminili. Spesso le
lezioni venivano svolte presso la casa del maestro, con quasi totale assenza di sussidi didattici.
A seguito del riferimento esplicito all'Indice dei libri proibiti (decreto del 2 giugno 1821) il
sistema scolastico entra in un clima poliziesco, con il controllo delle attività didattiche dei
maestri. Ferdinando II stabilisce, con decreto del 10 ottobre 1843, la completa rinuncia della
gestione scolastica da parte dello stato, affidandola ai vescovi.
Il Granducato di Toscana
Pietro Leopoldo I (1747-1792) ebbe molta attenzione per l'istruzione. Le scuole vennero
affidate ai Padri Scolopi, ai preti secolari ed a laici. E' lo stato che si fa carico dello stipendio
dei maestri. L'istruzione affronta due distinti problematiche: fornire una adeguata istruzione
popolare e formare una nuova classe dirigente. Dopo il 1847 il sistema scolastico venne
riaffidato al clero.
2. La scuola nell'Italia dopo l'unificazione (1861-1900)
Il testo fondamentale cui fa riferimento il sistema dell'istruzione è la legge 3725/1859
(promulgata il 13 novembre) del conte Gabrio Casati, ministro della Pubblica Istruzione del
Regno di Sardegna nel gabinetto Lamarmora. Essa sanciva il diritto del cittadino di
provvedere direttamente all'istruzione dei propri figli a mezzo del sistema scolastico statale o
privato. Inoltre si concedeva il diritto di aprire scuole a chi avesse compiuto il
venticinquesimo anno di età, possedesse gli appropriati requisiti culturali ed accettasse la
verifica dello stato condividendone i programmi didattici. Si introduceva l'obbligo
dell'insegnamento religioso e si affidava ai Comuni la gestione della scuola elementare.
L'istruzione secondaria e quella universitaria erano di competenza statale. La formazione del
personale docente, però, non veniva seguita con molta attenzione, generando parallelamente
una rigida struttura gerarchica che controllava pienamente personale e programmi scolastici.
3. La scuola in Italia nel XX secolo
L'avvento dell'età giolittiana determina una migliore condizione economica ed un più liberale
atteggiamento politico: questa nuova situazione consente di affrontare efficacemente la
situazione scolastica ed i problemi ad essa connessi. Nella scuola elementare si varano i
seguenti provvedimenti.
1 - L407/1904, legge Orlando: prolunga l'obbligo scolastico a 12 anni, con quattro anni di
scuola elementare seguito dal biennio di scuola media oppure da quello del corso popolare,
istituisce le scuole serali e festive per gli analfabeti, la refezione e l'assistenza scolastica per i
più poveri (a carico dei Comuni), istituisce la Direzione Generale dell'istruzione elementare
ed aumenta lo stipendio dei maestri.
2 - L383/1906: istituisce la Commissione Centrale per il Mezzogiorno, con la finalità di
sconfiggere l'analfabetismo nelle isole e nel Sud, incrementando le scuole serali e festive. Si
verificano le condizioni dell'istruzione nel Regno sotto la responsabilità dell'ispettore Camillo
Corradini.
3 - L487/1911, legge Credaro: si diede un grande impulso all'espansione sistematica
dell'istruzione elementare, introducendo il principio che la scuola elementare è un servizio
pubblico statale, riorganizzando l'amministrazione in senso più liberale, introducendo anche
gli asili, le scuole per gli handicappati e per i carcerati, finanziando la costituzioni di
biblioteche popolari e magistrali. Introduce i tirocini formativi per docenti delle secondarie
introducendo la figura dell'assistente tirocinante;
4 - L27/1914, legge Credaro: si emanano i nuovi programmi scolastici, redatti da Pietro
Pasquali, sull'educazione prescolastica. I maestri diventano dipendenti dello stato, e se ne
aumenta ulteriormente lo stipendio; il RD141/1906 ed il RD142/1906 introdussero un nuovo
stato giuridico del personale docente, riducendone i gradi gerarchici, mentre il successivo RD
del 3 agosto 1908 determinò il reclutamento del personale docente a mezzo di concorso.
La riforma più completa del sistema scolastico, però, venne effettuata nel periodo fascista da
Giovanni Gentile. Egli rafforzò l'autoritarismo burocratico e didattico richiamandosi
direttamente alla legge Casati del 1859, e accentrando tutta l'organizzazione scolastica nelle
funzioni del ministro. Il risultato era di una rigida organizzazione controllata interamente dal
preside da un lato, mentre dall'altro un ampio progetto educativo gestito dall'insegnante nella
classe. Il fondamento del principio educativo a livello primario era la religione cui si
affiancava l'arte. L'innovazione più profonda introdotta dal Gentile fu a livello di scuola
secondaria nei corsi inferiori e superiori. Si operò una equiparazione di fatto tra scuola
pubblica e privata, introducendo l'esame di Stato. Si introdusse il termine specifico di istituto
magistrale e l'accesso al liceo classico venne reso più difficile con la richiesta di superamento
di un esame di ingresso. I cambiamenti introdotti avevano lo scopo di generare una
professionalizzazione della scuola secondaria per evitare un sovraffollamento nei licei (liceo
classico e l'allora recentemente istituito liceo scientifico), uniche scuole che consentivano
l'accesso all'Università.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il Ministro Guido De Ruggiero introduce i
nuovi programmi innovativi del 1945 per la scuola materna ed elementare, ripristinando i
Patrocini scolastici ed istituendo la scuola popolare, che riuniva in sé le scuole serali, estive e
festive. Nel 1957 le elementari vennero suddivise in due cicli didattici, uno biennale e l'altro
triennale. La scuola media inferiore e superiore subiranno dei mutamenti dagli anni Sessanta,
introducendo un maggior peso della componente collegiale dei docenti. Nel 1969 si riforma
l'esame finale delle superiori, rivisitando l'esame di maturità in seguito alle problematiche
emerse durante i moti di protesta studenteschi del 1968, e consentendo l'iscrizione a tutte le
Facoltà universitarie agli studenti in possesso di un qualsiasi titolo secondario.
4. La scuola come viene concepita oggi in Italia
Dopo il lungo itinerario ideale che abbiamo dianzi sommariamente descritto, si afferma il
concetto di scuola come l'istituzione sociale cui è demandata l'educazione dei giovani, intesa
come crescita della persona umana (L30/2000, art.1) finalizzata alla convivenza civile,
attraverso il sistematico insegnamento-apprendimento di precisi contenuti disciplinari.
Le basi culturali del concetto di scuola si sono delineati gradualmente dalla fine del XVIII
secolo sino ai giorni nostri, crescendo la consapevolezza che la scuola è parte integrante e
fondante di uno stato che, rappresentante della cultura sociale, prevede il ruolo della scuola
come strumento e funzione finalizzata al miglioramento della convivenza civile della
comunità. Così le caratteristiche peculiari della scuola risultano:
a - l'organizzazione sistematica di interventi finalizzati alla crescita delle capacità intellettuali
della persona e la conseguente strutturazione dei processi di apprendimento;
b - la sollecitazione costante a trasferire le conoscenze apprese a contesti differenti da quello
scolastico;
c - la constatazione che il ruolo della scuola contiene in sé il concetto di autonomia culturale.
In conseguenza i principi su cui la scuola deve fondarsi sono:
1 - autonomia e laicità;
2 - diffusione a tutti dell'offerta formativa, cioè aperta a tutti indistintamente;
3 - unitarietà, cioè uguale per tutti;
4 - chiarezza nella progettualità socio-politica, cioè centro di trasmissione della cultura e della
identità di una comunità;
5 - centralità operativa del sistema formativo, cioè il fulcro del sistema socioculturale;
6 - progettualità antropologica, cioè fulcro della crescita della persona umana nel contesto
della convivenza civile;
7 - programmazione curricolare, cioè progettazione di percorsi che rispondano alle esigenze
storiche, formative e professionalizzanti di un'area geografica;
8 - internazionalizzazione della cultura, cioè capacità di analizzare criticamente culture
diverse comprendendone la complementarità;
9 - convivenza etnica, cioè comprensione della fattibilità di coesistenza ed integrazione di
etnie differenti;
10 - produttività formativa, cioè capacità di formalizzare processi educativi di crescita
culturale e umana.
L'autonomia scolastica come necessità
1. Il contesto, parola chiave: globalizzazione
Per comprendere come operare in modo costruttivo nei confronti della formazione sia
scolastica sia professionale, è necessario esaminare e comprendere il contesto nel quale deve
operare il sistema scolastico nel suo complesso.
La parola chiave degli ultimi anni è "globalizzazione", alla quale possiamo affiancare gli altri
due concetti che costituiscono la triade del contesto socio-economico attuale:
"internazionalizzazione" e "mondializzazione", ma tutti e tre i termini saranno qui considerati
equivalenti, sostanzialmente sinonimi. La globalizzazione è il fenomeno culturale più
significativo dell'ultimo decennio del XX secolo, anche se è difficile stabilirne le relazioni con
il contesto particolare e locale di ogni realtà. E' incontrovertibile che, parallelamente alle
conseguenze difficili cui ha dato origine, essa abbia svolto un ruolo primario nel mutamento
strutturale del mondo imprenditoriale e produttivo, divenendo il traino per il cambiamento
radicale ed irreversibile dell'economia mondiale e locale. L'unico metodo per rilevarne la
presenza consiste nel determinare l'intensità dei flussi di capitale e degli investimenti stranieri.
Una conseguenza non direttamente tangibile della globalizzazione consiste nella libera
circolazione delle informazioni, e nel conseguente scambio di conoscenze. Si possono
evidenziare i seguenti flussi: flussi finanziari, flussi di servizi, cooperazione internazionale
formale, flusso di conoscenze globale e trasferimento non evidente di conoscenze.
Il mezzo principale utilizzato dal mercato globale è costituito dalla tecnologia
dell'informazione e dalle reti telematiche. Queste sono il punto di forza del controllo logistico
e della possibilità di gestire sedi di produzione geograficamente lontane.
Per mantenere la sua posizione di privilegio economico l'Unione Europea ha assunto due
strategie parallele consistenti l'una nella realizzazione dell'unione monetaria ed economica e
l'altra nell'allargamento geografico-politico verso i paesi dell'Est. Le aspettative di queste
azioni sono: l'espansione delle dimensioni del mercato effettivo, la trasparenza dei prezzi, la
scomparsa dei parametri di scambio monetario e del relativo rischio di scambio, l'imposizione
centrale della politica economica ed infine il mantenimento della stabilità economica.
A queste misure si sono recentemente affiancate anche la liberalizzazione e la competizione
finanziaria, con l'obiettivo di realizzare una maggiore flessibilità del mondo del lavoro ed un
incremento nella disponibilità di capitali di investimento. Queste azioni di "difesa" istituite
dall'Unione Europea, però, oltre a conseguire gli obiettivi previsti nei paesi ad elevata
tecnologia e con capacità di notevole adattamento strutturale, hanno dato origine anche a
conseguenze difficili per i paesi a minor livello tecnologico e con strutture burocratiche e
sociali più rigide; si è determinato un aumento sia del divario tra regioni ricche e regioni
povere sia della competizione interregionale. Infatti, le realtà imprenditoriali localizzate
geograficamente in aree più avvantaggiate sono maggiormente favorite rispetto a quelle site in
aree più povere. Questa situazione si è instaurata perché l'unione economica e monetaria ha
acuito la pressione sia della concorrenza dei sistemi produttivi più forti interni all'area
europea, sia di quelli dei paesi ad essa esterni, ma caratterizzati da minor costo del lavoro, o
maggior tecnologia di processo e di prodotto.
2. Necessità del contesto, parole chiave: innovazione e necessità formative
In questo contesto globale, per mantenere il proprio livello economico e la propria
concorrenzialità nei mercati, gli stati delle regioni meno favorite (tra cui viene considerata
anche l'Italia) hanno dovuto instaurare politiche di intervento finalizzate all'innovazione del
sistema produttivo e gestionale. L'innovazione è stata focalizzata su alcuni obiettivi specifici
che possono essere individuati nei seguenti settori: gestione dei sistemi e degli impianti di
produzione, processi di produzione, tecnologia applicata e prodotti a maggior contenuto
tecnologico.
Si originano, in conseguenza, alcuni fenomeni socio-economici che determinano la necessità
di formazione coerente con le esigenze specifiche di innovazione. Si hanno così:
- la regionalizzazione in economia informatizzata, che determina la rapida diffusione di nuove
tecnologie, a seguito della quale si instaura la necessità di tecnici altamente specializzati ed il
loro costante aggiornamento;
- la tipologizzazione dei prodotti e dei servizi, che necessita della formazione di tecnici di
settore;
- la specializzazione e la complementarità, che presentano una crescente richiesta di gestione
della logistica, di reti informatiche, di alta tecnologia e di gestione di alto livello, con la
conseguente richiesta di un sistema formativo dal quale si apprenda a gestire situazioni
differenti e ad elevato contenuto tecnologico;
- la cooperazione e la competizione interregionale, a seguito delle quali si generano la
diffusione dell'innovazione scientifica, la ristrutturazione produttiva, la riconversione e le
azioni mirate ad obiettivi chiave, che necessitano dell'adeguamento dell'offerta di formazione
per gli adulti, di formazione integrata e di quella a distanza.
3. La riforma scolastica, parola chiave: autonomia
Per far fronte a queste nuove situazioni si è dovuto modificare il sistema formativo,
contestualizzandolo nella realtà in cui deve operare, pur mantenendo una identità di base
comune a tutto il Paese. Si è introdotto, così, il concetto di "autonomia" nella Scuola.
E' con l'autonomia didattica che, nel rispetto della libertà di insegnamento dei docenti, della
libertà della scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali della formazione, le
singole istituzioni scolastiche concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi
funzionali sia al diritto di apprendere sia alla crescita educativa degli alunni, promuovono le
potenzialità individuali e riconoscono, valorizzandole, le diversità. In questo ambito si
definiscono il tipo di studio ed il ritmo di apprendimento. Si possono, così, adottare forme di
flessibilità nell'articolazione modulare del monte ore annuale di ciascuna disciplina, nella
definizione dell'unità oraria di insegnamento, nell'attivazione di percorsi orari individualizzati,
nella gestione in senso modulare di gruppi di alunni, nell'aggregazione in ambito disciplinare.
Si introduce, in questo modo, il fondamentale concetto della programmazione didatticopedagogica. Si possono introdurre iniziative di recupero, integrazione, approfondimento e
pluridisciplinarità. Si può operare la scelta, l'adozione e l'utilizzazione di metodologie,
strumenti e nuove tecnologie nel percorso formativo.
Il risultato di questa azione dovrebbe essere di consentire un duplice processo di uscita/entrata
ed entrata/uscita tra scuola, formazione professionale e mondo del lavoro.
L'autonomia organizzativa risponde alla necessità di poter gestire, in base alle necessità locali,
le modalità di organizzazione per esprimere la libertà progettuale e per conseguire gli obiettivi
educativi e formativi.
L'autonomia nella ricerca, sperimentazione e sviluppo dovrebbe consentire di realizzare la
progettazione formativa e la conseguente valutazione, l'aggiornamento culturale e
professionale, l'utilizzo delle nuove tecnologie, la ricerca didattica sia nell'informazione sia
nella comunicazione delle singole discipline, la documentazione educativa e l'integrazione
con la formazione professionale.
In questo contesto appare fondamentale il POF - Piano di Offerta Formativa - con il quale
ogni singola istituzione scolastica realizza l'autonomia. Questo è un documento di identità
culturale dell'istituto da un lato e di progettazione delle attività formative dall'altro. In esso
sono esplicitate le finalità riguardanti le attività curriculari e quelle extracurriculari, le azioni
educative e la struttura organizzativa a supporto delle stesse: tale documento riflette le
esigenze del contesto culturale, sociale ed economico nel quale la scuola si trova ad operare.
Viene elaborato dal Collegio dei Docenti e tiene conto delle proposte e dei pareri delle
associazioni dei genitori e degli studenti, viene poi adottato dal Consiglio di Istituto o di
Circolo. Tale documento è, pertanto, un atto pubblico. E' compito del dirigente scolastico
attivare i necessari rapporti sia con gli Enti Pubblici sia con le realtà culturali, sociali ed
economiche operanti sul territorio per realizzare pienamente e contestualizzare quanto
previsto dal POF del suo istituto.
Nel contesto dell'autonomia si introducono anche altri elementi quali la collaborazione tra
istituti con la nascita di reti di scuole, la definizione curriculare, l'ampliamento dell'offerta
formativa anche extracurriculare, la certificazione di quanto lo studente ha svolto, e la
diffusione dell'innovazione in collaborazione con gli Enti Locali e le Regioni.
In particolare si sono istituiti i corsi post-secondari tra cui di notevole importanza sono gli
IFTS, finalizzati alla formazione di personale altamente specializzato per l'inserimento diretto
nel mondo del lavoro.
4. Inserimento nel mondo del lavoro di giovani diplomati, parola chiave: IFTS
La FIS - Formazione Integrata Superiore - è un percorso formativo post secondario non
universitario che si avvale di un importante ed innovativo strumento, l'IFTS (Istruzione e
Formazione Tecnica Superiore). L'IFTS ha una durata di due-quattro semestri con il cinquanta
per cento di stage obbligatorio. L'obiettivo è di formare "lavoratori della conoscenza",
rapidamente inseribili nelle realtà produttive.
Si inserisce all'interno dell'accordo sul lavoro del 24.09.1996 che prevede l'istituzione di un
sistema formativo finalizzato alla partecipazione di tutti i soggetti operanti sul territorio. In
particolare i soggetti individuati sono la Scuola, l'Università e gli Enti di Ricerca, il Mondo
del Lavoro e la Formazione Professionale, con il fine di ottimizzare e valorizzare l'esperienza
dei singoli soggetti.
L'IFTS nasce per rispondere ad alcune esigenze riassumibili nei seguenti obiettivi: il
riequilibrio territoriale, l'aumento di figure professionali post-diploma, l'allineamento allo
standard europeo e la formazione di personale che sia in grado di introdurre innovazione nel
sistema produttivo, la possibilità di una adeguata formazione applicata spendibile
immediatamente nel mondo del lavoro per chi non intende proseguire negli studi universitari
e per chi non potrà proseguire in tali studi - dato che la prossima riforma universitaria prevede
il numero chiuso ed il superamento di una prova di selezione, oppure per i costi elevati verso
cui le tasse universitarie potrebbero giungere.
I settori individuati nei quali operare sono: l'agricoltura, l'ambiente, i beni culturali, l'edilizia,
l'industria ed il commercio, la qualità e la sicurezza, i servizi sociali, la telematica, informatica
e multimedialità, i trasporti ed il turismo.
5. Scuola, aggiornamento continuo e territorio, parola chiave: ricerca
Si fa riferimento al Regolamento in materia di autonomia delle Istituzioni scolastiche
approvato dal Consiglio dei Ministri il 25 febbraio 1999 artt. 6 e 11.
A seguito di quanto sino ad ora rilevato è fondamentale introdurre un elemento sostanziale in
questo processo di radicale mutamento della scuola: la ricerca.
Ricerca intesa come formazione alla ricerca, cioè indurre i discenti ad apprendere per
scoperta, imparando ad osservare, interrogarsi, scoprire, ragionare, operare conseguentemente
ricerca come atteggiamento e autoformazione costante.
Ricerca intesa quindi come ricerca pedagogica da parte dei docenti nell'ambito della propria
attività, ma anche come aggiornamento permanente del docente stesso.
La ricerca dovrebbe essere anche intesa con il suo significato tradizionale: cercare di
comprendere nuovi fenomeni e relazioni. In questo senso le scuole possono operare ricerca
industriale con le aziende del territorio, ricerca dei fondamenti disciplinari e culturali e ricerca
finalizzata alla contestualizzazione didattica di queste attività.
La presenza della ricerca nella scuola viene esplicitamente affermata dalla riforma scolastica,
ma soprattutto dal fatto che il sistema formativo italiano ha lo scopo di formare persone,
quindi è il fondamento della convivenza civile, e come tale viene chiamato ad operare cultura
e non solo istruzione, come è sempre stato nell'accezione di scuola e nella divisione di
obiettivi tra scuola ed università.
Relazioni tra autonomia scolastica ed Enti locali
1. Il DL112/98
Il DL112/98 rappresenta il complesso di norme che promuovono l'autonomia degli Enti locali
in funzione del processo di regionalizzazione delle realtà europee al fine di ottimizzare le
risorse e le potenzialità presenti nelle realtà locali.
Per quanto concerne il rapporto con la realtà scolastica occorre soffermare l'attenzione sugli
artt. 135 e 136 e, strettamente connessi in ordine all'ottimizzazione delle risorse territoriali
intese in senso non solo economico, ma anche culturale e progettuale, anche l'art.12, e gli artt.
17, 19, 23, 31, 141, 148.
Artt. 135 e 136 - Istruzione scolastica
Questi articoli stabiliscono che alle Province sono delegate dallo Stato le funzioni di
"programmazione e gestione amministrativa del servizio scolastico" fatta eccezione per
quanto previsto dall'art. 21 L59/97. In particolare si pone rilievo alla "programmazione della
rete scolastica", l'"attività di provvista delle risorse finanziarie" (art.136, comma 2, punto b),
l'autorizzazione-controllo-vigilanza rispetto ai soggetti operanti in materia di istruzione
scolastica, la "rilevazione delle disfunzioni e dei bisogni, strumentali e finali, sulla base
dell'esperienza quotidiana e del concreto funzionamento del servizio, le correlate iniziative di
segnalazione e di proposta", l'adozione delle strategie di ottimizzazione e miglioramento del
servizio.
Occorre rilevare quanto sia fondamentale il ruolo che viene individuato nei confronti delle
Province per sostenere le attività delle singole istituzioni scolastiche.
Le attività che le istituzioni scolastiche devono e possono realizzare non sono elencate in
quanto questo è demandato al Regolamento in materia di autonomia delle istituzioni
scolastiche, che qui si esaminerà di seguito.
Fondamentale appare anche il ruolo di proponente, in quanto attore che propone iniziative.
Quali iniziative non è specificato, ma appare evidente che se l'obiettivo è l'ottimizzazione
delle risorse e delle professionalità territoriali, le iniziative sono quelle connesse con gli
articoli dello stesso decreto che di seguito si analizzano.
Art. 12 - Artigianato
Si esprime in modo definito il compito di sostegno. In questo senso, ed in relazione alle
istituzioni scolastiche, si può leggere la funzione di connessione, intesa come
sensibilizzazione alla strutturazione di percorsi educativi, curricolari ed extracurricolari (in
itinere come attività pomeridiane certificate o post secondarie), finalizzati alla formazione di
giovani preparati alle professioni artigianali. I percorsi sono progettati dalle istituzioni
scolastiche su segnalazione della Provincia, su individuazione delle necessità da parte delle
associazioni di categoria dell'artigianato e dagli studi di sviluppo, innovazione e necessità
locali promosse dagli Enti locali.
Artt. 17 e 19 - Industria
Si evidenzia la funzione di gestore dell'organizzazione e dei servizi che il legislatore delega
alle Province. In questo ambito si sottolineano anche le finalità di innovazione e trasferimento
tecnologico che l'Ente deve promuovere. In questo contesto l'intervento delle istituzioni
scolastiche potrebbe essere rilevante nella misura in cui si progettino idonei percorsi educativi
come già espresso all'art.17, ma anche per studi di fattibilità e di trasferimento tecnologico
che i docenti delle istituzioni scolastiche possono effettuare, legando di fatto la realtà
scolastica al territorio, operando conseguentemente quanto previsto dall'ordinamento
scolastico in materia di connessione con le realtà locali, come sarà più chiaro in seguito.
Art. 23 - Conferimento di funzioni ai comuni
In questo articolo si definisce il ruolo dello Sportello Unico. Questo nasce per promuovere il
territorio e quindi anche i processi formativi che in esso avvengono, come potrebbe essere la
presenza di particolari corsi curricolari o extracurricolari ivi svolti. Inoltre l'ufficio potrebbe
anche evidenziare necessità di particolari figure professionali o corsi di riconversione e
formazione permanente che le istituzioni scolastiche possono poi attuare.
Art. 31 - Conferimento di funzioni agli enti locali (in materia di Energia)
Si esprime lo studio di idonei programmi di intervento per la promozione di fonti rinnovabili
e del risparmio energetico. In questo contesto le istituzioni scolastiche possono partecipare
effettuando l'analisi, la ricerca di tecnologie presenti sul mercato e la prima progettazione (da
approfondire in seguito) di intervento. Il risultato è di incentivare lo studio e la ricerca
tecnologica e territoriale, oltre che di indurre in docenti e discenti uno spirito di rispetto e di
tutela dell'ambiente.
Art. 141 - Definizione (in materia di formazione professionale)
Si rileva il ruolo che l'Ente locale è chiamato a svolgere nel coordinare gli interventi in
materia di formazione professionale e connessione tra Centri di formazione professionale ed
Istituzioni scolastiche.
Art. 148 - Definizione (in materia di Beni e attività culturali)
In questo ambito si evidenzia l'importanza della conoscenza dei beni culturali (intendendo con
ciò anche quelli ambientali) presenti sul territorio, al fine di tutelare, conservare, valorizzare e
fruire del patrimonio culturale territoriale. In questo ambito le istituzioni scolastiche possono
essere coinvolte per effettuare studi storico-artistici ed affrontare i problemi riguardanti la
tutela, la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali stessi. In questo modo si
incentiva la ricerca in ambito culturale (storico, artistico e scientifico) e la conoscenza del
territorio nel quale si vive da parte dei discenti (e dei docenti stessi), generando una maggiore
coscienza del patrimonio culturale e della propria identità culturale.
2. Il Regolamento in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche
Il Regolamento2 disciplina l'attuazione dell'autonomia con particolare riferimento alle attività
di connessione tra territorio ed istituzione scolastica, ponendo in rilievo la funzione culturale
delle istituzioni scolastiche. In questo contesto appare particolarmente interessante
soffermarsi sugli artt. 1, 4, 7.
L'art. 1 definisce i legami che devono instaurarsi tra istituzione scolastica e realtà locale, in
particolare Enti locali. L'art. 4 consente l'attivazione di percorsi didattici individualizzati, tra i
quali le attività di approfondimento curricolare ed extracurricolare (in itinere e post
secondario) finalizzate a contestualizzare la formazione alle esigenze individuali e alla realtà
nella quale si vive e si viene ad operare, ma anche finalizzate alla formazione di
professionalità inseribili nelle attività lavorative perché formate in funzione di esigenze
accertate localmente. L'art. 7 regolamenta la costituzione di reti di scuole contemplando la
possibilità di promuovere accordi tra istituzioni scolastiche al fine di conseguire obiettivi
comuni ottimizzando le risorse; in particolare esso contempla lo svolgimento comune della
ricerca didattica, della distribuzione della documentazione scolastica, della formazione del
personale scolastico già in servizio e dell'orientamento scolastico e professionale.
La dirigenza ed il personale della Scuola: il fondamento dell'autonomia scolastica
1. La figura del dirigente scolastico
La dirigenza scolastica consiste in quell'insieme di attività che hanno l'obiettivo di
promuovere e coordinare le funzioni istituzionali e sociali di una istituzione scolastica.
Nell'aspetto più ampio di tale definizione rientrano, quindi, tutti i soggetti che, a vari livelli,
esercitano funzioni di responsabilità, organizzazione e stimolo all'innovazione della realtà
scolastica. Queste funzioni devono essere concepite tutte compresenti nel dirigente scolastico
all'interno del gruppo con cui lavora e con la cui collaborazione esprime la sua professionalità
educativa.
La situazione italiana ha concepito, in base alle disposizioni di legge precedenti alla riforma,
la dirigenza scolastica, rappresentata dal direttore didattico o dal preside o dall'ispettore
tecnico, come la figura di vigilanza e di rispetto della norma, assoggettandola alla difficoltà di
accettazione da parte del personale della scuola e riducendone le potenzialità effettive.
Le attuali esigenze conseguenti al decentramento, alla regionalizzazione, alla verifica
dell'efficacia ed efficienza del risultato educativo hanno prodotto una rilettura della figura del
dirigente scolastico e della dirigenza scolastica nel suo complesso. Infatti, pur rilevando
l'assimilazione di molte funzioni della dirigenza scolastica alla dirigenza aziendale, oggi
assegnate al dirigente scolastico dalla riforma legislativa, si deve accentuare l'aspetto
educativo della scuola, minimizzando la concorrenzialità di mercato, con cui invece l'azienda
economica deve confrontarsi. Infatti, le nuove competenze richieste al dirigente scolastico
devono confluire in una nuova accezione del concetto di "dirigere" intendendolo come
promozione e coordinamento dell'istituzione, con una stretta collaborazione con tutti i soggetti
coinvolti nelle relative attività.
Con l'introduzione dell'autonomia scolastica si è generato infatti un mutamento sostanziale dei
caratteri costitutivi della professionalità del dirigente scolastico. Infatti, l'autonomia assegna al
dirigente scolastico un incremento sostanziale delle proprie responsabilità, soprattutto in
relazione alla promozione ed alla progettazione dell'offerta formativa, valorizzando la figura
professionale in ambito territoriale. Allora i caratteri che contraddistinguono la figura del
dirigente scolastico risultano:
- quello tradizionale di funzionario dello stato, che rappresenta l'istituzione scolastica e ne è il
coordinatore;
- quello, nuovo, di funzionario locale responsabile dell'adeguamento del processo formativo
particolare alle necessità del contesto territoriale.
Così il DL80/98, sulla base della L59/97, dispone l'istituzione della qualifica dirigenziale ai
capi di istituto ed il loro inquadramento in un ruolo regionale. Inoltre i dirigenti scolastici
sono soggetti a valutazione "tenuto conto della specificità delle funzioni e sulla base delle
verifiche effettuate dal nucleo di valutazione istituito presso l'amministrazione scolastica
regionale, presieduto da un dirigente e composto da esperti anche non appartenenti
all'amministrazione stessa". Inoltre il dirigente scolastico deve assicurare "la gestione unitaria
dell'istituzione, ne ha legale rappresentanza, è responsabile della gestione delle risorse
finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio. Nel rispetto delle competenze degli organi
collegiali scolastici, spettano al dirigente scolastico autonomi poteri di direzione, di
coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane", organizzando "l'attività scolastica
secondo criteri di efficienza e di efficacia formative ed è titolare di relazioni sindacali".
Appare evidente che al dirigente scolastico si assegna la funzione di promuovere l'analisi dei
processi e dei risultati operativi, la ricerca e la sperimentazione, la definizione dei progetti e
dei programmi delle attività educative e formative, curricolari ed extracurricolari,
l'assegnazione di compiti e di responsabilità, la valorizzazione del personale scolastico, la
mediazione tra esigenze del singolo e del contesto.
Le peculiarità necessarie al dirigente scolastico saranno pertanto costituite dalla capacità di
dialogo, di argomentazione chiara e definita e di lavorare in gruppo, dalla conoscenza del
territorio in cui opera, dalla sensibilità sociale ed interpersonale, conducendo ad un dirigente
che opera in un clima di consenso del personale scolastico. In questo modo la dirigenza
scolastica appare come una funzione finalizzata alla qualità della formazione e non più come
una carica. Questo si consegue in funzione delle capacità maturate, studiate e sviluppate, di
analizzare i problemi, con particolare attenzione a quelli specifici di competenza, ma con una
ampia visione di quelli che possono emergere durante il lavoro di gruppo sviluppato con
spirito di collaborazione e con flessibilità di atteggiamento, dosando comunicazione e ascolto
delle necessità nei confronti di tutti i collaboratori e di tutti i soggetti che sono interessati alle
attività dell'istituzione scolastica. In questo contesto la difficoltà che emerge dal ruolo del
dirigente è il doversi proporre come riferimento funzionale ed "emotivo" del gruppo di lavoro
scolastico.
Affinché il dirigente possa svolgere al meglio le sue funzioni, occorre che si realizzi il
corretto clima psicologico e culturale nel quale deve operare la scuola. Questo deve essere
contraddistinto da un aspetto marcatamente democratico mirando più all'inclusione che
all'esclusione di ogni docente ed operatore della scuola, più alla collaborazione che non
all'antagonismo tra operatori scolastici, più all'apertura culturale ed operativa ed alla
flessibilità che non alla chiusura ed alla rigidità culturali. Risulta così fondamentale il
principio per cui il dirigente deve cercare di coinvolgere ogni operatore scolastico secondo le
sue specifiche peculiarità impostando un clima di esplicita ed aperta democrazia fondata
sull'impegno etico che conduce alla collaborazione e che consente di giovarsi delle capacità e
specificità individuali con le quali si possono realizzare il compito e le funzioni della scuola e
dei conseguenti risultati formativi ed educativi.
Occorre considerare che la scuola rappresenta un aspetto fondamentale nella crescita culturale
della comunità sia perché è lo strumento sociale cui è delegato il compito di trasmettere la
cultura e le regole e norme su cui si fonda la comunità sia perché è la risultante
dell'interazione tra momento politico e momento educativo. Infatti, la scuola è strettamente
connessa al modello socio-politico che regola la crescita culturale della comunità sociale in
quanto tale. Così da un lato il momento politico utilizza gli aspetti più emotivi della persona
per cercare il consenso espressione del volere sociale, dall'altro lato il momento educativo
permette di conseguire il corretto rigore razionale necessario all'organizzazione antropologica
della convivenza civile. E' in questo che la scuola rappresenta il fulcro della crescita della
persona umana finalizzata alla convivenza civile, in quanto essa è l'istituzione cui è
demandata la funzione sistematica di far maturare e sviluppare le potenzialità razionali
dell'individuo per mezzo di una continua stimolazione all'astrazione ed alla formalizzazione,
al senso critico ed ai più alti valori dell'uomo, trasmessi con l'insegnamento di specifici
contenuti disciplinari storicamente fondati e criticamente analizzati con appropriata
metodologia didattica contestualizzata alla realtà in cui si opera. In tale contesto appare
evidente che gli operatori scolastici non possono essere estranei all'analisi critica della politica
e della sua articolazione nel contesto sociale in cui agisce la scuola in quanto, nel contesto
educativo, assumono valore:
- la disponibilità a mettersi in gioco in modo esplicito ed etico;
- la necessità di un rapporto critico, che non deve essere interpretato come capace in sé di
giungere a risultati oggettivi;
- la necessità di fornire sempre una interpretazione critica degli eventi;
- la necessità di fornire sempre motivazioni logiche e razionalmente collegate alle
interpretazioni;
- la valorizzazione della funzione docente e della peculiarità individuale dell'insegnante come
riferimento di onestà culturale, di atteggiamento etico e di spirito intellettuale.
2 - Il principio della collegialità
Negli ultimi anni, sino a quando la riforma dei cicli e l'autonomia hanno indotto grande
interesse per la scuola, la comunità sociale si è, di fatto, disinteressata della realtà culturale
scolastica e delle condizioni di tutti i differenti soggetti coinvolti nelle attività scolastiche sia
come condizione di lavoro sia come retribuzione. In conseguenza il corpo docente ha assunto
un atteggiamento di passiva difesa rispetto all'evoluzione comportamentale dei giovani ed alla
modificazione della realtà rispetto alla quale la scuola opera. A questo si deve aggiungere una
manifesta ostilità delle famiglie nei confronti della scuola, interessate al conseguimento del
titolo finale da parte dei figli, senza, di fatto, interessarsi della reale crescita comportamentale
e culturale dei giovani.
Con l'attuazione dell'autonomia gli insegnanti hanno dovuto prendere atto delle nuove
esigenze della realtà locale inserita in un contesto mondiale, ed hanno conseguentemente
maturato un consapevole atteggiamento di impegno sociale e di timida collaborazione tra loro
e con le famiglie. Dall'altro lato non si è ancora compresa, a livello sociale, la valenza
formativa ed educativa della scuola e neppure quanto essa rappresenti l'ambito privilegiato
degli interventi educativi mirati a costruire una società e a prevenire o intervenire su disagi
che si sono recentemente manifestati nelle cronache: ciò che non è evidente è il valore
educativo che rappresenta la presa di responsabilità rispetto alle proprie azioni che il giovane
deve avere nell'ambito scolastico sia nei confronti dell'impegno scolastico, sia nei confronti di
un atteggiamento comportamentale e disciplinare coerente all'ambito stesso.
Il principale significato che la società dovrebbe riconoscere alla scuola è il suo esplicito ruolo
di consapevolezza storica, di condivisione culturale e di metodologia di analisi e di critica
della realtà politica, sociale e culturale, che si attua con il trasferimento di codici di
interpretazione e comunicazione delle conoscenze fondanti della identità storico-culturale di
appartenenza aperta al confronto ed all'integrazione di altre distinte culture. Purtroppo negli
ultimi decenni si è venuta a formare una mentalità della valorizzazione del prodotto
immediato che ha penalizzato la scuola sottraendole la necessaria attenzione culturale, sociale,
politica ed anche economica, senza comprendere che il "prodotto" che viene a formarsi nella
scuola ha valore in sé nel tempo perché è la persona umana e la sua cultura, che determinano
l'atteggiamento che l'uno assume nel confronto della convivenza civile e dell'altro in quanto
tale. Per questo motivo la scuola, come luogo di formazione particolare, è venuta a perdere
quel ruolo centrale che le è stato assegnato nel corso della storia dell'Uomo, sviluppandosi
modelli che hanno portato l'uomo a non essere più considerato in quanto tale, ma in funzione
del suo valore produttivo nell'immediato. In conseguenza la politica scolastica non ha potuto
difendere il ruolo centrale della scuola, che implicitamente significa difendere il concetto di
uomo in quanto persona umana disgiunta dal suo risultato produttivo, vedendo così
svilupparsi la tendenza all'accorpamento, alla riduzione di organico, all'abbandono della
necessaria attenzione all'edilizia scolastica, alla difficoltà di diffusione dei necessari ausili
didattici, alle problematiche stipendiali degli operatori del settore, alla insensibilità verso le
problematiche degli alunni intese come crescita di autoconsapevolezza e di responsabilità di
ognuno nell'esito della conduzione dell'istituzione scolastica, all'inerzia all'adeguamento alle
innovazioni.
In aggiunta occorre evidenziare la problematica connessa ai programmi. Se da un lato
l'introduzione del concetto di programmazione ha rappresentato un margine di autonomia per
le singole istituzioni scolastiche, e all'interno delle stesse e degli obiettivi che esse si pongono
anche per i singoli docenti, dall'altro l'innovazione in quanto tale viene attuata solo se si
ricorre alle sperimentazioni, senza un'organica revisione del sistema, per adeguarlo alle nuove
necessità culturali della persona umana e professionali del futuro lavoratore o studente
universitario.
Non ultimo appare il problema della professionalità docente. Infatti, la formazione del
personale docente non è mai stata presa in seria considerazione e neppure la valorizzazione
sociale ed economica della professionalità docente. Infatti, occorre comprendere che gli
obiettivi di alto interesse sociale si possono conseguire solo con un personale docente
altamente qualificato il cui ruolo nell'ambito della formazione della persona e del contesto
della convivenza civile venga oggettivamente riconosciuto e, proprio come richiesto da una
concezione dell'efficienza-efficacia della produttività, gratificato sia in senso di progressione
di carriera sia in senso economico, così come accade in ogni altro contesto lavorativo. Un
discorso analogo deriva necessariamente sia per la professionalità dei dirigenti e degli
ispettori scolastici sia per ogni altra figura professionale operante nell'ambito scolastico come
il personale ATA (Amministrativo Tecnico Ausiliario): è solo con la collaborazione collegiale
e costruttiva tra figure ispettive e dirigenziali, docenti, personale ATA che si realizza quel
delicato processo che è la crescita umana ed educativa dei giovani.
Il concetto di autonomia
A questo punto appare interessante ritornare sul concetto di autonomia scolastica, e cercare di
formularne una definizione. Si può premettere che al concetto di autonomia si sono associate
due interpretazioni3:
- la libertà dei discenti nel costruire un proprio percorso formativo personalizzato fondato su
interessi, necessità e metodologie di apprendimento proprie;
- la libertà del docente di organizzare il proprio lavoro in base agli obiettivi formativi e
curricolari individuati con una precisa analisi delle necessità locali.
Così, se si intende l'autonomia come "capacità di autoregolarsi" 4 si pone in evidenza il suo
ruolo fondamentale a livello educativo nel contesto della libertà nell'educazione, ma non si
riesce a far emergere il necessario principio di realtà.
Recentemente si è messo in evidenza come il significato di autonomia scolastica sia
correlato5:
- alle interrelazioni esistenti tra i vari soggetti coinvolti nel sistema formativo integrato;
- alla funzione della scuola in quanto tale che, essendo un elemento fondante della struttura
sociale, deve necessariamente essere libera di gestire autonomamente il suo ruolo.
Nel contesto illustrato, il ruolo del docente e la sua professionalità vengono a svolgere una
funzione anche politica, consapevole della necessità di crescita culturale della società e capace
di adeguare costantemente la propria preparazione ed il proprio agire sociale.
In questo senso si muove la collegialità: espressione della gestione democratica
dell'autonomia in quanto attuazione dei compiti istituzionali cui la scuola deve far fronte e
socioculturali di cui è chiamata ad essere primo soggetto operante.
1. Processi formativi ed autonomia
Nel contesto dell'autonomia, il rapporto tra scuola ed extrascuola è centrale in quanto
l'autonomia si pone come obiettivo la costituzione di un sistema formativo che sia in grado di
affrontare e dirimere i problemi socioculturali e professionali che si generano dalla crescente
complessità della vita di oggi.
Occorre intanto comprendere cosa si intende per extrascuola. Si può definire l'educazione
extrascolastica6 come l'insieme di tutte le attività con fini educativi che si concretizzano al di
fuori della struttura istituzionale. Essendo entrambe finalizzate alla crescita della persona,
scuola ed extrascuola rappresentano momenti complementari e per loro natura compatibili del
percorso educativo; infatti proprio la sociologia e la psicologia fanno riferimento alle
componenti del mondo psichico e relazionale dell'individuo, che permangono pur
trasformandosi nel tempo, assegnando loro la definizione di continuum. Così ogni persona
genera i propri continua che, pertanto non possono essere appresi con una semplice
applicazione di teorie pedagogiche, ma si originano e si rigenerano per mezzo delle differenti
attività educative. In questo contesto si inserisce la problematica dell'educazione degli adulti
che viene interpretata dalla norma come formazione permanente, comportando una precisa
revisione operativa, ma anche teoretica, del sistema formativo nel suo complesso. Così la
scuola deve rappresentare quella formazione di base organizzata in modo da garantire la
possibilità di successivi e continui aggiornamenti e ulteriori ampliamenti culturali che si
rendono necessari nel corso della vita. Questi ulteriori ampliamenti culturali avvengono per
mezzo dell'educazione permanente che si concretizza con specifici curricoli e con la loro
attuazione in orari finalizzati a coinvolgere l'utenza in età non più scolare. In questo modo la
scuola può realizzare una qualificazione educativa del territorio, predisponendo specifiche
strategie formative indirizzate alle persone con un livello di scolarità basso o debole. Questo
compito è per sua natura estremamente difficile perché rivolto a chi è meno motivato a
richiedere un'offerta di tale genere. E' per questo motivo che la norma demanda ai Comuni il
compito di sensibilizzare, oltre che evidenziare, le necessità formative degli adulti. Il Comune
viene, così, ad essere il fulcro del sistema formativo locale, nodo di origine della rete di
interazioni territoriali, il garante delle funzioni di indirizzo e controllo delle attività (L142/90).
In questo contesto la norma delega alla Provincia funzioni più specificamente connesse con il
sostegno alle istituzioni scolastiche.
In questo modo si può realizzare il sistema formativo integrato fondato sulla interconnessione
culturale tra scuola ed extrascuola. Infatti il Regolamento di cui alla nota 2, all'art. 1, Capo I,
Titolo I, riconosce le istituzioni scolastiche quali espressione di autonomia funzionale,
affermando che, al fine di provvedere alla definizione dell'offerta formativa, è indispensabile
che esse interagiscano tra loro e con gli Enti locali. Al comma secondo si fa esplicito
riferimento alle famiglie quali destinatarie del Piano di Offerta Formativa (POF) che ogni
singola istituzione scolastica è chiamata a predisporre. E' con la progettazione del POF che si
analizzano le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale,
tenendo conto della programmazione territoriale dell'offerta formativa. In questo contesto il
dirigente scolastico è il soggetto che predispone i necessari rapporti con gli Enti locali e con le
diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche operanti sul territorio7.
Nel riconoscimento e nella valorizzazione dell'utilità e della efficacia formativa della
formazione professionale, la scuola deve conservare l'obiettivo primario e fondamentale della
formazione della persona umana avvalendosi di un curricolo di studi calato nella realtà in cui
l'istituzione opera, rispondente alle esigenze locali e con un triennio finale caratterizzante
l'indirizzo di studi.
La professionalizzazione può essere efficacemente realizzata nei corsi post secondari o
extracurricolari, che vengono predisposti e progettati in base alle esigenze evidenziate dal
mondo del lavoro cui l'istituzione deve far fronte con una adeguata offerta articolata, studiata
e realizzata in modo da adeguarsi ai mutamenti che vengono ad instaurarsi nella realtà sociale
e lavorativa locale.
Per conseguire questo obiettivo occorre fornire modelli culturali aperti e dinamici, conoscenze
che devono essere periodicamente aggiornate e complementate, inducendo un atteggiamento
che contempli la possibilità e la necessità di tornare a scuola per migliorare le proprie
conoscenze in funzione delle esigenze lavorative, oltre che per un costante desiderio di
approfondimento culturale della realtà. Con questa autonomia di progettazione di percorsi
formativi post scolastici si potrà realizzare la sempre più necessaria formazione continua,
caratterizzata da periodi di marcata caratterizzazione professionale qualificante e motivata.
Così l'aggiornamento diventa parte integrante della formazione in quanto consiste nella
strutturazione dei modelli interpretativi e delle strategie di analisi apprese nel periodo
scolastico. La scuola del XXI secolo sarà sempre più contraddistinta dall'alternanza.
Per poter assolvere a questo dovere istituzionale, però, la scuola deve essere in grado di
sviluppare ricerca e "generare cultura": l'unico modo per poter fare ricerca ed essere
protagonista della costruzione culturale della società è quello di valorizzare i docenti,
rimotivandoli sia economicamente sia socialmente, riconoscendo la loro funzione sociale
fondamentale e la stima che il loro ufficio richiede, consentendo loro anche percorsi di
carriera che tradizionalmente sono stati preclusi questa professione8.
2. Innovazione ed autonomia
Un'attenta analisi della situazione scolastica ha messo in luce i punti deboli del sistema
educativo italiano che possono essere individuati nell'alta incidenza dei fenomeni di
dispersione scolastica, nel costante calo della produttività scolastica, nella difficoltà di
verificare la qualità della formazione9.
L'autonomia scolastica prevista dalla riforma istituzionale della scuola è lo strumento con cui
si dovrebbero colmare anche queste lacune. Infatti il nucleo centrale della riforma della scuola
è proprio l'autonomia che rappresenta il modo per realizzare il riferimento nazionale che
rispetti sia le necessità e le vocazioni sia le naturali differenze locali.
Così proprio il ruolo progettuale del Collegio Docenti dovrebbe garantire di far fronte alle
necessarie differenziazioni formative delle singole istituzioni e dovrebbe essere anche lo
strumento per realizzare la garanzia di produttività e di qualità del sistema formativo. In
aggiunta si fornisce una ulteriore garanzia nella verifica di congruità tra il risultato
dell'operato del Consiglio Docenti e gli indirizzi generali, affidata al Consiglio di Circolo o di
Istituto. In questo contesto è stato proposto di affiancare al riconoscimento della
professionalità del personale della scuola anche un codice etico-deontologico.
Il modello di scuola che si va delineando risulta fondato sui principi generali di autonomia
gestionale, organizzativa e didattica affiancata al decentramento territoriale. Questo si può
realizzare solo con un chiaro progetto culturale fondato sulle conoscenze necessarie alla
formazione della persona, ad una conseguente articolazione temporale della presentazione
degli stessi, ad una più attenta formazione del personale scolastico (ispettivo, dirigenziale,
docente e non docente), ad un incremento di investimenti a favore di tutte le istituzioni
scolastiche, ad una più forte collaborazione delle famiglie e ad una maggiore
responsabilizzazione degli studenti nel coinvolgimento nel processo formativo. In aggiunta si
rileva come l'autonomia ed il decentramento si possono conseguire solo con un marcato
coordinamento nazionale centrale.
Il Regolamento di cui alla nota 2 è finalizzato a realizzare la crescita del sistema formativo ed
è orientato a valorizzare tutte le "vocazioni" degli alunni, a stimolare la ricerca didattica, a
valorizzare il ruolo delle famiglie, ad incoraggiare la costituzioni di reti di scuole e
l'interazione con gli Enti locali. Infatti con esso si introduce la possibilità di cooperazione tra
istituzioni scolastiche e di collegamento delle istituzioni scolastiche in rete, con la possibilità
di scambio temporaneo di personale. Il Regolamento è strutturato su tre elementi fondanti: la
definizione dei curricoli, la gestione del Piano di Offerta Formativa e l'organizzazione della
didattica. Si tende a valorizzare il pluralismo culturale e l'integrazione. Il POF, introdotto in
questo contesto, risulta così non solo una procedura burocratica di presentazione della
progettualità scolastica, ma un vero documento operativo. Rappresenta, infatti, il documento
che esprime l'identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche, elaborato dal
Collegio Docenti, tenendo conto delle esigenze evidenziate dalle associazioni dei genitori e
degli studenti, e viene adottato dal Consiglio di Istituto o di Circolo.
L'autonomia scolastica si inserisce nel complesso processo di decentramento amministrativo
che è contemplato all'art. 5 della Carta Costituzionale della Repubblica, che recita: "La
Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali, attua nei servizi che
dipendono dallo stato il più ampio decentramento amministrativo, adegua i principi della sua
legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento". Inoltre l'art. 117 prefigura una
organizzazione decentrata dello Stato, conferendo un ruolo significativo agli Enti locali. In tal
senso è stata indirizzata la L59/97 che all'art. 21 prevede il conferimento della personalità
giuridica alle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado con la conseguente autonomia
finanziaria, organizzativa, di ricerca e di sviluppo. Lo stesso articolo prevede l'estensione
della dirigenza scolastica ai presidi ed ai direttori, il dimensionamento delle scuole, la riforma
degli organi collegiali e la riforma dell'I.R.R.S.A.E. (Istituto Regionale di Ricerca,
Sperimentazione e Aggiornamenti Educativi), del C.E.D.E. (Centro Europeo
Dell'Educazione) e della B.D.P. (Biblioteca di Documentazione Pedagogica).
Inoltre il DPR616/97 riconferma la divisione dei compiti tra Stato, cui è affidata la gestione
delle problematiche educative, e comuni, cui sono delegate le competenze in materia di
assistenza scolastica. Interviene in questo contesto l'art. 139 del DL112/98 che attribuisce ai
Comuni i compiti di istituzione e soppressione degli istituti scolastici, l'organizzazione delle
modalità di uso degli edifici scolastici, la gestione del processo di integrazione degli alunni in
situazione di handicap, l'organizzazione di iniziative di educazione degli adulti, di educazione
alla salute, ecc.. E' in questo contesto che il Regolamento sottolinea l'importanza di un
rapporto di collaborazione della scuola con le comunità locali, al fine di promuovere una
sintesi tra esigenze individuali e obiettivi generali del sistema di istruzione ed educazione
nazionale.
Parallelamente sottolinea che "l'autonomia delle istituzioni scolastiche si sostanzia nella
progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati
allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e
alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo
formativo, coerente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con
l'esigenza di migliorare l'efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento".
Risulta fondamentale, allora, il POF, che ogni scuola deve elaborare in modo coerente con gli
obiettivi generali ed educativi delle diverse tipologie e dei differenti indirizzi di studi, per far
fronte alle varie esigenze del contesto culturale, sociale ed economico del territorio. Ogni
istituzione scolastica potrà valorizzare le proprie risorse e contestualizzare le proprie proposte
formative, evidenziandone i caratteri che le contraddistinguono. Allora le funzioni assegnate
al dirigente scolastico, sia di mantenere le relazioni istituzionali territoriali, sia di rendere
operativo il coinvolgimento delle famiglie, risultano essenziali per una progettazione mirata
dell'offerta formativa, ma soprattutto per il successo della sua realizzazione.
Nuclei fondanti dell'autonomia appaiono, quindi, la flessibilità e la diversificazione. Infatti,
nell'ambito del POF, si potranno assumere decisioni autonome sull'articolazione dell'orario,
nel suo complesso e nella specificità delle singole discipline. Parallelamente, Facendo un
attento uso del PEI (Piano Educativo Individualizzato), potranno strutturarsi percorsi
formativi individualizzati per gli alunni in condizioni di handicap. Si potranno anche
predisporre sia attività di interclasse sia l'aggregazione disciplinare in ambiti e aree. In questo
contesto si inserisce la Circolare 116/96 che evidenzia la necessità che il Collegio Docenti
individui degli standard di qualità cui far riferimento per le proposte formative delle singole
scuole, mentre la Carta dei Servizi prevede rilevazioni e verifiche mirata ad accertare la
qualità del servizio scolastico erogato. Infine la Circolare 220/98 introduce il principio di
valutazione dell'attività dei docenti: forse questo tema appare più complesso in quanto si deve
inserire in un contesto più ampio che parta dalla valorizzazione della professionalità docente e
dalla formazione del personale per poi giungere a definire metodi, competenze e procedure
per tale valutazione.
3. Integrazione ed autonomia
Meritano un cenno anche le problematiche educative inerenti alle necessità di integrazione
interculturale. La struttura sociale italiana, in questi anni, è caratterizzata dalla
differenziazione etnica, che impone un adeguamento del sistema educativo anche in tal senso,
in particolare genera la necessità di una offerta formativa che si muova verso l'educazione
interculturale. Appare fondamentale il contributo che la scuola può fornire all'integrazione di
persone che presentano differenti modelli sociali; infatti, la presenza di differenti etnie obbliga
al confronto culturale sui valori etico-morali e sui modelli sociali. Infatti, spesso i gruppi
etnici differenti si trovano nella difficoltà di condividere esperienze comuni in quanto ognuno
di essi ritiene il proprio modello comportamentale, i propri costumi ed i propri valori religiosi
e morali più corretti rispetto a quelli degli altri gruppi etnici. Così la scuola si trova di fronte
al compito di formare persone di culture differenti, dovendo proporre un modello
comportamentale che rispetti sia la storia e l'identità culturale locale sia la specificità delle
minoranze. Questo compito di mediazione culturale appare complesso ed estremamente
difficile. L'impostazione pedagogica che è stata considerata più idonea per rispondere a questa
esigenza sociale si fonda sul principio di relativismo culturale, secondo il quale ogni cultura è
una complessa rappresentazione del reale che esprime diverse forme di relazione,
aggregazione, esperienza, conoscenza, arte, religione e pensiero, derivante da differenti
percorsi storico-culturali. Da questo principio segue la necessità dell'integrazione intesa a
rendere sempre meno grave la sofferenza dell'emarginazione giovanile di etnie
numericamente minoritarie, garantendo il rispetto e la dignità di ogni identità culturale.
Questa impostazione consente di evitare sia l'atteggiamento etnocentrico sia quello puramente
integrazionista, essendo mirata all'accettazione delle differenti culture, all'integrazione degli
individui nella vita sociale, senza che nessuno rinunci alla propria identità culturale, ma
facendoli convivere pacificamente, pur mantenendoli distinti. Si considera, così, ogni singola
cultura come un patrimonio dell'Uomo.
Si tende a sviluppare il discorso sulla dignità umana di ogni persona, considerandola nella sua
differente identità culturale, nel rispetto della sua storia, senza negare la propria, ma
condividendo la stessa natura umana che lega ogni persona all'altra. In questo modo si
sviluppa l'attenzione alla convivenza civile e si genera un atteggiamento transculturale
fondato su forme di apprendimento transcognitivo, consentendo il passaggio da una forma
mentis ad un'altra. In questo modo la scuola riesce a fornire differenti codici di interpretazione
e codifica della realtà, migliorando le capacità di analisi e sintesi degli studenti nei confronti
del reale, diminuendo la possibilità di costruire culture fondate su categorie rigide e
consentendo una maggiore elasticità culturale. Una società multiculturale deve essere in grado
di attivare strutture interculturali, ma questo è estremamente difficile in quanto richiede una
mediazione tra la propria identità culturale, che deve assolutamente essere conservata,
conosciuta e mantenuta, e l'identità culturale che si accoglie, che deve essere rispettata. In tale
operazione di mediazione, però, nascono spesso confronti filosofici e culturali difficili da
mediare, perché insiti nei fondamenti culturali stessi. In questo contesto l'attività scolastica
deve riuscire ad essere un luogo equilibrato di confronto e di rispetto delle identità culturali,
finalizzato alla conservazione della storia di ognuno, e a privare ogni atteggiamento del
naturale pregiudizio che le differenti culture spesso dimostrano in relazione ad altre differenti.
In questo contesto le possibilità di intervento avvengono su due distinti livelli:
1 - a livello di politiche scolastiche, con adeguate normative per interventi specifici e relazioni
istituzionali tra vari enti dello Stato e locali;
2 - a livello di autonomia di istituto, dove svolge un ruolo fondamentale l'impostazione
culturale determinata dal dirigente scolastico che può sollecitare i consigli di classe ad attuare
adeguate strategie ed a progettare e sviluppare attività mirate e contestualizzate.
Queste iniziative, però, si possono concretizzare con risultati tangibili nella misura in cui si
riesce ad instaurare un clima di dialogo e di comunicazione tra differenti realtà culturali: il
risultato consiste nella corretta educazione all'interculturalità. Quindi, da punto di vista
educativo risulta essenziale il lavoro di analisi e riflessione sulle differenti culture,
studiandone il percorso storico-antropologico e definendo i meccanismi di pregiudizio che ne
possano derivare. Un considerevole aiuto, in questa fase, deriva dalla collaborazione e dal
coinvolgimento delle famiglie, in quanto elementi sociali fondanti e portatori dei valori
etnico-culturali.
In questo ambito integrazione significa sollecitazione alla ricerca delle proprie radici storicoculturali, analisi e critica delle stesse, confronto dialettico con le altre, accettazione della
interculturalità e riscoperta della propria storia, senza privilegiare una cultura sull'altra e,
soprattutto, senza rinnegare la propria identità etnico-culturale.
Ancora concernente il concetto di integrazione appare infine una problematica didattica che
sino a pochi anni fa era del tutto assente: il problema degli studenti con "diversità", divenuto
attuale a seguito dell'elevamento dell'obbligo scolastico e, poi, formativo. Il punto
fondamentale da cui partire per una analisi degli strumenti di cui la scuola dispone per
l'integrazione di questi soggetti è definire l'obiettivo che essa intende conseguire; questo può
essere riassunto affermando che integrare nella scuola significa offrire proposte di educazione
e di istruzione che consentano di sviluppare completamente le potenzialità individuali, di
realizzare il maggior grado possibile di autonomia e partecipazione sociale compatibile con lo
stato di disabilità presente.
Tale finalità riguarda quindi qualunque soggetto con bisogni educativi speciali, cioè gli
handicappati fisici o psichici, i ragazzi in situazioni di disagio socioculturale, di
emarginazione in quanto appartenenti a gruppi etnici o religiosi minoritari, i border line, cioè
i ragazzi in situazioni delinquenziali oppure di droga, appartenenti a famiglie altamente
deprivanti, i ragazzi con difficoltà di apprendimento, gli studenti in stato di demotivazione
scolastica per la non aderenza ai modelli educativi e formativi proposti.
Conclusione
Ovviamente in questa riflessione si è solo accennato ad una analisi di relazione che propone
risvolti storici, antropologici, culturali ed anche normativi. Si è voluto solo proporre una
discussione sulle possibilità di sviluppo culturale che l'autonomia permetterebbe di realizzare
se si riuscisse a realizzare una vera sinergia tra i vari soggetti che operano nelle realtà locali. Il
modo con cui concretizzare questa convergenza di attività è lasciato alla capacità dei soggetti
delle singole realtà. Questo potrebbe rappresentare una difficoltà, ma può non essere tale;
infatti si demanda alla creatività dei soggetti la realizzazione di un progetto che deve essere
adeguato alle singole realtà ed alle esigenze locali, quindi proprio questa progettazione
creativa locale rappresenta la forza del processo di autonomia sia delle istituzioni scolastiche
sia degli enti locali e quindi delle loro interazioni.
Note
1
Constitutio de recta ordinatione studriorum in directione ecclesiastica in accompagnamento alla
bolla Quod Divina Sapientia, emanata il 28 agosto 1824.
2
Regolamento in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche del 25 febbraio 1999.
3
D. Rowntree, A Dictionary of Education, Harper & Row, London, 1981.
4
P. Bertolini, Dizionario di Pedagogia e Scienze dell'educazione, Zanichelli, Bologna, 1996.
5
G. Genovesi e P. Russo, Professionalità docente e scuola di base, Garigliano, Cassino, 1996.
6
C. Scurati, Scuola ed extrascuola nella prospettiva italiana, in La scuola di base, Ricerche
Pedagogiche, numero monografico (1991) 100-101.
7
Regolamento di cui alla nota 2, Titolo I, Capo II, art.3, comma 4.
8
Regolamento in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche del 25 febbraio 1999, Titolo I,
Capo II, art.6, comma 1.
9
M. Dei, La scuola in Italia, Il Mulino, Bologna, 1998.
Bibliografia supplementare
G. Contessa, M.V. Sardella e M. Sberna, Per dirigere la scuola, Clued, Milano, 1986
W.A. Fisher e M. Schratz, Dirigere la scuola, La Scuola, Brescia, 1995
H. Gaziel e M. Warnet, Il fattore qualità nella scuola del duemila, La Scuola, Brescia, 2000
G. Genovesi, Le parole dell'educazione, Corso Editore, Ferrara, 1998
G. Genovesi, Storia dell'Educazione, Corso Editore, Ferrara, 1994
G.P. Quaglino e G. Varchetta (a cura di), La formazione e il suo centro, Tirrenia, Torino, 1988
A. Rubinacci, P. Gallegati e F. Quarantotto, Dirigenza e dirigenti, La Scuola, Brescia
R.W. Scott, Organizzazioni ed istituzioni, Bologna, Il Mulino, 1998
C. Scurati, E. Damiano e M. Riboldi, La funzione dirigente nella scuola, La Scuola, Brescia, 1983
----[Una presentazione dell'autore, che è membro della Società Italiana di Storia
delle Matematiche, si trova nel numero 4 di Episteme.]
I.T.I.S. "Alessandro Volta"
Spalto Marengo 42
15100 Alessandria
[email protected]
27
28
Elementi storici dell'insegnamento della matematica
in Italia dal XVI al XX secolo
(Umberto Lucia)
Sotto il profilo istituzionale sono due i momenti storici fondamentali: il riassetto
dell'istruzione conseguente al Concilio di Trento e alla Controriforma e l'influenza della
Rivoluzione francese.
A partire dalla metà del Cinquecento cominciò a diffondersi nell'Europa cattolica (Italia,
Francia, Spagna, Austria, Germania Meridionale, Polonia, ecc.) una considerevole rete di
Collegi, in gran parte affidati alla Compagnia di Gesù, dedicati all'istruzione dei giovani. La
Ratio studiorum consisteva in due corsi triennali, uno grammaticale e uno filosofico;
l'argomento principale degli studi era la lingua latina. L'insegnamento della matematica
trovava spazio nel corso filosofico, insieme all'insegnamento della teologia scolastica, della
filosofia naturale e della logica aristotelica. I contenuti dell'insegnamento erano simili a quelli
della cattedra di matematica delle Università del tardo medioevo, che comprendeva la lettura
dei primi sei libri degli Elementi di Euclide e la Sfera del Sacrobosco (Giovanni di Holywood,
docente all'Università di Parigi, XIII secolo), che era un compendio dell'Almagesto di
Tolomeo. Nel Cinquecento molti insegnanti gesuiti produssero manuali per riproporre la
filosofia e la teologia scolastica nel quadro delle grandi responsabilità che l'Ordine veniva
assumendo sul piano dell'istruzione: la matematica disciplinare fu sottoposta ad
approfondimenti e revisioni per merito principalmente di Cristoforo Clavio (1537-1612),
curatore di un'edizione degli Elementi di Euclide, cui aggiunse commenti e spiegazioni. Egli
scrisse anche manuali di Algebra, di Geometria pratica, sull'Astrolabio, un'Aritmetica
prattica e un rinomato Commento della Sfera del Sacrobosco. Le sue opere matematiche
furono raccolte in una enciclopedia matematica.
Alle opere di Clavio nella seconda metà del Seicento si sostituirono, per l'insegnamento nei
Collegi dei Gesuiti, due manuali del matematico belga Andreas Tacquet (1612-1660,
anch'egli appartenente alla Compagnia di Gesù), l'Arithmeticae theoria et praxis, e gli
Elementa geometriae planae ac solidae, finalizzati all'insegnamento dell'aritmetica e della
geometria. Le opere didattiche di Tacquet non furono mai soppiantate nell'insegnamento
matematico dei Collegi gesuiti nemmeno dopo la pubblicazione del corso matematico in tre
volumi Elementa universae matheseos, scritto da Ruggero Giuseppe Boscovich (1711-1787,
un altro membro della Compagnia di Gesù). Anche nei collegi degli Scolopi e dei Barnabiti e
negli stessi seminari religiosi erano previsti corsi matematici che ebbero spesso docenti di
rilievo. Un emerito professore di eloquenza all'Università di Roma e Generale dell'Ordine
delle Scuole Pie dell'Ordine degli Scolopi fu Paolino Chelucci (1682-1754), autore di due
manuali di matematica, Institutiones Arithmeticae e Institutiones Analiticae eorumque usus in
geometria (1738). Occorre ricordare anche l'Abate camaldolese (ordine Benedettino) Guido
Grandi (1671-1742), per molti anni professore nell'Università di Pisa, autore di celebri
manuali ristampati per quasi un secolo. I suoi Elementi geometrici (1731) rappresentarono
l'opera di geometria euclidea più diffusa nel Settecento. Di lui vanno pure menzionate le
Istituzioni di aritmetica pratica (1740) e le Istituzioni delle sezioni coniche (1744).
Il modello di professore di matematica tra la metà del Cinquecento e la fine del Settecento è
dunque un ecclesiastico, quasi sempre un monaco. Rappresentano un'eccezione a tale scenario
generale le sole scuole militari, che verso la metà del Settecento cominciano ad essere
organizzate a Torino, a Napoli, a Verona. Queste, come peraltro i citati collegi e seminari,
erano ovviamente esclusivamente riservate a un pubblico maschile, ma esisteva anche qualche
rara scuola dedicata all'istruzione femminile.
Dal punto di vista dei contenuti dell'insegnamento, dalla metà del '600 in poi, si devono
rilevare due importanti eventi a cui bisognava adeguarsi: l'introduzione nell'insegnamento dei
nuovi metodi analitici (geometria cartesiana e calcolo differenziale), e la reinterpretazione e
ridefinizione del ruolo della matematica tra le scienze della natura conseguente
all'affermazione dei Principi matematici della filosofia naturale di Newton. Nel 1637 viene
pubblicata infatti La Geometria di Descartes, in appendice al Discorso sul metodo (l'opera fu
pubblicata anche separatamente, in latino, nel 1649), dove le equazioni vengono già scritte
con la notazione usata oggi: l'incognita viene indicata con la lettera x, l'equazione si presenta
come un polinomio uguagliato a 0, viene stabilita la così detta "Regola di Ruffini", viene data
la "regola dei segni", viene insegnato a trasformare le equazioni ed a risolverle utilizzando il
metodo delle intersezioni di curve. In Italia la sua diffusione incontrò parecchie difficoltà,
dovute non solo ad una certa eclisse degli studi algebrici nel '600, ma anche all'attaccamento
della scuola galileiana ai metodi puramente geometrici. La Geometria ebbe poi un forte
rilancio ad opera del calcolo differenziale di Leibniz, che ne utilizzò il linguaggio alla fine del
secolo. Questa influenza, che moltiplicò in Italia i lavori analitici, non riuscì tuttavia ancora
per qualche decennio ad inserirsi nell'insegnamento dei collegi tenuti da religiosi, dai corsi dei
quali il calcolo differenziale rimase escluso per quasi tutto il secolo XVIII. I primi manuali
che trattarono l'algebra furono pubblicati in Italia solo dopo il 1720: gli Elementa algebrae di
Nicola de Martino (Napoli, 1725); l'Aritmetica comune e speciosa di Saverio Brunetti (Roma,
1731); le Institutiones analyticae di Paolino da S. Giuseppe (si tratta dello stesso Paolino
Chelucci, già citato nel testo); il secondo volume degli Elementa Matheseos di Boscovich; gli
Elementi di matematica di Edoardo Corsini (1735-38); gli Elementa mathematicae di
Fortunato da Brescia (1738-39) e, successivamente, il Sectionum conicarum compendium
(Venezia, 1765) di Ottaviano Cametti (1711-89) e le Sezioni coniche (Modena, 1801) di
Antonio Cagnoli (1743-1816). La faticosa introduzione dell'algebra nei curricoli dei collegi
non era dovuta solo alla rigidità della separazione tra aritmetica e geometria, in quanto vi
erano anche forti restrizioni dovute alle limitazioni negli orari previsti per i corsi matematici.
Questi furono ampliati, pur nell'ambito degli studi tradizionali, quando la matematica fu
considerata propedeutica rispetto alla fisica, e fu quindi insegnata nella prima parte del corso
filosofico. Tale innovazione importante rappresenta una conseguenza dell'affermazione del
sistema newtoniano.
Il cambiamento del rapporto tra matematica e fisica comportò un'altra grande modifica nei
corsi di matematica del secolo XVIII: l'introduzione dell'insegnamento delle sezioni coniche.
Tra gli autori di trattati di uso scolastico sulle sezioni coniche il primo per cronologia e per
diffusione è il già citato Guido Grandi, che pubblicò un Compendio delle sezioni coniche
(Firenze, 1744). Nei Collegi, molto era lasciato all'iniziativa dei singoli professori o alle
lezioni private; quasi sempre per tutto il secolo l'insegnamento si limitava come detto
all'aritmetica e alla geometria del Tacquet. Le Institutiones analyticae di Paolino erano il testo
dei primi corsi universitari, così pure le sezioni coniche: l'insegnamento dei metodi analitici
delle sezioni coniche e delle applicazioni dell'algebra alla teoria delle curve come pure tutto il
calcolo differenziale e integrale furono esclusiva dell'istruzione universitaria e delle scuole
militari per quasi tutto il Settecento. I professori di matematica, oltre ad essere in gran parte
come accennato dei religiosi, erano anche molto frequentemente autodidatti: infatti non era
previsto nell'Università un corso di laurea dedicato specificamente alle matematiche. Due soli
erano gli sbocchi accademici, oltre alla laurea in teologia: la laurea in medicina e la laurea in
diritto civile e canonico. Vi era anche un diploma in arti che assicurava una cultura
matematica sostanzialmente simile a quella dei collegi, e che era collegato all'insegnamento
impartito nella facoltà di medicina.
I riflessi della Rivoluzione francese cominciarono a farsi sentire in Italia sul piano
istituzionale con le campagne napoleoniche del 1796, ma non si esaurirono nemmeno dopo la
caduta di Napoleone nel 1814: i cambiamenti nell'istruzione tecnico-scientifica furono in gran
parte irreversibili e passarono negli ordinamenti della Restaurazione. La Francia
rivoluzionaria aveva soppresso nel 1793 le Accademie, i Collegi e tutte le strutture
dell'Ancien Régime. La nuova costituzione aveva creato l'Institut National con compiti non
solo accademici, ma di direzione di tutta la pubblica istruzione. Erano state anche create le
Scuole Centrali, con ampi spazi dedicati all'insegnamento scientifico e alle matematiche in
particolare: l'École centrale des travaux publics, nata con compiti particolari per creare i
tecnici della Repubblica, era divenuta l'École polytechnique (1795), sotto la guida di Gaspard
Monge (1746-1818) - che nel 1796 fu inviato in Italia con la Commissione per le Scienze e le
Arti, e vi soggiornò per quasi due anni - e l'École normale (cui si accedeva con criteri meno
rigorosi di quelli che venivano utilizzato per l'ammissione all'École polytechnique). Il
principale artefice dei programmi di matematica e dei relativi libri di testo per le scuole
centrali fu il matematico Silvestre François Lacroix (1765-1843). Egli compose una decina di
manuali, tra i quali un Traité élémentaire d'arithmétique (1797), gli Eléments d'algèbre
(1799), gli Eléments de géométrie (1799), un Complément des éléments d'algèbre, un Traité
élémentaire de trigonométrie rectiligne et sphérique, un Traité élémentaire du calcul
différentiel et intégral (1797) e un'opera di orientamento generale: Essai sur l'enseignement
en général et sur celui des mathématiques en particulier (Parigi, 1805). Molte opere
didattiche di Lacroix furono tradotte in italiano e furono tra i libri di testo più usati nella
prima metà dell'Ottocento. Nel 1794 Adrien Marie Legendre (1752-1833) pubblicò un nuovo
manuale di geometria euclidea, gli Eléments de géométrie (Parigi, 1794) che fu il testo più
usato in Europa per tutta la prima metà dell'Ottocento nell'insegnamento della geometria.
Occorre ricordare dello stesso periodo anche il Corso di matematica sublime (Firenze, 1804) e
gli Elementi di algebra e geometria (Milano, 1809), scritti da Vincenzo Brunacci (17681818), che non era un ecclesiastico. [Docente all'Università di Pisa dal 1788 e presso l'Istituto della
Marina a Livorno dal 1790, per ragioni politiche si trasferì in Francia nel 1799. Rientrato in Italia, fu
docente a Pavia dal 1801. Nel 1806 fu eletto alla Società Italiana delle Scienze, e successivamente
fece parte della Commissione per il nuovo sistema di misure e pesi.] La Rivoluzione francese aveva
anche attivato un corso rapido per la formazione degli insegnanti della Repubblica, che fornì
agli allievi un corpo di dottrine di assoluta novità e modernità, destinato ad incidere
profondamente e ben al di là della limitata esperienza temporale dell'École normale de l'an 3.
Le lezioni di matematica qui svolte furono impartite da professori quali Joseph Louis
Lagrange (1736-1813), Pierre Simon Laplace (1749-1827), il già nominato Gaspard Monge,
Alexandre Théophile Vandermonde (1735-1796). Le lezioni non seguivano libri di testo:
degli stenografi furono incaricati di prendere appunti che, corretti dai docenti, venivano
distribuiti agli allievi, i quali erano invitati a partecipare attivamente alle lezioni e ad
intervenire in apposite sezioni, i dibattiti. A Milano nel 1798 Carlo Lauberg iniziò la
traduzione italiana delle Lezioni ad uso delle Scuole Normali di Francia, mentre il testo di
Monge fu tradotto in italiano e stampato nel 1805 da Giuseppe Placci. Le lezioni di Lagrange
furono pubblicate in italiano nel 1839.
Dell'esperienza della Scuola Normale restarono l'idea di una scuola finalizzata alla
preparazione del corpo insegnante, l'esatta intenzione della necessità di stabilire una più
intima connessione tra il mondo della scuola e la società, l'esempio di un nuovo modo laico e
democratico di concepire l'insegnamento, nonché i rapporti tra professori e allievi.
L'insegnamento della matematica nella scuola italiana ebbe invece per lungo tempo ancora
una scarsa considerazione ai fini dell'incidenza che poteva avere sulla formazione sia culturale
che professionale del futuro maestro. Il quadro istituzionale della scuola italiana dopo l'Unità
d'Italia è sostanzialmente configurato nella Legge Casati (1859), promulgata inizialmente per
il Piemonte e in seguito estesa alle altre regioni d'Italia. La stessa Riforma Gentile (1923), si
presentò in parte come un ritorno allo spirito della stessa Legge Casati, compromesso da
provvedimenti legislativi parziali, che avevano reso composito l'insieme dell'istruzione
pubblica. Negli anni successivi, il regolamento del 1883 sopprime la prova scritta di
matematica nei due esami di conclusione dei vari ordini di scuola e, sino alla fine del secolo,
nessuno dei regolamenti emanati la reintroduce. Essa sarà ripristinata soltanto dal
regolamento del 1904.
Verso la fine del secolo viene accentuato da una parte il carattere spiccatamente classico del
ginnasio-liceo, e si potenzia dall'altra la sezione fisico-matematica dell'istituto tecnico. Ma
questa soluzione non appariva pienamente soddisfacente perché la sezione fisico-matematica
sembrava strettamente legata alle finalità professionali dell'istituto tecnico, mentre
l'uniformità del liceo ad indirizzo classico sembrava costituire una remora per quegli studenti
che avrebbero potuto essere potenziati negli studi a carattere scientifico. Il problema era stato
peraltro già avvertito, ed affrontato con il progetto presentato dal ministro Correnti nel 1870
di un Liceo nazionale, unitario con diversi indirizzi, che, prendendo il posto di tutti gli istituti
di istruzione secondaria esistenti, soddisfacesse, mediante moduli disciplinari da realizzare nel
suo ambito e nel corso degli studi, le diverse esigenze ed attitudini dei giovani. Seguì, poi, il
progetto presentato dal ministro Coppino nel 1879 di un Liceo misto, confluenza del ginnasio
inferiore e della scuola tecnica. Il problema aveva avuto anche soluzioni parziali sia nel senso
di potenziare lo studio delle materie scientifiche, come nelle disposizioni contenute nel
decreto Orlando del 1904, sia nel senso di estrarre dallo stesso ginnasio-liceo un corso di studi
a diverso indirizzo, come nell'esperimento del Liceo riformato o moderno voluto dal ministro
Baccelli nel 1889. Progetti e soluzioni insufficienti e soprattutto non inquadrati in un'organica
riorganizzazione di tutta la scuola secondaria italiana.
Nel 1905 il ministro Bianchi decideva di affidare ad una Commissione reale per
l'ordinamento degli studi secondari in Italia l'incarico di affrontare il problema. La
commissione, presieduta da Paolo Boselli, concluse i suoi lavori nel maggio 1909,
presentando in una dettagliata Relazione un progetto di riforma che veniva incontro alle
richieste avanzate dalle tre filosofie che allora si confrontavano sul problema
dell'organizzazione della scuola di stato: l'esclusività degli studi classici, la necessità di
sviluppare gli studi scientifici e la conoscenza delle lingue moderne. Il progetto di riforma
Boselli prevedeva un ginnasio di tre anni, senza latino, come scuola unica di preparazione agli
studi secondari superiori, e tre licei quinquennali specializzati rispettivamente negli studi
classici, moderni e scientifici: la differenziazione era sul latino e greco nell'indirizzo classico,
sul latino e due lingue straniere in quello moderno, su due lingue straniere e sulle scienze
esatte e sperimentali nell'indirizzo scientifico. Il progetto lasciava da parte il problema di
riordinare la "scuola normale" (termine con cui si designava la scuola professionalizzante
triennale finalizzata alla formazione e preparazione dei futuri maestri, caratterizzata
dall'insegnamento di molte discipline in poche ore per ciascuna, con il risultato di una
preparazione generalmente non approfondita), perché connesso con quello più generale
dell'istruzione femminile.
I tre licei, nel valore del titolo finale, non erano posti allo stesso livello: il diploma di liceo
classico consentiva l'iscrizione al primo corso di qualsiasi facoltà universitaria o istituto
superiore, la licenza conferita dal liceo moderno non era valida per l'iscrizione alla facoltà di
lettere se non previo esame integrativo di lingua e letteratura greca, mentre quella conferita
dal liceo scientifico doveva essere integrata per l'iscrizione alla facoltà di giurisprudenza da
un esame di lingua e letteratura latina, e per l'iscrizione alla facoltà di lettere anche da un
esame di lingua e letteratura greca. Nel progetto di riforma Boselli il programma di
matematica per il ginnasio prevede l'insegnamento dell'aritmetica pratica e della geometria
intuitiva, non come due discipline distinte, bensì in intima connessione fra di loro. Lo studio
dell'aritmetica è inoltre previsto come propedeutico a quello dell'algebra. E' la prima volta che
si fa emergere chiaramente la funzione propedeutica dello studio della geometria nel corso
degli studi secondari come mezzo per preparare i giovani al successivo studio della geometria
razionale, che dovrà essere una rielaborazione ed una sistemazione di tutte quelle proprietà e
deduzioni precedenti. L'importanza riconosciuta all'insegnamento della matematica nel
triennio inferiore è inoltre attestata dall'orario settimanale, che veniva proposto in quattro ore
settimanali per classe.
Il programma di matematica per il quinquennio del liceo, in ciascuno dei tre indirizzi, è
concepito dalla Commissione Boselli come prolungamento di quello del corso inferiore. I
programmi proposti per il liceo classico e per il liceo moderno coincidono nelle prime quattro
classi, differendo soltanto nell'ultima per assumere un carattere più consono alle finalità del
corso corrispondente: quello per il liceo scientifico presenta un contenuto più ampio, ottenuto
spostando nelle prime tre classi quanto negli altri due tipi di liceo è previsto per le prime
quattro, ed includendo nelle ultime due classi quelle nozioni che erano ritenute indispensabili
per completare la preparazione scientifica dei giovani frequentanti tale tipo di scuola. L'orario
proposto è di due ore settimanali per classe nei due licei di tipo classico e moderno, di cinque
ore per classe nel liceo scientifico. Nella quinta classe del liceo classico assume particolare
importanza lo studio della matematica greca e della sua letteratura, sia attraverso i cenni
storici sullo sviluppo della geometria greca, o qualche richiamo alle trattazioni di Diofanto,
sia attraverso lo studio diretto dei primi quattro libri degli Elementi di Euclide, e della
trattazione della teoria delle proporzioni contenuta nel quinto libro degli Elementi, che
avrebbero consentito un riesame critico della geometria studiata in precedenza. La
preparazione su siffatti argomenti avrebbe rivelato ai giovani un aspetto della civiltà greca
complementare a quelli letterari ed artistici, e fornito quindi loro una visione più completa di
quel mondo e di quella cultura.
Nell'ultima classe del liceo moderno i programmi prevedono nozioni relative al calcolo delle
probabilità, alle varie forme assicurative ed a questioni di statistica. Nelle ultime due classi
del liceo scientifico il programma si sviluppa su molti argomenti che anticipano, in forma
piuttosto frammentaria, gli stessi studi universitari. Alcuni di essi sono inclusi nel programma
per il secondo biennio della sezione fisico-matematica dell'istituto tecnico che evidentemente
il progetto di riforma Boselli intende sopprimere.
Il progetto Boselli, nonostante la sua avanzata innovativa articolazione e l'oggettivo interesse,
non riuscì però ad ottenere la necessaria approvazione e fu abbandonato: vi fu solo una sua
parziale realizzazione nel 1911, quando il ministro Credaro volle istituire, presso il ginnasioliceo tradizionale, una sezione di ginnasio-liceo moderno quinquennale che si prefiggeva la
formazione culturale dei giovani non solo attraverso lo studio della lingua nazionale e della
tradizione latina, ma anche mediante lo studio delle lingue moderne ed una più ricca
preparazione scientifica. Agli alunni provenienti dal liceo moderno era concessa l'iscrizione al
primo corso di tutte le facoltà universitarie e degli istituti superiori. Contemporaneamente fu
soppressa per gli alunni del liceo classico la facoltà di opzione tra greco e matematica,
concessa dal ministro Orlando nel 1904, e furono emanati nuovi programmi. Nei corsi
magistrali è infine previsto un insegnamento di computisteria, assegnato all'insegnante di
matematica, in relazione alle necessità evidenziate per la scuola normale.
Nel 1923 la riforma Gentile considera, ai fini della formazione culturale dei giovani, soltanto
l'apporto delle discipline storico-estetico-letterarie, trascurando le discipline scientifiche in
generale e la matematica in particolare. La detta riforma accentua il carattere esteticoletterario del liceo classico, e istituisce un liceo scientifico quadriennale, come scuola
secondaria superiore senza il corrispondente corso inferiore, al posto sia della sezione fisicomatematica dell'istituto tecnico che di quella di ginnasio-liceo moderno. Vi si accede
mediante un esame di ammissione dal quadriennio inferiore dell'istituto tecnico, ma vi si può
anche accedere dalla quarta ginnasiale o dal quadriennio inferiore dell'istituto magistrale. Per
quanto riguarda la preparazione dei futuri maestri, la riforma Gentile istituisce una scuola di
cultura generale dalla quale bandisce ogni forma di tirocinio: non un liceo, ma un istituto
specificamente magistrale, caratterizzato dall'abbinamento dell'insegnamento della
matematica con quello della fisica. I programmi emanati a seguito della riforma in oggetto
sono "programmi d'esame", e la distribuzione dei diversi argomenti nei vari anni dei corsi
precedenti l'esame è affidata alla discrezionalità degli insegnanti; il loro obiettivo non è in
relazione alla formazione culturale dei giovani, ma è condizionato principalmente dalla
preparazione all'esame finale, con i caratteri propri del nozionismo che la situazione
comporta.
Variazioni di poco rilievo apportano i programmi emanati nel 1936 dal ministro De Vecchi, i
quali distribuiscono le materie nei vari anni di corso, e sopprimono alcuni argomenti
facoltativi. Un anno dopo il ministro Bottai provvede a formulare nuovi programmi, i quali
però, pur ricalcando quasi esattamente quelli emanati in precedenza da De Vecchi, presentano
lo stesso carattere nozionistico dei programmi della riforma Gentile.
I testi matematici italiani continuano a mantenere la loro elevata tradizione di rigore
scientifico, cercando di risolvere in maniera didatticamente efficace tutti quei problemi di
natura metodologica che l'esperienza diretta d'insegnamento aveva sollevato. Il trattato di
geometria del Severi nettamente si distingue dagli altri per la sua impostazione originale: in
esso è mantenuto intatto il rigore sostanziale del metodo razionale, mitigato però dalla
costante preoccupazione di accompagnare ogni nuova nozione con il suo substrato intuitivo,
in modo che il giovane discente possa riuscire ad afferrare meglio il significato del concetto.
L'autore ricorre sistematicamente all'origine storica e al fondamento psicologico di ogni
teoria, ed alle nozioni di senso comune da cui essa trae origine.
Nel 1940, sotto il ministro Bottai, veniva gradualmente iniziata una nuova riforma della
scuola secondaria italiana, riforma che, per le vicissitudini della seconda guerra mondiale,
poté essere attuata solo in parte, limitatamente cioè al primo triennio. Esso veniva costituito
come scuola a sé, sotto la denominazione di Scuola Media, unificante i trienni inferiori sia del
ginnasio che dell'istituto magistrale e dell'istituto tecnico. Il numero delle ore settimanali
dedicate all'insegnamento della matematica viene portato a tre ore per ogni classe, circostanza
da cui si evidenzia una rivalutazione degli studi matematici. Si propone un nuovo metodo
didattico che non si ferma alla semplice esposizione delle proprietà evidenti, ma che prende le
mosse dall'intuizione per procedere poi verso le considerazioni di natura astratta.
Infine, dopo la fine della guerra mondiale, nel 1945 vennero emanati nuovi programmi sia per
la scuola media che per i licei e gli istituti magistrali. Essi dapprima furono formulati da una
Commissione nominata dai Governi Alleati ed emanati per i territori occupati, e poi fatti
propri dal Ministero della Pubblica Istruzione ed estesi, con inizio dall'anno scolastico 19451946, a tutto il territorio nazionale.
Bibliografia
Barbieri F. e Pepe L., Bibliografia italiana di storia delle matematiche, Boll. Storia Sci. Mat. 12
(1992), pp. 3-181.
Brusotti L., Questioni didattiche, in Enciclopedia delle matematiche elementari e complementi a cura
di Berzolari, Hoepli, Milano, Vol. III, parte II, 1950, pp. 885-973.
Giacardi L., Educare alla scoperta. Le lezioni di Corrado Segre alla Scuola di Magistero, Bollettino
U.M.I., (8), 6-A (2003), pp. 141-164.
Giacardi L., Matematica e humanitas scientifica. Il progetto di rinnovamento della scuola di Giovanni
Vailati, Bollettino U.M.I., (8), 3-A (1999), pp. 317-352.
Pepe L., Storia e didattica della matematica, L'educazione matematica vol. XI n. 1 (1990), pp. 23-33.
Pepe L., I matematici gesuiti nella storia delle matematiche di G. Loria, in Giornate di storia della
matematiche a cura di Galluzzi M., Editel, Cosenza, 1991, pp. 489-499.
Pepe L., Boscovich and the Mathematical Historiography of his Time. An Unpublished Letter by
d'Alembert, in R.J. Boscovich, His life and scientific work, a cura di Bursill-Hall P., Roma, Istituto
della Enciclopedia Italiana, 1993, pp. 491-509.
Pepe L., La formazione degli ingegneri in Italia nell'età napoleonica, Boll. Storia sci. mat. 14, 2
(1994) pp. 151-193.
Pepe, L., La crisi dell'insegnamento scientifico dei gesuiti a Ferrara e l'inizio dell'attività didattica di
Teodoro Bonati, in "In supreme dignitatis": per la storia dell'Università di Ferrara, 1391-1991 a cura
di P. Castelli, Firenze, Olschki, 1995, pp. 61-74.
Pepe L., Per una storia degli insegnamenti matematici in Italia, in Giornate di Didattica, Storia ed
Epistemologia della matematica in ricordo di Giovanni Torelli a cura di S. Invernizzi, Trieste,
Università degli Studi, 1996, pp. 101-116.
Pepe L., Matematica e fisica nei collegi del Settecento, Studi Settecenteschi, 18 (1998), pp. 407-420.
Vita V., I programmi di matematica per le scuole secondarie dall'Unità di Italia al 1986. Rilettura
storico-critica, Pitagora Editrice, Bologna, 1986.
----[Una presentazione dell'autore, che è membro della Società Italiana di Storia
delle Matematiche, si trova nel numero 4 di Episteme.]
I.T.I.S. "Alessandro Volta"
Spalto Marengo 42
15100 Alessandria
[email protected]
29
L'altro Hubble
Un astronomo vero fra mito e realtà
(Alberto Bolognesi)
Il detto malizioso "cosmologists are always wrong but never in doubt" - i cosmologi sono sempre in errore ma
mai in dubbio - non può certo applicarsi alla figura carismatica di Edwin Powell Hubble. Le migliaia di articoli e
libri che gli sono stati dedicati hanno tuttavia contribuito a fornire di lui e del suo famoso "programma"
un'immagine molto artificiale che in qualche caso sconfina nella mistificazione vera e propria. Hubble fu
autenticamente ed essenzialmente il cosmologo del dubbio, e concluse degnamente nel dubbio tutta la sua
pionieristica ricerca sulla natura dell'universo. Lottò duramente per decenni con gli strumenti e con la sua
schiena armeggiando per un numero sterminato di notti nelle gabbie dei grandi telescopi di Monte Wilson e di
Monte Palomar, si cavò gli occhi sulle lastre a "grattare" Cefeidi immerse in bracci di spirale che si vedevano
appena e a stabilire funzioni di luminosità per tipologie di galassie "là dove forse lo spazio si incurva" fino a che
il suo cuore d'atleta cedette una prima e poi una seconda fatale volta. Ma quando la morte gli presentò il conto,
Edwin Powell ("Power" per i suoi fans) aveva già redatto il suo testamento spirituale: "Le nostre conoscenze
della struttura cosmica diminuiscono rapidamente al crescere della distanza". "C'è un limite alla nostra
comprensione - confessò una volta al suo giovane allievo Allan Sandage - che non è quello di natura
strumentale".
Astronomo per vocazione, Hubble (1889-1953) è quasi universalmente noto come "colui che scoprì l'espansione
dell'universo nel 1929". E' sorprendente che questa frase ribadita come uno slogan su quasi tutti i libri e i
manuali di cosmologia non trovi riscontro in nessuna delle sue dichiarazioni e delle sue relazioni scientifiche:
"ma - come ebbe a dire in seguito l'astronoma Beatrice Hill Tinsley (anch'essa prematuramente scomparsa) tant'è: anche Cristoforo Colombo non fu immediatamente all'altezza della sua effettiva scoperta".
Quinto di sette figli (o terzo di otto) di un avvocato del Missouri che operava nel campo delle assicurazioni,
Hubble frequentò gli studi a Chicago laureandosi poi in legge a Oxford in Inghilterra, beneficiando di una
prestigiosa borsa di studio come Rhodes Scholar al Queen's College. Alto quasi un metro e novanta e con una
spiccata somiglianza all'attore inglese George Sanders, Hubble è anche accreditato di un curriculum d'atleta di
tutto rispetto: salto con l'asta, lancio del disco, corsa ad ostacoli, cestista e pugilatore. Il folklore divulgativo gli
attribuisce addirittura un match con il campione francese Georges Carpentier e perfino l'improbabile offerta di
disputare un incontro con l'allora campione dei pesi massimi Jack Johnson … Eppoi arruolato volontario in
Francia, ferito da schegge al braccio destro o al piede sinistro, aspirante dentista, maestro di scuola nel Kentucky
e allenatore di pallacanestro di un team dell'Indiana. Frequentatore di Aldous Huxley e Igor Stravinskij, la sola
cosa certa è che l'avvocato Hubble aveva sempre palesato grande interesse verso la fisica e l'astronomia. Il suo
diploma in astrofisica, regolamentare o ad honorem, è una disputa di secondo piano che non deve distogliere
dall'intraprendenza, dalla volitività e dall'autorevolezza che Edwin Hubble seppe rapidamente esprimere: negli
anni in cui faceva pratica astronomica presso lo Yerkes Observatory venne immediatamente notato da un altro
Edwin, l'allora Direttore E.B. Frost e poi dallo stesso George Ellery Hale, l'astronomo che rivelò il ciclo doppio
delle macchie solari in funzione dell'attività magnetica e che, fra un esaurimento nervoso e l'altro, riuscì a
progettare e a realizzare i più grandi telescopi riflettori del suo tempo.
La storia di Hubble è arcinota e molto variamente raccontata, ma due sono soprattutto le rivoluzioni che le sue
ricerche hanno imposto alla scienza dell'astronomia. La prima fu la dimostrazione "galileiana" che molti oggetti
classificati sommariamente come "nebulose" erano in realtà enormi sistemi stellari esterni e analoghi alla Via
Lattea; la seconda fu la scoperta di una sorprendente relazione fra il loro generale spostamento verso il rosso e la
loro magnitudine apparente.
Val la pena soffermarsi un attimo sulla prima dimostrazione di Hubble che venne anche a chiudere una lacerante
controversia fra il famoso astronomo della Carnegie Harlow Shapley (1885-1972) e il suo collega del Lick
Observatory, Heber Curtis (1872-1948), che ne uscì vincitore, perché il fatto costituisce un importante elemento
nella questione largamente dibattuta se sono i telescopi o le persone che fanno le scoperte cruciali.
Per far questo occorre riandare a quel ricco astronomo dilettante londinese, di nome William Huggins (18241910), che per primo decise di estendere l'impiego dello spettroscopio - fino a quel momento impiegato per lo
studio della luce solare e delle sorgenti luminose prodotte in laboratorio - all'analisi delle stelle e delle
"nebulose". Ne montò uno sul suo telescopio privato, lo orientò a turno su Aldebaran e Betelgeuse … e restò
senza fiato. Vi scorse una foresta di righe vicinissime e quasi sovrapposte le une alle altre che ricondusse
correttamente ai noti elementi del calcio, del sodio, del ferro, del manganesio e del bismuto. "Erano stelle simili
al Sole!" Così, pieno di emozione, decise di concentrarsi sulle "nebulose" che da oltre un secolo Kant aveva
intuito trattarsi di remotissimi "universi-isole" costituiti di stelle. "Stavo forse per gettare lo sguardo sui recessi
più segreti della creazione?" si domandò Huggins. E poteva Huggins, ci chiediamo noi, precedere la scoperta di
Hubble?
Per un caso che potremmo definire "disgraziato", l'astronomo dilettante puntò lo spettroscopio proprio su una
vera nebulosa gassosa, vi notò una sola riga ininterrotta e ne dedusse - ahimé correttamente - che doveva essere
prodotta da un gas luminoso, non da una moltitudine di stelle. Fece di un filo d'erba un fascio, concluse
frettolosamente che tutte le nebulose fossero gassose e gettò Kant alle ortiche. Il pregiudizio si fissò rapidamente
e fu ulteriormente corroborato dai calcoli che l'astrofisico James Jeans applicò a nubi di gas collassate: ed ecco
un caso sconcertante, si potrebbe commentare, in cui l'esordio di uno strumento insostituibile come lo
spettroscopio, fece fare un passo indietro alla conoscenza.
I primi contributi alla restaurazione kantiana vennero forniti da un altro dilettante, il carovaniere Milton
Humason (1891-1972) che trasportava pezzi di ricambio a dorso di mulo fino all'osservatorio di Monte Wilson.
Privo di istruzione ma versatile e ricco di talento, Humason divenne rapidamente custode, poi assistente
osservatore all'Hooker e abile spettroscopista. Negli anni in cui faceva pratica di fotografie sotto la direzione di
Shapley, prese numerose immagini di M31 e vi notò alcuni puntini di luce che cambiavano di intensità. Sospettò
che potesse trattarsi di stelle variabili Cefeidi, annotò la loro posizione sul dorso delle lastre e le portò trepidante
al suo autorevole Direttore. Shapley le esaminò, spiegò pazientemente a Humason che M31 era un vortice di gas
molto vicino e che quei puntini non potevano essere stelle: prese un fazzoletto dalla tasca e cancellò i segni di
identificazione delle variabili sopra le lastre.
Poi la storia è nota: nel 1923 Hubble arrivò a Monte Wilson con le credenziali di Hale, ottenne la storica
immagine n. 335 di M31, contrassegnò le inequivocabili Cefeidi che vi comparivano con punti esclamativi e
Shapley non poté più ricorrere al suo fazzoletto. Accettò fatalisticamente l'evidenza, e il genio precognitore di
Kant ritornò al suo posto. Heber Curtis festeggiò molto discretamente con un bicchierino, le "nebulae" presero le
distanze dalle nebulose e il mondo scientifico si aprì alla nuova immagine di un universo costellato di galassie.
*****
Ma naturalmente è la seconda "scoperta" - anch'essa preannunciata - che ha trasmesso fama imperitura a Edwin
Hubble. E' la relazione empirica che lega lo spostamento verso il rosso delle galassie alla loro magnitudine
apparente, relazione che ha poi fornito il cardine a tutta la cosmologia moderna e che, forse in omaggio alla
istituzione d'origine di Hubble, prende oggi il nome di "legge".
Già agli inizi del Novecento alcuni astronomi avevano notato un anomalo posizionamento dello spettro delle
"nebulose" verso la parte rossa. Nel 1914, Vesto Melvin Slipher (1875-1969) che lavorava con uno spettroscopio
montato sul riflettore di 60 pollici dell'Osservatorio di Percival Lowell, aveva collezionato una dozzina di spettri
di "nebulae" la cui luce presentava un evidente "redshift". Ad eccezione della grande spirale in Andromeda e di
alcune nebulose vere e proprie, questo "strano fenomeno" si mostrava sistematico, anche se di difficile
soluzione. Se interpretato come un effetto Doppler le velocità implicate risultavano per quei tempi
incredibilmente alte, in qualche caso ben al di là della soglia del migliaio di chilometri al secondo. Qual era
dunque la causa di quello spostamento? Quale meccanismo lo generava? Nella mente di Slipher e di altri
astronomi cominciò a farsi strada la possibilità che il fenomeno potesse essere messo in relazione con la loro
enorme distanza.
Quando Hubble arrivò a Monte Wilson, ben consapevole di questi primi risultati, sapeva esattamente cosa
cercare. Aveva "il programma già in tasca", come dichiarò, e l'"Hooker", il gigante di 2 metri e 54 realizzato da
Hale, gli offriva più che una formidabile opportunità, un appuntamento vero e proprio con la Storia. Il suo
notevole acume gli aveva già suggerito tutto il quadro generale: quando si mise al lavoro con il fido Humason,
Hubble sapeva che stava tracciando il futuro dell'astronomia. Le alternative erano almeno due: se lo spostamento
verso il rosso delle galassie poteva essere messo in relazione con la distanza, gli astronomi si sarebbero liberati
per sempre della loro miopia bidimensionale e il redshift avrebbe immediatamente fornito la sospirata terza
dimensione, la misurazione in profondità di tutta la struttura cosmica osservabile!
La seconda possibilità poi appariva, se possibile, ancor più inebriante. Se la "distanza di redshift" esprime
contemporaneamente anche una velocità di allontanamento (e se la velocità era proporzionale alla distanza),
allora poteva essere a portata di mano perfino "il grande segreto", il frutto proibito della conoscenza cosmica,
"l'inverso dell'espansione": l'origine del Mondo.
Ma Hubble erano uno scienziato estremamente cauto e rigoroso per natura, e non intendeva farsi sconti di alcun
genere. Conosceva perfettamente il punto debole di tutta la grandiosa impalcatura e non lo nascondeva. Il punto
debole infatti era la "circolarità": come distinguere una galassia debole da una galassia lontana? Come adottare
una luminosità per dimostrare una distanza, o una distanza per dimostrare una velocità? Il rischio di mescolare
erroneamente insieme oggetti di luminosità intrinseche molto diverse era altissimo "e perfino mortale", come
confidò al suo allievo Allan Sandage: come poter dimostrare che le dimensioni angolari delle galassie mutavano
progressivamente e in proporzione esattamente inversa all'entità dello spostamento verso il rosso?
Quando le luminosità erano inferiori alle attese rispetto ai redshift misurati le galassie diventavano "nane",
quando erano più elevate le galassie diventavano "giganti". Alle grandi distanze poi, doveva determinarsi un
drammatico effetto di selezione in cui solo gli oggetti intrinsecamente più luminosi sarebbero emersi dalle lastre,
la cosiddetta "distorsione" descritta dallo svedese Gunnar Malmquist (1893-1982). Infine, l'effetto DopplerFizeau noto in fisica, non ha alcun rapporto diretto con la distanza. Come avrebbe commentato di lì a poco Fritz
Zwicky, "il fudge factor stava diventando una prassi in astronomia".
Hubble sapeva. E non si nascondeva. Era questo "l'altro" Hubble, quello che la divulgazione ha sempre
sistematicamente oscurato. La sua "relazione lineare" era in fin dei conti fragile o almeno assai poco
rappresentativa dal momento che era stata ottenuta in base a 48 spettri di galassie nessuna delle quali si trovava
al di là del vicino ammasso della Vergine. Come poté annunciare l'espansione dell'universo nel 1929 - si è
chiesto quarant'anni dopo il premio Nobel Steven Weinberg - con dati così manchevoli?
La verità, sorprendente solo per chi non ha letto tutte le sue relazioni, è che Hubble non annunciò mai
l'espansione dell'universo e che sette anni dopo la memorabile scoperta di cui viene accreditato, scriveva
sull'Astrophysical Journal del 1936 (84-517): "Se i redshift sono velocity shifts che misurano il ritmo con cui si
espande l'universo, i modelli sono del tutto inconsistenti con le osservazioni … e l'espansione è
un'interpretazione forzosa dei risultati sperimentali". Incredibile? Ma vero! Chi ha mai riportato queste
considerazioni sui libri di cosmologia?
Quando i divulgatori ritorneranno ad essere rigorosi si dovrà pur ricordare che Hubble parteggiò a lungo per un
indebolimento della radiazione luminosa (la "luce stanca" di Born, Findlay Freundlich e Walter Nernst),
prendendo in considerazione "l'antichità della luce delle nebulose", costretta a vibrare lungo le distanze cosmiche
per milioni o per miliardi di anni. E che fino al termine della sua carriera prese accuratamente e sistematicamente
ogni cautela sulle "presunte velocità" delle galassie. Occorrerà una rivoluzione profonda nella comunicazione
della scienza per evidenziare tutte le mistificazioni del suo percorso scientifico e del suo famoso "programma".
Ecco cosa riesce a dire uno dei più celebrati giornalisti scientifici contemporanei dalle colonne della Rivista
"Discovery": "Edwin Hubble aveva compiuto tutto il suo lavoro ignorando Einstein, che in effetti aveva già
brillantemente predetto che le galassie erano come uvette in una torta che lievita, e che si allontanavano tra
loro in conseguenza della misteriosa esplosione dello spazio e del tempo …". Se c'è una Musa anche per i
divulgatori, Dennis Overbye dovrebbe riconoscere che gli scambi fra Einstein e Hubble furono invece assai
frequenti, che lo stesso Einstein non sopportava l'idea di un universo in espansione (a rigore non ci si adattò mai)
e che l'idea stessa di uno spazio che si dilata ortogonalmente al tempo era così contraria alla sua soluzione della
gravità ("le proprietà dello spazio e del tempo sono interamente determinate dalla materia") da fargli temere il
tracollo dell'intera Teoria. Einstein rese partecipe Hubble di questi timori che certo pesarono sullo stesso Hubble:
è resta un capitolo non scritto tutto l'itinerario accidentato che il padre della Relatività intraprese contro l'idea di
una metrica che lievita col tempo. Si scagliò inizialmente sulle soluzioni di Friedman e poi senza mezzi termini
contro l'ipotesi dell'uovo cosmico in espansione di Lemaître ("Vos calcus sont corrects, mais votre physique est
abominable"); perfino al termine della sua vita, dopo aver ritirato dalla circolazione la costante che consentiva la
soluzione statica delle sue equazioni, ribadì che "l'impostazione cosmologica attuale non tiene in alcun conto le
più fondamentali alternative" ("On the Cosmological Problem, Einstein, 1945).
E' interessante a questo proposito ricordare come "l'altro" Hubble, sotto le pressioni di Einstein pubblichi nel
1935 assieme a Tolman un lavoro in cui sostiene la necessità di "calare la cosmologia nell'ambito della
Relatività", precisando che la scelta fra un modello statico e uno in espansione "è al momento indecidibile".
L'articolo (A.J. 82, 302, 1935) precede di un anno quello già citato in cui Hubble prende chiaramente le distanze
dalle "presunte" velocità delle nebulose.
Nei suoi pellegrinaggi in California Einstein discusse con Hubble le scale di tempo del tutto insufficienti che
un'espansione del sistema delle galassie comportava rispetto alle reali età delle stelle (le prime stime di
luminosità integrate alle "velocità presunte" fornivano una costante di espansione H o fra i 600 e i 500 Km/sec per
Mpc e un'età dell'universo non superiore ai due miliardi di anni), ribadendogli che le sue soluzioni originarie
implicavano "un raggio dell'universo indipendente dal tempo". "Senza queste condizioni - scrisse in proposito ci si addentra inevitabilmente in speculazioni senza fine". "Lottiamo con le ombre", ammise nervosamente
Hubble ficcandosi la pipa fra i denti.
*****
"Sono i telescopi che fanno la storia del cielo o sono gli uomini che li adoperano?" Questo dilemma attribuito a
George Hale è la croce e delizia di tutti gli astronomi veri. C'era un punto sul quale la deferenza e la profonda
ammirazione per la genialità di Einstein da parte di Hubble non era disposta a transigere: e questo punto era il
primato delle osservazioni. "Potremo inoltrarci nel dominio vago delle congetture teoriche solo quando avremo
dato fondo a tutte le risorse empiriche" è infatti il monito con cui concluse il suo celebre "The Realm of the
Nebulare" del 1936.
Negli anni che seguirono, Hubble moltiplicò gli sforzi per uscire dalle incertezze del quadro osservativo.
L'universo poteva essere statico o in espansione, ma nemmeno un'ombra doveva permanere sulla "relazione
lineare che lega il redshift alle magnitudini apparenti". Luce stanca, velocità radiali o altro, l'"effetto Hubble" così veniva chiamato prima di diventare "legge" - era la più importante scoperta astronomica dai tempi di
Galileo. E se "si doveva usare un bel po' di magia per trasformare le distanze in velocità" (la frase è di Zwicky),
le magnitudini apparenti si potevano finalmente convertire in magnitudini assolute.
Lo studio sistematico degli ammassi di galassie che condusse assieme all'instancabile Humason gli suggerì di lì a
poco il passe-partout per fissare definitivamente le distanze cosmiche. Con il consueto intuito Humason aveva
notato che lo splendore assoluto delle galassie più brillanti sembrava dovunque lo stesso negli ammassi più
ricchi. Era come se la natura si fosse data un limite di potenza per compiacere agli astronomi: e se era davvero
così - pensò Hubble - era arrivato anche il tempo di staccare la mela dall'albero. Sarebbero bastate rilevazioni
fotometriche accurate integrate alle misure spettroscopiche per determinare con esattezza la distanza effettiva di
qualsiasi ammasso. E con le distanze la finale risposta all'omogeneità dell'universo, la sua eventuale curvatura, la
velocità di espansione e la sua ipotetica decelerazione.
Forse la pendenza del suo diagramma dimostrava soltanto che la luce si affaticava e l'universo era realmente
quello della prima cosmologia di Einstein, o forse l'universo si espandeva come l'uovo di Lemaître e le galassie
sprofondavano in un orizzonte che si allontanava alla velocità della luce. Forse c'era una creazione continua
(Hubble non nascose le sue simpatie anche per l'emergente Teoria dello stato stazionario) o forse l'inverso della
sua costante d'espansione portava dritto al giorno della Creazione. "Siamo sul limite dell'incertezza", dichiarò
con compassata eleganza, ma sapeva perfettamente che nel dirlo stava tracciando il solco di tutta la futura ricerca
astronomica.
Dopo il 1940, come membro anziano e con la fama all'apogeo, fu coinvolto nel completamento del
fantascientifico telescopio Hale di Monte Palomar, dotato di uno specchio di 5 metri di diametro. Vi lavorò solo
pochi anni purtroppo, gli ultimi della sua vita, e li spese a osservare ammassi, a migliorare il suo diagramma, a
perfezionare lo schema di classificazione delle galassie e a cercare la "curvatura". E naturalmente a istruire e a
designare i suoi successori più degni. "Chiunque l'avesse seguito - confessò il prescelto Allan Sandage - sapeva
già che avrebbe percorso tutta la carriera nella sua ombra. Ma c'era una montagna di lavoro da fare ed era un
lavoro esaltante che chiedeva di essere fatto. Che altro avrei dovuto fare? Sarei stato un folle a sottrarmi alla
chiamata…".
Hubble suscitava naturale ammirazione e rispetto, emanava autorevolezza, buona educazione e un fare
aristocratico. Era colto, intelligente, corretto, compassato e misurato. Tutti quelli che lo hanno conosciuto
parlano di lui come di un uomo del destino, eccentrico ma elegante, grave ed estremamente cauto. Hubble non
parlava, "comunicava". Pur essendo del Missouri aveva mantenuto l'accento oxfordiano acquisito durante i suoi
studi di diritto. "Ma era terribilmente impettito e troppo solenne - dice una malalingua di Pasadena -, non ti
frustava il sangue nelle vene".
Nel mondo sublunare dei "si dice" circola anche una storiella attribuita improbabilmente alla sua graziosa e
devotissima consorte Grace Burke, risalente al primo attacco di cuore che Hubble subì. Pare che fu quella triste
occasione a indurlo a rifiutare una sepoltura tradizionale, che in effetti non è mai stata trovata. Si parla di un'urna
di rame, ma non è chiaro se le sue ceneri siano state interrate o disperse sui contrafforti della Sierra Madre che
guardano ai grandi telescopi. "Così almeno - avrebbe sospirato Hubble - nessuno orinerà sulla mia tomba". Si era
ricordato di essere americano?
E' invece storica la dichiarazione che rilasciò a un cronista del Los Angeles Time quando gli fu chiesto se lo
Hale di 5 metri, appena inaugurato, gli avrebbe fornito tutte le risposte che cercava. Anche questa volta il grande
Hubble non smentì il suo valore di uomo e di astronomo: "Mi piacerebbe, ma non posso conoscere le
osservazioni di domani … La storia dell'astronomia - aggiunse citando se stesso - è una storia di orizzonti che si
allontanano".
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 2 di Episteme.]
[email protected]
30
REPRINTS
Verba volant, scripta latent
Architetture nascoste, testi sotto testi e parole sotto parole
(Bruno d'Ausser Berrau)
Il lavoro del Maury sulla nascosta architettura delle BUCOLICHE, pubblicato in periodo drammatico per la Francia
(1943),1 cioè durante l'occupazione tedesca e per tale motivo, essendo le preoccupazioni altrove indirizzate,
caduto in un pressoché totale, ingiusto oblio, da EPISTEME, è stato riproposto nella sua interezza. Il concetto, che
informa questo studio impegnativo, è da intendere sulla falsariga del pensiero di coloro che, in molte altre opere
letterarie premoderne, presuppongono l'esistenza di un progetto nascosto. Progetto sempre volto alla ricerca di
un duplice risultato ossia quello che, nella veste narrativa immediatamente fruibile, fornisca solo una prima
ancorché esteticamente valida ed appagante lettura mentre, al più attento indagatore, n'offra anche una seconda
dove, in forma criptica e con un gioco architettonico complesso, venga invece ad esprimersi il senso profondo ed
intellettualmente fondante dell'opera. Non è questa un'ipotesi peregrina e, sebbene in Italia gli anatemi crociani
ed una certa critica materialista o storicistica alla Sapegno, nonostante l'esistenza di non pochi e validi studi in tal
senso condotti,2 ne abbiano, per troppo tempo, impedito l'emergere, essa resta l'unica in accordo con quanto,
della sua opera, ebbe chiarissimamente ad esprimere lo stesso Dante sia nel CONVIVIO (Tomo II, Cap. I), 3 sia con i
famosi versi di INF. IX. 61-63:
O voi ch'avete li 'ntelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.
Si tratta insomma di procedure parallele a quelle sottese all'esistenza dei quattro sensi intrinseci alle Scritture.
Quelli ben riassunti dai noti, brevi versi di Nicola di Lira (1270/1349):4
Littera gesta docet;
quid credas, allegoria;
moralis, quid agas;
quid speras, anagogia.5
Stratificazione semantica che, pertanto, anche nelle opere poetiche, gli autori cercavano di riprodurre secondo le
regole ed i ritmi di una scienza complessa e della quale cerchiamo qui di ricostruire le origini e d'individuare
quell'incerto filo che la fa giungere sino alle soglie dell'età moderna. Età nella quale essa non s'esaurisce ma si
trasforma nei modi che più avanti accenneremo. Trattando di Virgilio, il nostro riferimento a Dante, non è certo
fuori tema essendo, nei riguardi di lui, esplicito il suo atteggiamento:
Tu duca, tu segnore e tu maestro.
Così li dissi, e poi che mosso fue,
Entrai per lo cammino alto e silvestro.6
Ma già prima, era stato molto netto:
O delli altri poeti onore e lume,
Vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
Che m'ha fatto cercar lo tuo volume
Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
Tu se' solo colui, da cu'io tolsi
Lo bello stilo che m'ha fatto onore7
Su questo «bello stilo» la solita critica letteraria ha spesso scritto e discusso con risultati assai riduttivi e
fuorvianti; infatti, né la costruzione del periodo, né il tono generale assunto dalla composizione, provengono da
Virgilio. Al confronto, le differenze sono palesi e, in particolare, in Dante, mancano quegli ornati retorici e
quelle espressioni magniloquenti, caratteristiche della poesia epica. Ma l'affermazione di comunanza "stilistica"
è netta, dov'è dunque il punto di contatto? Certo, ciò cui egli allude, non è - nell'accezione contemporanea - lo
stile, quanto piuttosto il suo riferimento è a quel parlare chiuso, sottile o, in altri termini, a quel modo
d'esprimersi caratteristico della prospettiva iniziatica per la quale anche la costruzione letteraria viene a svolgersi
secondo relazioni ermetiche e di numerologia simbolica. Relazioni che, dietro alla semplice e materiale
apparenza dell'esperibile, sono poi le stesse preposte a reggere quell'ordine cosmico che, come immagine
speculare, ha, quale risultato del suo sempre più profondo scandagliare gli abissi della υλη, il caos fedelmente
riferitoci dalla fisica contemporanea.
Del resto, la ragione che, a Dante, fa scegliere Virgilio come guida, si trova nel VI canto dell' ENEIDE: è da lì, che
egli trae il motivo della «selva oscura»,8 antiporta degli inferi e dove, condotto dalla Sibilla, Enea coglie il ramo
d'oro che gli sarà viatico nei cammini d'oltretomba. Trasparente allusione alla fronda, portata dagli iniziandi ai
misteri eleusini, nonché al tirso dionisiaco e quindi conforme ad analoghe manifestazioni relative alla morte
iniziatica e caratteristiche di ambienti esoterici 9 nei quali, con evidenza, anche l'Alighieri si riconosceva. In
questo senso, si spiega come, a livello popolare, nel Medio Evo ed anche oltre, in tutta la Cristianità, per
Virgilio, fosse diffusa la fama di mago, tant'è che note sono quelle pratiche, definite sortes vergilianæ e
caratterizzate dall'apertura a caso dell'Eneide sicché, dai versi in tal modo capitati sotto l'occhio dell'interrogante,
si traevano auspici.10
In Dante e nel suo ambiente culturale, i riferimenti ed i parallelismi virgiliani non si fermano qui; ci basti, infatti,
pensare al gruppo d'artisti del I sec. a. C. che - sotto il titolo di poetae novi o νεωτεροι com'anche, alla greca,
amavano farsi chiamare - determinerà un importante mutamento nelle lettere romane ed al cui richiamo, non solo
onomastico, lo Stilnovismo sembra davvero rispondere. Per il mantovano 11 Virgilio, quella è la generazione a lui
precedente ma, con essa, egli era, quanto meno, in rapporti di sicura affinità. Inoltre, con Catullo e gli altri, 12
condivideva l'origine settentrionale ossia la provenienza dalla Gallia cisalpina. A questo punto, è bene ricordare
come la gran parte dell'Europa occidentale, comprese le Isole britanniche, ampie zone dei Balcani e della stessa
Anatolia fossero allora abitate da tribù celtiche. Nell'Italia trans-appenninica, la loro presenza, incominciata
intorno alla fine del VI sec. a. C., diventa massiccia a partire dal 388 a. C. I Cernomanni vivevano nelle attuali
province di Verona e Brescia, la rimanente regione lombarda era abitata da Insubri e Edui mentre l'arco alpino
occidentale vedeva l'insediamento dei Leponzi e quello orientale dei Reti. Boi e Senoni si trovavano nella
porzione a Sud-Est del Po, nell'attuale Emilia-Romagna e nelle Marche. È nelle aree della padania occidentale,
che i Galli sopravvenuti, s'incontrarono con gli Etruschi e della cui importante presenza vale ricordare, come
cardine del loro sviluppo, il triangolo urbano formato dai centri di Marzabotto, Felsina e Spina. 13 Molto
influenzati dalla cultura celtica erano i Liguri. I Romani arrivarono in Emilia-Romagna nel III sec. a.C. e
consolidarono la loro presenza dopo che la battaglia del Sentino (295 a.C.) pose fine ai ricorrenti conflitti tra
Sanniti, Umbri, Etruschi, Galli e Piceni. I Leponzi ed i Cernomanni acquisirono la cittadinanza romana solo
verso la fine del I sec. a. C. ed è a quest'ultima etnia che, probabilmente, appartennero i membri del precitato
circolo letterario. Pertanto, ai tempi di Virgilio, la romanizzazione, almeno in senso istituzionale, poteva definirsi
ancora recente. Nella tripartizione dell'onomastica romana e per le sue specifiche caratteristiche 14 dobbiamo dare
rilievo soprattutto a nomen e cognomen e, nel caso del Nostro (Publius Vergilius Maro), iniziamo col porre
l'attenzione sul gentilizio vergilius: il celtico fer corrisponde al lt. vir, per altro così prossimo al ver- iniziale del
nomen in questione mentre, per -gil, non si fa fatica a vedervi una variante di -cil (as in Columcille, Kildare and
Killarney), che rappresentano una contrazione di Ceilidh, il nome autoctono della patria celtica: la latina
Caledonia la quale, solo stricto sensu, stava a designare il Nord-Ovest della Scozia. Quindi, fergil è l'uomo
della Gallia, il gallo, il celtico. A riprova, della totale plausibilità di questo passaggio linguistico, ci
viene alla mente l'identico ed assai noto caso di un monaco irlandese (VIII sec.) di nome Fergal (stesso
significato di fergil),15 il quale, essendosi formato nel monastero di Cainnech a tali studi deputato, era, in quegli
anni dell'alto Medio Evo, un famoso astronomo. Quando, secondo l'uso del tempo, si sentì la necessità di
latinizzarne il nome, l'opzione più naturale sembrò quella di dare la preferenza a Virgilio. In seguito, per le sue
cognizioni scientifiche, fu da tutti conosciuto come Virgilio il Geometra. Egli divenne anche vescovo di
Salisburgo e col nome di San Virgilio fu quindi elevato agli onori degli altari.16
Sempre al dominio celtico appartengono con certezza anche i nomi del nonno materno e della madre del poeta:
Magius e Magia, i quali, entrambi, hanno il senso di grande. È qui presente, con deriva -io, la comune radice
i.e. mag, che, in lt., ha dato magis, magnus, magister e *magios→maior e in gr. µεγα.17
Riguardo alla leggendaria semplicità delle origini del nostro Virgilio, la cosa - alcuni dati biografici a parte 18 essa è messa in dubbio proprio per la presenza dei suoi tria nomina ben avanti a quel I sec. dell'Era Volgare in
cui ebbe avvio una loro diffusione anche in ambienti più modesti rispetto a quelli presso i quali tale uso aveva
avuto inizio.19 Non dimentichiamo che il suo cursus studiorum è altrettanto rivelatore: egli lo iniziò a Cremona
per poi passare a Milano dove si trovavano le migliori scuole della Gallia Cisalpina. Da qui, si trasferì a Roma,
da Epidio, celeberrimo maestro di retorica ai cui corsi accorrevano i rampolli dell'aristocrazia capitolina e dove
ebbe come compagno il nipote di Cesare, il futuro Ottaviano Augusto. Tale ambiente gli permise di tessere
quella old boys net che, allora come ora, caratteristica delle grandi scuole, è sempre stata ed è garanzia di utili
ricadute per un futuro successo sociale. Inoltre, sebbene a Mantova, in un contesto fortemente influenzato dalla
latinità, per vergilius l'assonanza, unita alla constatazione del ruolo della famiglia, poteva facilmente collegarlo
al senso implicito nel vb. vergo20 dal quale sono derivati i nostri composti convergo e divergo e donde,
pertanto, scaturisce un generico significato di direzione, di moto a. Ciò che ben s'addice quale attributo
di una gens d'ascendenza superiore che, nella fattispecie, non facciamo fatica a supporre sacerdotale ovvero
druidica. Cosicché poi, velata dai secoli la radice celtica, l'acquisito senso latino è venuto ad imporsi sino ad
apparire quasi un titolo, facilmente traducibile nel reiterato, dantesco «lo duca mio».
Ma Mantova, com'è attestato, presso i suoi cittadini, dall'ancor vivissimo Mantua, prima che gallica fu l'etrusca
Manthva, che traeva nome dal suo patrono Mantus - god of the underworld21 - la cui funzione, nell'associazione
alla paredra Mania, era assai prossima a quella dei Manes di Roma. Mania è poi identica alla gr. µανια, la cui
vis inquietante si manifestava in profetesse 22 quali la Pizia e le Sibille. Essa, oltre ad essere consona al peculiare
humus culturale del luogo d'origine del Nostro, con la horrenda Cumana,23 ricompare in momento saliente della
vicenda d'Enea.
Stesso richiamo all'etrusca disciplina24 lo trasmette anche il terzo elemento onomastico di Virgilio; infatti, il
cognomen, il quale, non dimentichiamo, era attribuito ad personam, venendo così a corrispondere ad una
caratteristica saliente del portatore, lo qualifica come Maro, che è poi la forma lt. dell'etr. maru (umbr. maron)
ossia the title of a high priest come testimoniano le forme maru Menervas, sacerdos
Minervae o maru Cathsc, sacerdos Cathae.25 Insomma, quanto andiamo traendo dai nomina virgiliani
conferma ciò che, in merito all'origine della sua patria, lo stesso poeta racconta 26 e quanto Servio, nel suo
commento,27 specifica con l'accennare ad un popolo costituito da una mescolanza di Etruschi e Galli, senza
escludere Veneti, Sarsinati e Tebani.
Questo ci consente una breve digressione che, per il nostro punto di vista, è però assai importante. Se dalla Gallia
cisalpina passiamo ad altri domini celtici, noi troviamo come la fama sapienziale di Virgilio fosse ben radicata
anche tra quei lontani connazionali tant'è che un manoscritto gallese, con insegnamenti di quest'ordine, si titolava
LLYFREU FFERYLLT, The Book of Pheryllt e pheryllt o feryllt è ancora lo stesso Virgilio ma, rispetto alla
precedente forma celtica esaminata, c'è qui quest'interessante variante: la prima parte fer- già la conosciamo ma
meno chiara ne è la seconda -yllt. Ebbene, essa è la contrazione di yilde ossia la gilda28 dell'inglese medievale.
Ne consegue che feryllt è a guildman; come se una qualche contezza sul suo ruolo magistrale e della sua
appartenenza iniziatica avesse fatto preferire questa versione all'altra (fergil o fergal) sicuramente più omofona al
nome storico ed altrettanto adeguata. Del resto, noi sappiamo che, in Etruria, maru oltre al valore di sacerdos
aveva quello più specifico di chairman of a cultual society ossia di ciò che, tout court, poteva
anche essere indicato dal composto marunuchva, a priestly organization.29
Era caratteristica di tutte le società premoderne l'organizzazione in classi ed organismi
omogenei strettamente strutturati e, soprattutto, sacralizzati; pertanto, in un ambiente come
quello cisalpino dove, da secoli, tre culture nazionali si sovrapponevano e s'intregravano, è
scontato che, tale osmosi, ai tempi di Virgilio, fosse in una fase assai avanzata e che pertanto
il circolo dei poetae novi, pur esprimendosi in latino, avesse in sé istanze derivate dalla
tradizione etrusca e da quella celtica. Nella classe sacerdotale druidica, esistevano svariati
sottogruppi ognuno dei quali era dedito ad una speciale branca del sapere; uno di questi e tra i
più influenti era la gilda dei poeti - se così possiamo tradurre il celt. filid (sing. fili,
poeta) - e per i quali la poesia era il modo d'espressione attraverso cui veicolare contenuti
d'ordine prevalentemente intellettuale. Infatti, il termine, che qui riportiamo nella sua versione
irlandese, sembra fosse la trasformazione di un antico gweled avente l'esplicito significato di
profeta, veggente ma che è parimente leggibile in alcuni ordinamenti30 nei quali
s'afferma che la fáithsine (prophecy) è il compito del fili. In sostanza, la sua funzione era
identica a quella dell'etrusco haruspic (lt. haruspex) e del gallico vati31 da cui lo Szemerényi 32
intende far derivare lo stesso romano vates ma a nostro avviso, anche per la presenza di
vetare e votare, esso sia sì da mettere in relazione col gall. guetid, dire ma nell'identica
misura del got. wods, canto, dell'ant. isl óđr, poesia e del skr. vatati, inspire. In
definitiva e visto che analoghe relazioni compaiono anche per Odino, wōÞanaz, ,
l'inspiré, le possédé e pure fuori dell'area i.e. con l'accad. awatum, oracolo,
parola divina, ciò fa supporre una radice antichissima e tale da escludere un prestito
così recente. Anche i bardi (bardos) avevano le loro gilde ed essi si differenziavano essendo
deputati alla trasmissione ed esecuzione delle composizioni redatte dai filid e relative alle
imprese dei condottieri, ai precetti religiosi, leggi e genealogie che, per le influenze implicite
al potere della parola ritmata e cantata, si distinguevano in canzoni di guarigione, di gioia e di
dolore.33
Il bosco, con le sue ombre, appare elettivamente il luogo liminare tra il mondo sensibile e
quello sottile e, di conseguenza, è una delle porte tra la nostra condizione e l'oltretomba.
Ponendo a loro dimora alberi, rupi e fonti, gli dei vi abitano ed è quindi sotto le sue fronde
che, all'uomo, viene reso possibile l'incontro col divino. Tutto questo vale per la tradizione
classica,34 per quella etrusca35 - se è il caso di distinguerla da essa36 - e, con maggior incidenza
che nelle altre, in quella celtica, dove, a veri e propri templi, s'elessero le selve d'Europa. È
quindi in un bosco che Virgilio - il quale, alla sua opera, come culmine delle civiltà e della
storia dell'Italia tutta, ha voluto imprimere il suggello unificante della romanità - ha posto nel
VI canto lo snodo essenziale dell'ENEIDE. Ci sono esplicite testimonianze sull'accurata
preparazione che, per la redazione del poema, gli fu necessaria: molto dovette alle ORIGINES di
Catone ed alle opere antiquarie di Varrone ma noi, da quanto siamo riusciti a mettere in luce,
abbiamo la convinzione come, non poco, gli sia anche pervenuto dalla sua condizione di
maru, guida di una marunuchva e di gallico feryllt. È così che, nella sua arte, confluiscono,
con gli apporti cosmopoliti della tradizione didascalica alessandrina, uniti alla brevitas di tipo
esiodeo, tutti i contributi autoctoni sottesi al movimento neoterico. Appare poi probabile che
quel bosco fosse di querce e che, proprio da quest'albero, sacro a Giove,37 Enea cogliesse il
fatidico ramo d'oro il cui colore, lo rassomiglia o meglio l'assimila al vischio (vv. 204-209):
discolor unde auri per ramos aura refulsit.
quae solet silvis brumali frigore viscum
fronde virere nova, quod non sua seminat arbos,
et croceo fetu teretes circumdare truncos,
talis erat species auri frondentis opaca
ilice, sic leni crepitabat brattea vento.
Insomma, quel ramo è proprio il giallo vischio, così sacro ai druidi, che, nei cupi
boschi invernali, rifulge come una fiamma e per questa sua essenza ignea è come la
lampada posta a far luce sulla strada dell'iniziato.
A dimostrazione dell'estrema complessità dell'arte poetica antica cui è davvero riduttivo applicare criteri
meramente estetici, sebbene essi pienamente sussistano, EPISTEME, quale reprint, propone il non facile studio di
Paul Maury,38 il quale, sottesa al testo delle BUCOLICHE, ha scoperto una vera e propria struttura architettonica.
Analoga, per intenderci, a quella più apertamente presente nella COMMEDIA dantesca. L'analisi, compiuta dal
Maury, è davvero minuziosa e riassumerla non è facile; perciò, quantunque sia qui pubblicata in exstenso, noi
riteniamo che, ai fini di una maggior comprensione, non sia inutile prodursi in un modesto tentativo. 39
La prima cosa da rendere evidente è una simmetria tra le egloghe:
La I e la IX rappresentano le prove della Terra.
La II e la VIII
"
" dell'Amore.
La III e la VII
La IV e la VI
"
la Musica liberatrice.
" le Rivelazioni sovrannaturali.
Queste quattro coppie danno luogo ad un movimento ascendente per le prime
quattro (I, II, III, IV) e discendente per le altre (IX, VIII, VII, VI). L'insieme è dunque un
percorso il cui significato è da ricondurre al simbolismo esoterico del viaggio dove le
prove costituiscono il preambolo purificatore e necessario per giungere al termine
dell'intero processo iniziatico. Qualcosa d'analogo insomma alla queste du Graal
della poesia cavalleresca medievale.
Al centro ed alla sommità della simmetria c'è l'egloga V (Daphnis, l'amore spirituale dell'iniziato) la quale, per
questa sua posizione, dal Maury, è chiamata Bucolica maggiore. In basso, speculare alla V, c'è la X ( Gallus,
l'amore carnale della condizione profana). Viene dunque a disegnarsi un'architettura basilicale che, superate le
apparenze letterarie, mostra la soggiacenza di una struttura assoluta 40 inerente alle relazioni che intercorrono tra
il Cosmo ed il suo Principio, tra la Terra e l'Olimpo; concezione in cui l'apporto pitagorico appare evidente.
Scoperta tale simmetria (eine Axialsymmetrie)41 e, all'interno di essa, procedendo al
conteggio dei versi delle composizioni contrapposte, si rivelano, sul piano numerico,
ulteriori corrispondenze e tali e tante e così coerenti da dover escludere qualsivoglia
casualità. Anzi, alcune anomalie, invece che creare dubbi sulla giustezza della
traccia individuata, hanno permesso al Maury la localizzazione di piccole alterazioni,
presenti nella lezione giunta sino a noi, cosicché esse, col venire a confermare
puntuali sospetti, già sollevati dalla critica filologica, hanno, nel contempo, consentito
il restauro dell'originale.
Tra i numeri che più si ripetono è da segnalare il 183, nel quale - secondo Plutarco 42 i pitagorici vedevano raffigurata l'armonia del Cosmo. Ci sono inoltre i nn. 333 e 666
dove quest'ultimo è il numero triangolare di 36, il quale è, a sua volta, triangolo di 8
ossia la ογδοας doppia della τετρας. A motivo dell'interpretazione malefica che ne dà
l'APOCALISSE,43 il 666 non gode di buona fama ma, come tutti i simboli, ha un doppio
aspetto e qui Virgilio privilegia l'altro. 44 Insomma, il 666 può rappresentare sia il
κατεχον,45 sia chi lo insidia e, nelle BUCOLICHE, esso è la cifra di Cesare o meglio, del
ruolo esoterico dell'Imperator.
Sulla presenza di un'analoga architettura nell'ENEIDE ci sembra che, sinora, nessuno abbia indagato; per quello
che possiamo vedere la presenza di dodici composizioni farebbe pensare, piuttosto che ad una simmetria
direzionata a qualcosa che si sviluppi intorno ad un centro, infatti il dodici è sottomultiplo di sessanta mentre è
su quest'ultimo che s'imposta la misurazione della circolarità. Inoltre, il dodici è il numero sempre connesso alla
costituzione di un centro spirituale ed esso si ripresenta con i dodici avvoltoi scorti da Romolo, proprio al
momento della fondazione dell'Urbe. Nel simbolismo geometrico il cerchio è connesso al cielo mentre il suo
corrispettivo terrestre è il quadrato come difatti è la pianta della prima Roma; pertanto, è probabilmente sui
quattro lati di questa figura che andrebbero disposti i dodici libri del poema…però qui fermiamoci e lasciamo
eventualmente ad altra occasione un tentativo in questo senso.
Per il resto, corrispondenze e iterazioni, rilevanti per indurci a supporre l'esistenza di un certo disegno
numerologico, sono già state rilevate; 46 ad esempio, in tutto il testo è ben leggibile l'importanza del tre e dei suoi
multipli: tre volte tre, tre volte quattro, tre volte cinque, tre volte dieci, tre volte cento. Ad esempio, trenta sono i
porcellini che Enea scorge dove sorgerà Roma. Non manca il quattro - numero terrestre - sia da solo, sia
quattro piú quattro.
La εβδοµας è la prima a comparire e domina il testo sin dal canto iniziale: al v. 71, s'incomincia con
l'affermazione di Giunone
sunt mihi bis septem praestanti corpore nymphae
Poi, Enea si ricovera con i sette compagni superstiti, combatte e vince nemici che armano sette navi. Infine,
com'era stato profetato, per sette anni, i profughi vagano randagi.
La famosa quarta egloga, nella quale i cristiani hanno letto la profezia dell'avvento del Cristo, è decisamente
ebdomadica e vi si trova anche la ripartizione in trivio e quadrivio. Essa, come rileva il Vinassa de Regny, 47
comincia con tre versi cui seguono due strofe ognuna di sette versi, ci sono poi altri vent'otto (4×7) versi.
Seguono poi quattro versi che, con i primi tre (terque quaterque) formano ancora sette, finché s'arriva alla chiusa
con altre due strofe di sette versi ciascuna. In tutto, come si può verificare anche nello schema del Maury,
l'egloga consta di sessantatre versi. Questo numero è dato da nove volte sette ma non è un numero qualsiasi,
tant'è che aveva uno specifico attributo ossia quello di climaterico. Oggi, stando ad indicare, col sostantivo
climaterio, sia la menopausa, sia la più indefinita andropausa, il suo significato s'è ristretto alla fisiologia
sessuale. In antico però, nella scala (κλιµαξ) della vita, contraddistingueva uno scalino (κλιµακτηρ)48 la
cui durata era di sette anni. Particolarmente critico era il nono scalino, che coincideva quindi col
sessantatreesimo anno d'età, sicché si riteneva che, superatolo, ci fossero buone speranze d'avere una lunga
vecchiaia: infatti, Augusto scriveva al nipote rallegrandosi per aver ormai superato l'anno climaterico. La
numerologia d'impronta pitagorica era quindi ben presente in tutti gli aspetti della cultura romana. Ed ancora per
il sette, nel quinto canto, alle esequie d'Anchise (vv. 84-86), si legge:
…………adytis cum lubricus anguis ab imis
septem ingens gyros, septena uolumina traxit
amplexus placide tumulum lapsusque per aras
E così, di seguito, sette sono i «non domi giovenchi». Nel nono canto, si parla dei sette rami del Nilo; sette e sette
sono i Rutuli, eccellenti. Nel decimo canto, s'incontrano i sette figli di Forco e sette sono i dardi avvelenati. Poi
nel dodicesimo canto (vv. 923-926), lo spesso scudo di Turno, nonostante i suoi sette strati, è trapassato dall'asta
d'Enea, sicché il poema col sette comincia e col sette si chiude:
Volat atri turbinis instar
exitium dirum hasta ferens orasque recludit
loricae et clipei extremos septemplicis orbes.
Per medium stridens transit femur.
In tutto questo, è nostra impressione che, negli anni di Virgilio, col concorso di svariati apporti tradizionali, già
presenti nel nostro paese, si sia costituito un filum che poi, ininterrotto, sia giunto sino a Dante. Del resto, di ciò,
la prova più evidente sta nell'architettura della VITA NOVA nella quale si riproduce la medesima Axialsymmetrie
delle BUCOLICHE: si hanno prima dieci tra sonetti e brevi ballate, poi una canzone, poi altri quattro sonetti, infine
una lunga canzone centrale. Ad essa seguono, simmetrici, altri quattro sonetti, poi ancora una canzone e
finalmente, per terminare, un'altra serie di 10 tra sonetti e brevi componimenti. Si ha così la successione: 10a',
1b', 4a', C, 4a'', 1b'', 10a'', assolutamente simmetrica. Naturalmente, sarebbe importante, sulla falsariga della strada
aperta dal Maury, verificare i rapporti che legano tutte queste composizioni tra loro ma, con evidenza, è questo
un compito che supera la portata del presente articolo.
Di tale catena di trasmissione è, oggi, difficile individuare le tracce; certo è che il debito dell'Alighieri alla
letteratura provenzale è reso palese dal suo stesso poetare in questa lingua e, del resto, il ruolo della donna e
quello dell'amore parlano da soli. Inoltre, simbolismi, numerologia ed altre singolarità si rifanno a quel trobar
cloz prediletto dai troubadours. Volendo risalire nei secoli, sempre nell'antica Gallia, c'è la singolare figura di
Vergilius Maro Grammaticus. Egli, vissuto nel VII sec., attivo a Tolosa e sembra anche in Irlanda, pare fosse
nato come ebreo in Spagna tant'è che, talvolta, è detto - non si sa con quanta proprietà - Virgilio l'Asiatico. Poi,
come fecero altri dotti della tarda antichità e dell'alto Medio Evo, per un'evidente devozione all'originale e per il
prestigio a lui connesso, n'adottò il nome ma, considerato il racconto che egli fa dei gruppi di grammatici cui
partecipava, la cosa assume un aspetto più impegnativo. Insomma, l'ingresso nella Scola Palatina, che avveniva
con un'iniziazione e l'adozione di un nuovo nome, rappresentava, a tutti gli effetti, la partecipazione ad
un'organizzazione esoterica. Questo, ovvero il segno dell'ingresso in una nuova vita e non un vacuo orpello
sarebbe dunque stato il vero motivo del singolare uso onomastico. Nella fattispecie, viene da pensare come il
richiamo a tanto maestro, potesse forse indicare, pel nostro epigono, un suo notevole rango gerarchico. Difatti, la
sua opera non è di mera erudizione ma - consistendo di poesie, enigmi, fantasie, creazione di neologismi ed
attacchi al potere - presenta aspetti di notevolissima complessità ed interesse fino ad apparire tra le più
sconcertanti dell'epoca.49 Non sembri dunque strano l'abbinamento dell'arida grammatica ad un organismo
sapienziale perché, superata la scorza erudita della materia, non si può non riconoscere come, in realtà, il
linguaggio sia elemento integrale del pensiero poiché, senza il suo supporto, i superiori livelli di esso non
avrebbero modo di svilupparsi. In altri termini, studiare a fondo la struttura della lingua è studiare il pensiero
stesso. In questo senso, si comprende anche come le famiglie linguistiche molto lontane tra loro possano
generare categorie logiche non sempre sovrapponibili; in altre parole, c'è, immanente ad ogni lingua, una sua
logica che è proprio la grammatica a permette d'individuare e rendere evidente. Infatti, la classificazione
grammaticale delle diverse parole e la sintassi servono a definire la stessa organizzazione del pensiero;
costruiscono cioè quel reticolo sul quale gli oggetti dell'esperienza ed i concetti vengono a disporsi secondo un
ordine il cui primo fruitore è l'individuo che li pensa ma che, nel contempo, ne rende anche possibile la
comunicazione. Il riscontro di ciò è immediato: il nome o sostantivo corrisponde - ovviamente - alla categoria
della sostanza; esso, di per sé è un suono che, per convenzione, viene a dotarsi di un significato ma è
temporalmente indeterminato.50 L'aggettivo, che indica un modo della cosa significata, si rifà alla categoria
dell'attributo.51 Il verbo, che invece possiede una determinazione temporale, 52 si connette alla categoria
dell'azione mentre il verbo sostantivato a quella dell'essere…… È per tale ragione ossia per la coscienza della
fondamentale importanza posseduta dalla struttura linguistica che le varie scuole, come racconta questo tardo
Virgilio, si dedicavano a singolari certamines, nei quali, posto un tema, che - ad esempio - poteva essere la
presenza o meno, in tutti i verbi latini, di un frequentativo, instancabili lo svisceravano anche per quindici giorni
e quindici notti. Il Durkheim, che di tutto questo tratta nella sua tesi di candidato all'agrégation (1904 -1905),53
comprensibilmente ironizza su tali eccessi ma poi aggiunge:
…bien qu'il soit d'usage aujourd'hui de répéter que la grammaire doit tenir la moindre place
dans l'enseignement, elle n'en saurait disparaître sans laisser un vide, une très grosse lacune
dans l'éducation de l'intelligence.
Parole che fanno pensare a cosa egli avrebbe detto della situazione attuale e non solo di quella del suo paese.
Tutto quanto noi abbiamo esposto fa ritenere che specifiche forme culturali ed anche certe precise conoscenze,
presenti sin dalla remota antichità, siano state veicolate attraverso catene di trasmissione in prevalenza non palesi
ma che, oggi, com'è il caso per il lavoro del Maury, possano rivelarsi solo dopo una più attenta analisi e
soprattutto quando questa non sia guidata da quei pregiudizi letterari che, nei testi, altro non vedono se non la
perfezione del verso e l'altezza dei sentimenti. Queste dottrine, Dante, a nostro avviso, è l'ultimo a rappresentarle
in una veste non molto diversa da come esse si mostravano ai tempi di Virgilio ma la loro continuità va oltre e
riteniamo che il contributo alla nascita di molto tra ciò che - mutatis mutandis - arriva sino ai nostri giorni, si
collochi in quella galassia d'intelletti al centro della quale, come snodo di due momenti della storia del pensiero,
potremmo collocare il Cusano. In lui, rivelatrice e molto nota è la frase «nihil certe habemus in nostra scientia nisi
matematica»54 ma il sapore - quasi una premessa - di quelle riflessioni sullo spazio e sul tempo, che, con Einstein,
si svilupperanno poi nelle concezioni relativistiche, si ha in quel passaggio del DE DOCTA IGNORANTIA nel quale egli
si chiede:
Poiché se qualcuno, stando su una nave in mezzo ad una corrente, ignorasse che l'acqua scorre e non vedesse le rive,
come potrebbe sapere che la nave si muove?55
e non è questa la stessa considerazione che, nell'Eneide,56 fa Virgilio quando scrive:
Provehimur portu Terraeque urbesque recedunt
Insomma, sembrano dirsi entrambi: la percezione del moto è possibile solo alla
presenza di punti fermi ma la condizione di questi è reale o, a sua volta, è frutto
d'illusione o di convenzione?
Di norma, si legge in queste considerazioni la premessa di quella rivoluzione dei "punti fissi" del sapere che a
breve seguirà e se invece, alla luce di quanto siamo venuti collazionando, stesse in esse il risorgere, faticoso e
timoroso ma pur sempre il tornare in vita di un sapere occultato? Un sapere che, come le architetture nascoste
dietro i versi armoniosi, alla luce irradiata dal rifulgere del "ramo d'oro", mostravano, ai pochi in grado di
sollevare il velame, un'inattesa trama matematica i cui legami, anche con tradizioni in apparenza lontane, ci
fanno oggi intravedere una realtà molto diversa dalla vulgata accettata ma anche tanto sapientemente imposta.
Del resto, se non vi sono punti privilegiati - «non vi sono in cielo poli immobili e fissi» 57 - è logico come, in
seguito, lo spazio cartesiano renda possibile a qualsivoglia tra essi di fungere da centro di un sistema di
coordinate e come Pascal, nei suoi PENSIERI, a proposito del cosmo, abbia potuto scrivere di una «sfera infinita il
cui centro sta dappertutto e la cui superficie in nessun luogo». Le stesse geometrie non euclidee, visto che, in un
sistema iperbolico, le parallele ad una retta data passanti per un punto sono non una soltanto ma infinite, in
questa luce, con evidenza, ci appaiono anch'esse una delle conseguenze di tale avvio. D'altronde il Cusano che,
con grand'esattezza metafisica, chiama l'universo indeterminatum invece che - come i più fanno - infinito, 58 ci
spiega come ciò avvenga perché «manca di confini fra i quali venir racchiuso» 59 ed aggiunge che, se poi
spostassimo il centro, scopriremmo come, a seconda del riferimento arbitrario che venga preso, ogni punto possa
diventarlo sicché centro e periferia coinciderebbero in un'intrigante coincidentia oppositorum. Parimenti, in un
cerchio indeterminate magnum, la circonferenza coincide con la tangente mentre in un altro indeterminate
parvum la circonferenza coincide con il diametro. È probabile che al Cusano queste cognizioni siano pervenute
quando, dal 1416 al 1423, studiava a Padova diritto canonico. Infatti insegnava colà (dal 1384 al 1388) il famoso
Biagio Pelacani da Parma, cui, sulla stessa cattedra, seguì (1418-1426) l'altrettanto dotto ed acuto discepolo
Prosdocimo de Beldomandi. Nelle opere del maestro, in gran parte, ohimè, ancora manoscritte, si trovano
analizzati alcuni fondamentali concetti matematici, quali la aequalitas, la proportio aequalitatis, la latitudo
proportionis, l'excessus, il pondus, etc…ma soprattutto, la precisio matematica quale verità o certitudo superiore
a tutte; giudizio cui appare sicura debitrice la predetta, famosa affermazione del Cusano. Il suo interesse per i
problemi di logica si manifestava nelle questioni dialettiche che pose in merito ai trattati di Pietro Ispano. 60
Sempre ai fini di una maggior comprensione del Cusano e della linea di pensiero cui egli debba essere inserito,
appare di notevole significato apprendere come atteggiamento rilevante del Pelacani fosse - senza mai prendere
in considerazione il dominio del soprannaturale - il costante suo ricondurre alla natura la causa di ogni
fenomeno. Pare inoltre che egli manifestasse un animo combattivo e sempre anticonformista però le sue
posizioni, espresse in forme altere e sdegnose, tendevano a dare la non invitante impressione di tenere in non
cale le altrui convinzioni e suscettibilità. Le posizioni intellettuali dei due professori patavini possono essere
ascritte a quella crisi dell'aristotelismo che, sul cadere del Trecento, col venire allo scoperto, mise le basi del
successivo pensiero rinascimentale. Ma, sua volta, già nei secoli precedenti, la trasmissione dal mondo classico,
grazie anche ai rapporti con la cultura ebraica ed araba, aveva generato importanti elaborazioni, tali da farci
considerare la logica medievale non un semplice adattamento di quella aristotelica ma un vero preannuncio della
moderna. Ad esempio, il concetto di predicato, fondamentale nella logica classica, contiene il tema delle
proposizioni non analizzate - già argomento degli stoici - ed oggi, dopo essere stato ben presente nella teoria
tardo-medievale e non aristotelica delle Consequentiae,61 è parimenti tra le basi della logica matematica. Negli
ultimi decenni, importanti studi sono stati compiuti per investigare i campi della semantica, della logica modale e
della filosofia del linguaggio; ambiti ai quali i logici medievali hanno portato importanti e tuttora fruibili
contributi.62 Tutto ciò, quando ci troviamo alla presenza di certe accese forme contestative della civiltà
occidentale, deve farci riflettere non poco. Esse, ponendosi sotto l'etichetta della tradizione, intendono negare
alla modernità una profonda continuità con la cultura che l'ha preceduta, facendola così apparire come una mera
deviazione priva d'ogni valido radicamento - appunto tradizionale - e quindi, quale nefasta e novissima bizzarria,
in mille modi l'attaccano. La presentano insomma quale frutto di una tale e perversa incomprensione da negarle
ogni vera capacità gnoseologica. Naturalmente, questo pone seri interrogativi su quali, in realtà, fossero i veri
contenuti della philosophia perennis e di quella traditio prima dalla quale essa, ad immemorabili, dovrebbe
essere scaturita. E questo sia detto senza negare la crisi della metafisica e la perdita di ciò che di valido era
sotteso alle concezioni (ma non certo presente nella pochezza della loro lettera!) dell'antica cosmologia, nonché
senza dimenticare l'assai più recente, imperdonabile trascuratezza verso quegli aspetti, evidenziati appunto dal
Maury, che costituivano elemento tutt'altro che accessorio del patrimonio dottrinale presente nei gruppi esoterici
dei quali, nel contempo, stiamo vedendo quanta larga parte abbiano essi avuto nel far nascere il nuovo mondo.
Nei confronti del Cusano,63 la Chiesa sembrò non avere contezza dei problemi di
ordine teologico che il suo pensiero poteva far sorgere ma sarà poi il Concilio di
Trento, momento del recupero delle più retrive correnti exoteriche, a riscontrarli ma
ad imputarli a Giordano Bruno ed a Galilei. In Bruno, l'intersezione tra gnosi e
formulazioni matematiche si farà ancor più evidente mentre l'aspetto scientifico, nella
sua accezione attuale, avrà il predominio soltanto col Galilei.
Come abbiamo veduto, partendo dalle BUCOLICHE, c'era, da sempre, in ambienti
ristretti, la chiara coscienza che le cose non sono né possono essere come
appaiono. Esse non sono perché l'intima complessità del reale produce un gioco
d'apparenze che può ingannare soltanto coloro ai quali le capacità intellettuali non
permettono di penetrare sotto il velame ed esse non possono essere
presentate nella loro nudità perché la natura profondamente anti-intuitiva64 del
reale pone, nella comunicazione, la necessità di un sipario che mascheri e non turbi i
più. E, quando certe verità si palesano in maniera più evidente, le autorità, per
incomprensione o per timore reagiscono secondo l'adagio quieta non movere et
mota quietare. Un secolo prima, il Machiavelli aveva sollevato il velo sugli arcana
imperii mentre la concezione bruniana s'è dedicata a spiegare cosa si celi dietro le
apparenze della natura cosicché, circa due secoli dopo il Cusano, nella particolare
temperie culturale, presente alla corte inglese della regina Elisabetta, il Bruno 65
sviluppa, sino alle sue estreme conseguenze cosmologiche, le precedenti riflessioni
sulla perdita dei punti fissi. Grazie alla rivoluzione copernicana - ma con lui si va ben
oltre Copernico - egli arriva ad affermare come le stelle, con tanto di pianeti intorno
orbitanti, fossero, a loro volta, centri di un moto locale. Quindi, non soltanto il Sole è il
centro di un sistema ma, facendo così perdere un centro assoluto all'universo, è ogni
stella, in un'innumerabile vastità di mondi, a diventare un centro. Partendo da
Lucrezio e passando per gli assunti metafisici del Cusano, il Bruno prende dunque
decisa posizione nel dibattito che, a seguito della rivoluzione copernicana, si stava
svolgendo Oltremanica. Gli stessi procedimenti sull'interscambio tra apparenza e
realtà, si trovano in un altro protagonista di quegli anni: William Shakespeare. Uno
dei suoi personaggi, Amleto, si finge pazzo ma noi sappiamo che «c'è del metodo in
quella follia» ed è un metodo politico, diciamo pure che quello del principe è un metodo
machiavellico: tra la sua condotta apparente ed il fine che persegue esiste un frattura
profonda ma la sua finzione, intendendo smascherare quella malvagia del re, ha un
buon fine. In un biglietto amoroso diretto ad Ophelia ma arrivato nelle mani del padre
viene da questi riferito alla regina come prova della di lui follia però quello che vi si
legge è davvero singolare; ascoltiamo Polonio:
Good madam, stay a while. I will be faithful.
«Doubt thou the stars are fire,
Doubt that the sun doth move,
Doubt truth to be a liar,
But never doubt I love.»66
Ma se poniamo attenzione a quello che Amleto scrive, ci rendiamo conto che, nel
suo dubitare, egli non fa altro che sconfessare la concezione tolemaica e così,
implicitamente, aderire alle dottrine di Copernico. Parimenti, a proposito del dialogo
tra Amleto e i due cortigiani Rosencrantz e Guildestern:67
Ham. Denmark`s a prison.
Ros. Then is the world one.
Ham. A goodly one; in which there are many confines, wards, and dungeons, Denmark being one o` the worst.
Ros. We think not so, my lord.
Ham. Why, then `t is none: to you; for there is nothing either good or bad, but thinking makes it so; to me it is a
prison.
Ros. Why, then your ambition makes it one; t is too narrow for your mind.
Ham. O God! I could be bounded in a nutshell, and count myself a king of infinite space, were it not that I have
bad dreams.
Guil. Which dreams indeed are ambition, for the very substance of the ambitious is merely the shadow of a dream.
Ham. A dream itself is but a shadow.
Ros. Truly, and I hold ambition of so airy and light a quality that it is but a shadow's shadow.
Ham. Then are our beggars bodies, and our monarchs and outstretched heroes the beggars` shadows. Shall we to
the court? For, by my fay, I cannot reason.
Giulio Giorello68 nota che,
In questo gioco di ombre credo che si definisca quella che è l'immagine della scienza che emerge
dalla rivoluzione scientifica, da quell'atto inaugurale che possiamo convenzionalmente fissare al
1543 con la pubblicazione del DE REVOLUTIONIBUS e di cui Shakespeare, o meglio Amleto, è uno
dei portatori in modo, secondo me, estremamente consapevole ed esplicito.
Del resto i lavori di Gilberto Sacerdoti69 rendono ormai del tutto plausibile non solo
l'adesione di Shakespeare alle teorie di Copernico ma la sua condivisione dell'ancor
più rivoluzionaria visione bruniana. Queste posizioni sono deducibili da due passaggi
de THE TRAGEDY OF ANTONY AND CLEOPATRA. Il primo s'evidenzia subito essendo all'inizio
del dramma:70
Cleo. If it be love indeed, tell me how much.
Ant. There's beggary in the love that can be recko'd.
Cleo. I'll set a bourn how far to be belov'd.
Ant. Then must thou needs find out new heaven, new earth.
Ma se il contenuto ossia l'amore deve essere incommensurabile, parimenti dovrà esserlo anche il contenente: è
quindi evidente la necessità di new heaven, new earth e qui risiamo a Copernico ma ampliato dall'infinità di Bruno.
L'altro momento significativo si verifica più avanti, al secondo atto, 71 e si svolge a sera a