Savino - Stefano Civitarese Matteucci

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Savino - Stefano Civitarese Matteucci
RIVISTA TRIMESTRALE DI DIRITTO PUBBLICO
Anno LXV Fasc. 2 - 2015
ISSN 0557-1464
Mario Savino
LE RIFORME AMMINISTRATIVE:
LA PARABOLA DELLA
MODERNIZZAZIONE DELLO
STATO
Estratto
Milano • Giuffrè Editore
LE RIFORME AMMINISTRATIVE:
LA PARABOLA DELLA MODERNIZZAZIONE
DELLO STATO
MARIO SAVINO
SOMMARIO: 1. L’ambizione delle «grandi» riforme. — 2. La riforma esterna. — 2.1. La
riorganizzazione del centro. — 2.2. Il decentramento. — 3. La riforma interna. —
3.1. Il disegno originario: la privatizzazione del pubblico impiego e la distinzione
politica-amministrazione. — 3.2. La «cattura» politica della dirigenza. — 3.3. La
rilegificazione del rapporto di lavoro. — 3.4. Dalla customer orientation all’orientamento ai risultati e alla trasparenza (imposti per legge). — 4. Fattori, metodo e
ideologia delle riforme.
«People [...] want Big Answers to Big Questions such as
“How can we curb rampant bureaucracy?”
or “How can we unleash the creative talents
of our dedicated public servants?”
But public management is not an arena
in which to find Big Answers;
it is a world of settled institutions designed
to allow imperfect people to use flawed procedures
to cope with insoluble problems.» (1)
1. Come limitare gli sprechi e la corruzione della burocrazia?
Come ridurre l’elevato costo che essa impone a contribuenti e imprese? Come attrarre persone di talento nell’amministrazione? Come fare
in modo che esse siano dedite, non ai loro interessi privati, ma alla
missione dell’istituzione di cui fanno parte? Queste domande, varianti
delle big questions che James Wilson riferiva alla realtà statunitense
alcuni decenni fa, riaffiorano con regolarità nel dibattito sulle riforme
amministrative italiane.
(1) J.Q. WILSON, Bureaucracy: What Government Agencies Do and Why They Do
It, New York, Basic Books, 1989, 375.
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Come negli Stati Uniti (2) e in molti altri paesi OCSE (3), così in
Italia, le riforme dell’amministrazione pubblica sono state avviate sulla
base di big answers, cioè di ambiziosi progetti di «reinvenzione»
dell’amministrazione, in parte ispirati al paradigma new public management (4).
Se si ripercorre a ritroso la parabola delle riforme amministrative
italiane, iniziata negli anni Novanta del ventesimo secolo (5), con
almeno un decennio di ritardo rispetto agli altri paesi europei (6), è
agevole individuare negli Indirizzi per la modernizzazione delle pubbliche amministrazioni del 1993 il primo manifesto programmatico di
ampio respiro (7). I rimedi ai mali dell’amministrazione italiana erano
ivi indicati con precisione: porre «le amministrazioni al servizio dei
cittadini», «separare le amministrazioni dalla politica», «trasferire le
decisioni in periferia», completare il «disegno autonomistico», «sem(2) Per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’esempio paradigmatico di progetto di
rinnovamento amministrativo è rappresentato dal Rapporto del vicepresidente A.
GORE, From Red Tape to Results: Creating a Government that Works Better and Costs
Less. Report of the National Performance Review, Washington, 1993. Tale progetto fu
elaborato dall’amministrazione Clinton sulla base dell’influente lavoro di D. OSBORNE
e T. GAEBLER, Reinventing Government: How the Entrepreneurial Spirit is Transforming
the Public Sector, Reading, 1992 (trad. it. Dirigere e governare, Milano, Garzanti, 1995).
(3) La principale analisi in prospettiva comparata è in C. POLLITT e G. BOUCKA3
ERT, Public Management Reform , Oxford, Oxford University Press, 2011.
4
( ) Sulla generale tendenza al ridimensionamento di quel paradigma, in anni più
recenti, C. POLLITT e G. BOUCKAERT, Public Management Reform, cit., 5 ss.
(5) A. NATALINI, Il tempo delle riforme amministrative, Bologna, il Mulino, 2006,
15, indica nel 1993 l’anno di avvio delle riforme. Se quell’anno coincide, per l’appunto,
con l’avvio di un organico progetto riformatore da parte del governo Ciampi, non erano
mancate, però, negli anni precedenti, leggi di riforma importanti: basti richiamare la
legge 8 giugno 1990, n. 142 sul nuovo ordinamento degli enti locali, la legge 7 agosto
1990, n. 241 sul procedimento amministrativo, la legge 10 ottobre 1990, n. 287 sulla
tutela della concorrenza.
(6) S. CASSESE, L’età delle riforme amministrative, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001,
79 ss.
(7) Mentre il Rapporto Giannini del 1979 (Rapporto sui principali problemi
dell’Amministrazione dello Stato, trasmesso alle Camere il 16 novembre 1979, ripubblicato in Riv. trim. dir. pubbl., 1982, 715 ss.) si era preoccupato soprattutto di
diagnosticare i «mali» dell’amministrazione italiana, nell’intento, risultato vano, di
risvegliare l’attenzione politica sul tema, gli Indirizzi elaborati dal Ministro della
funzione pubblica Sabino Cassese suggerivano — sulla base di quel precedente e di una
aggiornata analisi delle disfunzioni esistenti (Dipartimento per la funzione pubblica,
Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni, Roma, 1993) – una «cura»
organica per la burocrazia italiana (Ministro per la funzione pubblica, Indirizzi per la
modernizzazione delle pubbliche amministrazioni, Roma, 1993).
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plificare l’attività di governo», «liberare le amministrazioni pubbliche
dai lacci di troppe leggi», «accorciare i circuiti di decisione» con
procedure più snelle, «rendere produttivo il personale pubblico»,
«distribuire meglio gli impiegati», «ricostruire la dirigenza pubblica»,
«spendere meno e spendere meglio», «rafforzare la presenza delle
amministrazioni pubbliche in Europa» (8).
Gran parte della discontinua azione riformatrice dei tredici governi e degli undici ministri della funzione pubblica alternatisi dal 1994 ad
oggi ha teso a realizzare quegli obiettivi. A che punto siamo? Quali
obiettivi, a distanza di oltre venti anni, possono ritenersi (almeno in
parte) conseguiti? Quali, invece, si sono rivelati illusori o datati? Quali,
infine, sono ancora al centro dell’azione di riforma?
Di seguito, si tenterà di affrontare questi interrogativi in modo
selettivo, concentrando l’attenzione sui principali disegni di modernizzazione della macchina dello Stato. Due di essi — la riforma degli
apparati ministeriali e il decentramento — riguardano la c.d. riforma
esterna, cioè la dorsale del sistema amministrativo italiano. Altri due
— la riforma del personale (dirigenziale e non) e quella dei controlli
interni — riguardano invece la c.d. riforma interna, cioè la «aziendalizzazione» delle modalità di gestione degli uffici, attraverso l’importazione di tecniche di management dal settore privato. Resteranno ai
margini dell’indagine, da un lato, le riforme interne alle amministrazioni territoriali e, dall’altro, le politiche prevalentemente incentrate
su micro-riforme, come la semplificazione dei procedimenti e delle
modalità di azione delle amministrazioni.
L’analisi dei «grandi» percorsi di modernizzazione dello Stato
pone, sullo sfondo, una questione più generale: si può orientare il
cambiamento amministrativo partendo da big questions e big answers,
oppure è preferibile un approccio meno ambizioso, fatto di riforme
incrementali e «oblique»? (9)
2. Nel 1979, il Rapporto Giannini così tratteggiava il «dramma
organizzativo» degli Stati industriali avanzati: «nel giro di pochi decenni, essi, partiti come enti di funzioni di ordine e di base, tipicamente
autoritativi, sono divenuti anche enti gestori di servizi, ed infine anche
enti gestori di trasferimenti di ricchezza. Ciascun tipo dei nuovi gruppi
(8) Ministro per la funzione pubblica, Indirizzi, cit., passim.
(9) L. HINNA e M. MARCANTONI, La riforma obliqua. Come cambiare la pubblica
amministrazione giocando di sponda, Roma, Donzelli, 2012.
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di funzioni si è aggiunto al precedente», con la conseguenza che «da
noi le amministrazioni d’ordine, le amministrazioni di servizi e le
amministrazioni di finanza convivono in regimi di giustapposizione» (10).
Quindici anni dopo, il Rapporto Cassese circostanziava la diagnosi,
evidenziando alcune conseguenze di quella casuale giustapposizione:
l’inversione del rapporto fisiologico tra funzioni e organizzazione, per
cui sono gli apparati che, per sopravvivere, condizionano l’allocazione
dei compiti (11); un «altissimo tasso di “intermediazione” amministrativa», generato da un assetto nel quale «ciascuna amministrazione è
titolare di un brandello, ma non è padrona dell’iter procedimentale»,
cosicché, «invece della specializzazione, si ha la parcellizzazione» (12);
il verificarsi di «continue interferenze fra centro e periferia, che
impediscono al primo di indirizzare e alla seconda di operare» (13).
La «cura» proposta negli Indirizzi contemplava una combinazione
di rimedi e, in particolare: a) alleggerire il centro, riducendo il numero
e le dimensioni dei ministeri, eliminando sovrapposizioni funzionali e
lasciando loro soltanto compiti (di indirizzo, coordinamento, supporto
e monitoraggio) che favorissero lo spostamento delle decisioni in
periferia; b) completare il disegno autonomistico, ricomponendo i
frammenti di funzioni amministrative (gli «ossicini fratturati» di cui
parlava Giannini) (14) e assegnando agli enti territoriali una reale
autonomia impositiva, sotto il controllo dei rispettivi corpi eligenti, ma
anche dei poteri pubblici centrali (15).
Dopo un primo tentativo compiuto dal governo Ciampi con la
legge 24 dicembre 1993, n. 537 (16), sono state le riforme Bassanini a
tradurre buona parte di quel disegno in norme. La legge 15 marzo
1997, n. 59 ha avviato, in parallelo, la riforma dei ministeri (§ 2.1) e il
decentramento amministrativo (§ 2.2), nell’intento di spostare in periferia le funzioni di amministrazione attiva e di lasciare a un centro più
(10) Rapporto Giannini, cit., 723 s.
(11) Rapporto Cassese, cit., 28.
(12) Ibidem, 27 e 29.
(13) Ibidem, 28.
(14) Rapporto Giannini, cit., 723.
(15) Rapporto Cassese, cit., 33.
(16) La legge n. 537 del 1993 prefigurava un’ampia riorganizzazione dei ministeri
e sopprimeva il Ministero della marina mercantile, trasferendone le funzioni al Ministero dei trasporti. La delega, però, rimase senza seguito per la caduta del governo.
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snello le funzioni di indirizzo e coordinamento del sistema amministrativo nel suo complesso.
A distanza di anni, come si vedrà, quel disegno resta attuale, ma
lontano dalla realizzazione, ostacolato soprattutto da un centro restìo
a cedere funzioni e a riconoscere una reale autonomia a enti territoriali
ritenuti ancora «immaturi».
2.1. Negli anni a cavallo tra la X e l’XI legislatura (1988-1993),
l’apparato di governo era costituito da ventidue ministeri: troppi, sia
per la frammentazione di competenze che ne derivava, sia per l’effettivo peso di alcune funzioni, già all’epoca recessive (poste e telecomunicazioni, marina mercantile, commercio con l’estero, partecipazioni
statali). Dal 2008, i ministeri sono diventati tredici. Sotto questo
profilo, l’operazione di riordino degli apparati ministeriali — avviata
dalla richiamata legge n. 59 del 1997 e dai decreti legislativi 30 luglio
1999, n. 300 e n. 303 — ha prodotto, a distanza di anni, un indubbio
miglioramento: il minor numero di ministeri ha consentito di ricompattare funzioni prima disperse e di alleggerire il Consiglio dei ministri.
Tuttavia, la riorganizzazione del centro amministrativo dello Stato
aveva obiettivi più ambiziosi. La legge n. 59 del 1997 ne indicava
almeno altri quattro: i) concentrare nella Presidenza del Consiglio le
funzioni di impulso, indirizzo e coordinamento, portando all’esterno le
funzioni di altra natura (17); ii) riorganizzare gli apparati ministeriali,
razionalizzandoli e utilizzando la dipartimentalizzazione (prevista per
nove dei dodici ministeri originariamente ipotizzati) per superare il
tradizionale cloisonnement tra direzioni generali; iii) trasferire le funzioni ministeriali di tipo tecnico-operativo ad apposite agenzie, strutture più agili, specializzate e autonome nella gestione; iv) sopprimere
gli uffici ministeriali periferici e accentrarne le funzioni presso le
prefetture («uffici territoriali del governo»), per garantire l’unità dell’azione statale in periferia e svolgere «funzioni di raccordo, supporto
e collaborazione con le regioni e gli enti locali» (18).
(17) Art. 12, comma1, lett. a), l. n. 59 del 1997.
(18) Art. 12, comma 1, lett. h) e l), l. n. 59 del 1997. Secondo la versione originaria
dell’art. 11, comma 2, d.lg. n. 300 del 1999, gli uffici territoriali del governo, oltre a
mantenere le funzioni di competenza delle prefetture, avrebbero dovuto assumere la
titolarità «di tutte le attribuzioni dell’amministrazione periferica dello Stato non
espressamente conferite ad altri uffici».
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Negli anni seguenti, nessuna di queste linee di riordino ha prodotto gli esiti sperati.
In primo luogo, la Presidenza del Consiglio dei ministri non è
divenuta l’agile centro di impulso e coordinamento dell’azione del
governo che la riforma auspicava. Il sua apparato è oggi, ancor più che
venticinque anni fa, appesantito da una struttura pletorica (19) e da
uffici con attribuzioni spurie, che tuttavia resistono all’allontanamento
da questo centro «di privilegio», nel quale le retribuzioni del personale
sono superiori alla media degli altri ministeri (20).
In secondo luogo, le fusioni tra ministeri sono avvenute «a freddo», per mera sommatoria, senza una adeguata riorganizzazione interna. Nel 2001, venuta meno, col cambio di maggioranza, la regia
centrale delle riforme, la stesura dei regolamenti di organizzazione è
stata affidata ai singoli ministeri, i quali hanno conservato le strutture
preesistenti. Ciò ha consentito di ridurre, nel tempo, il numero dei
ministeri (21), ma non di «snellire», né di valorizzare l’opportunità
offerta dalla dipartimentalizzazione (22).
In terzo luogo, il processo di agencification non ha attecchito.
(19) Alla fine degli anni Ottanta del ventesimo secolo, il nucleo centrale della
struttura si articolava in sette uffici e otto dipartimenti. Oggi, la Presidenza del
Consiglio racchiude, oltre al Segretariato generale, otto uffici e ben diciotto dipartimenti, di cui appena quattro con funzioni di coordinamento e indirizzo politico.
(20) Si pensi, tra gli altri, ai dipartimenti per le politiche antidroga, per le
politiche della famiglia, per le politiche di coesione, per lo sviluppo delle economie
territoriali e delle aree urbane, o ancora al dipartimento per la protezione civile, le cui
funzioni tecniche erano state assegnate dal d.lg. n. 300 del 1999 a una apposita agenzia,
mai istituita. L’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri è ora disciplinato dal d.P.C.M. 1 ottobre 2012, modificato dal d.P.C.M. 15 dicembre 2014.
(21) In base alla riforma del 1997-1999, la riduzione a dodici dei ministeri era
prevista a partire dalla legislatura successiva, iniziata nel 2001. Tuttavia, il numero dei
ministeri, inizialmente portato a quattordici (governo Berlusconi II e III, 2001-2006), è
salito a diciotto durante la legislatura seguente (governo Prodi II, 2006-2008). Soltanto
all’inizio della XVI legislatura (aprile 2008) si è attuata la norma del 1999, portando a
dodici i ministeri. Un anno dopo lo «scorporo» del Ministero della salute dal Ministero
del lavoro e delle politiche sociali (art. 1, legge 13 novembre 2009, n. 172) ha prodotto
la rinascita di un tredicesimo dicastero. Da allora, il numero dei ministeri e la
distribuzione delle relative attribuzioni sono rimasti stabili.
(22) Nei ministeri a struttura dipartimentale, al momento della riorganizzazione,
sono sopravvissute le direzioni generali per gli affari generali e il personale, responsabili della gestione delle risorse. Ciò ha impedito al capo dipartimento (anche ove
nominato e dotato di un ufficio) di distribuire le risorse in vista della realizzazione dei
programmi. Non ha impedito, invece, di far lievitare i posti di dirigente generale e i
relativi costi, a dispetto del principio dell’invarianza della spesa che avrebbe dovuto
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Nella fase di attuazione, il laissez faire ha prevalso, cosicché ciascun
ministero ha potuto decidere se e quali agenzie istituire. Delle dodici
agenzie previste dalla riforma del 1999, alcune non sono mai venute
alla luce, perché avrebbero comportato la cessazione dei corrispondenti uffici ministeriali o il loro spostamento (23). Le sei inizialmente
istituite (24), poi divenute tre (25), hanno di fatto operato, al pari delle
altre successivamente aggiuntesi (26), come direzioni generali distaccate, asservite al ministero di riferimento. La resistenza degli apparati
di governo a cedere funzioni ha, così, svuotato il nuovo modello
organizzativo, che intendeva assicurare un certo grado di distanza tra
gli organi politici e la gestione di funzioni tecnico-operative.
In quarto luogo, una resistenza non minore ha incontrato l’accorguidare il riassetto. L’art. 1 del decreto legislativo 6 dicembre 2002, n. 287, rendendo
facoltativa l’istituzione dei dipartimenti, ha sancito, su questo punto, una precoce resa.
(23) Emblematica la vicenda dell’Agenzia per la protezione civile, che avrebbe
dovuto operare sotto la vigilanza del Ministero dell’interno, acquisendo le funzioni e i
compiti del Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio (artt.
10, comma 6, d.lg. n. 303 del 1999 e 79, d.lg. n. 300 del 1999). Mai istituita, l’agenzia è
stata formalmente soppressa con decreto legge 7 settembre 2001, n. 343, convertito
dalla legge 9 novembre 2001, n. 401.
(24) Oltre alle quattro agenzie fiscali (entrate, dogane, territorio e demanio),
erano state istituite l’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici e
l’Agenzia industrie difesa.
(25) Delle sei agenzie del d.lg. n. 300/1999 effettivamente istituite (v. nota
precedente), sono sopravvissute l’Agenzia industrie difesa, l’Agenzia delle entrate e
l’Agenzia delle dogane e del monopolio (così ribattezzata dopo l’incorporazione
dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato nell’Agenzia delle dogane,
prevista dall’art. 23-quater, comma 1, del decreto legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito
dalla legge 7 agosto 2012, n. 135). La medesima disposizione ha stabilito l’accorpamento dell’Agenzia del territorio nell’Agenzia delle entrate. L’Agenzia del demanio è stata,
invece, trasformata in ente pubblico economico (decreto legislativo 3 luglio 2003 n.
173), mentre l’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici è confluita
nell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (decreto legge 25 giugno
2008, n. 112, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133).
(26) All’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, istituite nel 1993, si
sono aggiunte, tra le altre, l’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo (decreto
legislativo 25 febbraio 1999, n. 66), l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (decreto
legislativo 27 maggio 1999, n. 165), l’Agenzia italiana del farmaco (decreto legge 30
settembre 2003 n. 269, convertito dalla legge 24 novembre 2003, n. 326), l’Agenzia
italiana per la sicurezza delle ferrovie (art. 4 del decreto legislativo 10 agosto 2007, n.
162), l’Agenzia per l’Italia digitale (decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella
legge 7 agosto 2012, n. 134), l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (art.
17 della legge 11 agosto 2014, n. 125).
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pamento degli uffici periferici dei ministeri presso le prefetture-uffici
territoriali del governo (Utg). Il progetto dell’art. 11 del d.lg. n. 300 del
1999, pur non privo di ambiguità (27), intendeva trasformare le prefetture, sull’esempio dei corrispondenti uffici francesi, in centri d’imputazione unitaria delle funzioni statali decentrate. Quel progetto è
rimasto sulla carta, per l’indisponibilità dei ministeri a privarsi delle
loro terminazioni territoriali (28). Nel 2004, il legislatore ha abrogato le
norme rimaste inattuate e rinunciato alla concentrazione organizzativa, puntando, piuttosto, sul rafforzamento degli strumenti di coordinamento tra apparati periferici, nonché tra questi e gli enti locali (29).
Dal 2008, con il sopraggiungere della crisi economica, la «manutenzione» della riforma del centro ha ceduto il passo a interventi
orientati al contenimento della spesa. L’emergenza del riordino dei
conti e la breve durata degli esecutivi hanno indotto a privilegiare la
rudimentale tecnica dei «tagli lineari» (e i blocchi del turn-over)
rispetto a esercizi di spending review che, pur avviati, avrebbero
richiesto tempi lunghi di attuazione (30). Della riforma del centro è
rimasto l’obiettivo dello «snellimento» degli apparati. Obiettivo, però,
(27) Gli Utg era configurati, allo stesso tempo, come strutture di supporto del
prefetto, uffici sottoposti a una generale potestà di indirizzo del presidente del Consiglio e apparati funzionalmente dipendenti dai singoli ministeri, così riproducendosi
all’interno degli Utg quella frammentazione funzionale che si intendeva superare per
favorire l’unità d’azione e il dialogo, in orizzontale, con le autonomie locali.
(28) Già il regolamento di attuazione della riforma del 1999 (d.P.R. 17 maggio
2001, n. 287) prevedeva una timida operazione di accorpamento, che lasciava fuori dagli
Utg i principali uffici ministeriali dislocati in periferia. Nei fatti, sono sopravvissuti gli
uffici periferici di ben undici ministeri, mentre gli unici due ministeri ad avvalersi delle
prefetture-Utg (ambiente e attività produttive) non avevano mai avuto loro articolazioni territoriali.
(29) Decreto legislativo 21 gennaio 2004, n. 29. Il relativo regolamento di
attuazione, adottato a seguito della modifica del 2004 (d.P.R. 3 aprile 2006, n. 180), ha
previsto l’apertura delle preesistenti conferenze provinciali permanenti, facenti capo
alle prefetture, non solo alle altre amministrazioni periferiche dello Stato, come già
previsto, ma anche alla partecipazione di rappresentanti degli enti locali. In proposito,
C. MEOLI, La periferia, nuova frontiera dell’amministrazione, in Le amministrazioni
pubbliche tra conservazione e riforme, a cura di L. Fiorentino, Milano, Giuffrè, 2008, 41
ss.
(30) Si vedano, tra le numerose norme che hanno imposto «tagli» ai ministeri
negli ultimi anni, l’art. 74 del richiamato d.l. n. 112 del 2008; l’art. 2 del d.l. n. 95/2012;
l’art. 2 del decreto legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito dalla legge 30 ottobre 2013,
n. 125; l’art. 16 del decreto legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito dalla legge 23 giugno
2014, n. 89.
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perseguito non più a partire dalle funzioni, cioè per promuovere una
riorganizzazione degli uffici centrali in vista di un più efficiente svolgimento dei compiti loro assegnati, bensì a partire dalle risorse finanziarie, il cui primato ha finito per legittimare e rafforzare il controllo
che il Ministero dell’economia esercita, tramite la Ragioneria generale,
sugli altri dicasteri e apparati centrali.
Solo di recente, con l’attenuarsi dell’emergenza legata alla sostenibilità dei conti pubblici, il legislatore pare orientato a riannodare
alcuni fili della riforma spezzati dalla crisi.
Il disegno di legge di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche (c.d. «d.d.l. Madia»), attualmente in discussione in Parlamento (31), prevede l’adozione di uno o più decreti legislativi per modificare la disciplina della Presidenza del Consiglio, dei ministeri e delle
agenzie, oltre che degli enti pubblici non economici nazionali. Riprende, così, vigore l’idea che la riorganizzazione del centro non possa
essere effettuata dagli stessi apparati centrali, sotto la pressione dei
«tagli», ma che occorra un disegno organico, promosso e monitorato
dal centro.
Coerentemente, tra i criteri della delega ricompaiono quelli di
natura funzionale. Non solo si prefigura il riordino della Presidenza del
Consiglio (a partire dalle competenze «funzionali al mantenimento
dell’unità di indirizzo»), ma si detta, in via generale, un criterio
innovativo: la «riduzione degli uffici e del personale anche dirigenziale
destinati ad attività strumentali» e il «correlativo rafforzamento degli
uffici che erogano prestazioni ai cittadini e alle imprese» (32). Se,
quindi, l’amministrazione che serve se stessa merita meno uffici e
risorse dell’amministrazione che serve i cittadini, dovrebbe derivarne
una riduzione del centro, dove si concentrano gli uffici di autoamministrazione, e uno spostamento delle risorse in periferia, dove i ministeri erogano i servizi ai cittadini.
Proprio a livello periferico, il disegno di riforma delle amministra(31) Si tratta del d.d.l. S. 1577 di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche. I criteri del riordino dell’amministrazione centrale sono dettati dall’art. 7.
(32) Art. 7, comma 1, lett. a) del d.d.l. Madia. La successiva lettera b) prevede,
tra l’altro, il riordino o la soppressione «degli uffici e organismi in ordine ai quali, anche
all’esito della ricognizione di cui all’articolo 17, comma 1, del decreto legge 24 giugno
2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, risultino
disfunzioni organizzative o finanziarie o duplicazioni di funzioni o strutture», nonché
l’eliminazione degli uffici ministeriali le cui funzioni «si sovrappongono a quelle proprie
delle autorità indipendenti».
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zioni statali viene completato da un nuovo tentativo di concentrazione,
analogo a quello avviato, invano, nel 1999. Si prevede la confluenza
presso le prefetture — ribattezzate «uffici territoriali dello Stato» (Uts)
— «di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni civili dello Stato»,
con una particolare enfasi, anche in questo caso, sull’attività di prestazione: gli Uts diverrebbero il «punto di contatto unico tra amministrazione periferica dello Stato e cittadini» e al prefetto sarebbe assegnata
la responsabilità dell’erogazione dei servizi ai cittadini, prim’ancora
che delle funzioni di coordinamento tra gli uffici periferici accorpati
negli Uts (33).
In attesa dell’esito parlamentare di questo progetto, resta aperta la
questione di fondo, relativa al ruolo da assegnare all’amministrazione
ministeriale. Se l’obiettivo è farne un centro capace di indirizzare e
coordinare il sistema amministrativo nel suo complesso, la strada da
percorrere è ancora lunga. Il «cuore» dello Stato è tuttora formato da
apparati troppo rigidi, frammentati al loro interno, poco coordinati tra
loro. Da un lato, la loro capacità di guidare il sistema è limitata, perché
mancano uffici ministeriali che sappiano analizzare i problemi, proporre soluzioni, valutare l’impatto delle alternative regolatorie (non a
caso, l’analisi d’impatto della regolazione si applica solo alle autorità
indipendenti). Dall’altro, limitatissima è anche la capacità di dialogare
con gli altri livelli di governo: con le regioni e gli enti locali, perché
mancano sedi adeguate di coordinamento amministrativo (tali non
sono quelle offerte dal sistema delle conferenze); con l’Unione europea, perché — sebbene non manchino i canali di comunicazione tra la
Commissione e le capitali degli Stati membri — i ministeri italiani non
hanno sviluppato le competenze e un metodo di lavoro adeguati a
rappresentare gli interessi nazionali a Bruxelles (34).
Nonostante la dispersione di funzioni statali avvenuta in favore dei
privati (privatizzazioni ed esternalizzazioni) e di altri livelli di governo
(decentramento ed europeizzazione), gli apparati ministeriali non hanno saputo reinventare la loro missione, né accettare un ridimensionamento funzionale che fosse anche organizzativo. Invariato è il personale degli uffici centrali (da decenni, intorno alle centocinquanta mila
unità). Pochissimi gli uffici soppressi o anche semplicemente scorporati
(33) Art. 7, comma 1, lett. c) del d.d.l. Madia.
(34) Per una più ampia disamina del problema, sia consentito rinviare a M.
SAVINO, L’amministrazione nazionale e l’Europa: l’eterna rincorsa, in Le amministrazioni pubbliche tra conservazione e riforme, cit., 123 ss.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
651
in favore di agenzie e altri enti. Poche le operazioni di vera riorganizzazione interna, fatta a partire dall’individuazione di funzioni e missioni prioritarie. Carente, come detto, il dialogo con gli altri livelli di
governo. Tenace la resistenza di una cultura statalista e statocentrica,
che produce atteggiamenti tra loro contraddittori: di scarso rispetto
per il principio autonomistico, con consenguente aumento del contenzioso costituzionale con le regioni, da un lato; di insufficiente attenzione per il processo decisionale europeo, con conseguente perdita di
credibilità esterna e aumento dei costi di adattamento interno, dall’altro. Non avendo accettato la sfida del cambiamento, gli apparati statali
sopravvivono immutati, come amministrazioni fuori dal loro tempo.
2.2. A pochi anni dai primi tentativi di regionalizzazione (35),
vanificati dalla frammentarietà delle funzioni decentrate e dal mancato
trasferimento delle corrispondenti risorse statali (di qui, il noto «centralismo di ritorno»), il Rapporto Giannini lamentava l’incompletezza
del disegno autonomistico: il ruolo degli enti locali restava indeterminato, «come se in uno schizzo di figura umana, solo una parte del torso
rimanesse definita» (36).
All’inizio degli anni Novanta, la parte mancante dello schizzo è
stata completata. Prima, la legge 8 giugno 1990, n. 142 ha definito
l’ordinamento dei comuni e delle province. Poi, la legge 25 marzo 1993,
n. 81, ne ha rafforzato l’investitura, introducendo l’elezione diretta del
sindaco e del presidente della provincia. Questo nuovo inizio restituiva
credibilità alla prospettiva di un sistema delle autonomie retto dal
principio della sussidiarietà e dall’ideale dell’autogoverno. Si ponevano le premesse per un reale decentramento delle funzioni statali, in
favore di enti locali e regioni destinati ad assumere ruoli differenziati
e, ciascuno per la propria parte, a svolgere responsabilmente compiti
essenziali per i cittadini anche attraverso un più diretto coinvolgimento
di questi ultimi.
L’ascesa del modello autonomista era, però, ostacolata da un
dettato costituzionale di chiara impostazione centralista, che assegnava
alle regioni funzioni amministrative nelle sole materie di competenza
(35) Il primo trasferimento di funzioni amministrative alle regioni è avvenuto con
i d.P.R. 15 gennaio 1972, nn. 8-11; il secondo, con d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, di
attuazione della legge 22 luglio 1975, n. 382.
(36) Rapporto Giannini, cit., 723.
652
MARIO SAVINO
legislativa concorrente (c.d. parallelismo) e consentiva allo Stato di
scegliere se e quando delegare sue funzioni a regioni ed enti locali (37).
Mentre la legge n. 142 del 1990 si era mossa nel perimetro
disegnato dalla Costituzione (38), il sovvertimento di quella impostazione è giunto con la legge n. 59 del 1997, che ha avviato, a costituzione
invariata, una complessiva redistribuzione delle funzioni amministrative in base ai criteri di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza,
assegnando agli enti locali la cura di «tutte le funzioni che non
richiedono l’unitario esercizio a livello regionale» (39). In attuazione di
quel disegno, il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 ha previsto il
decentramento di funzioni e compiti amministrativi in quattro ambiti
principali: sviluppo economico e attività produttive; territorio, ambiente e infrastrutture; servizi alla persona e alla comunità; polizia amministrativa e regime autorizzatorio. Si è delineata, così, una tendenziale
distinzione tra due livelli di governo (statale e regionale) con funzioni
di indirizzo e programmazione e, più in basso, altri due livelli
(provinciale e comunale) con funzioni di amministrazione attiva, relative «alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle
rispettive comunità» (40).
Il riallineamento tra legge e dettato costituzionale è giunto con la
revisione del titolo V, compiuta nel 2001 (41). In continuità con la legge
n. 59 del 1997, è stato confermato il rovesciamento del rapporto tra
Stato e autonomie nella distribuzione delle funzioni amministrative e
sono stati costituzionalizzati i tre criteri-guida della riallocazione
(sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza). Inoltre, il sistema autonomistico è stato notevolmente rafforzato, sia per effetto della
(37) In base al «vecchio» art. 118, agli enti locali spettavano, nell’ambito delle
funzioni regionali richiamate, «quelle di interesse esclusivamente locale». Inoltre, lo
Stato poteva delegare l’esercizio delle proprie funzioni alle regioni, le quali, a loro
volta, ne delegavano «normalmente» l’esercizio agli enti locali.
(38) La legge n. 142 del 1990 stabiliva, per un verso, che lo Stato — nel trasferire
le funzioni regionali agli enti locali — e le regioni — nel delegare l’esercizio delle
proprie funzioni a province e comuni — dovevano attenersi al principio di sussidiarietà
(art. 2, comma 5); per altro verso, che le amministrazioni regionali dovevano delegare
agli enti locali tutte le loro funzioni, eccetto quelle attinenti ad esigenze di carattere
unitario (art. 3, comma 1). Pur richiamandosi al principio di sussidiarietà, l’ambito
applicativo della l. n. 142 era, perciò, tutto interno alle funzioni spettanti alle regioni in
base al principio del parallelismo.
(39) Art. 4, comma 1, l. n. 59 del 1997.
(40) Art. 1, comma 2, l. n. 59 del 1997.
(41) Legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
653
regionalizzazione di numerose competenze legislative (art. 117), sia
per l’individuazione dei comuni come livello preferenziale di esercizio
delle funzioni amministrative (art. 118), sia, infine, per il pieno riconoscimento dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali (art. 119).
Spogliato virtualmente di molte funzioni, lo Stato ha adottato una
strategia di resistenza, inizialmente messa in atto su due versanti. Da
un lato, il trasferimento delle risorse corrispondenti alle funzioni sulla
carta decentrate è stato, nei fatti, cancellato, anche per la mancata
riduzione degli apparati statali (42). Dall’altro, l’adeguamento al nuovo
titolo V della legislazione adottata negli anni Novanta (nel frattempo
trasfusa nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267) è stato continuamente rimandato, tanto che il dibattito sulla c.d. Carta delle
autonomie è tuttora aperto (43).
Nel 2009, l’approvazione della legge sul c.d. federalismo fiscale
(legge n. 42/2009, di attuazione dell’art. 119 Cost.) ha dato nuovo
impulso alla prospettiva del decentramento. In applicazione del principio di autonomia finanziaria, la legge ha riconosciuto a regioni ed
enti locali una capacità impositiva propria, non derivata dallo Stato
(autonomia di entrata), e una corrispondente libertà di scelta nell’allocazione delle risorse (autonomia di spesa), così da mettere quegli
enti nelle condizioni di assicurare ai cittadini lo svolgimento delle
funzioni decentrate.
Inoltre, su una impostazione di fondo solidaristica, volta a temperare la territorialità del prelievo con ampie garanzie di perequazione,
la legge n. 42/2009 ha innestato meccanismi di quasi-mercato concurrence sur papier) diretti a promuovere l’efficienza e la virtuosità
finanziaria. Si è prevista la graduale sostituzione del criterio della spesa
storica con il criterio del costo e del fabbisogno standard, per rendere
(42) In proposito, G. FIORENTINO, M. GNES e L. SALTARI, Il falso decentramento
italiano a dieci anni dalla riforma della Costituzione, Napoli, Editoriale scientifica, 2012.
(43) La legge 5 giugno 2003, n. 131, conteneva una delega al governo —
prorogata fino al 31 dicembre 2005, ma non esercitata — per l’individuazione e
l’allocazione delle funzioni fondamentali degli enti locali e per l’istituzione delle città
metropolitane (art. 2), e invitava lo Stato e le regioni ad adottare le misure legislative
necessarie al conferimento di funzioni agli enti locali, in attuazione dell’art. 118 Cost.
(art. 7). Negli anni successivi si è discusso di un progetto di Carta delle autonomie, mai
giunto all’approvazione. Nella XV legislatura (2006-2008), il governo ha presentato un
disegno di legge (A.S. n. 1464) che intendeva promuovere una revisione organica della
disciplina degli enti locali (c.d. Carta delle autonomie locali). Nella XVI legislatura, un
analogo disegno di legge (A.C. 3118) è stato approvato dalla Camera dei deputati il 30
giugno 2010, ma anche in questo caso senza esito.
654
MARIO SAVINO
comparabili tra loro le gestioni degli enti (44), e vi si è aggiunto un
sistema di incentivi e disincentivi, cioè di premi per gli enti «virtuosi ed
efficienti nell’esercizio della potestà tributaria, nella gestione finanziaria ed economica» e di sanzioni per gli enti non virtuosi (45). Si è teso,
in tal modo, a promuovere la «massima responsabilizzazione» di tutti
i livelli di governo, nonché «l’effettività e la trasparenza del controllo
democratico nei confronti degli eletti» (46).
Tuttavia, in quegli stessi anni, l’emergenza dei conti pubblici
generata dalla crisi finanziaria e dagli stringenti vincoli imposti dall’Unione europea ha rafforzato il controllo statale sui «cordoni della
borsa» e ostacolato il completamento del processo di devoluzione. La
diffidenza verso la responsabilità finanziaria degli enti territoriali ha
finito, così, per legittimare un sostanziale riaccentramento della potestà impositiva e delle scelte sui grandi aggregati di spesa.
Ne è derivato un processo evolutivo «strabico», nel quale, mentre
il disegno della legge n. 42/2009 veniva completato con l’esercizio delle
deleghe (47) e con provvedimenti di preparazione all’attuazione in via
amministrativa (48), si è, al contempo, rafforzata la tendenza dello
(44) Art. 2, comma 2, lett. m), e art. 20, l. n. 42/2009.
(45) Art. 2, comma 2, lett. z), l. n. 42/2009.
(46) Art. 1, comma 1, l. n. 42/2009.
(47) Sono stati adottati, in attuazione della legge n. 42 del 2009, decreti legislativi
in materia di: federalismo demaniale (d.lg. n. 85/2010); determinazione dei costi e
fabbisogni standard di comuni, città metropolitane e province (d.lg. n. 216/2010);
federalismo fiscale municipale (d.lg. n. 23/2011); autonomia di entrata o tributaria di
regioni a statuto ordinario e province, nonché determinazione di costi e fabbisogni
standard nel settore sanitario (d.lg. n. 68/2011); risorse aggiuntive e interventi speciali
per la rimozione degli squilibri economici (d.lg. n. 88/2011); meccanismi sanzionatori e
premiali relativi a regioni, province e comuni (d.lg. n. 149/2011); armonizzazione dei
sistemi contabili e degli schemi di bilancio di regioni ed enti locali (d.lg. n. 118/2011 e
d.lg. n. 126/2014); ordinamento di Roma Capitale (d.lg. nn. 156/2010, 61/2012 e
51/2013).
(48) Oltre all’avvio della collaborazione tra i comuni e l’Agenzia dell’entrate ai
fini del contrasto all’evasione, si è provveduto alla determinazione dei fabbisogni
standard delle funzioni fondamentali di province e comuni, anche con l’ausilio di
soggetti privati (in particolare, della SOSE s.p.a.), che hanno, altresì, provveduto alla
messa a punto di una banca dati opencivitas — destinata agli enti locali, ma in
prospettiva, accessibile anche ai cittadini — per analizzare, monitorare e comparare le
performance degli enti locali. Inoltre, con due d.P.C.M. (uno del 23 luglio 2014, l’altro
approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri nella seduta del 27 marzo 2015),
sono state adottate le note metodologiche per la determinazione dei fabbisogni
standard relativi alle funzioni di comuni e province.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
655
Stato a comprimere quella autonomia di spesa e di entrata degli enti
territoriali che il federalismo fiscale avrebbe, invece, voluto ampliare.
Basti pensare, sul versante della spesa, alle incursioni nella già limitata
autonomia delle regioni (49), operata dallo Stato con i «tagli lineari»
(sempre controproducenti, perché sfavorevoli agli enti virtuosi) imposti su specifici capitoli di spesa (50); oppure, sul versante delle entrate,
agli interventi statali sulle compartecipazioni degli enti territoriali ai
tributi erariali, o alla continua manipolazione statale di tributi — l’ICI
prima, l’IMU e la TASI poi — da cui dipendono le principali entrate dei
comuni (51).
È toccato, così, alla Corte costituzionale gestire il conflitto tra le
regioni, decise a difendere i margini di autonomia finanziaria garantiti
dalla Costituzione, e lo Stato, propenso a limitare quell’autonomia per
salvaguardare l’equilibrio dei conti da sottoporre al giudizio dei mercati e di Bruxelles. Il giudice costituzionale ha privilegiato una interpretazione estensiva della competenza in materia di coordinamento
finanziario e tributario prevista dal terzo comma dell’art. 117 Cost.,
riconoscendo, ad esempio, la legittimità delle misure statali che imponevano «tetti» di spesa alle regioni a due condizioni: la temporaneità
di quelle misure (52) e la natura di principio (invece che di dettaglio)
dei loro contenuti (53).
(49) Le risorse finanziarie regionali sono in larghissima parte assorbite dai livelli
essenziali delle prestazioni costituzionalmente garantite (in particolare, dalla spesa per
prestazioni sanitarie). Prima dell’adozione della legge n. 42 del 2009, si stimava che
l’autonomia effettiva delle regioni nell’allocazione delle risorse riguardasse circa il venti
per cento della propria spesa, con significative variazioni tra regioni speciali (quaranta
per cento) e regioni ordinarie (dodici per cento): si cfr. L. TORCHIA (a cura di), Il sistema
amministrativo italiano, Bologna, il Mulino, 235, e gli aggiornamenti contenuti nei
rapporti annuali sulle regioni dell’Issifra.
(50) Emblematiche le disposizioni di «riduzione dei costi degli apparati amministrativi» di cui all’art. 6 del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla legge
30 luglio 2010, n. 122, riguardanti puntuali voci di spesa (dai gettoni di presenza alle
spese per incarichi di consulenza e per missioni), che il legislatore statale ha ritenuto
applicabili alle regioni come «disposizioni di principio ai fini del coordinamento della
finanza pubblica» (art. 20).
(51) Tra le misure più recenti, si vedano quelle riguardanti il concorso delle
province, delle città metropolitane e dei comuni alla riduzione della spesa pubblica,
dettate dall’art. 47 del decreto legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito dalla legge 23
giugno 2014, n. 89.
(52) Secondo la giurisprudenza costituzionale, le norme statali di limitazione
dell’autonomia di spesa delle regioni devono limitarsi «a porre obiettivi di riequilibrio
della finanza pubblica, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo,
656
MARIO SAVINO
La tensione tra il principio autonomistico e la potestà statale di
coordinamento è stata, poi, ulteriormente accentuata dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1. Nel costituzionalizzare il vincolo del
pareggio di bilancio, in ottemperanza agli obblighi assunti a livello
europeo, quella legge ha modificato l’art. 119 Cost., legittimando gli
interventi statali diretti a promuovere l’equilibrio di bilancio (54).
Inoltre, ha previsto una speciale competenza statale esclusiva in materia di spesa delle amministrazioni (art. 81, sesto comma, Cost.), in
attuazione della quale la legge rinforzata 24 dicembre 2012, n. 243, ha
stabilito prescrizioni dettagliate in tema di equilibrio dei bilanci regionali e locali (art. 9), di ricorso degli enti territoriali all’indebitamento
(art. 10) e di concorso dei medesimi enti alla sostenibilità del debito
pubblico (art. 11).
Se a ciò si aggiunge che la riforma costituzionale in corso rivela
anche se non generale, della spesa corrente» (sent. n. 148 del 2012, nonché, tra le altre,
sentt. n. 232 del 2011 e n. 326 del 2010), con conseguente caducazione di quelle
disposizioni prive del requisito della temporaneità (ad es., sent. n. 193 del 2012).
(53) La Corte costituzionale ammette che il legislatore statale possa, con una
disciplina di principio, «imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento
finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in
limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti» (sent. n. 182 del 2011). Di qui,
due implicazioni: la prima è che quei vincoli possono considerarsi rispettosi dell’autonomia delle regioni e degli enti locali quando stabiliscono un «limite complessivo, che
lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e
obiettivi di spesa» (sentt. n. 297 del 2009, n. 289 del 2008 e n. 169 del 2007); la seconda
è che lo Stato può agire direttamente sulla spesa delle proprie amministrazioni con
norme puntuali e, al contempo, dichiarare che le stesse norme sono efficaci nei
confronti delle Regioni «a condizione di permettere l’estrapolazione, dalle singole
disposizioni statali, di principi rispettosi di uno spazio aperto all’esercizio dell’autonomia regionale» (sentt. n. 182 del 2011, n. 139 e n. 211 del 2012). La giurisprudenza
costituzionale non ha, dunque, fatto propria l’idea che la legislazione statale di
coordinamento, per rispettare l’autonomia finanziaria degli enti territoriali, debba
superare un più stringente vaglio di proporzionalità e adeguatezza rispetto al fine, ad
es., del pareggio di bilancio (in proposito, A. BRANCASI, Il coordinamento della finanza
pubblica nel federalismo fiscale, in Dir. pubbl., 2011, 474 ss., e, più in generale, M.
BELLETTI, Percorsi di ricentralizzazione del regionalismo italiano nella giurisprudenza
costituzionale, Roma, 2012).
(54) In base al nuovo primo comma dell’art. 119 Cost., l’autonomia finanziaria di
regioni ed enti locali non è condizionata, ormai, soltanto dall’«osservanza dei vincoli
economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea», ma anche dal
«rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci».
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
657
anch’essa, in tema di finanza pubblica, un orientamento statalista (55),
ne deriva la chiara percezione di uno svuotamento del disegno «federalista»: a fronte di una iniziale impostazione coerentemente autonomista, che intendeva associare al decentramento funzionale un corrispondente decentramento della potestà impositiva e di spesa, gli
sviluppi costituzionali (recenti e in divenire) consolidano l’egemonia
finanziaria dello Stato sul sistema delle autonomie.
Pur in un quadro connotato da forti tinte neocentraliste e da una
disorganica sequenza di interventi legislativi di breve periodo, hanno
cominciato a delinearsi alcuni obiettivi di più ampio respiro, volti a
razionalizzare l’assetto dei poteri locali attraverso lo smantellamento
delle province (56) (da compensare parzialmente con l’istituzione delle
città metropolitane (57)) e la riduzione dell’eccessiva frammentazione
del livello di governo comunale (58).
Queste direttrici di riforma hanno trovato una sintesi, a suo modo
organica, nella legge 7 aprile 2014, n. 56 (c.d. «legge Delrio»), che detta
disposizioni — solo in parte confluite nel testo unico (d.lg. n. 267 del
2000) — «in materia di città metropolitane, province, unioni e fusioni
di comuni al fine di adeguare il loro ordinamento ai principi di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza» (art. 1).
Innanzitutto, la legge ha istituto, oltre a Roma Capitale, altre nove
(55) È significativo che si preveda lo spostamento dell’attuale potestà legislativa
concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario
tra le materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato.
(56) Si vedano i tentativi di riordino o soppressione delle province previsti
dall’art. 15 del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, non convertito; dall’art. 23, comma
14 ss., decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito dalla legge 22 dicembre 2011,
n. 214; dall’art. 17, d.l. n. 95 del 2012, in parte attuato dal d.l. n. 188 del 2012, non
convertito. L’art. 1, comma 115, legge 24 dicemre 2012, n. 228 ha poi rinviato
l’applicazione dell’art. 23, d.l. n. 201 del 2011 alla successiva legislatura.
(57) La figura della città metropolitana, come noto, era già prevista dalla legge n.
142 del 1990 e, dal 2001, nell’art. 114 Cost. L’art. 15 della legge n. 42/2009 ha assegnato
al governo una delega, rimasta inattuata, per disciplinare il finanziamento delle funzioni
delle città metropolitane. Più di recente, l’art. 18 del d.l. n. 95/2012 ha previsto
l’istituzione di dieci città metropolitane e la contestuale soppressione delle province nel
relativo territorio, ma è stato dichiarato inconstituzionale (C. cost., sent. 3 luglio 2013,
n. 220) per l’inadeguatezza del mezzo (decreto legge) rispetto al fine (istituzione e
soppressione di enti territoriali autonomi costituzionalmente garantiti).
(58) Tra le norme generali in tema di gestione associata dei servizi e delle
funzioni comunali, si vedano l’art. 14, commi 27-28, del d.l. n. 78/2010; l’art. 16, commi
1 e 2, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito dalla legge 14 settembre 2011,
n. 148; e l’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012.
658
MARIO SAVINO
città metropolitane, che dal 1º gennaio 2015 sostituiscono le corrispondenti province, ereditandone funzioni e risorse. Questi nuovi enti
svolgono prevalenti funzioni di indirizzo, coordinamento e supporto
dei comuni inclusi nel loro ambito territoriale e sono composti da
organi non direttamente elettivi (59). Inoltre, in coerenza con il disegno
di legge costituzionale in discussione in Parlamento, che ne prevede
l’espunzione dalla Costituzione (60), le province sono state trasformate
da enti a carattere elettivo a «enti di area vasta». Più «leggere» delle
città metropolitane (61), le nuove province cedono buona parte delle
loro funzioni e risorse a regioni e comuni, e assumono limitate funzioni
di supporto, strumentali al coordinamento su base territoriale dell’azione comunale. Infine, vengono promosse le unioni e le fusioni tra
comuni, con incentivi che mirano a realizzare economie di scala e ad
accrescere l’efficienza nell’erogazione dei servizi.
In attesa che questa riforma trovi compiuta attuazione (62), il
sistema autonomistico va delineandosi con maggior nitore. Rispetto al
disegno originario, emerge un assetto semplificato, imperniato su due
soli livelli di rappresentanza diretta delle comunità, con compiti e
(59) I tre organi sono il sindaco metropolitano (coincidente con il sindaco del
comune capoluogo), la conferenza metropolitana (composta dal sindaco metropolitano
e dai sindaci dei comuni della città metropolitana) e il consiglio metropolitano (composto
dal sindaco metropolitano e da un numero di consiglieri variabile in base alla popolazione della città metropolitana, eletti da e tra i sindaci e i consiglieri dei comuni della
città metropolitana).
(60) Si allude al d.d.l. costituzionale di revisione della II parte della Costituzione
(A.S. n. 1429), approvato in prima lettura dal Senato l’8 agosto 2014 e, con modifiche,
dalla Camera il 10 marzo 2015.
(61) La legge n. 56 del 2014 ha abolito le giunte provinciali e assegnato alle
province due organi principali — il consiglio provinciale (che, come il consiglio
metropolitano, è un organo elettivo di secondo grado composto dal presidente della
provincia e da un numero di consiglieri variabile in base alla popolazione della città
metropolitana) e il presidente della provincia (eletto dai consiglieri comunali e dai
sindaci della provincia tra i sindaci che hanno un mandato che scade non prima di
diciotto mesi) — cui si aggiunge l’assemblea dei sindaci, con poteri consultivi, composta
dai sindaci cittadini di ogni comune e presieduta dal presidente della provincia.
(62) La legge n. 56 del 2014 prevede un rigido scadenziario, più ravvicinato per
l’istituzione delle città metropolitane e la loro piena operatività (con approvazione dei
relativi statuti); più diluito per la trasformazione e il conseguente «alleggerimento»
amministrativo delle province: un processo difficile, sia per la previsione di una
complessa attività di concertazione tra i diversi livelli di governo, sia per le difficoltà
legate al trasferimento delle relative risorse. Su tale processo di attuazione, G. VESPERINI, La legge “Delrio”, in Gionr. dir. amm., n. 8-9, 2014, 794.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
659
capacità nettamente differenziati: in alto, le regioni, dotate di ampia
potestà legislativa, anche in materia di ordinamento locale (63), e di
funzioni amministrative che, se si eccettua la materia sanitaria, sono
prevalentemente orientate alla programmazione e all’indirizzo; in basso, i comuni, con capacità più spiccatamente operative e gestionali,
irrobustite sia dalla creazione delle unioni, sia dal supporto delle
province o delle città metropolitane.
Come anticipato, però, il decentramento resta incompiuto, principalmente a causa della resistenza del potere centrale a riconoscere, in
tempi di crisi, una effettiva autonomia finanziaria agli enti territoriali.
Le esigenze di risanamento dei conti hanno reso problematico l’avvio
di sperimentazioni in questo campo, ma il rischio di autonomie irresponsabili o fuori controllo è ora attenuato da rigorose regole di
responsabilità finanziaria, amministrate da controllori dotati di caratteristiche di terzietà e indipendenza (64). Si vanno, dunque, realizzando
le condizioni per un superamento dell’accentramento finanziario e il
conseguimento di un più accettabile equilibrio tra la responsabilità
finanziaria comune e il principio di autonomia (65).
Questa evoluzione appare (non meno, bensì) più necessaria in un
periodo di risorse scarse, nel quale l’aggiustamento dei conti richiederebbe una più equa e razionale ripartizione di quelle risorse, non
viziata dalla spesa storica, ma commisurata ai compiti assegnati e ai
servizi effettivamente erogati. In questa prospettiva, l’ostacolo al contenimento della spesa non pare rappresentato dal federalismo fiscale
(che, anzi, produrrebbe benefici evidenti, se fosse attuato senza cedimenti politici nella distribuzione di premi e sanzioni), ma, semmai,
dalla mancata previsione di analoghi meccanismi di misurazione e
(63) In base al vigente art. 117 Cost., allo Stato spetta, a titolo di potestà
legislativa esclusiva, la competenza in materia di «legislazione elettorale, organi di
governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane», mentre,
per gli altri aspetti, la materia di ordinamento locale rientra nella competenza residuale
delle regioni. In base alla formulazione dell’art. 117, comma 2, lett. p), Cost, prevista dal
disegno di legge costituzionale, lo Stato avrebbe potestà legislativa esclusiva in materia
di «principi generali dell’ordinamento e funzioni fondamentali di Comuni e Città
metropolitane».
(64) Dalla Corte dei conti all’Ufficio parlamentare di bilancio, organismo indipendente per l’analisi e la verifica degli andamenti di finanza pubblica e per la
valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio, istituito dall’art. 16 della richiamata
legge rinforzata n. 243 del 2012.
(65) In tal senso, F. GALLO, Federalismo fiscale e vincolo del pareggio di bilancio,
in Astrid Rassegna, 2015, n. 2, spec. 20.
660
MARIO SAVINO
incentivazione dell’efficienza (costi e fabbisogni standard, benchmarking, premialità) per le amministrazioni centrali (66). L’accentramento
finanziario è, invece, uno strumento tanto efficace nel preservare il
potere dello Stato di condizionare gli altri livelli di governo, quanto
distorsivo ai fini di un corretto esercizio delle funzioni pubbliche. Oggi,
come all’inizio degli anni Novanta, esso «finisce per produrre effetti
perversi, se le decisioni di spesa sono comunque decentrate: all’asimmetria fra pagamento dei costi e fruizione dei servizi corrisponde una
pericolosa asimmetria fra responsabilità e risultati» (67).
3. «Ripensare la posizione delle amministrazioni dello Stato
significa rendersi conto che [...] lo Stato ha accentuato il suo carattere,
che prima aveva solo in parte, di azienda di attività terziaria» (68):
questo concetto, secondo il Rapporto Giannini del 1979, doveva servire da guida al percorso della riforma amministrativa. Così è stato: la
ricetta della «aziendalizzazione» ha ispirato, sia pure con accenti
diversi, l’intera parabola della riforma interna degli apparati amministrativi statali.
Quella italiana, però, è una parabola peculiare. Mentre in molti
paesi OCSE si è partiti dalla formula privatistica (government like
business), promossa già negli anni Ottanta del secolo scorso dal new
public management, per poi aggiungervi contenuti più propriamente
pubblicistici, come la separazione tra politica e amministrazione (69), in
Italia è accaduto, per certi versi, il contrario. La formula della privatizzazione è stata associata, già nel disegno originario, a una rigorosa
distinzione tra politica e amministrazione (§ 3.1). Tale distinzione è
stata, però, travolta dal prepotente ritorno della politica, che ha
portato i governi del maggioritario alla «cattura» della dirigenza, solo
di recente e solo in parte riscattata da quel giogo (§ 3.2). La scarsa
«tenuta» della distinzione tra politica e amministrazione ha condizionato, contribuendo a vanificarla, anche la privatizzazione del pubblico
(66) Lo rileva F. BASSANINI, Una riforma difficile (ma necessaria): il federalismo
fiscale alla prova della sua attuazione, in Astrid Rassegna, 2010, 9.
(67) Come già si osservava nel Rapporto Cassese, cit., 30, «L’accentramento delle
risorse finanziarie al centro, ispirato a finalità di controllo della spesa pubblica, finisce
per produrre effetti perversi, se le decisioni di spesa sono comunque decentrate:
all’asimmetria fra pagamento dei costi e fruizione dei servizi, corrisponde una pericolosa asimmetria fra responsabilità e risultati».
(68) Rapporto Giannini, cit., 724.
(69) C. POLLITT e G. BOUCKAERT, Public Management Reform, cit., 15 ss.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
661
impiego, la cui disciplina è stata parzialmente rilegificata (§ 3.3). In
parallelo, è stata rilanciata la diffusione di tecniche di promozione
della produttività proprie del settore privato e si è tentato di rafforzare
i meccanismi di controllo «dal basso», cioè da parte dei cittadini:
l’approccio aziendalistico e la customer orientation, però, stentano —
come vedremo — a fare breccia nella cultura legalistica delle amministrazioni italiane (§ 3.4).
3.1. Alla fine degli anni Ottanta del ventesimo secolo, le condizioni per una gestione aziendalistica del personale delle pubbliche
amministrazioni erano assenti. Il pubblico impiego aveva uno statuto
legislativo tendenzialmente uniforme, che ne irrigidiva la gestione e
ignorava le specificità dei compiti delle diverse amministrazioni. Al
contempo, una densa micro-legislazione prevedeva privilegi e statuti
particolari, ben riassunti dalla metafora della «giungla retributiva».
Stretto tra una legislazione pervasiva e una contrattazione collettiva
che andava assumendo un peso crescente (riconosciutole dalla legge
quadro del 1983), il dirigente pubblico non aveva né i poteri, né lo
spazio di autonomia per svolgere il ruolo manageriale proprio del
dirigente privato.
Da questa consapevolezza è nata, negli anni Novanta, la rivoluzione giuridica del pubblico impiego. Nel dare avvio al «più importante
cambiamento del diritto amministrativo» del ventesimo secolo (70), il
d.lg. n. 29/1993 dichiaratamente perseguiva l’obiettivo di «accrescere
l’efficienza delle amministrazioni», «razionalizzare il costo del lavoro
pubblico» e «realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane
nelle pubbliche amministrazioni [...] applicando condizioni uniformi
rispetto a quelle del lavoro privato» (71). La norma chiave era l’art. 2,
che riformava il sistema delle fonti, affidando la regolazione del
rapporto di lavoro pubblico alla contrattazione collettiva e, per prevenire la rilegificazione, prevedeva la disapplicazione ad opera della
contrattazione collettiva di qualsiasi norma dedicata ai soli dipendenti
pubblici.
Il pareggiamento con il lavoro privato — perseguito anche dalla
c.d. seconda privatizzazione del 1998, che estendeva all’alta dirigenza
(70) S. CASSESE, Le ambiguità della privatizzazione del pubblico impiego, in
Dall’impiego pubblico al rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, a cura di
S. Battini e S. Cassese, Milano, Giuffrè, 1997, 77.
(71) Art. 1 del d.lg. n. 29 del 1993.
662
MARIO SAVINO
il regime privatistico e assegnava alla giurisdizione ordinaria il contenzioso in materia lavoro pubblico (72) — non poteva avvenire, però, per
mera trasposizione degli istituti privatistici nel pubblico impiego. Bisognava fare i conti con le sue specificità, a partire dalla strutturale
debolezza del datore di lavoro pubblico.
Rappresentato, al vertice, da organi politici, quel datore è inevitabilmente sensibile alle «voci di dentro» dell’amministrazione, cioè
agli interessi e alle aspettative di dipendenti che sono anche elettori.
Questa consapevolezza ha portato il riformatore degli anni Novanta ad applicare il principio generale di distinzione tra indirizzo
politico e gestione amministrativa sia alla negoziazione del rapporto di
lavoro, sia alla gestione delle risorse umane.
Sotto il primo profilo, il d.lg. n. 29 del 1993 non si è limitato, con
la privatizzazione delle fonti di disciplina, a sottrarre alla politica il
potere di regolare unilateralmente, con legge, le condizioni di lavoro.
Le ha anche sottratto l’antico ruolo negoziale. Ha, infatti, frapposto tra
il governo e i sindacati una agenzia amministrativa — l’Agenzia per la
rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) —
chiamata a condurre le trattative con i rappresentanti dei lavoratori nel
rispetto delle direttive del governo, ma in modo autonomo (73).
Sotto il secondo profilo, analogamente, si è imposta la distinzione
tra i compiti di indirizzo, propri dei vertici politici, e i compiti di
gestione, appunto riservati ai dirigenti amministrativi, con l’obiettivo
di ricavare uno spazio di autonomia manageriale per questi ultimi (74).
In base a quella distinzione — pur non priva di aporie (75) — al
ministro spettava definire gli obiettivi da raggiungere e l’ammontare di
risorse da destinare; al dirigente, invece, adottare «le determinazioni
per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei
rapporti di lavoro [...] con la capacità e i poteri del privato datore di
lavoro» (76).
La privatizzazione, dunque, si intrecciava con la distinzione tra
(72) Artt. 2, comma 2, e 29 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80.
(73) Art. 50, d.lg. n. 29 del 1993.
(74) Art. 14-15, d.lg. n. 29 del 1993.
(75) La dirigenza generale, inizialmente non contrattualizzata, ha continuato di
fatto a essere selezionata in base al gradimento politico, perché, al momento dell’adozione del d.lg. n. 29 del 1993, non si ebbe «il coraggio di stabilire che i dirigenti generali
non sono più nominati dalla politica»: così, S. CASSESE, Il sofisma della privatizzazione
del pubblico impiego, in Riv. it. dir. lav., 1993, 295.
(76) Art. 4, comma 2, d.lg. n. 29 del 1993, modificato dal d.lg. n. 80 del 1998.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
663
politica e amministrazione, e investiva non solo la disciplina del
personale (contrattazione collettiva in luogo della legge), ma anche la
gestione degli uffici (poteri del privato datore di lavoro in luogo di atti
amministrativi). Il risultato era un disegno articolato su tre livelli: a) la
c.d. macro-organizzazione, cioè la definizione delle «linee fondamentali di organizzazione degli uffici», dei modi di conferimento di quegli
uffici ai dirigenti e delle dotazione organiche complessive era rimessa
alla legge, cioè alla politica (77); b) la c.d. micro-organizzazione, cioè la
gestione degli uffici e delle relative risorse era riservata, invece, al
dirigente, il cui operato avrebbe dovuto essere valutato con l’ausilio di
appositi servizi di controllo interno, e incidere sul trattamento economico accessorio, nonché sul rinnovo o sulla eventuale revoca dell’incarico (78); c) la disciplina del rapporto di lavoro era, infine, integralmente affidata alla contrattazione collettiva, che era a sua volta articolata in un livello accentrato, nel quale l’ARAN e i sindacati erano
chiamati a negoziare i contratti nazionali di comparto, e in un livello
decentrato, nel quale ai dirigenti (in veste di rappresentanti della parte
datoriale) e alle rappresentanze sindacali competeva stipulare contratti integrativi ideati, tra l’altro, per sperimentare meccanismi di flessibilità e incentivo alla produttività.
Si trattava, dunque, di un disegno di riforma ambizioso, che
convertiva il secolare regime speciale del pubblico impiego in un
regime di diritto comune e ammetteva soltanto i tratti di specialità
necessari a redimere il datore di lavoro pubblico dal suo strutturale
conflitto di interessi. La sua attuazione è divenuta, però, una lunga
odissea.
3.2. Il disegno appena descritto era stato elaborato nella prima
metà degli anni Novanta da governi «tecnici», in un’epoca — quella di
Tangentopoli — dominata da un diffuso sentimento di ostilità nei
confronti della classe politica. La transizione, con le elezioni del 1994,
a un sistema maggioritario ha segnato l’avvio di un processo di
riconquista, da parte della politica, degli spazi perduti. La logica
bipolare del nuovo sistema e il principio dell’alternanza che ne è il
corollario hanno legittimato l’idea che, per realizzare il proprio programma di cambiamento e porre le premesse per una corretta ac(77)
(78)
Art. 2, comma 1, decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
Artt. 5, 20 e 21, d.lg. n. 165 del 2001.
664
MARIO SAVINO
countability politica, chi governa debba scegliere chi guida la macchina
amministrativa.
Sulla base di questa idea, il d.lg. n. 80/1998, emanato in attuazione
della legge n. 59 del 1997, ha consegnato alla politica un ampio potere
di scelta della dirigenza. Si è, innanzitutto, introdotto un meccanismo
di spoils system «ordinario», per consentire ai ministri di revocare,
entro novanta giorni dall’insediamento del governo, gli incarichi dirigenziali apicali (79). Si è, inoltre, «precarizzata» la dirigenza, stabilendosi che tutti gli incarichi dirigenziali dovessero essere conferiti a
tempo determinato, per non più di sette anni e non meno di due. Da
un regime imperniato sulla stabilità dell’incarico, teso a garantire la
continuità dell’azione amministrativa e l’autonomia del dirigente nello
svolgimento delle sue funzioni di gestione, si è così transitati a un
regime imperniato sulla libera recedibilità, ad ogni cambio di governo
(per i dirigenti apicali) e alla scadenza dell’incarico (per tutte le
posizioni dirigenziali).
Negli anni successivi, il regime della libera recedibilità è stato esteso
e rafforzato. Nel 1999, in occasione della costituzione del ruolo unico
della dirigenza, è stato introdotto — con normativa secondaria (80) —
un meccanismo che prevedeva la sostituzione generalizzata dei dirigenti
(generali e non) delle amministrazioni statali (c.d. spoils system una
tantum) e l’automatico allineamento dei contratti al limite minimo (due
anni) in mancanza di diverso accordo.
Nel 2002, il potere politico di scelta della dirigenza è stato considerevolmente ampliato. Un nuovo spoils system in versione una tantum ha riguardato sia i dirigenti generali, da nominare ex novo entro
sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge, sia gli incarichi
dirigenziali non generali, per i quali, invece, valeva la regola del
silenzio-assenso alla scadenza del termine di novanta giorni (81). Lo
spoils system ordinario è stato anch’esso rafforzato, prevedendosi la
cessazione degli incarichi dirigenziali generali più elevati, decorsi
novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo, senza possibilità di
prosecuzione tacita fino alla scadenza naturale (82). È stata accentuata
(79) Art. 19, comma 8, d.lg. n. 29 del 1993, modificato dall’art. 13 del d.lg. n. 80
del 1998.
(80) Art. 8, d.P.R. 26 febbraio 1999, n. 150.
(81) Art. 3, comma 7, legge 15 luglio 2002, n. 145.
(82) Art. 19, comma 8, d.lg. n. 165 del 2001, come sostituito dall’art. 3, comma 1,
lett. i), l. n. 145 del 2001.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
665
la precarizzazione, con l’abolizione della durata minima dei contratti
(prima pari a due anni) e la riduzione della durata massima (83). Infine,
è stata innalzata, rispetto alle previsioni del 1998, la percentuale di
incarichi attribuibili a personale esterno (84).
Alla fine del 2006, un ulteriore intervento dello stesso segno ha
reiterato lo spoils system una tantum ed esteso il meccanismo ordinario
di automatica cessazione anche ai direttori delle agenzie amministrative e a tutti gli incarichi dirigenziali conferiti nei ministeri a soggetti
non appartenenti ai ruoli dell’amministrazione interessata (85).
Nel 2006, la scelta dello spoils system, fondata su una concezione
assorbente del principio della responsabilità ministeriale (art. 95 Cost.),
che porta a sovrapporre la responsabilità politica alla responsabilità amministrativa, è stata avallata dalla Corte costituzionale. Chiamata a pronunciarsi sulla nomina politica della dirigenza generale, la Corte ha ritenuto che il vincolo fiduciario serva «a rafforzare la coesione tra
l’organo politico regionale (che indica le linee generali dell’azione amministrativa e conferisce gli incarichi in esame) e gli organi di vertice
dell’apparato burocratico (ai quali tali incarichi sono conferiti ed ai quali
compete di attuare il programma indicato), per consentire il buon andamento dell’attività di direzione dell’ente (art. 97 Cost.)» (86).
Il buon andamento, qui inteso come effettiva capacità dell’organo
politico di indirizzare l’amministrazione verso gli obiettivi prescelti,
era in effetti ostacolato dalla assenza di sistemi di valutazione dell’operato dei dirigenti e dalla conseguente impossibilità di revocare i relativi
incarichi. La lamentata inamovibilità dei dirigenti era, però, il risultato
di una precisa opzione politica: quella di «sabotare» la valutazione
(83) In precedenza pari a sette anni, la durata massima è divenuta, per gli
incarichi di prima fascia, di tre anni e, per gli incarichi di seconda fascia, di cinque (art.
19, comma 2, d.lg. n. 165 del 2001, come sostituito dall’art. 3, comma 1, lett. b), l. n. 145
del 2001). Successivamente, la medesima disposizione è stata modificata dall’art.
14-sexies del decreto legge 30 giugno 2005, n. 115, convertito dalla legge 17 agosto 2005,
n. 168, che ha reintrodotto il termine minimo, portandolo a tre anni, e generalizzato il
termine massimo di cinque anni.
(84) Con le modifiche apportate dall’art. 3, comma 1, lett. g), l. n. 145 del 2001
all’art. 19, comma 6, d.lg. n. 165 del 2001, si è passati dal cinque al dieci per cento per
gli incarichi dirigenziali generali e dal cinque all’otto per cento per gli incarichi di
seconda fascia.
(85) Art. 2, comma 159-161, del decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito
dalla legge 24 novembre 2006, n. 286.
(86) C. cost., n. 233 del 2006.
666
MARIO SAVINO
della dirigenza (87) (che avrebbe imposto decisioni di revoca e rinnovo
degli incarichi fondate su parametri oggettivi e sindacabili), pur di
conservare un potere di scelta libero da vincoli.
Nell’arco di pochi anni, l’esercizio di questo potere ha prodotto un
«generale svuotamento dei criteri di professionalità nella scelta della
dirigenza», dovuto alla forte ascesa del gradimento politico come
criterio di assegnazione dell’incarico, e «una crescente tendenza ad
emarginare la figura del dirigente di carriera a favore di quella del
dirigente a tempo determinato», con vertici amministrativi «sempre
più transeunti» (88). Inevitabilmente, quella dirigenza precaria e non
valutata ha finito per disinteressarsi dei poteri manageriali ad essa
attribuiti, e per restituire all’organo politico (da cui il rinnovo del suo
incarico dipendeva) la possibilità di influire sulle scelte gestionali in
cambio di un ragionevole affidamento nel rinnovo dell’incarico. Il
risultato era la vanificazione di un principio — la distinzione tra
politica e amministrazione — ancora scritto nelle leggi e saldamente
ancorato all’art. 97 Cost.
Per questo, a partire dal 2007, la Corte costituzionale ha mutato
orientamento, ponendo un argine alla deriva della «fidelizzazione»
politica della dirigenza. Sono state così espunte dall’ordinamento
numerose ipotesi di spoils system, non solo in versione una tantum (89),
ma anche a regime (90), ritenendosi che l’interruzione automatica
dell’incarico prima della scadenza sia di per sé lesiva dei principi di
buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa, nonché del
giusto procedimento (91). Lo spoils system sopravvive soltanto per gli
incarichi dirigenziali «apicali», posti a diretto contatto con il vertice
politico (criterio organizzativo) (92); o, meglio, per quegli incarichi che
comportano la partecipazione del dirigente generale alla determina(87) Gli organi politici hanno, cioè, preferito non esercitare i poteri di indirizzo
e di controllo loro spettanti: da un lato, non si sono sforzati — con poche eccezioni —
di elaborare direttive chiare e circostanziate, cioè di definire i parametri della valutazione della dirigenza; dall’altro, hanno rinunciato a costituire o a rendere operativi
quegli uffici da essi direttamente dipendenti — i servizi di controllo interno, configurati
come uffici di diretta collaborazione (art. 10, comma 1, decreto legislativo 30 luglio
1999, n. 286) — che avrebbero dovuto assicurare il funzionamento della valutazione.
(88) Così, sulla base di una indagine relativa al periodo 1999-2008, L. TORCHIA, Il
sistema amministrativo italiano, cit., 299 ss., da cui sono tratte le citazioni nel testo.
(89) A partire da C. cost., n. 103 e 104 del 2007.
(90) C. cost., n. 124 del 2011 e n. 246 del 2011.
(91) Così, tra le pronunce più recenti, C. cost., n. 152 del 2013 e n. 27 del 2014.
(92) C. cost., n. 233 del 2006.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
667
zione degli indirizzi da parte dell’organo politico, e non una mera
attività di gestione (criterio funzionale) (93).
Da questa giurisprudenza può ricavarsi un chiaro principio di
protezione della sfera manageriale della dirigenza: l’esercizio delle
funzioni di tipo gestionale — non collegate alla collaborazione con
l’organo politico nella definizione degli indirizzi, ma riferite alla microorganizzazione degli uffici — esige, per prevalenti ragioni di continuità
e imparzialità dell’azione amministrativa, una legittimazione autonoma della dirigenza, non fondata sul vincolo fiduciario, ma sulla competenza e sul merito.
La giurisprudenza costituzionale non ha, però, risolto tutti i problemi legati alla distinzione tra politica e amministrazione. Per garantire una soddisfacente protezione dell’autonomia gestionale della dirigenza non basta, infatti, eliminare le principali ipotesi di spoils
system. Occorre fare i conti anche con il principio di temporaneità
degli incarichi, che concede alla politica significativi margini di scelta al
momento dell’affidamento e del rinnovo alla scadenza.
Il decreto legislativo 27 ottobre 1999, n. 150 (c.d. «riforma Brunetta»), recepita la giurisprudenza costituzionale in materia di cessazione dell’incarico prima della scadenza (94), è intervenuto su entrambi
i versanti indicati, ma in modo troppo timido. Da un lato, ha definito, ai
fini del conferimento, criteri generali di scelta, fondati sulla correlazione
tra tipologia di incarico e competenze possedute (95), e requisiti minimi
(93) Il richiamato criterio funzionale è stato utilizzato, in particolare, in C. cost.,
n. 304 del 2010, per respingere le censure di incostituzionalità dello spoils system
previsto per il personale (non solo dirigenziale) degli uffici di diretta collaborazione del
ministro (art. 14, comma 2, d.lg. n. 165 del 2001, modificato nel 2006). La Corte, invece,
non ha avuto modo di pronunciarsi, dopo il revirement del 2007, su casi di spoils system
riguardanti posizioni dirigenziali apicali degli uffici di line (capi dipartimento e segretari
generali delle amministrazioni centrali o direttori generali degli enti locali). Per un
esame della questione e delle soluzioni possibili, S. BATTINI, Il principio di separazione
fra politica e amministrazione in Italia: un bilancio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2012, spec.
61 ss.
(94) In base all’art. 19, comma 1-ter, d.lg. n. 165 del 2001, modificato dall’art. 40,
comma 1, lett. b), del d.lg. n. 150 del 2009, la revoca degli incarichi prima della scadenza
può avvenire soltanto per mancato raggiungimento degli obiettivi e, dunque, a seguito
di accertamento, in contraddittorio, della responsabilità del dirigente, secondo le
modalità definite dall’art. 21 del d.lg. n. 165 del 2001.
(95) Art. 19, comma 1, d.lg. n. 165 del 2001, modificato dall’art. 40, comma 1, lett.
a), d.lg. n. 150 del 2009.
668
MARIO SAVINO
di pubblicità (96), non sufficienti, però, a garantire una valutazione comparativa trasparente ispirata a criteri meritocratici. Dall’altro, ha ammesso la possibilità di non rinnovare l’incarico alla scadenza anche «in
assenza di una valutazione negativa», a condizione che l’amministrazione ne dia «idonea e motivata comunicazione al dirigente stesso con
un preavviso congruo, prospettando i posti disponibili per un nuovo
incarico» (97).
L’obbligo di motivare il mancato rinnovo aveva quantomeno il
pregio di consentire a un giudice di sindacare la scelta politica. Poco
dopo, però, anche questo piccolo passo in avanti è stato cancellato:
prima, l’obbligo di motivazione è stato rimosso (98); poi, si è addirittura
ripristinato il precedente regime della libera recedibilità prima della
scadenza (99).
Il recupero dell’originario disegno di riforma del 1993, avviato
dalla giurisprudenza costituzionale inaugurata, resta, dunque, incompleto. La Corte ha fortemente ridimensionato lo spoils system e
ancorato saldamente il principio di distinzione tra politica e amministrazione all’art. 97 Cost., ma la temporaneità degli incarichi continua
a produrre effetti distorsivi.
Tuttavia, nel momento in cui si scrive, il già richiamato disegno di
riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni (c.d. «d.d.l. Madia»)
prefigura un rafforzamento dell’autonomia dirigenziale sotto tre profili (100).
Innanzitutto, prospetta la creazione di un mercato competitivo,
basato sul merito, sia per l’accesso alla dirigenza, sia per l’affidamento
(96) L’art. 19, comma 1-bis, d.lg. n. 165 del 2001, modificato dall’art. 40, comma 1,
lett. b), d.lg. n. 150 del 2009, si limita a prevedere che «l’amministrazione rende conoscibili,
anche mediante pubblicazione di apposito avviso sul sito istituzionale, il numero e la
tipologia dei posti di funzione che si rendono disponibili nella dotazione organica ed i
criteri di scelta; acquisisce le disponibilità dei dirigenti interessati e le valuta».
(97) Art. 19, comma 1-ter, d.lg. n. 165 del 2001, modificato dall’art. 40, comma 1,
lett. b), d.lg. n. 150 del 2009.
(98) Art. 9, comma 32, d.l. n. 78 del 2010.
(99) In deroga al principio, sopra richiamato, della revocabilità dell’incarico
soltanto per mancato raggiungimento dei risultati (art. 19, comma 1-ter), l’art. 1, comma
18, decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito dalla legge 14 settembre 2011, n.
148, ha ammesso il passaggio ad altro incarico prima della scadenza, a prescindere dalla
valutazione dei risultati, «in relazione a motivate esigenze organizzative».
(100) Si allude al richiamato d.d.l. Madia, attualmente in discussione al Senato (S.
1577), il cui art. 10 detta principi e criteri direttivi in vista dell’adozione, entro un anno
dall’entrata in vigore della legge, di appositi decreti delegati in materia di dirigenza.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
669
degli incarichi. Prevede, infatti, l’istituzione di un ruolo unico per la
dirigenza statale (e di ruoli unici, rispettivamente, per la dirigenza
regionale e locale), con piena mobilità, eliminazione della distinzione
in due fasce, accesso per corso-concorso e concorso con cadenza
annuale, obblighi di formazione permanente e «omogeneizzazione»
del trattamento economico nell’ambito di ciascun ruolo.
Inoltre, alla temporaneità degli incarichi (di durata triennale,
rinnovabili) si affiancherebbe l’atteso irrobustimento delle garanzie
riguardanti il conferimento e il rinnovo. Il conferimento avverrebbe in
modo trasparente (101), con avviso pubblico, in base a requisiti e criteri
predefiniti. Un’apposita commissione indipendente, «operante con
piena autonomia di valutazione», sarebbe chiamata a effettuare «la
verifica del rispetto dei criteri di conferimento o di mancata conferma
degli incarichi, nonché dell’effettiva adozione e dell’effettivo utilizzo
dei sistemi di valutazione al fine del conferimento e della mancata
conferma degli incarichi». La stabilità degli incarichi sarebbe, poi,
rafforzata dalla «definizione di presupposti oggettivi per la revoca,
anche in relazione al mancato raggiungimento degli obiettivi, e della
relativa procedura».
Infine, il disegno di legge promuove, semplificandola, l’effettività
della valutazione dei risultati e stabilisce che la responsabilità dirigenziale sia circoscritta alle ipotesi originarie di cui all’art. 21 del d.lg. n.
165 del 2001. Così, la responsabilità dirigenziale, opportunamente
distinta dalla responsabilità disciplinare, tornerebbe ad essere quella
che era (e che dovrebbe essere): la responsabilità del manager pubblico per i risultati della gestione e non — com’è accaduto per effetto di
discutibili scelte legislative recenti (ad esempio, in tema di trasparenza
e prevenzione della corruzione) — per la violazione di obblighi di
legge.
Pur non privo di «smagliature» (102), questo progetto di riforma ha
(101) I curricula dei dirigenti di ruolo e le valutazioni da essi ottenute nei diversi
incarichi dovrebbero confluire in un’apposita banca dati, appunto al fine di accrescere
la trasparenza delle procedure di affidamento.
(102) Tra i criteri che l’art. 10, comma 1, lett. g), del d.d.l. Madia detta in
riferimento ai dirigenti privi di incarico, vi è la previsione della «decadenza dal ruolo
unico a seguito di un determinato periodo di collocamento in disponibilità». Questa
norma sembra consentire il licenziamento del dirigente rimasto senza incarico anche a
prescindere dalla valutazione del suo operato, con la conseguenza che «il dirigente,
mentre svolge un incarico, penserà alla sua collocazione successiva» e, dunque, «a
costituirsi quella rete di relazioni e contatti, con il mondo politico (ma non solo), che
670
MARIO SAVINO
un duplice merito: pone le condizioni per una maggiore «tenuta» della
distinzione funzionale tra indirizzo politico e gestione amministrativa
e, al contempo, va oltre, affrontando problemi che il dibattito sullo
spoils system ha finito per oscurare. Si allude all’intenzione di ringiovanire — attraverso il corso-concorso annuale e il divieto, già operante, di conferire incarichi dirigenziali a soggetti in quiescenza (103) —
una dirigenza molto vecchia (finora selezionata più per anzianità e
«aderenze» che per concorso); di favorire — con incarichi conferiti nel
rispetto dell’«equilibrio di genere» — la presenza della componente
femminile in un contesto tradizionalmente molto maschile (due dirigenti su tre e nove dirigenti generali su dieci sono uomini); di ridimensionare il numero dei dirigenti, troppo elevato (nei ministeri, la media
è di un dirigente ogni cinquanta impiegati) (104); di correggere —
mediante la competizione in base al merito e la correlazione tra
incarichi e risultati — l’antica disponibilità della dirigenza a barattare
il suo potere contro la sicurezza: una sicurezza che, negli ultimi lustri,
non potendo più essere di carriera, è divenuta economica (105), con
risultati poco confortanti, sia per le finanze pubbliche (le retribuzioni
dei dirigenti generali italiani sono le più alte tra i paesi OCSE (106)), sia,
più in generale, per le prospettive di efficienza delle amministrazioni.
3.3. La privatizzazione del rapporto di lavoro con le pubbliche
amministrazioni, avviata dal d.lg. n. 29 del 1993, aveva prodotto, a
distanza di quindici anni, risultati deludenti.
Le retribuzioni del pubblico impiego avevano continuato a crescere in misura superiore a quelle del settore privato, soprattutto per
effetto delle scelte compiute dalla contrattazione decentrata, che aveva
gli garantiscano la sopravvivenza al termine dell’incarico, magari presso una diversa
amministrazione» (S. BATTINI, Una nuova stagione di riforme amministrative, in Giorn.
dir. amm., 2014, 1018).
(103) Art. 6, d.l. n. 90 del 2014, convertito dalla legge n. 114 del 2014.
(104) L’art. 10, comma 1, lett. m), del d.d.l. Madia prevede la «graduale riduzione
del numero dei dirigenti ove necessario».
(105) Emblematica la previsione dell’art. 1, comma 18, d.lg. n. 138 del 2011, che,
nell’ammettere la rimozione dall’incarico prima della scadenza anche a prescindere
dalla valutazione dei risultati, fa salvo, in cambio, il «diritto» del dirigente «alla
conservazione del trattamento economico in godimento fino alla scadenza del termine».
(106) Per porre rimedio, l’art. 13 del d.l. n. 66 del 2014 ha stabilito un tetto pari
a duecentoquaranta mila euro al trattamento retributivo dei funzionari pubblici: in
proposito, S. BATTINI, Noblemarie, Renzi e le retribuzioni pubbliche, in Giorn. dir. amm.,
2014, 561 s.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
671
convertito gran parte delle somme destinate alla premialità in componenti fisse della retribuzione (107). All’aumento dei costi non ha
corrisposto un aumento della produttività: per la parte residua, infatti,
gli incentivi sono stati distribuiti «a pioggia», anche perché i sistematici
ritardi nella conclusione dei contratti nazionali hanno fatto sì che i
fondi per la premialità giungessero al termine del biennio di riferimento o addirittura dopo la sua conclusione. Neppure il criterio del merito
aveva fatto breccia: nella gestione delle carriere, i sindacati sono
riusciti a ottenere che si continuasse a privilegiare il criterio dell’anzianità e gli interessi degli insiders (108). Ancora, la mobilità è stata
attivata poco e male: mai nell’interesse dell’amministrazione, cioè per
rimediare all’inefficiente distribuzione geografica (sbilanciata in favore
del Sud), sempre e soltanto nell’interesse personale dei dipendenti
(molti dei quali desiderosi di tornare nelle regioni meridionali
d’origine).
Il quadro era, poi, completato da una disattenzione (anche della
politica) per la qualità del personale. I reiterati blocchi del turn over
hanno impedito l’ingresso dei migliori, ma non il crescente ricorso al
personale avventizio (talora indispensabile per rimediare alle carenze
di organico), né le ricorrenti stabilizzazioni ope legis (109). L’età media
dei dipendenti pubblici è conseguentemente aumentata, ostacolando
l’introduzione delle tecnologie e l’aumento della produttività. La proporzione dei dipendenti laureati (ventitré per cento nel 2008) è rimasta
inferiore a quella dei dipendenti in possesso del solo diploma di scuola
(107) Peraltro, l’indifferenza per la natura delle mansioni svolte si è tradotta in un
sorprendente livellamento salariale, con differenze retributive quasi nulle tra categorie
di funzionari (quadri, impiegati e personale operativo).
(108) I contratti collettivi hanno accorpato le vecchie qualifiche in poche macroaree (tre o quattro, secondo i comparti), così da assicurare ai dipendenti indisturbate
progressioni c.d. orizzontali, per anzianità, mentre la regola del concorso pubblico è
stata, di fatto, limitata alla copertura delle posizioni vacanti nei profili economici iniziali
di ciascuna area, in concorrenza, però, con le c.d. progressioni verticali dei dipendenti
interni, quasi sempre statisticamente prevalenti, in palese violazione del principio
stabilito dall’art. 98 Cost. Si veda, per una efficace illustrazione di questa e altre
dinamiche della contrattazione collettiva, B. CIMINO, Selettività e merito nella disciplina
delle progressioni professionali e della retribuzione incentivante, in Giorn. dir. amm.,
2010, 29 s.
(109) Si veda, di recente, la «stabilizzazione» prevista dall’art. 4, comma 6, del d.l.
n. 101 del 2013 (c.d. «decreto D’Alia»). Per un commento, in prospettiva storica, G.
MELIS, Per l’amministrazione italiana è sempre sanatoria, in Giorn. dir. amm., 2013, 911
ss.
672
MARIO SAVINO
media inferiore (ventotto per cento), con circa la metà delle posizioni
che richiederebbero la laurea ricoperte da personale non laureato. La
formazione, poco finanziata e del tutto assente al momento dell’assunzione, è stata utilizzata quasi esclusivamente per legittimare procedure
collettive di progressione interna, cioè passaggi di massa alla categoria
superiore (110).
In breve, la contrattazione ha fallito i suoi obiettivi. Non solo non
ha favorito l’aziendalizzazione, ma — approfittando della debolezza
della controparte pubblica, rappresentata a livello decentrato da una
dirigenza poco interessata a esercitare i poteri manageriali e «poco
idonea a gestire un conflitto con una controparte sindacale con cui i
vertici politici hanno interesse ad accordarsi» (111) — ha finito per
consegnare ai sindacati spazi non suoi, come le scelte relative alla c.d.
micro-organizzazione e alla gestione delle carriere. Alla micro-legislazione «di privilegio», che fino al 1993 aveva dominato la disciplina del
pubblico impiego, si è sostituita una contrattazione anch’essa «di
privilegio», corporativa e conservatrice.
Di qui, la scelta della c.d. riforma Brunetta di limitare l’ambito
della contrattazione attraverso una parziale rilegificazione della materia. Anticipato nel 2008 da norme ambiziosamente dedicate a un
«piano industriale della pubblica amministrazione», ma più modestamente dirette a limitare alcune voci di spesa e il ricorso delle amministrazioni al lavoro flessibile (112), il nuovo progetto è stato compiutamente delineato nel 2009 dalla legge n. 15 e dal decreto attuativo n.
150.
Il fine ultimo resta il medesimo: rilanciare l’aziendalizzazione per
avvicinare il lavoro pubblico a quello privato (113). Cambiano, però, i
(110) Per questi dati, L. TORCHIA, Il sistema amministrativo italiano, cit., 280 s. e
290 ss.
(111) S. CASSESE, Dall’impiego pubblico al lavoro con le pubbliche amministrazioni: la grande illusione?, in Giorn. dir. amm., 2013, 315.
(112) Artt. 46-49, decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla legge 6
agosto 2008, n. 133, corrispondenti al capo VIII, intitolato, appunto, «Piano industriale
della pubblica amministrazione».
(113) La legge n. 15 del 2009 indica, come primo obiettivo della delega, la
«convergenza degli assetti regolativi del lavoro pubblico con quelli del lavoro privato,
con particolare riferimento al sistema delle relazioni sindacali» (art. 2, comma 1, lett. a).
Tra le finalità perseguite dal d.lg. n. 150 del 2009 figurano le seguenti: «una migliore
organizzazione del lavoro, [...] l’incentivazione della qualità della prestazione lavorativa, la selettività e la concorsualità nelle progressioni di carriera, il riconoscimento di
meriti e demeriti, la selettività e la valorizzazione delle capacità e dei risultati ai fini
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
673
mezzi prescelti per raggiungerlo. Rispetto al disegno del 1993, la
fiducia del riformatore nella politica e nelle virtù della regolazione
pubblicistica è considerevolmente accresciuta ed è almeno pari alla
sfiducia verso i sindacati e le virtù dell’autoregolazione. Si procede,
perciò, a una ridefinizione della tripartizione delle fonti di regolazione
dell’impiego pubblico, a tutto vantaggio della legge. L’ambito di intervento riservato al legislatore si espande considerevolmente, ai danni
della contrattazione collettiva, che viene più rigidamente irreggimentata, anche a tutela dell’esclusività dello spazio manageriale riservato
al dirigente.
Innanzitutto, viene meno la norma manifesto della privatizzazione
degli anni Novanta, ossia il principio di prevalenza delle fonti contrattuali su quelle legislative. È la stessa legge n. 15 del 2009 che si
preoccupa di modificare, nel suo primo articolo, i termini del rapporto
tra le fonti, ripristinando il primato del potere unilaterale di regolazione del legislatore rispetto all’autonomia negoziale delle parti: solo
le leggi che espressamente lo prevedano possono, da quel momento in
avanti, essere disapplicate da successivi contratti collettivi (114).
Inoltre, mentre prima la contrattazione collettiva disciplinava «tutte
le materie relative al rapporto di lavoro e alle relazioni sindacali» (115),
ora il d.lg. n. 150 del 2009 limita e conforma l’ambito di esplicazione
dell’autonomia negoziale. Compaiono norme di dettaglio — integrabili
mediante la contrattazione, ma non derogabili — in materia, tra l’altro,
di sanzioni disciplinari, valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, mobilità e progressioni economiche (116). Cambia, altresì, l’equilibrio negoziale, assegnandosi al datore pubblico la facoltà di decidere unilateralmente, in via provvisoria,
degli incarichi dirigenziali, il rafforzamento dell’autonomia, dei poteri e della responsabilità della dirigenza, l’incremento dell’efficienza del lavoro pubblico ed il contrasto
alla scarsa produttività e all’assenteismo» (art. 1, comma 2).
(114) Art. 2, comma 2, d.lg. n. 165 del 2001, modificato dall’art. 1, comma 1, l. n.
15 del 2009. Come osservato da G. D’AURIA, Il nuovo sistema delle fonti: legge e
contratto collettivo, Stato e autonomie territoriali, in Giorn. dir. amm., 2010, 12, si tratta
di un segno evidente della fiducia riposta nella politica, giacché si elimina il «deterrente
che aveva, finora, in qualche modo limitato il proliferare di leggi e leggine a favore di
gruppi o categorie che premevano per ottenere trattamenti differenziati rispetto a
quelli uniformi stabiliti dalla contrattazione collettiva».
(115) Art. 40, comma 1 e 3, d.lg. n. 165 del 2001, nella versione originaria.
(116) Art. 40, comma 1, d.lg. n. 165 del 2001, modificato dall’art. 54, d.lg. n. 150
del 2009.
674
MARIO SAVINO
gli incrementi retributivi e i contenuti della contrattazione integrativa,
ove il rinnovo non giunga entro un certo termine (117).
Viene protetta, poi, dall’invadenza della contrattazione decentrata
la sfera di competenza del manager pubblico, stabilendosi che «le
determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla
gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli
organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato
datore di lavoro, fatta salva la sola informazione ai sindacati, ove
prevista nei contratti» (118). Nella stessa direzione va la disciplina degli
incentivi alla produttività: non solo è la legge — e non più la contrattazione nazionale — a quantificare le risorse destinate a premiare il
merito (in sede di manovra finanziaria), ma si stabilisce che una «quota
prevalente» del trattamento accessorio deve essere utilizzata a quel
fine (119), così da impedire la distrazione di tali risorse e da riservare al
dirigente un effettivo strumento premiante.
Questa rivisitazione del sistema delle fonti attende ancora di
essere messa alla prova. Gli ultimi contratti collettivi nazionali risalgono al 2009 e, dopo anni di «gelata retributiva» (120), bisognerà
aspettare almeno il 2016 prima che il governo renda disponibili le
risorse necessarie per riavviare la contrattazione. Peraltro, un accordo
tra governo e sindacati, ratificato dalla legge, ha rinviato l’applicazione
di uno dei punti più qualificanti della riforma — l’introduzione del
meccanismo di premialità fondato sulla divisione in fasce di merito —
alla futura contrattazione collettiva nazionale (121).
Può, però, sin d’ora constatarsi una significativa mutazione del
disegno riformatore delle origini. I capisaldi del d.lg. n. 29 del 1993
(117) Artt. 40, comma 3-ter, e 47-bis, d.lg. n. 165 del 2001, introdotti, rispettivamente, dagli artt. 54 e 59, comma 2, d.lg. n. 150 del 2009.
(118) Art. 5, comma 2, d.lg. n. 165 del 2001, sostituito dall’art. 34, comma 1, d.g.
n. 150 del 2009. La medesima disposizione, a scanso di equivoci, precisa: «Rientrano, in
particolare, nell’esercizio dei poteri dirigenziali le misure inerenti la gestione delle
risorse umane nel rispetto del principio di pari opportunità, nonché la direzione,
l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici».
(119) Artt. 40, comma 3-bis, e 45, comma 3-bis, d.lg. n. 165 del 2001, introdotti,
rispettivamente, dagli artt. 54, comma 1, e 57, comma 1, d.l.g n. 150 del 2009.
(120) L’espressione è di F. CARINCI, Filosofia e tecnica di una riforma, in Riv. giur.
lav., 2010, I., 465, e allude al blocco della contrattazione disposto prima, per tre anni,
dall’art. 9, comma 17, d.l. n. 78 del 2010, e poi prorogato dall’art. 1, comma 1, lett. a)
del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 anche per l’anno 2014, ai sensi dell’art. 16, comma
1, decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111.
(121) Art. 6, comma 1, d.lg. n. 141 del 2011.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
675
erano due: primo, la privatizzazione delle fonti di disciplina, che
mirava a disboscare la «giungla» dei trattamenti economici e normativi
differenziati e ad avvicinare, attraverso la contrattazione collettiva, il
lavoro pubblico al lavoro privato; secondo, una netta distinzione tra
politica e amministrazione, applicata — per rimediare alla particolare
«cedevolezza» del datore di lavoro pubblico — sia alla gestione degli
uffici, sia alla negoziazione dei contratti.
La distinzione tra politica e amministrazione ha ceduto sia sul
versante della gestione, dove la dirigenza è stata «catturata» dalla
politica (§ 3.2); sia sul versante della negoziazione, dove il ruolo
dell’ARAN è stato svuotato dalla prassi degli accordi diretti tra il
governo e i sindacati e, a livello decentrato, la parte pubblica —
rappresentata da una dirigenza indebolita dalla soggezione alla politica, non valutata per la sua gestione e non interessata a gestire i suo
poteri manageriali — ha delegato alla contrattazione il compito di
gestire le carriere e di (non) premiare la produttività.
La riforma del 2009 non ha tentato di riscattare il disegno originario da questo doppio tradimento. Nessuna norma del d.lg. n. 150/
2009 mira a sovvertire la prassi degli accordi diretti tra sindacati e
governo, cosicché l’ARAN resta «a metà strada fra il nuncius e un notaio
di decisioni assunte altrove» (122). Né alla debolezza negoziale della
dirigenza si è data una risposta convincente: più che agire sulla causa
(l’insufficiente autonomia dagli organi politici, solo timidamente
rafforzata), la riforma è intervenuta sull’effetto (con la costruzione di
argini legislativi all’invadenza della contrattazione).
Vi è, poi, tra i due disegni, una differenza ancora più profonda, che
attiene al ruolo assegnato alla politica. Il riformatore del 1993 aveva
puntato sulla contrattazione collettiva come veicolo per l’avvicinamento al settore privato e sulla capacità della componente amministrativa
della parte datoriale — ARAN e dirigenza — di difendere gli interessi
dell’amministrazione nella negoziazione, nel nome dell’imparzialità e
del buon andamento. Il riformatore del 2009 ha preferito, invece, il
comando unilaterale della legge per correggere le storture della disciplina del pubblico impiego imputate alla contrattazione (ma in realtà
ad essa preesistenti), e dunque ha scommesso sulla maturazione della
classe politica, cui viene chiesto di resistere alle tentazioni clientelari e
di agire nell’esclusivo interesse della nazione. Una scommessa ardita,
che allontana la disciplina del lavoro pubblico da quella del lavoro
(122)
G. D’AURIA, Il nuovo sistema delle fonti, cit., 12.
676
MARIO SAVINO
privato e si affida a una singolare inversione dei ruoli tra amministrazione e politica per resistere alle pressioni delle «voci di dentro».
Anche in questo ambito, interventi recenti e in itinere affrontano
problemi consolidati. Per un verso, all’invecchiamento e alla scarsa
istruzione del personale delle amministrazioni si tenta di rimediare
attraverso misure di «ricambio generazionale» che agevolino l’uscita
dei meno giovani (123) e favoriscano l’ingresso per concorso di giovani
qualificati (124). Per altro verso, si tenta di porre sotto controllo la
contrattazione — specie quella integrativa — in modi diversi e contraddittori: mentre si prevede il rafforzamento dell’ARAN, cioè della
componente amministrativa della parte datoriale, chiamata a svolgere
(anche) una funzione di assistenza nella contrattazione integrativa, si
delinea, al contempo, una ulteriore erosione dell’ambito della contrattazione a vantaggio della legge, cioè della componente politica del
datore di lavoro pubblico (125).
Riaffiora, così, quell’incertezza di fondo che attraversa l’intera
parabola di riforma del pubblico impiego: delegificare, affidando all’amministrazione (cioè all’ARAN e alla dirigenza) il compito di negoziare con i sindacati un percorso di avvicinamento del lavoro pubblico
a quello privato, oppure rilegificare, rimettendo alla politica il compito
di arginare dal centro, con misure unilaterali, le derive corporative che
hanno condizionato la contrattazione?
3.4. Uno degli obiettivi principali della riforma interna avviata
negli anni Novanta era quello di «slegare — per quanto possibile — le
amministrazioni dagli organi di direzione politica e porle sotto il
controllo della collettività: così, il funzionario pubblico sarà meno
(123) L’art. 1 del d.l. n. 90 del 2014 vieta, a partire dal 2015 (ma con eccezioni),
il trattenimento in servizio del personale che abbia maturato i requisiti per il pensionamento. Nella stessa direzione, l’art. 6 del decreto vieta il conferimento di incarichi
dirigenziali a soggetti collocati in quiescenza.
(124) L’art. 13, comma 1, lett. b), del d.d.l. Madia prevede l’accentramento dei
concorsi per tutte le amministrazioni pubbliche e la revisione delle modalità di
espletamento. È auspicabile che, come per l’accesso alla dirigenza, si stabilisca lo
svolgimento con cadenza regolare (annuale) del concorso.
(125) L’art. 13, comma 1, lett. d), del d.d.l. Madia prevede, tra i criteri dela delega,
la «definizione delle materie escluse dalla contrattazione integrativa anche al fine di
assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito e la parità di
trattamento tra categorie omogenee, nonché di accelerare le procedure negoziali».
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
677
servant of the Crown che servant of the public» (126). Da questo punto
di vista, la delegificazione della disciplina del rapporto di lavoro (d.lg.
n. 29 del 1993) costituiva soltanto la pars destruens, cioè un modo per
superare l’idea che l’attività amministrativa consistesse nell’esecuzione
di comandi unilaterali imposti dall’alto. La pars construens era, invece,
affidata all’idea aziendalistica della customer orientation: riscoprire la
missione primaria del servizio al cittadino doveva servire a ricalibrare
il complesso delle attività e del funzionamento interno delle amministrazioni.
Nel disegno originario, questa profonda revisione dei modi di
azione era affidata a due nuovi strumenti: le carte dei servizi e i
controlli interni di gestione. Le prime — introdotte nel 1994 come
carte di diritti degli utenti — dovevano operare come strumento di
partecipazione dei cittadini e di garanzia dei loro entitlements nei
confronti dei soggetti (pubblici e privati) incaricati di erogare servizi
pubblici, economici e sociali. I diretti interessati avrebbero dovuto
essere coinvolti nella determinazione degli standard di efficienza e
qualità delle prestazioni e i corrispondenti diritti avrebbe dovuto
essere tutelati attraverso obblighi di informazione e procedure di
reclamo (127).
Quanto ai controlli interni, l’obiettivo era correggere l’atteggiamento formalistico delle burocrazie e introdurre una cultura dell’efficienza intesa come produzione di risultati diretti a soddisfare bisogni
dei cittadini. La riforma del 1993-1994 ha, perciò, promosso la creazione di sistemi di controllo interno fondati sulle tecniche aziendalistiche di audit, così da misurare le prestazioni degli uffici e verificare la
realizzazione degli obiettivi stabiliti dagli organi di indirizzo politico
(128). Inoltre, è stato fortemente ridotto l’ambito di applicazione dei
controlli preventivi di legittimità e regolarità amministrativo-contabile
su singoli atti, particolarmente distorsivi sia sul piano dell’efficienza
(126) Ministro per la funzione pubblica, Indirizzi, cit., p. 7.
(127) La disciplina delle Carte era contenuta nella direttiva del Presidente del
Consiglio dei ministri 27 gennaio 1994 («Princìpi sull’erogazione dei servizi pubblici»).
(128) L’art. 20 del d.lg. n. 29 del 1993 obbligava tutte le amministrazioni, statali
e territoriali, a istituire servizi di controllo interno, «con il compito di verificare,
mediante valutazioni comparative dei costi e dei rendimenti, la realizzazione degli
obiettivi, la corretta ed economica gestione delle risorse pubbliche, l’imparzialità ed il
buon andamento dell’azione amministrativa».
678
MARIO SAVINO
decisionale (per il loro effetto sospensivo), sia sul piano culturale (per
l’esclusiva attenzione al processo) (129).
Il d.lg. n. 286/1999 ha perfezionato il disegno, tracciando una netta
distinzione tra categorie di controlli interni. Da una parte, i tradizionali
controlli di regolarità amministrativa e contabile, di tipo repressivo,
affidati alle ragionerie e agli organi di revisione degli enti. Dall’altra, i
nuovi controlli di risultato, di tipo collaborativo, strumentali a un
migliore esercizio delle funzioni (dirigenziali) di gestione e (politiche)
di indirizzo, a loro volta articolati in tre tipologie: controllo di gestione
(svolto dai servizi di controllo interno — Secin), valutazione della
dirigenza (formulata dal dirigente sovraordinato o, in mancanza, dal
ministro sulla base dei risultati della gestione) e controllo strategico
(affidato anch’esso ai Secin e diretto a verificare l’effettiva attuazione
delle direttive e degli altri atti di indirizzo politico).
L’attuazione del disegno ha incontrato numerosi ostacoli. Sul
primo versante, a dispetto dell’insistenza del legislatore (130) e dell’elevato numero di carte adottate, l’attuazione di questo strumento ha
prodotto risultati apprezzabili nei settori in cui le autorità di regolazione hanno vigilato sul rispetto degli standard previsti nelle carte e
contribuito a definirne i contenuti in consultazione con operatori e
utenti. Negli altri settori, l’elaborazione delle carte si è risolta in un
adempimento formalistico, non partecipato e privo di effettività, a
causa della genericità degli indicatori, della scarsa conoscenza da parte
degli utenti e dell’inadeguatezza dei meccanismi di enforcement.
Sul versante dei controlli interni di tipo gestionale, oltre a una
diffusa diffidenza culturale (ben illustrata dalla riottosità della stessa
Corte dei conti ad assumere la nuova veste di controllore di secondo
(129) La legge 14 gennaio 1994, n. 20, come noto, ha reso eccezionali i controlli
preventivi di legittimità della Corte dei conti e le ha assegnato il ruolo di controllore di
secondo grado sul funzionamento dei servizi di controllo interno.
(130) A fronte della scarsa diffusione iniziale delle carte, l’art. 2 del d.l. 12 maggio
1995, n. 163, convertito dalla legge 11 luglio 1995, n. 273, ne ha imposto l’adozione, sulla
base degli schemi definiti dal Dipartimento della funzione pubblica a tutti gli enti
erogatori, con conseguente notevole incremento del numero delle carte adottate. Per
tentare di superare la logica del mero adempimento così ingenerata, l’art. 11, d.lg. n.
286/1999 ha ripristinato l’originario strumento di promozione costituito dalle direttive
del Presidente del Consiglio dei ministri e invitato ad aggiornamenti annuali di quegli
strumenti.
Numerosi altri interventi legislativi si sono susseguiti. Tra i più recenti, l’art. 28,
d.lg. n. 150 del 2009 (si v. infra) e l’art. 8, decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito
dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, sui diritti «anche di natura risarcitoria» degli utenti.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
679
grado dei sistemi di controllo interno), ha giocato un ruolo decisivo la
preferenza degli organi d’indirizzo politico per altre «leve di comando»: meglio scegliere la dirigenza in base al gradimento politico e
condizionarla attraverso il vincolo fiduciario (§ 3.2), che valutarla in
base a parametri oggettivi desunti dalla valutazione del loro operato.
Perciò, gli obiettivi non sono stati adeguatamente definiti e i servizi di
controllo interno, ove istituiti, hanno svolto un’attività sterile, funzionando poco e male.
Una seconda stagione di riforma si è aperta con il d.lg. n. 150 del
2009 (c.d. «decreto Brunetta»), che ha tentato di rilanciare l’aziendalizzazione e la customer orientation in tre modi.
Innanzitutto, ha inquadrato i controlli interni in un «ciclo di
gestione della performance» articolato in varie fasi (131). Nel tentativo
di rimediare ai fallimenti del passato, sono stati precisati i criteri e le
tecniche da utilizzare sia per la definizione degli obiettivi da parte degli
organi di indirizzo politico, sia per la misurazione e la valutazione della
performance (individuale e organizzativa) affidata ai dirigenti e ad
appositi Organismi indipendenti di valutazione (OIV) (132). Il ciclo di
gestione della performance avrebbe dovuto fungere da «cinghia di
trasmissione» tra la programmazione economico-finanziaria, da un
lato (133), e la gestione del personale, dall’altro (134). L’applicazione di
(131) In base all’art. 2, comma 2, d.lg. n. 150 del 2009, il ciclo di gestione della
performance si articola in sei fasi: a) definizione e assegnazione degli obiettivi e dei
rispettivi indicatori; b) allocazione delle risorse in rapporto agli obiettivi; c) monitoraggio della performance in corso di esercizio e attivazione di eventuali interventi
correttivi; d) misurazione e valutazione della performance, organizzativa e individuale;
e) distribuzione dei premi in rapporto alla valutazione; f) rendicontazione e comunicazione dei risultati agli organi di indirizzo politico-amministrativo e ai cittadini.
(132) Art. 5 e 7, d.lg. n. 150 del 2009.
(133) L’art. 5, d.lg. n. 150 del 2009 impone, tra l’altro, nell’elaborazione degli
indirizzi, un vincolo di coerenza con gli obiettivi di bilancio formulati dall’organo
politico nell’ambito della programmazione economico-finanziaria (si veda anche l’art.
23 della legge 31 dicembre 2009, n. 196).
(134) Una novità rilevante concerne, appunto, il rapporto instaurato tra la
valutazione della performance e la gestione del personale. In passato, la valutazione
individuale riguardava solo la dirigenza, mentre la valutazione del restante personale a
fini di incentivo della produttività era rimessa alla contrattazione collettiva. Il d.lg. n.
150/2009 ha esteso la valutazione a tutto il personale, imponendo per legge l’individuazione di indicatori di performance individuali. Ai risultati della valutazione si
ricollega, poi, l’attribuzione — obbligatoria e selettiva — di incentivi annuali (bonus e
premi) e di progressioni economiche e di carriera, nonché, ove opportuno, l’irrogazione
di sanzioni disciplinari (art. 18 e 19).
680
MARIO SAVINO
queste innovative previsioni ha, però, finora incontrato uno strategico
disinteresse degli organi politici e l’aperta opposizione dei sindacati,
che hanno ottenuto un rinvio della valutazione dei dipendenti pubblici (135).
In secondo luogo, la riforma ha tentato di trasporre sul piano dei
controlli la distinzione tra politica e amministrazione, accentuando
l’indipendenza dei controllori. Mentre i preesistenti Secin erano inseriti negli uffici di diretta collaborazione dell’organo politico, con i quali
condividevano anche lo status giuridico dei dipendenti (136), ora le
funzioni di misurazione e valutazione sono principalmente affidate ai
richiamati organismi «indipendenti» (OIV) (137). Tali organi riferiscono
direttamente all’organo di indirizzo politico, ma — nelle intenzioni
della riforma del 2009 — avrebbero dovuto godere di «piena autonomia» e operare sotto la guida e il coordinamento di un’apposita
autorità centrale — la CIVIT, poi ANAC — collocata, a sua volta, «in
posizione di indipendenza di giudizio e di valutazione e in piena
autonomia» (138).
La costruzione di tale rete indipendente di controllo è stata, però,
pregiudicata da più fattori: la politicizzazione della nomina dei componenti degli OIV (139); l’inadeguatezza dei poteri e delle risorse della ex
CIVIT; il nomadismo delle sue funzioni di indirizzo e coordinamento dei
controlli gestionali, ora contradditoriamente affidate al Dipartimento
della funzione pubblica (che, com’è ovvio, indipendente non è) (140).
(135) Come anticipato (§ 3.3), in base a un accordo tra governo e sindacati, l’art.
6, comma 1, d.lg. n. 141 del 2011 ha rinviato l’introduzione del meccanismo di
premialità fondato sulla divisione in fasce di merito alla prossima tornata contrattuale.
(136) Art. 14, comma 2, d.lg. n. 165 del 2001.
(137) Art. 14, comma 1 e 2, d.lg. n. 150 del 2009.
(138) Art. 13, comma 1, d.lg. n. 150 del 2009.
(139) All’organo di indirizzo politico spetta anche la nomina dei componenti
degli OIV, sottoposta a un parere esterno non vincolante dell’autorità titolare delle
funzioni di indirizzo e coordinamento dei controlli gestionali (art. 14, comma 3, d.lg. n.
150 del 2009).
(140) L’art. 5 del d.l. n. 101 del 2013 aveva trasferito tali competenze dalla CIVIT
all’Aran, al fine dichiarato di consentire alla CIVIT, anche in ragione delle sue limitate
risorse, di concentrarsi sui compiti di trasparenza e prevenzione della corruzione. Il
ripensamento è avvenuto con la legge di conversione del predetto decreto (legge 30
ottobre 2003, n. 125), che ha temporaneamente restituito le competenze alla CIVIT,
contestualmente trasformata nell’attuale Autorità nazionale anticorruzione (ANAC).
L’art. 19, comma 9 e 10, del d.l. n. 90 del 2014 ha, da ultimo, «ripoliticizzato» quelle
funzioni, assegnandole al Dipartimento della funzione pubblica.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
681
In terzo luogo, il d.lg. n. 150/2009 ha, per così dire, «oggettivizzato» la funzione dei controlli. L’indipendenza della rete di supervisione
avrebbe dovuto servire appunto ad attestare e validare in modo più
«oggettivo» il funzionamento dei controlli interni, i quali non servono
più ad attivare meccanismi di autocorrezione, bensì a garantire l’«interesse obiettivo dell’ordinamento [al] buon funzionamento» (141).
L’attenuazione della natura collaborativa dei controlli risponde a una
finalità di rafforzamento dell’accountability delle amministrazioni.
Lo conferma l’obbligo delle stesse amministrazioni di garantire «la
massima trasparenza in ogni fase del ciclo di gestione della performance» (142). Mentre i controlli interni previsti dal d.lg. n. 286 del 1999
erano sottratti alla disciplina dell’accesso agli atti e all’obbligo di
segnalazione delle ipotesi di responsabilità erariale alla Corte dei
conti (143), al fine di evitare atteggiamenti difensivi da parte dei
soggetti esposti al giudizio esterno, la riforma del 2009 obbliga le
amministrazioni a dar conto delle proprie performance anche ai cittadini-utenti-elettori.
La nuova conformazione del sistema dei controlli interni sembrerebbe suggerire un recupero dell’originaria ispirazione della riforma
interna, che intendeva introdurre la cultura della customer orientation.
In tal senso, depongono sia l’ennesimo tentativo di rilancio delle carte
dei servizi (144), sia l’orientamento del sistema di misurazione e valutazione della performance alla «soddisfazione finale dei bisogni della
collettività», sia, infine, la previsione di obblighi di «rilevazione del
grado di soddisfazione dei destinatari delle attività e dei servizi» (145).
Tuttavia, in quel disegno affiora una tendenza all’inversione tra il
mezzo (il controllo sull’attività amministrativa) e il fine (la soddisfazione del cittadino-utente), che permea ancor più la successiva legisla(141) S. BATTINI e B. CIMINO, La valutazione della performance nella riforma
Brunetta, in Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico. Ragioni e innovazioni
della l. 4 marzo 2009, n. 15 e del d. lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, a cura di L. Zoppoli,
Napoli, Esi, 2009, 271.
(142) Art. 11, comma 3, d.lg. n. 150 del 2009.
(143) In base all’art. 6, comma 2, d.lg. n. 286 del 1999, «gli uffici ed i soggetti
preposti all’attività di valutazione e controllo strategico riferiscono in via riservata agli
organi di indirizzo politico».
(144) Art. 28, d.lg. n. 150 del 2009, che, nel modificare l’art. 11 del d.lg. n. 286 del
1999, assegnava alla CIVIT il compito di proporre al Presidente del Consiglio dei ministri
l’adozione delle direttive in materia di standard di qualità, adozione delle carte e tutela
degli utenti.
(145) Art. 8, comma 1, lett. a) e c), d.lg. n. 150 del 2009.
682
MARIO SAVINO
zione in materia di prevenzione della corruzione (146) e di trasparenza
amministrativa (147).
Adottate sotto la spinta di una forte pressione internazionale e di
un’opinione pubblica sempre meno tollerante verso gli episodi di malversazione e maladministration, queste norme perseguono — in misura
ancor più accentuata rispetto alla disciplina dei controlli gestionali —
l’obiettivo di rafforzare l’accountability delle amministrazioni. La linea
di continuità con la riforma del 2009 è evidenziata da tre indici: l’attribuzione alla medesima rete di supervisione — rappresentata dalla ex
CIVIT (ora ANAC) e dagli OIV — del compito di dare impulso e coordinamento all’attività di prevenzione della corruzione e di promozione
della trasparenza nelle amministrazioni (148); la fiducia tutta idealistica
riposta in strumenti di pianificazione «a cascata», da tempo caduti in
desuetudine in altri ambiti (149); la moltiplicazione compulsiva di obblighi di trasparenza a lungo disattesi e di recente riordinati e resi esigibili
— tramite l’accesso «civico» — dal cittadino (150).
Al di là dell’effetto di complicazione e del «difetto di realismo»
(151) propri di questa legislazione — che trascura di valutare il proprio
impatto e presuppone una attuazione immediata e a costo zero —
l’aspetto più peculiare è il tentativo di creare una cultura dell’integrità
imponendo alle amministrazioni la redazioni di piani (che ovviamente
devono esibire un assoluto grado di coerenza reciproca) e l’adempimento di centinaia di obblighi di pubblicazione. Per rimediare, il
disegno di legge di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche
(146) Legge 6 novembre 2012, n. 190.
(147) Decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, emanato in attuazione della
predetta legge n. 190/2012.
(148) Art. 1, commi 1-4, della legge n. 190 del 2012 e artt. 44-45 del d.lg. n. 33 del
2013.
(149) Si allude al complesso intreccio tra i piani della performance (art. 9, d.lg. n.
150 del 2009), i programmi triennali per la trasparenza e l’integrità (art. 10, d.lg. n. 150
del 2009 e art. 10, d.lg. n. 33 del 2013) e i piani per la prevenzione della corruzione (art.
1, commi 5-14, l. n. 190 del 2012).
(150) Il riordino è stato operato dal d.lg. n. 33 del 2013 (artt. 13-42), che ha anche
introdotto l’accesso «civico», cioè il diritto di chiunque di richiedere i documenti e le
informazioni che le amministrazioni dovrebbero pubblicare in base a una espressa
previsione di legge (art. 5).
(151) M. CLARICH e B.G. MATTARELLA, La prevenzione della corruzione, in La
legge anticorruzione. Prevenzione e repressione della corruzione, a cura di B.G. Mattarella e M. Pelissero, Torino, Giappichelli, 2013, 68.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
683
(d.d.l. Madia) intenderebbe delegare il governo a intervenire sulla
disciplina dell’anticorruzione e della trasparenza al fine di precisare
l’ambito di applicazione degli obblighi di legge, nonché di semplificare
e ridurre gli oneri gravanti sulle amministrazioni (152).
Resta, però, irrisolto il problema di fondo, che attiene alla richiamata inversione tra mezzi e fini, e che è ben esemplificato dall’approccio italiano alla trasparenza come strumento di prevenzione della
corruzione. Altrove i freedom of information acts (Foia) danno a
chiunque il diritto di «rovistare» nelle carte dell’amministrazione (e
non solo lì dove il legislatore consente), con l’effetto, tra l’altro, di
indurre le amministrazioni a pubblicare spontaneamente ciò che è
oggetto di ricorrenti richieste di accesso. Qui, invece, è il legislatore
che seleziona gli interessi (conoscitivi) rilevanti, li «oggettivizza» in
obblighi che impone alle amministrazioni e, per rimediare al diffuso
inadempimento, concede al cittadino un diritto di accesso «civico»
diretto a indurre l’amministrazione ad adempiere.
Se già negli anni Novanta del secolo scorso si prescriveva per legge
il superamento dei controlli di legalità (153), quel paradosso si è ora
acuito. L’attuale regime vorrebbe imporre per legge alle amministrazioni l’efficienza e la trasparenza e, al contempo, assegna ai cittadini
una pretesa al rispetto della legalità astratta, in luogo della concreta
soddisfazione dei loro bisogni. Ne deriva una cultura del risultato
intrinsecamente contraddittoria, perché lo stesso riformatore alimenta
il legalismo che afferma di voler contrastare.
4. L’evoluzione dei «grandi» disegni di riforma della macchina
statale, tratteggiata nelle pagine precedenti, consente di evidenziare
alcuni caratteri generali della parabola di modernizzazione amministrativa in Italia, relativi ai fattori, al metodo e alla ideologia.
Tra i fattori, tre sono quelli che hanno maggiormente condizionato
l’andamento delle riforme. Il primo è rappresentato dalle esigenze di
risanamento dei conti pubblici, che hanno talora operato come incentivo, talaltra, invece, come ostacolo. L’avvio del processo di «reinvenzione» amministrativa, negli anni Novanta, è stato preceduto e indotto
dalla esplosione del debito pubblico, passato, tra il 1980 e il 1994, dal
cinquantasei al centoventuno per cento di incidenza sul prodotto
interno lordo. Analogamente, le riforme degli ultimi sei-sette anni
(152)
(153)
Art. 6, comma 1, lett. a) e b), d.d.l. Madia.
R. PEREZ, L’efficienza per decreto, in Giorn. dir. amm., 2000, 28 ss.
684
MARIO SAVINO
sono nate da una «crisi permanente» (154) della finanza pubblica (155),
che però le ha anche pregiudicate: basti pensare al rinvio dell’attuazione del federalismo fiscale e di parte del d.lg. n. 150 del 2009, in
attesa di nuove risorse contrattuali e di tempi migliori.
Anche un secondo fattore — la logica dell’alternanza politica
prodotta dal sistema maggioritario — ha avuto un impatto contraddittorio: di incentivo, perché ha consentito di superare il tacito patto di
non interferenza tra la classe politica e la dirigenza amministrativa,
prevalso fino agli anni Ottanta del ventesimo secolo; di destabilizzazione, perché la rapida successione di governi di segno diverso e spesso
di breve durata ha reso discontina la promozione del cambiamento.
Dall’immobilismo si è passati all’attivismo. La legificazione sulle riforme è sempre più estesa e caotica. I micro-interventi e le correzioni di
rotta si moltiplicano, ingenerando nelle amministrazioni una «saturation psychosis» (156). La riforma amministrativa è ormai, al pari di altre
politiche, terreno di scontro e di propaganda, cosicché «l’annuncio
diventa inevitabilmente più importante dell’attuazione» (157).
Il terzo fattore nasce dal connubio tra la volontà politica e la
capacità di elaborare disegni organici di cambiamento, non prigionieri
della logica elettoralistica di breve termine. Da questo punto di vista,
la parabola è stata molto intermittente: possono contarsi tre cicli di
riforma più ambiziosi (le c.d. riforme Cassese, Bassanini, Brunetta) o
forse quattro (se le aspettative create dalla iniziative del governo in
carica non andranno deluse). I «grandi» disegni, a prescindere dalla
loro effettiva attuazione, hanno prodotto un importante effetto educativo e di orientamento. Molte idee (la separazione tra politica e
amministrazione, l’aziendalizzazione, la customer orientation) hanno
resistito all’usura del tempo, ma anche quelle che hanno incontrato
maggiori ostacoli in sede attuativa (il decentramento, l’agencification,
(154) D. OSBORNE e P. HUTCHINSON, The Price of Government: Getting the Results
We Need in an Age of Permanent Fiscal Crisis, New York, Basic Books, 2004.
(155) Da un decennio il debito pubblico è, di nuovo, in costante crescita. La sua
incidenza sul prodotto interno lordo, pari al centotre per cento nel 2004 (corripondente
a poco meno di millecinquecento miliardi di euro in termini assoluti), ha superato, un
decennio dopo, il centotrentadue per cento (ovvero, in termini assoluti, i 2160 miliardi
di euro).
(156) G.E. CAIDEN, Administrative Reform. Proceed with Caution, in 22 International Journal of Public Administration (1999), 824.
(157) G. NAPOLITANO, Breve e lungo periodo nel diritto amministrativo, in Giorn.
dir. amm., 2015, 7 ss.
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
685
la concentrazione degli uffici territoriali del governo, le carte dei
servizi) vengono periodicamente rilanciate.
Dal punto di vista del metodo, i cicli appena richiamati hanno
adottato approcci differenti. Le riforme Cassese sono nate da una
imponente attività di studio, rilevazione e comparazione con esperienze straniere, trasfusa in numerosi volumi di approfondimento e in
influenti documenti di analisi delle disfuzioni e di indicazione dei
rimedi. Con le riforme Bassanini, invece, il metodo è cambiato. Non si
è proceduto a una preventiva ricognizione delle disfunzioni, già compiuta pochi anni prima, né si è alimentato un dibattito pubblico. I
progetti di riforma hanno preso corpo in riunioni informali e ristrette
di ministri e alti funzionari di Palazzo Vidoni e Palazzo Chigi. Il timore
di «imboscate» parlamentari ha indotto a concentrare i disegni in
poche leggi di delega, che hanno dettato l’impianto di fondo e affidato
il dettaglio a successivi decreti e regolamenti.
Un’analoga strategia legislativa è rilevabile per le riforme Brunetta, molte delle quali partorite da un’unica «legge madre» (la l. n. 15 del
2009). Tale legge è stata, peraltro, preceduta da un provvedimento
d’urgenza (d.l. n. 112 del 2008), contenente misure di semplificazione
e riduzione della spesa di più immediata applicazione. La distinzione
tra un piano a breve e un piano a medio-lungo termine si ritrova anche
nell’approccio del governo Renzi (158), che si segnala per due motivi
ulteriori: l’iniziale svolgimento di una consultazione pubblica su un
elenco di possibili interventi di riforma, al fine di stabilire le priorità;
l’attenzione prestata ai tempi di attuazione, scanditi da cadenze precise
e differenziate in relazione alla tipologie di misure.
Per quanto riguarda, infine, le ideologie ispiratrici delle riforme,
l’analisi compiuta suggerisce l’esistenza di due visioni di base, tra loro
contrapposte, che attengono al rapporto dell’amministrazione con la
politica e i cittadini.
Nel disegno originario, elaborato nel 1993, se la «meta» era la
(ri)costruzione di una amministrazione «al servizio del cittadino», la
via prescelta per giungervi era la distinzione tra politica e amministrazione. Una forte dipendenza dalla politica — questo era l’assunto —
avrebbe pregiudicato non solo l’imparzialità e la continuità dell’azione
amministrativa, ma, più in generale, lo sviluppo di una autonoma
(158) Il piano a breve termine è stato trasfuso nel d.l. n. 90 del 2014, mentre
quello a medio-lungo termine è legato all’approvazione del più volte richiamato d.d.l.
Madia.
686
MARIO SAVINO
cultura dell’efficienza e della responsabilità nei confronti dei veri
stakeholders, i cittadini. Era, perciò, necessario ridefinire il rapporto di
«agenzia» tra l’amministrazione e i suoi principals, attenuando la
soggezione alla politica e rafforzando l’orientamento al cittadino.
Questa impostazione ha avuto un profondo impatto sui percorsi di
modernizzazione dello Stato, soprattutto negli anni Novanta. A livello
«micro», come si è visto, l’«aziendalizzazione» è stata perseguita, da
una parte, facendo arretrare la legge, fonte politica per eccellenza, ed
escludendo gli organi politici dalla gestione degli uffici (affidata alla
dirigenza) e dalla negoziazione (affidata all’ARAN); dall’altra, introducendo le tecniche privatistiche di orientamento ai risultati (controlli
interni) e al cittadino (carte dei servizi). A livello «macro», la stessa
idea di prossimità al cittadino e ai suoi bisogni è stata perseguita
attraverso il decentramento: la riduzione del centro e il federalismo
fiscale erano corollari della scelta di spostare le decisioni pubbliche
vicino alle collettività direttamente interessate.
Con i governi del maggioritario, quel disegno di reinvenzione —
non privo di lacune, ma nel complesso coerente — ha subìto una
progressiva eversione. Il decentramento è stato vanificato da un centro
poco incline ad accettare un ridimensionamento dei suoi apparati e
della sua capacità di controllo sulle autonomie. Analogamente, l’aziendalizzazione ha trovato un ostacolo insormontabile nella tendenza
degli organi politici a interferire sia nella negoziazione dei contratti
collettivi, scavalcando l’ARAN, sia nella gestione amministrativa, asservendo la dirigenza e rinunciando a valorizzare i controlli interni di
performance.
Mentre la meta dichiarata resta la medesima (un’amministrazione
più efficiente e più rispondente ai bisogni della collettività), il modo
prescelto per raggiungerla cambia: il compito di ascoltare i cittadini e
comprenderne i bisogni non spetta più all’amministrazione, ma alla
politica. Prevale una logica neogiacobina, che fa del legislatore l’unico
legittimo interprete dei bisogni della collettività ed esalta il ruolo della
legge come strumento di comando sull’amministrazione. È la politica
che, per conto dei cittadini, deve controllare le amministrazioni e
redimerle dai loro vizi tradizionali, non più accettabili in tempi di crisi
finanziaria.
Così, la contrapposizione tra la nuova e la vecchia immagine
dell’amministrazione — l’una «al servizio del cittadino», l’altra «al
servizio della politica» — tende a sfumare, al pari di quella tra i due
principals. La vera contrapposizione è, ora, tra una amministrazione
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
687
costosa e inefficiente, da un lato, e gli interessi dei cittadini, ai quali la
politica dà voce, dall’altro. Le riforme del ventunesimo secolo, dunque, non servono più a legittimare l’autonomia delle amministrazioni,
bensì il primato della politica. E poiché sono al servizio del governo
più che dei cittadini, le amministrazioni, prigioniere del comando
legislativo, continuano a confondere il prodotto col processo, il raggiungimento dei risultati con l’attuazione della norma, la customer
satisfaction con il gradimento politico.
NOTA
BIBLIOGRAFICA
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MARIO SAVINO
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