dispensa su Medea - Liceo Classico Dettori

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dispensa su Medea - Liceo Classico Dettori
MEDEA
Da Euripide, Medea (a cura di Alessandro Grilli)
Il mito. La vicenda di Medea nelle sue varie forme costituisce una sezione piuttosto circoscritta di una
leggenda più ampia, fra le più antiche del patrimonio mitico greco: quella della spedizione degli Argonauti
nella Colchide. Essa è nota già ad Omero (cfr. Odissea XII 70) e viene ricondotta da alcuni a un'impresa
reale della peraltro semileggendaria tribù dei Minii, stanziata in epoca preistorica a Orcomeno, in Beozia, e a
Iolco, in Tessaglia (gli Argonauti sono1 detti «Minii», in quanto discendenti dell'eroe eponimo MinÚaj, già
in una delle più antiche versioni del mito: cfr. Pindaro, Pitiche IV 69). Per quanto elaborata forse in area
milesia (Mileto aveva importanti rapporti commerciali con il Ponto), le radici della vicenda sono infatti tutte
di area tessala. All'origine si collocano le figure degli eroi tessalo-beotici Creteo e Atamante, figli di Eolo. Il
primo, padre di Esone e Pelia, era il mitico fondatore di Iolco; il secondo era re di varie località della Beozia
nonché fondatore di Halos, nella Ftiotide (la regione costiera a nord della Tessaglia). Atamante sposò
dapprima Nefele (la Nuvola), da cui ebbe i figli Elle e Frisso. Poi si unì in seconde nozze a una principessa
tebana figlia di Cadmo, Ino, che gli diede i figli Learco e Melicerte. La gelosia per i figliastri spinse Ino a
cospirare contro di loro, ma Frisso ed Elle, sul punto di essere sacrificati, vennero tratti in salvo da un ariete
volante dal vello d'oro, dono di Ermes a Nefele. Durante il volo verso l'Oriente, Elle cadde nel mare che da
lei prese il nome di Ellesponto, e Frisso giunse nella Colchide, dove il re Eeta gli concesse in sposa la figlia
Calciope. L'ariete venne sacrificato (secondo alcuni esso fu trasformato nell'omonima costellazione) e il suo
vello deposto nel tšmenoj di Ares, dove era custodito da un drago.
La spedizione degli Argonauti fu voluta da Pelia, usurpatore del trono di Iolco, che sperava di liberarsi così
del legittimo erede, Giasone, figlio del suo fratellastro Esone. Da bambino Giasone era stato sottratto alle
insidie dello zio dai genitori, che lo avevano fatto uscire da Iolco con un falso funerale e lo avevano affidato
al centauro Chirone (lo stesso che avrebbe poi educato anche Achille). Divenuto adulto, Giasone era tornato
a Iolco per reclamare il trono. Attraversando un torrente aveva perso un sandalo, e nello straniero con una
sola calzatura il vecchio Pelia aveva riconosciuto l'uomo destinato, secondo un oracolo, a spodestarlo. Decise
così di imporgli una prova insuperabile: la conquista del vello d'oro, antico possesso della stirpe degli Eolidi.
Sulla nave che li avrebbe portati agli estremi limiti orientali del mondo conosciuto (costruita per ispirazione e
con l'aiuto di Atena) Giasone radunò alcune delle principali figure mìtiche della generazione eroica
(anteriore alla guerra di Troia), fra le quali molte, in epoca storica, rivendicate come capostipiti dalle
famiglie aristocratiche di Iolco. Durante il viaggio gli Argonauti ebbero numerose avventure.
Giunto ad Aia, capitale dei Colchi, Giasone suscitò l'amore della figlia del re, Medea, che lo aiutò a superare
le prove impossibili imposte da Eeta all'eroe (cfr. Euripide, Medea 478-82): domare e aggiogare due tori
dagli zoccoli aurei e spiranti fuoco dalle narici, dono di Efesto; arare con essi un campo in cui seminare denti
di drago, parte di quegli stessi seminati da Cadmo, il fondatore di Tebe. Dai denti sarebbero nati guerrieri in
armi, che Giasone avrebbe dovuto affrontare e uccidere. I filtri di Medea resero Giasone invulnerabile al toro
e fecero addormentare il drago custode del vello d'oro. I guerrieri si uccisero a vicenda provocati da un sasso
che Giasone aveva gettato fra loro, sempre su suggerimento di Medea. Giasone riuscì così a ricondurre in
Tessaglia il vello d'oro, con un viaggio di ritorno il cui itinerario varia enormemente nelle fonti: dalla
navigazione nell'Oceano, raggiunto attraverso il fiume Fasi; alla risalita dell’Istro (il Danubio) fino
all'Eridano (il Po), e poi attraverso il Mediterraneo fino a Iolco. Durante l'inseguimento Medea aveva ucciso
il fratello Apsirto, gettandone il corpo smembrato dalla nave, per rallentare gli inseguitori.
Una volta a Iolco, la donna aveva poi aiutato il suo sposo nei piani di vendetta ai danni di Pelia: avendo già
magicamente ringiovanito il padre di Giasone, Esone, facendone bollire le carni in una pentola, Medea aveva
convinto le stesse figlie di Pelia a uccidere il padre e a farlo a pezzi. Dopo l'omicidio, il figlio di Pelia Acasto
espulse da Iolco Giasone e la sua sposa assassina. La coppia si rifugiò a Corinto, dove Giasone ruppe il
matrimonio con Medea accettando in sposa la figlia del tiranno locale, Creonte. È a questo punto che si
innesta la vicenda del dramma euripideo.
Quale Medea? Le linee del mito fin qui delineate sono in realtà la sintesi sommaria di un insieme di
leggende collegate i cui dettagli variano moltissimo. Dai numerosi riferimenti nei poemi omerici, la vicenda
argonautica appare già formata all'epoca deWOdissea, in cui viene tra l'altro ricordata la parentela fra Eeta e
la maga Circe, entrambi figli del Sole (cfr. Odissea X 134; XI 256-59; XII 59-72). La prima menzione
esplicita di Medea risale alla Teogonia di Esiodo (vv. 956-62; 992-1002), che ne fa già la qaler¾n ¥koitin
di Giasone. L'aiuto di Medea a Giasone e agli Argonauti era menzionato nei Canti di Naupatto (frr. 3-9
Bernabò), attribuiti all'epico Carcino, mentre la morte del sovrano Creonte e la fuga di Medea ad Atene
erano ricordati in un episodio della Presa di Ecalia di Creofilo di Samo (fr. 9 Bernabé). Di grande interesse
anche il resoconto del poeta epico Eumelo, che nelle sue Corintiache (sulla storia mitica di Corinto) metteva
in evidenza l'antico legame della stirpe di Eeta con la città (frr. 3-5 Bernabé), che sarebbe stata quindi
possesso ereditario di Medea. Altri particolari del mito, non sempre sovrapponibili alle versioni posteriori, ci
sono noti dai lirici arcaici, che alludono più volte a episodi salienti della vicenda di Medea (cfr. ad es. Ibico,
fr. 291 Page; Simonide, frr. 545; 548; 558 Page).
Anche sulle scene ateniesi Medea era comparsa più volte: nelle Nutrici di Dioniso di Eschilo, dove
ringiovaniva le vecchie nutrici del dio; nelle Donne di Colchide di Sofocle, dove aiutava Giasone a superare
le prove, come pure negli Sciti e nelle Raccoglitrici di erbe, dello stesso autore, dove perpetrava gli assassini
rispettivamente di Apsirto e di Pelia.
Lo stesso Euripide aveva trattato episodi della storia di Medea in due tragedie anteriori al 431: nella prima,
le Peliadi, con cui il drammatugo aveva debuttato nel 455 a.C, la vicenda era incentrata sull'inganno di
Medea ai danni del tiranno di Iolco, Pelia. La maga convinceva le figlie di lui a ucciderlo e a farlo a pezzi,
millantando di volerlo ringiovanire, come aveva fatto con il padre di Giasone (a questo episodio si allude
anche nella Medea, vv. 486-87. Il ringiovanimento di Esone era già nel ciclo epico, come dimostra il fr. 7
Bernabé del poema I ritorni, attribuito ad Agia di Trezene). Nella tragedia di Euripide (di cui sopravvivono
pochi frammenti) Medea ingannava le Peliadi trasformando un ariete in agnello dopo averne fatto bollire le
carni. Anche nell'egeo (databile intorno agli anni '40 del secolo) Medea compariva come maga temibile, e
cercava di ostacolare il ritorno in patria di Teseo, figlio del re di Atene Egeo, da lei sposato dopo la partenza
da Corinto. Resosi conto delle trame di lei. Egeo la ripudiava e la allontanava dalla città. Per quanto
miseramente documentate, le vicende di queste due tragedie mostrano quanto spazio lo stesso Euripide
avesse accordato in precedenza ai poteri magici tradizionali di Medea.
Ben diverso è l'approccio nella tragedia del 431, dove l'elemento della magia, pur presente, è relegato sullo
sfondo, in rapidi accenni subordinati alla matrice umana e alla motivazione interiore del soprannaturale (cfr.
ad es. vv. 384-85; 395 sgg.; 479 sgg. e soprattutto 789, con l'accenno ai doni avvelenati per la rivale). Unico
vero oggetto di interesse sono le immani tensioni emotive che agitano un animo forte e passionale diviso fra
pulsioni contrastanti.
L'apporto di Euripide alla vicenda. Il contributo di Euripide non si limita peraltro all'interesse
preponderante per la struttura psichica del personaggio. Un'innovazione non trascurabile da lui introdotta
riguarda forse addirittura l'elemento essenziale dell'infanticidio come strumento di vendetta. Stando alle
testimonianze precedenti. Medea non era univocamente responsabile della morte dei bambini. A Corinto
esisteva un antico rito espiatorio, mantenuto fino alla conquista romana della città (146 a.C), istituito secondo
la tradizione al fine di placare Era Acraia, irata per l'uccisione dei figli di Medea. Anche nel finale della
tragedia euripidea (vv. 1381-83) la protagonista fornisce una spiegazione eziologica di questa antica usanza.
Tuttavia, secondo una tradizione ben più antica di Euripide (già attestata nel poeta epico Creofilo e
confermata dall'erudito alessandrino Parmenisco) la colpa dell'omicidio non era di Medea, ma dei Corinzi,
che non volevano essere governati da una donna straniera (Corinto era un possesso della stirpe di Eeta), e che
ne avevano quindi ucciso i figli, senza recedere nemmeno di fronte alla sacralità dell'altare di Era Acraia,
dove quelli si erano rifugiati. Medea era stata poi calunniata dagli assassini, ansiosi di evitare il biasimo
generale.
Esisteva inoltre una diversa narrazione che parlava di un infanticidio solo involontario di Medea, regina di
Corinto. Avendo suscitato il desiderio di Zeus, Medea lo aveva respinto per non incorrere nella gelosia di
Era. La dea l'aveva così ricompensata promettendole l'immortalità per i suoi figli. Medea doveva quindi
compiere su di loro un rito magico, che prevedeva forse un seppellimento rituale nel tempio della dea o
l'esposizione al fuoco. Per qualche ragione non specificata dalle fonti, la magia falliva e i bambini morivano.
Giasone, adirato, abbandonava la donna ed entrambi lasciavano la città. Anche questa versione, era già nel
ciclo epico, nel poema di Eumelo sulle origini di Corinto, risalente alla metà dell'VIII secolo a.C.
L'elemento che appare nuovo nella versione euripidea è dunque l'intenzionalità dell'omicidio compiuto da
Medea e la sua natura strumentale ai fini della vendetta su Giasone. È possibile che Euripide avesse desunto
questo importante particolare dal mito attico di Procne e Tereo, secondo cui la donna tradita puniva il marito
uccidendo il figlio avuto da lui e facendogliene mangiare le carni. La vicenda era trattata nel perduto Tereo
di Sofocle, di cui si ignorano però i rapporti cronologici con la Medea. Nel dramma di Euripide la decisione
di Medea si configura come il risultato di un lungo travaglio interiore, in cui si affrontano nell'animo della
donna pulsioni ugualmente radicate e profonde: l'odio per il traditore, che assorbe e trasforma in violenza
distruttrice la precedente passione; e l'amore per i figli, sentimento viscerale e istintivo, che spingerebbe la
donna verso scelte più deboli o compromissorie. L'attuazione dell'infanticidio asseconda così l'esigenza di
infliggere all'uomo il peggiore destino possibile in una società come quella greca aristocratica (anche
Polimestore nell’Ecuba, ad esempio, viene punito con l'accecamento e con la privazione dei figli, trucidati
dalle prigioniere troiane); ma si tratta di una scelta sorretta alla fine dall'intera personalità di Medea, che, da
grande eroina tragica, decide e agisce in piena consapevolezza delle conseguenze: uccidendo i figli, la donna
sa di uccidere definitivamente il proprio amore per Giasone e, con esso, la parte più importante di sé.
I personaggi: Medea e Giasone. L'eccezionale impatto drammatico di Medea è strettamente legato alla
complessità delle sue dinamiche interiori. Da un punto di vista espressivo, il tratto saliente di questa
complessità (particolarmente evidente nella rhesis monologica dei vv. 1021-80) è l'alternanza di esplosioni
emotive e pause di lucida analisi razionale. Fin dalle prime esclamazioni di dolore, pronunciate fuori scena,
Medea si mostra donna sensibile e vulnerabile; ma al tempo stesso, nella sicurezza delle scelte e nella
freddezza con cui è in grado di valutarne ogni aspetto, Medea rivela la propria coscienza superiore, capace di
compiere il male pur anticipandone e accettandone le conseguenze. La complessità psicologica del carattere
di Medea forza in più occasioni i limiti espressivi anche del genere tragico; non è un caso che già i
commenti antichi criticassero come poco credibili e quindi mal riusciti dettagli che sono invece frutto di un
acutissimo scavo psicologico da parte dell'autore, come le lacrime versate dalla donna durante il discorso di
inganno a Giasone.
II personaggio dello sposo fedifrago viene invece costruito da Euripide in modo da farne risaltare i limiti e le
responsabilità; la condanna per il suo comportamento è unanime, e riflette l'opinione della Nutrice di Medea
come pure il giudizio delle ben più autonome donne di Corinto. Giasone viene presentato come un abile parlatore, e questo nel quadro di una precisa polemica contro l'abilità oratoria, immorale in quanto capace di
dissociare l'eccellenza argomentativa dall'equità e dal diritto. Lo schieramento del Coro, che nel primo
stasimo accusa gli uomini come spergiuri e alla fine del secondo si dissocia esplicitamente dal seduttore
incostante, rafforza ulteriormente la negatività dell'antagonista. Giasone, dal canto suo, non si comporta in
modo da rendere problematico questo giudizio. Anzi, nel IV episodio, mentre viene ingannato da Medea,
lascia trapelare da più indizi tratti di carattere indiscutibilmente negativi: vanità, presunzione, insensibilità,
viltà, opportunismo. Anche l'ottusità e la lentezza delle sue capacità intellettive evidenziano per contrasto la
superiore prestanza intellettuale della donna, vera arbitra degli eventi. Tuttavia, una volta colpito in modo irrimediabile da Medea, e messo così di fronte al carattere illusorio delle proprie certezze, Giasone si
connoterà come un essere debole e sopraffatto, non solo colpevole punito ma anche vittima degna di
compassione. Il suo parziale recupero è facilitato dal fatto che nel finale della tragedia Medea assume i tratti
demoniaci dell'essere semidivino (un particolare che disturbava già Aristotele come segno di incoerenza: cfr.
Poetica 1454 b1), e interrompe così il fortissimo legame empatico instaurato in precedenza con il pubblico e
col Coro.
La struttura drammatica
PROLOGO. La Nutrice di Medea tornisce in un lungo monologo le informazioni essenziali sull'antefatto e
sugli sviluppi recenti della vicenda. Di fronte alla disperazione di Medea per il tradimento di Giasone, la
donna si mostra preoccupata e preda di oscuri presentimenti. Sopraggiunge quindi il Pedagogo, che rivela le
voci minacciose che parlano del bando della loro signora da Corinto.
TRANSIZIONE ANAPESTICA ALLA PARODO. Si odono grida di Medea dall'interno della casa. Le
imprecazioni di dolore contro i figli confermano le apprensioni della Nutrice.
PARODO. Da uno degli ingressi laterali entra in scena il Coro di donne corinzie, che vengono ad esprimere
la propria solidarietà a Medea e a pregare la Nutrice di far uscire dalla casa la padrona; la Nutrice
acconsente, continuando a temere una terribile vendetta.
PRIMO EPISODIO. Uscita in scena, Medea chiede al Coro di mantenere il silenzio sulle cose di cui verrà a
conoscenza. Segue un dialogo fra Medea e Creonte, il tiranno della città, che è venuto di persona per
comunicare alla donna il bando; supplicandolo, Medea ottiene un giorno di proroga. Dopo l'uscita di
Creonte dalla scena, Medea confida al Coro i suoi propositi di vendetta e le sue preoccupazioni per l'esilio.
PRIMO STASIMO. L'indignazione per il tradimento subito da Medea spinge il Coro ad augurarsi un
sovvertimento dell'ordine del mondo e la fine delle calunnie misogine degli uomini.
SECONDO EPISODIO. Con l'arrivo di Giasone, si assiste al primo confronto diretto di Medea con lo sposo
di un tempo, che si conclude con una rottura definitiva. Medea rifiuta ogni profferta di aiuto e ribadisce
l'insanabilità del torto subito.
SECONDO STASIMO. Il Coro canta le lodi di Afrodite e si rivolge alla dea con parole miste di venerazione
e timore; passa quindi a lamentare i dolori dell'esilio, e rivolge ancora una parola di compassione e di
solidarietà a Medea.
TERZO EPISODIO. Entra in scena il re di Atene Egeo, che passa da Corinto dopo essere stato a consultare
l'oracolo di Delfi per risolvere il problema del suo matrimonio senza figli. Medea gli promette di aiutarlo in
cambio di un giuramento che le garantisca asilo e protezione in Attica. Egeo acconsente e prosegue il suo
viaggio. Nella scena successiva Medea espone finalmente al Coro il piano di vendetta che si è formato
intanto nella sua mente. Invano le donne cercano di dissuaderla.
TERZO STASIMO. All'incontro di Medea con il re ateniese Egeo fa seguito uno stasimo di entusiastica
lode di Atene e dell'Attica, di cui sono ricordati i pregi più mirabili in opposizione all'abominio del crimine
di Medea.
QUARTO EPISODIO. Torna Giasone, disposto ad ascoltare le nuove richieste di Medea. La donna si
dichiara pentita e si commuove alla vista dei figli. L'eroe ribadisce con benevolenza il proprio amore
paterno. Medea gli chiede quindi di intercedere presso i sovrani di Corinto affinché venga revocato il bando
contro i bambini. A tal fine manda doni preziosi alla sposa, con il fine dichiarato di renderla meglio disposta
nei loro confronti.
QUARTO STASIMO. L'angoscia del Coro si traduce in una precisa anticipazione descrittiva di ciò che
accadrà alla sposa, seguita da due apostrofi patetiche a Giasone e a Medea.
QUINTO EPISODIO. Matura ormai la katastrof» della tragedia. Saputo che i doni sono stati accolti,
Medea dà sfogo alle ultime incertezze sul compimento della vendetta. Giunge poi un servo di Giasone che
riferisce l'effetto devastante dei doni avvelenati sulla sposa e su Creonte, inutilmente accorso ad aiutarla.
QUINTO STASIMO. Mentre le parole del Coro sottolineano e accompagnano l'azione, Medea dà seguito al
progetto di uccidere i figli. I bambini fuori scena chiedono aiuto ma le donne non possono impedirne
l'uccisione. Conclude il canto un richiamo all'infanticidio di Ino, che si distingue da quello di Medea in
quanto indotto dalla divinità.
ESODO. Accorre Giasone sconvolto: vuole parlare con Medea e sottrarre i figli all'ira dei parenti di Creonte.
Il Coro gli comunica allora la parte più dolorosa della vendetta. Mentre l'eroe tenta di entrare in casa per
vedere il corpo dei bambini, Medea appare sopra la casa, su un carro magico, dono del Sole, che la porterà
ad Atene. La donna rifiuta con scherno ogni forma di accordo per la sepoltura, negando allo sposo anche la
gioia del contatto coi figli e la consolazione degli adempimenti rituali.
Il problema della Medea
La dimensione paradossale evidenziata nell’Ecuba è massima nella Medea, dove i valori tradizionali sono
recuperati e difesi da una figura che per molti versi non ha i titoli per farlo: la protagonista assomma infatti
in sé alcune debolezze che basterebbero, ciascuna da sola, a rendere del tutto inattendibili o almeno
inefficaci i suoi discorsi. Medea è donna, straniera, sapiente e innamorata. E l'emarginazione orgogliosamente percepita da Medea come la sua 'diversità' rispetto ai modelli comuni - è appunto il problema principale della tragedia, quello che più profondamente ne orienta gli schemi di valori e le possibilità
di interpretazione; è quindi dai modi di questa integrazione problematica, soprattutto della donna e della
straniera, che deve prendere le mosse ogni lettura complessiva del dramma e dei suoi significati profondi, in
modo da evidenziare la profonda specificità delle situazioni psichiche rispecchiate dal dato oggettivo
dell'emarginazione. Uno dei tratti che distinguono l'opera euripidea da quella degli altri due grandi tragici è
senz'altro l'attenzione dedicata ai problemi della condizione femminile; in questo Euripide mostra una
coerenza sorprendente, che va dalla sua più antica tragedia conservata, l’Alcesti, fino all'Ifigenia in Aulide,
rappresentata postuma (e forse addirittura incompiuta). Non è un caso che la prima manifestazione di
lucidità intellettuale di Medea dopo la sua entrata in scena coincida con una spietata analisi della
subordinazione della donna all'uomo nella struttura familiare, analisi che non dimentica mai, pur nella sua
formulazione assoluta e generica (vv. 230-31: «Di tutti gli esseri che hanno spirito e mente, noi donne siamo
la specie più infelice»), la specifica sofferenza della protagonista. La disparità è infatti ricondotta subito alla
diversa percezione dell'esclusività nel rapporto: «Un uomo», dice Medea, «quando si infastidisce di stare con
i familiari in casa, esce e placa la noia del cuore» (vv. 244-45): è esattamente ciò che ha fatto Giasone
secondo lei, che si rifiuta di credere alla teoria del matrimonio politico. La donna, al contrario, è obbligata
alla più totale fedeltà (v. 247). A ciò la costringe la sfiducia nei suoi confronti implicita nel senso comune e
nelle stesse istituzioni (vv. 236-37: «Per le donne infatti il divorzio è un disonore né è loro possibile
ripudiare il marito»). La profondità argomentativa di Medea consiste nel postulare implicitamente
un'equivalenza delle due principali matrici di emarginazione, l'essere donna e l'essere straniera. Il
matrimonio, luogo emblematico della prevaricazione, è definito come una spedizione nell'ignoto: la donna
giunge «a nuovi costumi e a nuove usanze» (v. 238) come la straniera che abbandona patria e famiglia
d'origine. Ogni donna, cioè (e in questo la base della solidarietà fra protagonista e Coro appare già ben salda)
è straniera accanto all'uomo che ha sposato.
In questo senso è chiara anche la transizione argomentativa al punto seguente, in cui Medea si contrappone
alle donne lamentando proprio il suo isolamento di straniera. Sulla condizione svantaggiata degli stranieri
nelle città greche si può vedere la scheda a p. 96; Medea, già straniera in Grecia e a Corinto, viene per di più
colpita da una condanna all'esilio che ne indebolisce ulteriormente la posizione. Il suo pensiero però non va
tanto alle difficoltà materiali quanto alle perdite affettive; è evidente che da parte di Medea la sofferenza
implicita nell'essere straniera viene percepita come contigua al dolore per l'abbandono di Giasone. E in
effetti l'amore per l'eroe, che aveva spinto la fanciulla innamorata a rinnegare la patria e la lealtà ai
congiunti, si configura come un sentimento che soslilui sce gli affetti familiari di un tempo, e che come tale
ne assorbe anche le va lenze istituzionali in un rapporto che è sacro come un patto giurato (cfr. infatti vv. 2122, con il richiamo alla jrioxig che aveva sancito l'unione con l'eroe). Nell'incontro col marito in procinto di
uscire a combattere, nel VI libro dell'Iliade, Andromaca gli ricorda appassionatamente la coestensione del
rapporto coniugale con tutte le altre relazioni familiari: «Ettore, tu per me sei padre e madre adorata / e
fratello, e sei il mio splendido sposo» (vv. 429-30). Il confronto - per quanto paradossale - è illuminante:
Andromaca è orfana e i suoi fratelli sono morti. Ettore è tutto il suo mondo e la donna lo implora di non
uscire a combattere mascherando con discrezione il proprio sentimento d'amore nella legittima richiesta di
non rendere orfano il figlio. Per Medea, invece, l'amore ha sostituito il destino e la guerra: è lei stessa che ha
scelto di rinnegare il padre e la patria, e addirittura di uccidere il fratello. Ma il risultato non cambia: lo
sposo è diventato così tutto il suo mondo (v. 228: «mio marito [...] in cui per me era riposta ogni cosa). Sot-
traendosi ai suoi impegni, Giasone fa ripiombare quindi Medea in una condizione che è insostenibile sul
piano oggettivo proprio perché tale anche sul piano affettivo. L'assassinio dei figli farà così parte a pieno
titolo del grottesco stravolgimento della situazione ideale definita dalla coppia omerica: come Andromaca
riconduce all'amore comune per il figlio il proprio affetto per Ettore, così in Medea l'eliminazione dei
bambini sancisce la negazione definitiva del suo affetto passato verso il loro padre. Non è azzardato affermare, perciò, che anche la condizione di straniera è nella Medea un ulteriore spazio espressivo per gli effetti
del trauma amoroso.
I temi
a) Sof…a. Oltre alla sua problematica condizione di straniera, Medea deve fronteggiare i sospetti che si
addensano sulle sue arti magiche e sul loro uso pericoloso. Creonte le rimprovera di essere «sapiente ed
esperta di molti mali» (v. 285), e ne teme la presenza anche mansueta a Corinto proprio in quanto sof» (v.
320). Ma in Medea la gestione di un sapere superiore alla misura umana è subordinata a un'acuta
consapevolezza di leggi universali capaci di determinare senza incertezze il bene morale. Per quanto in preda
allo sconforto e al dolore, la donna è in grado di insistere sull'infrazione di un diritto da parte di Giasone e la
sua opinione è condivisa sia dalla Nutrice che dalle ben più equanimi donne di Corinto. Per questo, subito
dopo che il giuramento di Egeo le avrà consentito di completare il piano di vendetta, nelle sue prime parole
Medea invocherà soddisfatta la Giustizia. In questa prospettiva essere «sapiente» non significa più gestire
conoscenze occulte e soprannaturali, ma riconoscere il diritto e valutare ogni situazione nella più totale
indipendenza dal senso comune.
b) BouleÚmata / qumÒj. Alla sof…a si può ricondurre anche la straordinaria lucidità di Medea nell'analisi
delle proprie dinamiche psichiche. Il momento culminante di questa paradossale compresenza di sentimento
e intelletto è il lungo monologo deliberativo in cui la donna segue e valuta razionalmente i processi emotivi
alla base delle proprie azioni, come pure le conseguenze strazianti delle scelte autolesive che avrà comunque
la forza di portare a compimento. In questo ambito emergono le nozioni problematiche di qumÒj e bouleÚmata
(identificabili a una ricognizione superficiale come la polarità tradizionale passione/ragione), contrapposte in
uno scontro diretto che vede trionfare la prima a totale detrimento dell'altra (vv. 1078-80). In realtà la
dialettica interna è più complessa e, come ha dimostrato H. Diller in un suo contributo giustamente famoso, il
qumÒj si configura come una forza emotiva che ispira e orienta la capacità di deliberare, senza che però
quest'ultima venga cancellata. I bouleÚmata infanticidi dei vv. 1044 e 1048 non sono discontinui rispetto ai
bouleÚmata del v. 1079: questi ultimi infatti non identificano una semplice componente razionale, se non
altro perché anche l'affetto per i figli si inserisce a pieno titolo nella sfera più profonda dell'emotività. Il
qumÒj è kre…sswn non in quanto «più forte» ma, con un'accezione del termine ben attestata anche in
Euripide, in quanto «signore» tîn bouleum£twn. L'invocazione monologica di Medea al v. 1056 (m¾ dÁta,
qumš) non si pone perciò sulla stessa linea di analoghi precedenti nella lirica arcaica (cfr. Archiloco, fr. 128
West e Teognidc vv. 695; 877; 1029) che presuppongono la solidarietà fra l'individuo cosciente e il suo
qumÒj, ma presuppone un dissidio interiore che nasce da profondità insondate della psiche. In questo senso il
precedente più vicino al qumÒj di Medea è quello di Eraclito 22B85 Diels-Kranz: «È difficile combattere
contro la passione (qumù). Ciò che essa desidera, lo acquista a prezzo dell'anima (yucÁj)», che vede la
componente pulsionale come antagonistica rispetto allo stesso istinto di conservazione dell'individuo.