[…] Esisterebbero, allora, una dimensione

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[…] Esisterebbero, allora, una dimensione
Testo tratto da: M. Lazzarato, Molare e molecolare. Il rapporto tra soggettività e cattura nell'arte, in A.A.V.V., L'arte
della sovversione, a cura di Marco Baravalle, Manifestolibri, Roma, 2009, pp. 58-61.
[…] Esisterebbero, allora, una dimensione molecolare e una dimensione molare dell'arte.
Cosa intendo per dimensione molare? La dimensione molare dell'arte è organizzata da tre elementi.
Primo, la distribuzione di funzioni e di ruoli specifici: l'artista, l'opera, il pubblico, il critico, il
curatore. Secondo, i dispositivi: il museo, il festival, il teatro, l'esposizione. Terzo, i criteri di
valutazione che mostrano e dicono l'arte come un'attività specifica e separata. Un'attività esercitata
da artisti ed esperti in direzione del pubblico, che, fondamentalmente, va coltivato.
Dunque la dimensione molare definisce le modalità di enunciazione, di visibilità, di funzioni, di
ruoli e di dispositivi artistici. Questo modo di enunciazione, che noi abbiamo utilizzato, viene in
realtà dalla Rivoluzione Francese, più precisamente, dalle due rivoluzioni: la Rivoluzione
Americana e quella Francese. Marcel Duchamp lo ricorda in maniera molto sintetica, dice: “fino
alla Rivoluzione Francese l'artista praticamente non esisteva da un punto di vista sociale, esistevano
solo gli artigiani”. Questa affermazione è forse esagerata, però rende precisamente l'idea della
rottura avvenuta al momento della Rivoluzione Francese, rottura che non ha definito solo il ruolo
sociale, ma soprattutto la parte patrimoniale, cioè i diritti d'autore e il copyright. Elementi, questi,
che restano dispositivi fondamentali per definire il problema della proprietà, problema
assolutamente centrale.
La Rivoluzione Francese stabilisce una divisione, una classificazione che è ancora la stessa delle
istituzioni culturali contemporanee. Ha trasformato quelle che erano le “arti del fare”, eredità del
Rinascimento, in discipline proprie della modernità: arte, mestiere e scienza, ciascuno con la propria
istituzione. […]
Questa è la dimensione molare dell'arte, a mio parere ancora attuale, quella della distribuzione delle
funzioni e delle loro modalità operative.
C'è, invece, una dimensione molecolare dell'arte (delle pratiche artistiche più che dell'arte) che
funziona in maniera differente, funziona sotto, vicino, a fianco di questa dimensione molare ed è
organizzata tanto dalle imprese o dallo Stato, quanto dagli artisti stessi.
Fondamentalmente ci riferiamo a tecniche che, da trent'anni a questa parte, le pratiche artistiche
utilizzano per sfuggire, per sottrarsi alle separazioni e alle classificazioni, cioè al contesto molare.
A partire dal XX secolo, tutte le pratiche, o meglio, le pratiche più interessanti, sono state quelle che
hanno messo in discussione queste separazioni, queste classificazioni, questa distribuzione di ruoli e
di funzioni: artista, pubblico, ecc...
La dimensione molare è assimilabile alla divisione disciplinare che distribuisce ruoli e funzioni
secondo una logica dialettica:arte non arte, artista non artista, opera o merce. La dimensione
molecolare, invece, è assimilabile ad una gestione differenziale delle libertà, delle eterogeneità,
delle soggettività. Cioè, in questi spazi, in queste pratiche molecolari, esistono quelle che Guattari
definiva libertà parziali, coefficienti di libertà. Si tratta di libertà differenziali che sono messe in
gioco. Il problema è capire che rapporto c'è tra queste due dimensioni, la dimensione molecolare
dell'arte (che è utilizzata tanto dall'impresa quanto dagli artisti) e la dimensione molare. Questi due
concetti, che mutuo da Deleuze e Guattari, dovrebbero funzionare insieme, anzi il molecolare
dovrebbe avere la capacità di trasformare la dimensione molare.
[…]
Ciò che è evidente, pensiamo a quanto successo a Duchamp, è che tutti questi processi, queste
dinamiche che cercano di sottrarsi alla dimensione molare, non riescono a trasformarla, a
trasformare le modalità di enunciazione e di visibilità dell'istituzione arte. Cioè, ciò che
continuiamo a trovarci di fronte è, fondamentalmente, sempre l'istituzione arte che riesce ad
imporsi. In definitiva, assistiamo alla traduzione e alla chiusura della molteplicità, delle innovazioni
e degli esperimenti di queste libertà micro, di queste eterogeneità, catturate nella figura dell'artista,
dell'opera, del museo, del pubblico.
Duchamp è la figura più emblematica: sebbene rappresenti una personalità decisamente proiettata
altrove nella sua ricerca estetica, è stata recuperata, resa visibile e fruibile nei musei. Queste
pratiche molecolari non soltanto arrivano a mettere in discussione le divisioni disciplinari dell'arte e
dell'artista, ma sono catturate da processi di valorizzazione capitalista e questa è una novità
fondamentale che è emersa a partire dalla fine degli anni Sessanta, dopo il Sessantotto.
Le imprese e lo Stato, anche senza “toccare” la potenzialità critica dell'opera, senza “toccare” la
capacità di trasformazione della soggettività propria delle pratiche a cui ci riferiamo, le utilizzano
per alimentare l'industria del turismo e del tempo libero, per costruire dei territori-museo come
Bilbao, delle città-museo come Venezia, dei quartieri-museo come Vienna, delle città-esposizione
come Kassel o delle città-festival come Avignone.
[…]
Esse [le pratiche artistiche] costituiscono anche il motore dell'industria del lusso, industria che
sfrutta le ricadute di questi esperimenti per vendere stili di vita ai nuovi milionari della
globalizzazione. La valorizzazione capitalistica ha la capacità di intrecciare, all'interno di una fitta
rete di produzioni di beni materiali e immateriali, le forme, le innovazioni semantiche, le
sperimentazioni di nuove materie d'espressione e di modalità inedite di enunciazione.
[…]
Testo tratto da: A. Fumagalli, Mercato dell'arte, bioeconomia e finanza, in A.A.V.V. L'arte della sovversione (a cura di
Marco Baravalle), Manifestolibri, Roma 2009, pp. 143-146.
Nell'analisi economica da una decina di anni vi è una nuova disciplina. Si chiama Economia
Politica dell'Arte. Numerosi saggi sono apparsi sulle riviste specializzate, soprattutto mainstream. In
modo molto semplificato, si sostiene che si è sviluppato un nuovo mercato, in cui opera una sorta di
homo oeconomicus. Esso agisce in modo perfettamente razionale. Il suo intento è speculare, con
l'obiettivo di trarre il massimo guadagno, sul valore futuro atteso dell'opera d'arte. Compra oggi
opere di sconosciuti che non hanno ancora ottenuto una fama tale da essere quotati sul mercato
ufficiale dell'arte ad un basso prezzo, scommettendo sul fatto che, una volta divenuti famosi, le loro
opere verranno valorizzate. Le tecniche di analisi sono le stesse che vengono adoperate dagli
analisti finanziari per quanto riguarda il valore atteso dei titoli azionari. Di fatto, si ipotizza un
comportamento che assimila un'opera artistica ad un'attività finanziaria. È la tristezza dell'economia
(non a caso la “dismailed science”, secondo la famosa definizione di Carlyle), ovvero quel processo
secondo cui tutto è riducibile a merce che ha un valore di scambio e il comportamento umano è
riducibile quasi esclusivamente ad una scelta (supposta sempre possibile) in termini di costi e
benefici.
Lo scopo è quello di fornire una teoria della formazione del prezzo dell'opera d'arte, utilizzando gli
assiomi comportamentali che vengono utilizzati nell'analisi di mercato: comportamento utilitaristico
e massimizzante in presenza di asimmetrie informative dovute ad incertezza.
Fino agli anni '80, tale impostazione metodologica (scelta razionale tra fini alternativi) era la base
della teoria dei mercati finanziari. La decisione se acquistare o meno un titolo finanziario in
condizione di incertezza era, in primo luogo, una scelta individuale (non influenzabile da altri
comportamenti) sulla base delle aspettative esistenti (premonizioni “razionali” di conoscenza del
futuro → teoria delle aspettative razionali) e della propensione al rischio (in misura correlata alla
possibilità o meno di formulare aspettative).
Nel campo della teoria dei mercati finanziari, l'ipotesi di comportamento razionale non ha retto la
prova dei fatti nel momento in cui si è attivato il processo di finanziarizzazione e il ruolo dei
mercati finanziari si è strutturalmente modificato, trasformandosi da quello di semplice allocazione
più o meno efficiente del risparmio a motore della crescita economica e strumento di creazione del
valore d'impresa.
Nel campo dell'economia politica dell'arte, invece, l'ipotesi di razionalità persiste in modo quasi
incontrastato. Eppure il mercato delle opere d'arte presenta delle anomalie che mal si prestano a
un'analisi prettamente utilitaristica (alla Bentham) in grado di consentire scelte tra fini alternativi.
Già gli economisti classici e fisiocrati (ad esempio David Hume e Adam Smith) avevano
evidenziato come il mercato delle opere d'arte fosse caratterizzato già a quei tempi da:
a. presenza del gusto e del piacere estetico
b. la persistenza di “mode”
c. un forte dualismo tra l'esperto (critico) e il semplice usufruitore.
Il primo punto pone la questione della misurabilità del valore di un'opera artistica. Il piacere ha un
valore definibile in termini mercantili e soprattutto può avere una misura del valore che sia
applicabile a tutti. Si tratta dell'annoso tema delle “preferenze”, ovvero dei gusti degli agenti
economici, che nella teoria mainstream vengono supposti esogeni e dati così da evitare qualsiasi
impaccio. Ma nell'opera d'arte, la variabile del gusto, ovvero dell'estetica (“il bello”) non può essere
eliminata perché connaturata all'essenza stessa dell'arte come produzione estetica.
Il secondo punto mette in crisi la possibilità che le scelte siano perfettamente razionali e individuali,
ovvero scevre da qualsiasi condizionamento esterno. Nel campo dell'arte, lo sviluppo di mode
veicola i gusti e l'estetica e quindi influenza in modo determinante il successo o meno di un'opera
artistica e quindi il suo prezzo. La razionalità prevalente è dunque quella cosiddetta “mimetica”,
ovvero che si basa su scelte influenzate da processi imitativi (“sociali”) piuttosto che individuali.
Soprattutto con riferimento all'arte moderna, infine, il valore di un'opera d'arte è sempre più
determinato da come la critica accoglie l'opera stessa. La critica è l'espressione della conoscenza, è
il connoisseur (“intenditore”), termine usato per indicare l'esperto e lo scopritore di talenti artistici
che si muoveva negli anni passati all'interno delle gallerie d'arte. Il connoisseur non era mosso da
intenti speculativi di guadagno, ma piuttosto dal piacere dell'arte. Famoso è il caso di Peggy
Guggenheim che acquista agli inizi del secolo scorso alcune tele di Kandinsky su consigli dei
connoisseurs e consente grazie alle esposizioni di dare risalto e valore all'opera dello stesso
Kandinsky. L'asimmetria informativa è molto elevata e il ruolo della critica è determinante
nell'influenzare il valore di un'opera.
Nel contesto bioeconomico attuale, il condizionamento del gusto e la sua manipolazione diventa
elemento di valorizzazione mercantile immediata. L'elemento estetico viene sempre più piegato
all'esigenza della speculazione artistica. Da questo punto di vista si assiste ad una trasformazione
del mercato dell'arte che converge per modalità comportamentali verso i nuovi mercati finanziari.
Ciò avviene però in presenza di ipotesi e comportamenti che negano in modo assoluto le teorie
mainstream dei mercati concorrenziali come ambito di perfetta concorrenza e razionalità
comportamentale.
Il meccanismo potrebbe essere il seguente:
1. tra “imprenditore-speculatore” dell'arte e “esperto-connoisseur” vi è sempre più
convergenza identitaria e di scopo, sino a costituire un coagulo di interessi e spesso uno
stesso agire economico. La gestione delle grandi aste, dei musei e delle mostre è sempre più
legata e interdipendente. Si attua così un meccanismo “virtuoso” di pubblicizzazione e
valorizzazione. Un museo espone un autore nuovo, anche in seguito ad una politica di
ristrutturazione e ridefinizione delle strategie espositive (tra l'altro finalizzate a valorizzare il
patrimonio territoriale metropolitano: esempio la New Tate Gallery a Londra). Le opere
dell'artista aumentano immediatamente grazie all'esposizione e le sue quotazioni crescono.
Ciò consente alla Casa d'Aste, che magari siede nel Consiglio di Amministrazione del
Museo, in qualità di connoisseur, di capitalizzare in poco tempo un ottimo guadagno. Il
conflitto di interesse è dunque prevalente rispetto al riconoscimento della qualità artistica.
2. Il successo di un autore piuttosto che di un altro può originare un fattore “moda”, ovvero
una sorta di “convenzione” comportamentale, che porta alcuni stili artistici ad ampi
riconoscimenti e a forti capacità di speculazione economica sull'arte.
L'investimento nell'arte tende quindi ad avere delle analogie con l'investimento finanziario.
Nel periodo fordista l'investimento finanziario era finalizzato ad avere ogni anno un certo dividendo
e le azioni rimanevano nelle mani dello stesso proprietario-risparmiatore per molto tempo.
Specularmente, l'investimento artistico aveva come scopo essenziale il piacere di possedere
esclusivamente un'opera artistica, che, infatti, raramente passava di mano.
Insomma, il dividendo stava al titolo finanziario, come il piacere del possesso (e la possibilità di
mostrarla) stava all'opera d'arte.
Nel periodo del capitalismo cognitivo, la dinamica di valorizzazione dei mercati finanziari è
fortemente influenzata dalle scelte di un'oligarchia di grandi società finanziarie, le cui strategie
causando comportamenti imitativi definiscono di volta in volta delle “convenzioni finanziarie” che
guidano gli indici azionari. Nel mercato dell'arte, un'oligarchia di gestori e di promotori del mercato
dell'arte (Case d'Aste, Musei, ecc.) sono in grado di influenzare le quotazioni delle opere d'arte sulla
base di convenzioni artistiche da loro stessi promosse. Ciò consente di attivare un processo di
valorizzazione che si attua non più nel piacere del possesso ma nell'atto della vendita.
Se per i mercati finanziari, ciò che conta sono i capital gains, lo stesso si può affermare per le opere
artistiche.
Il mercato dell'arte oggi è quindi un esempio di come la base di accumulazione e di valorizzazione
capitalistica si sia orizzontalmente esteso sino a inglobare e sussumere l'attività artistica, rendendola
produttrice di “valore di scambio”. La mercificazione dell'arte è un esempio della mercificazione
complessiva della vita, ovvero è bioeconomia.
Ma, a differenza di quanto sostiene l'economia politica mainstream dell'arte, ciò non avviene in
un'ottica di libero mercato, né può essere analizzato in termini di libera scelta razionale. La
mercificazione dell'arte è sempre più espressione di potere e gerarchia sociale all'interno di
meccanismi di controllo dei cervelli e dei corpi degli esseri umani: l'estetica come nuova frontiera
di manipolazione della comunicazione e della vita.
Testo tratto da: A. Vettese, Tavola rotonda su arte e mercato, in A.A.V.V., L'arte della sovversione, a cura di Marco
Baravalle, Manifestolibri, Roma 2009, pp. 159-164.
Direi […] che il mio ruolo qui è quello di mettere in chiaro perché parlare di sabotaggio è oggi
pressoché impossibile. Vorrei descrivere le forze che si oppongono a questo sabotaggio.
Cominciamo con il mercato dell'arte, giusto per dare un'esemplificazione di cosa succede quando si
mettono in atto tentativi di sabotaggio, cosa che moltissimi movimenti hanno tentato di fare. Per
esempio il movimento dell'Arte Concettuale tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni
Settanta, per esempio l'Arte Povera nello stesso periodo e moltissimi altri artisti. Artisti che hanno
lavorato su quella che Lucy Lippard ha chiamato la “dematerializzazione dell'arte” e su ciò che
Harold Rosenberg ha definito l' “oggetto ansioso”, cioè quell'oggetto d'arte che non ha più una
definizione precisa in termini di oggetto fatto di materia e fatto con certe regole.
Allora, tutta questa disgregazione dell'opera d'arte in quanto oggetto con delle prevedibilità: in
termini di materia, di buona fattura, di rappresentatività nel senso di rappresentazione del mondo;
tutto ciò ha, per un certo periodo, effettivamente bloccato il mercato dell'arte. Pensiamo ad un caso
abbastanza estremo: i certificato di Joseph Kosuth. Questi considerava arte quelle porzioni di
giornale in cui faceva pubblicare un pezzo del Thesaurus, ad esempio, la parola “purple” estrapolata
dal Thesaurus, piuttosto che la parola “copy” o la parola “art”.
L'opera d'arte consiste in quel pezzetto del Thesaurus o in quell'annuncio specifico? Vediamo come
il tempo ha risposto a questa domanda. Oggi, trenta o quaranta anni dopo, il mercato dell'arte si è
“mangiato” quell'atto sovversivo e seppure l'opera d'arte resta quel pezzo di carta, esso è stato
rinominato. Non si chiama più “opera”, ma viene chiamato “certificato” e le case d'asta vendono un
oggetto che è, più o meno, una scritta bianca su fondo nero con delle caratteristiche ripetibili, delle
regole di resa, di trasformazione in opera di quel primo semplice accumulo di righe e di parole.
[…] vendere nelle aste significa far apparire l'opera nella pagina giusta, nel catalogo giusto, con la
datazione giusta, metterla paradossalmente in scena con tutto il suo pedigree. Quindi avere un
certificato che risalga ai primissimi anni di questa sua pratica, avere un certificato che ribadisca il
proprio carattere di sabotaggio del mercato dell'arte, significa avere tra le mani un elemento
paradossale di valorizzazione mercantile.
Allora, più l'opera nasce nel tentativo di sabotare il mercato dell'arte, più, oggi, nel caso specifico
che sto descrivendo, ha una sua valenza mercantile. Il mercato è, veramente, una sorta di bidone
aspiratutto, come ho mostrato in questo esempio, ma possiamo trovarne altri che riguardano le
pratiche più radicali. Come ad esempio i travestimenti, le fotografie scattate da Nan Goldin alle
drag queens in fin di vita a causa dell'Aids. Quindi il massimo della tragedia umana, unita al
massimo della voluta imperizia tecnica. Goldin stessa afferma che vorrebbe fotografare attraverso
un battito di palpebre, dunque non le interessa assolutamente fare “belle” fotografie, vuole solo
testimoniare un dramma umano.
Ecco, tutto ciò è lentamente entrato nel mercato dell'arte e, contrariamente a quanto si pensa, gli
artisti sono del tutto complici. Entro un certo lasso di tempo diventano complici di questa
gentrification dell'opera. Il motivo è che gli artisti sanno che la capacità di un'opera di entrare nelle
pagine di storia dell'arte, sarà conseguente alla sua capacità di penetrazione nel mercato.
[…]
Ribadisco la mia bruta espressione: il mercato è un bidone aspiratutto di cui, però, gli artisti, a un
certo punto, diventano complici orgogliosi. Voi mi direte: questo non accade a tutti...Io non ne sarei
tanto certa.
Qui si può aprire un lungo dibattito, poiché spesso succede che solo chi non è riuscito ad avere un
mercato forte non è orgoglioso del mercato, al contrario, tutti gli altri sono orgogliosissimi di
“avercela fatta”. Dovremmo fare una ricerca sul campo. Io non ho mai incontrato un artista che non
fosse orgoglioso di avere un mercato forte, comprese queste personalità estreme, come Marina
Abramovic, ad esempio, che incominciava la sua carriera artistica mostrando se stessa e il suo
compagno, nudi, di fronte alla soglia della Galleria di Arte Moderna di Bologna. Un esordio che
pare il grado zero della forma artistica, quindi vendibilità zero.
Ho sempre incontrato artisti felicissimi di aver raggiunto un alto livelli di mercificabilità del loro
lavoro. C'è, per dirla con Zizek, una trasformazione del godimento come fattore politico. Assistiamo
ad una progressiva trasformazione dell'artista stesso in colui che diventa attore del godimento, ma
anche attore di un altro aspetto e cioè della dimostrazione della liberalità.
[…] credo si possa affermare che l'arte contemporanea, in definitiva, si presta bene a fornire un
ambito di dissenso, perché non tocca davvero nessuno, anzi, tende a lasciare le cose come stanno.
Fa gridare allo scandalo, ma non cambia molto nelle relazioni interpersonali. O meglio, le cambia
nel tempo. Io sono convinta che quella Marina Abramovic nuda o quel Vito Acconci che si
masturba sotto una pedana o quella Ana Mendieta che si nasconde nel fango, in realtà, abbiano
messo in evidenza un cambiamento dei costumi e lo abbiano, lentamente, spinto a far parte delle
nostre coscienze. Però non è un processo che si dà dall'oggi al domani, non è un atto politico di cui
si può avere immediatamente un riscontro. È un'azione molto lenta quella che l'arte dispiega
all'interno della società e della politica. Se io presento presento al mondo uno squalo morto o una
vacca squartata, ottengo una grossa visibilità sui giornali e produco la sensazione che il paese in cui
tutto ciò viene mostrato sia un paese liberale. A Pechino, nel momento in cui si cercava di avere le
Olimpiadi, non a caso sono state avviate mostre di arte contemporanea. Si tratta, infatti, di occasioni
abbastanza gratuite di scandalo che dimostrano la liberalità di un luogo. Gratuite perché non
influiscono sulle reali strutture di potere e perché accadono all'interno di nicchie minoritarie.
[…]
Infine, dopo aver teorizzato la difficoltà del sabotaggio, vorrei concludere dicendo che in realtà, io
credo che l'atto di sabotaggio artistico sia un atto, molto lento, ma esistente. […] Io penso che, in
fondo, esista un potenziale sovversivo nell'arte visiva. Ad esempio: cosa accade quando si portano,
nella casa di un collezionista, le mani di una ragazza morta di Aids (una famosissima fotografia di
Andres Serrano)? Queste mani, di cui si intuisce la giovane età e la morte, una volta appese sopra
un divano, diventano un atto di sovversione. Non è così assorbibile. Noi crediamo di poter assorbire
la presenza di immagini “cattive”, di poter vivere a prescindere da quelle immagini. In realtà, le
immagini che l'arte produce (quindi dobbiamo tornare dentro al lavoro, non al suo funzionamento)
sono spesso (e credo che qui vada cercato il vero valore dell'arte) immagini che cambiano la nostra
coscienza collettiva. Queste immagini sono pochissime, ma voglio sperare che esistano.