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Arte e Cultura
Giorgio Caproni
nel centenario della nascita
di Matteo Lo Presti
“È una eredità difficile
da gestire, lo ho amato
profondamente, è stato
un grande amico, non
mi ha mai insegnato niente
e mi ha insegnato tutto”.
Così Silvana Caproni, gli occhi pieni di lacrime, rievoca la
bella figura del padre Giorgio in una delle tante manifestazioni che ricordano il centenario della nascita di uno dei
grandi autori della lirica italiana del Novecento. “Eravamo
poveri, si viveva con poco - continua Silvana - ma con grande attenzione ai valori della vita. Non ci portava mai al cinema, piuttosto ai concerti e alle mostre. Una volta davanti ad un quadro di difficile lettura di Burri espressi un giudizio negativo. Mi ammonì duramente spiegandomi che nella vita bisogna sempre tacere e sempre imparare”. Di uguale intensità i ricordi del fratello Attilio Mauro. “Ho paura, nelle celebrazioni di mio padre, di dire cose sciocche e l’idea
che siano passati cento anni dalla sua nascita rende la sua
immagine per i critici letterari in bianco e nero, invece per
me è rimasto un padre colorato, pieno di intensità affettuose che ci hanno lasciato in eredità intelligenza, cultura e
valori in una collana di amicizie nelle quali Genova brilla
per una sua affettuosità rara”.
E il poeta in gita a Parigi così descrive la figlia nella poesia
Au coin du coeur: “Le bateau-mouche. Silvana / rimasta
con la voglia. / Io che al Luxembourg ho raccolto / nel portafoglio una foglia”.
Livornese di nascita, ebbe con la Liguria e con Genova un
A fronte
Il panorama di Genova dalla stazione dell’ascensore di levante
di Spianata Castelletto a Genova.
rapporto forte e intenso prima come maestro in un piccolo paese sperduto della val Trebbia e poi ancora come partigiano, in quelle stesse zone dove racconta di avere visto
avvenimenti “di indicibile dolore”. Raccontava di essere diventato maestro elementare per caso ”Facevo tutt’altri studi, suonavo e buttai via la musica, il violino e poi mi impiegai da un avvocato”. Con l’armistizio dell’8 settembre ’43,
racconta Caproni, “dovevo scegliere: o Salò o rimanere lì
con i partigiani. Naturalmente non ebbi esitazioni”. Poi con
grande onestà morale scriverà: “Non sono stato un partigiano nel senso eroico della parola, la mia parte, in quella
lotta, fu molto modesta”. E quasi a non volere nulla rivendicare aggiungeva: “partigiano senza sparare nemmeno un
colpo”. Il suo nome è stato inserito nell’elenco dei collaboratori civili della brigata Jori da Antonio Testa, partigiano autentico (con il nome “Baffo”), che ha ricostruito le azioni di lotta in un bel libro intitolato “Partigiani in val Trebbia.
La Brigata Jori” ed. AGA,1980. Nell’elenco dei giovani partigiani si legge in un refuso innocente “Caprone (sic!) Giorgio (maestro) di Loco”. E di questa esperienza alla quale
non rimase estranea la moglie Rosa Rettagliata chiamata
Rina e i due piccoli figli, Giorgio Caproni ha lasciato testimonianza bella e intensa nel libro “Racconti scritti per forza” ed. Garzanti.
Era un bravo maestro, non autoritario. Da chi l’ha avuto
davanti in cattedra sono venute solo testimonianze di una
grande riconoscenza per una strategia didattica inconsue-
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ta e fantasiosa. Sfuggiva con abilità alla burocrazia della
programmazione scolastica, era capace di zelo rispettoso delle convenzioni, ma pronto a buttare tutto all’aria nel
maggiore interesse e amore per le fresche menti dei suoi
alunni. Scriveva: “Sono in classe davanti a 29 adorabili
frugoli che mi fanno la testa come un pallone e non mi
lasciano scrivere. Sono tutti di 8 anni. Mi salgono sulle
spalle, sulle ginocchia, finiranno per saltarmi anche in testa come i piccioni di piazza Grande. Sono morto di fatica, ma mi trovo bene tra i piccioni”. Fu in cattedra alla
scuola Giovanni Pascoli di Trastevere, poi in sede provvisoria a Loco di Rovegno e poi ad Arenzano, per finire la
carriera nella scuola Francesco Crispi di Monteverde Vecchio. Suo alunno fu l’architetto Massimiliano Fuksas, che
rimasto orfano a soli sei anni, spesso solo in casa veniva
invitato a pranzo dal maestro Caproni. La casa era in via
dei Quattro Venti dalle parti del Gianicolo dove si erano
consumati i tragici fatti della Repubblica Romana nel 1849,
non lontano dalla collina dove si sono spente giovani vite per difendere gli ideali mazziniani e risorgimentali.
Antonio Debenedetti, che lo ebbe come istitutore in casa, ha detto che era un maestro “sulfureo”. Non perché
diabolico, ma c’è da pensare per il metodo creativo e candido con cui cercava di stimolare il rapporto con la cultura. Ecco alcuni versi del “maestro” Caproni indirizzati
al suo giovanissimo alunno: “Cosa mai studi Antonio / ora
che aprile trema / ai vetri, e una mosca / minuta arpa-vibra / delicata sul tema? / perimetro per apotema / diviso
due, dà l’area / dell’esagono, l’area del prato / la dà la mosca / posatasi anche sul problema”. Così scriveva il maestro che agli alunni non parlava mai dei suoi versi ed ai
curiosi della sua poesia non diceva di fare il maestro. Mondi che teneva separati con innocente durezza.
Gli alunni gli volevano bene perché si presentava “senza autorità”. E insegnava recitando la parte del maestro
incolto. Raccontò: “Qualche volta entravo in classe arrabbiato “Che hai sor maestro?” chiedevano. “Oggi sono adirato perché il direttore vuole che faccia una lezione su Napoleone, ma se io avessi una classe di bravi bambini, questi saprebbero già e mi risparmierebbero la fatica di spiegare. Il giorno dopo tornavano sapendo tutto”. Questi ed altri aneddoti “magistrali” sono rievocati
in un importante ricco volume di Marcella Bacigalupi e
Piero Fossati “Giorgio Caproni maestro” ed. Il Melangolo. Sapeva di essere sulle tracce maieutiche di Socrate,
tutto teso a fare dimenticare che egli era il maestro, preferiva suggerire la strada attraverso la quale (metodo!) fossero loro a scoprire e ad inventare. La burocrazia ovviamente lo assillava. Feroce la sua vendetta mite. “Un direttore non fa che abbassarmi la qualifica: Angelo si chiama di nome e Tiberi di coglione”. Giurò in una lettera all’amico Carlo Betocchi che era stato un lapsus involontario. “Volevo scrivere cognome”. Maestro di libertà sbarazzava l’aula dai banchi per montare i binari del trenino elettrico, con il quale portava gioia, aiuto e solidarietà ai suoi alunni preferiti: i bambini disagiati, i trovatelli,
gli ultimi. Diventato famoso avrebbe potuto trovare impieghi economicamente più vantaggiosi, ma non lasciò
mai la scuola.
È stato un suo amico illustre poeta Libero Bigiaretti che
ha cercato di trovare una sintesi tra la professione di maestro e il mestiere di poeta. Non il rapporto tra due astrazioni scuola e poesia, bensì la tensione tra scolari e poesia. Gli interrogativi che i bambini, cioè gli scolari, ponevano a Caproni, le risposte che davano alle sue garbate
provocazioni, ai suoi stimoli, in tutto questo sostenne Bigiaretti “Caproni trova il suo compenso. Ammette che il trentennio dato alla scuola non è stato sottratto alla poesia”
(in “Profili al tratto” ed. Aracne 2003). Si racconta che nell’anno scolastico 1959-60 i bambini della scuola romana,
dopo averlo visto in televisione leggere alcune poesie della sua raccolta “Il
seme del piangere” con la quale aveva vinto il premio Viareggio, lo assillarono con le loro domande piene di
curiosità. Di ciò Caproni lascia traccia nel registro di classe: “Ho subito
smontato i miei piccoli ammiratori, sono il vostro maestro e vogliatemi bene come tale, il resto è letteratura”.
Già la letteratura, l’altro elemento fondamentale e identitario della vita di Caproni. “Il poeta è incapace per natura di distrarsi, lui che per sua disLa stazione dell’ascensore di levante
in Spianata Castelletto, Genova.
A fronte
Flavio Costantini, Giorgio Caproni,
Genova, collezione privata.
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grazia vede uomini e cose non dall’esterno, ma dentro, come se cose ed uomini fossero trasparenti, con in più il dono di amare, di vedere e antivedere”. Con interpretazione
profonda e ricca di intuizione metodologica Stefano Verdino, professore di letteratura italiana presso l’ateneo genovese, in una sua relazione presso l’istituto della Enciclopedia Italiana a Roma ha detto: “Caproni è squisito maestro di contrappunto e geniale stratega del paradosso; proprio perché l’istanza è così alta, tanto da adire al sacro, il
correttivo ironico sui contenuti è fondamentale per evitare l’accesso alla retorica di cui Caproni, diversamente da
altri poeti, anche del suo tempo era inimicissimo e questo fu forse il più suo genuino fondo ligure (filtrato da Camillo Sbarbaro soprattutto) contro altri fecondi commerci
di poesia e retorica da Luzi a Sanguineti”.
Indimenticabili la sua semplicità, la sua ironia “Tutti i luoghi
che ho visto / che ho visitato / ora so-ne sono certo- / non ci
sono mai stato”. E ancora “non porterà nemmeno / la lanterna, là / il buio è così buio / che non c’è oscurità”. E sul
mestiere del poeta “Imbrogliare le carte / far perdere la partita / è il compito del poeta? / lo scopo della sua vita?”.
La poetica di Caproni, sottolinea Stefano Verdino, esibiva questi valori di autenticità, di sapienza creativa proprio in un
tempo di passioni e di ideologie e di scontri violenti in un
elogio della lentezza della buona poesia contro i drammatici eventi di una velocità temporale, che non impediscono
al poeta di “essere accumulatore di tempo” o come piaceva ancora a Caproni “Il poeta è un gran raccatta tutto come l’uomo col sacco sul mucchio delle spazzature”.
Mite combattente solitario Caproni cerca di farsi “maestro”
della società di massa di cui avverte i continui stordimenti
“Il nostro paese assomiglia a un animale antidiluviano: un
Arte e Cultura
corpaccione numericamente massiccio e un cervello piuttosto non in proporzione. La media (la cultura media,
il tono medio) dove trovarli in simile stato di cose?”. La storia della critica ha
individuato nella voce di Caproni la sapiente suggestione di tante figure da lui
amate: il cacciato e il cacciatore, il fuggiasco e il viaggiatore. Alla ricerca della comprensione dei misteri della vita,
della morte e delle assenze.
Luigi Surdich, anche egli docente di
letteratura italiana presso l’ateneo genovese, ha ricordato in una recente
lettura il tormentato itinerario poetico che Caproni imbastisce con il ricordo della madre Anna Picchi alla
ricerca di sapere se la sua mamma
più bella del mondo “è ancora viva
tra i vivi” in nude parole e in affettuosi versi nei quali “per lei torni in
onore/la rima in cuore e amore”. E
il tormento personale di dovere limare le tensioni dei rimorsi e delle complicità, nella scultura della parola che
nella poesia trova immagini che respirano la musica della poesia.
Di Genova diceva “È una città che mi ha stregato: nemmeno ora che vivo a Roma riesco la levarmela di dentro,
me la sogno di notte, la sospiro di giorno. Per dirla alla
francese, “je suis malade de Genes”. Ed è risaputo che
in paradiso avrebbe voluto andarci con l’ascensore di Castelletto. Mentre nella poesia dedicata a via Pio Foà, strada romana dove abitava, scrisse “Una giornata di vento
/ di vento genovesardo / Via Pio Foà: il mio sguardo / di
fulminato spavento”. E ancora con emozionata ammissione “Genova da me-nel forzato esilio-poi sempre rimpianta e sospirata fino allo spasimo”.
Nella famosa poesia “Litania”, maestosa cattedrale di liricità intensa dedicata alla città della sua giovinezza e mai
dimenticata, ci piace ricordare i versi dedicati ai figli “Genova lunga e lontana/patria della mia Silvana”. E più avanti “Genova mio domicilio / dove m’è nato Attilio”. Giorgio
Caproni poeta innocente che guida i sogni verso non-luoghi, in un contrasto come ha scritto Italo Calvino non tra il
nulla e il tutto, ma tra il nulla e il poco.
A Trieste passeggiando per la città capita di imbattersi in
mezzo alle folate della bora nelle statue di Italo Svevo e di
James Joyce. Sarebbe bello che tra le folate della tramontana si posizionasse una statua di Montale in Corso Dogali, una di Sbarbaro a piazza Manin e una di Caproni a Castelletto. Questi famosi poeti hanno acceso onori nei confronti della città già “Superba”.
La “Superba” accenda ora e ancora onori duraturi ai sui
poeti.
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